The racial question in the USA Udpated on April 13, 2023 |
La civiltà-guida della “segregation”
Il Programma Comunista, 1954 /12
Regolarmente, ogni volta che le potenze di Europa hanno avuto a che fare nelle colonie con sudditi ribelli e hanno messo mano alle armi e alle forche, la puritana America è intervenuta a dissociare la propria responsabilità dall’operato repressivo degli Stati per altre ragioni suoi alleati. Noi sappiamo benissimo che la non “ingerenza” degli Stati Uniti nelle rivolte e nelle guerre coloniali, puntigliosamente riaffermata dal Congresso e dal Governo, mira esclusivamente a favorire, senza sembrarlo, la progressiva erosione degli imperi coloniali esistenti e a scardinare, quel che conta di più, le relative aree commerciali e finanziarie. A maggior gloria del dollaro, gli imperialisti di Wall Street sono altruisticamente disposti a perdere fin l’ultimo possedimento dei colonialisti europei.
Ma sul piano ideologico, ove gli interessi brutali dell’affarismo diventano “ideali”, l’anticolonialismo programmatico della borghesia americana si riveste di nobili paludamenti concettuali. Poggia soprattutto sul bugiardo principio che la “libera” America decantata dal Prezzolini, è organicamente nemica della dominazione di una nazione su di un’altra, di una razza su di un’altra ritenuta inferiore.
Ma la realtà sociale degli Stati Uniti sta lì a dimostrare che la peggiore dominazione coloniale che esista oggi al mondo si esercita proprio all’interno dei confini dello Stato-guida del “mondo libero”, cioè proprio nel paese più civile del mondo. Indubbiamente l’infame soggezione in cui sono tenuti milioni di negri americani – non occorre dire che ad essi alludevamo – supera in crudezza e în feroce bestialità è regimi dichiaratamente coloniali.
Le condizioni di inferiorità dei negri americani sono certamente più pesanti che quelle imposte alla più primitiva di quelle popolazioni coloniali che della civiltà capitalista conoscono solo l’amaro giogo dello sfruttamento economica, essendo ancora, al di qua dello stato selvaggio o della barbarie.
I dayachi del Borneo, i pigmei delle foreste del Congo, i canachi degli arcipelaghi dell’Oceania che vivono tuttora al margine della civiltà, per le condizioni stesse della loro esistenza debbono lottare duramente contro il mondo fisico per sopravvivere.
Ma sono troppo lontani dalla “civiltà” dei bianchi per conoscerne le infamie. I lavoratori negri degli Stati Uniti, invece, che nascono e vivono nel cuore della civiltà, che poi si è edificata sul loro sudore di schiavi, non solo debbono penare in quella ripugnante forma di oppressione e di sfruttamento sociale che è il lavoro salariato, per cui le condizioni di vita del lavoratore da sole sono peggiori di quelle del selvaggio della foresta vergine; ma debbono sopportare sulle loro spalle un’altra non meno abominevole tortura: la “segregation”.
La “segregation” è l’equivalente americano del razzismo di Hitler.
Che dico!
II razzisti della esasperata borghesia tedesca, i teorici hitleriani alla Rosenberg, i ributtanti predicatori dell’odio di razza alla Streicher, gli stessi istigatori dei pogrom antiebraici che fino a quarant’anni fa insanguinarono i ghetti della Russia zarista, tutti costoro non erano, al loro tempo, che maldestri imitatori dei razzisti americani.
Diamo agli americani, cioè i borghesi americani, i primati che sono americani. Il Ku Klux Klan, la società segreta dai riti tanto mentecatti quanto feroci, che prese a terrorizzare i negri fin dalla conclusione della guerra di secessione, e tuttora mena una esistenza semi‑legale, non è seconda a nessuna organizzazione consimile né per età né per fanatica intransigenza. Le S.S. di Hitler appendevano per la gola gli ebrei ad uncini di ferro: era un genere di morte pur sempre meno straziante che il supplizio della pece e delle piume in cui gli sgherri del Ku Klux Kan invischiavano i negri ribelli al predominio bianco. La discriminazione razziale esercitata contro i negri negli Stati Uniti si chiama appunto “segregation”.
Il razzismo americano non arriva a rinchiudere i quindici milioni di negri in residenze obbligate come lo erano i ghetti del medioevo, sebbene i quartieri negri di New York e di Chicago ne tramandino onorevolmente le caratteristiche di super-affollamento e di sporcizia. Ma in un certo senso va ancora oltre: vieta ai negri l’accesso nei locali pubblici, nei mezzi di trasporto, nei teatri frequentati dai bianchi. Imprigiona i negri in un enorme ghetto dalle sbarre invisibili.
Chi tenta di evadere finisce in galera, come avviene negli Stati del Sud, in cui la discriminazione razziale, la “segregation”, è codificata in norme di legge. Senza dubbio, di tutte le condizioni di vita che il capitalismo impone ai popoli di colore soggetti, quella più amara tocca ai negri americani.
Il selvaggio della foresta equatoriale deve temere il morso del serpente velenoso o gli artigli dei felini, non conosce la prepotenza della “segregation”. Per farne l’esperienza dovrebbe chiedere ed ottenere la cittadinanza statunitense.
Nel mappamondo dominato dal capitalismo le zone della prepotenza e dell’oppressione coincidono proprio con le sfarzose metropoli della civiltà. Qualche settimana fa, la Corte suprema degli U.S.A., composta di nove membri di cui uno fu in gioventù un affiliato del Ku Klux Klan, su istanza di un gruppo di negri, ha deciso di dichiarare anti‑costituzionale la “segregation” nelle scuole. La costituzione americana concede ai negri il diritto alla istruzione scolastica, ma le prevenzioni politiche e il costume sociale vietano che scolari bianchi e negri siedano sullo stesso banco.
La sentenza della Corte suprema pone fine in linea di principio alla discriminazione razziale nelle scuole. Perché la sentenza dell’alto consesso sia applicata passeranno anni su anni, ammesso che non rimanga nel limbo delle enunciazioni ideologiche. Ma anche se la “segregation” nelle scuole cessasse di esistere oggi, ciò non cancellerebbe le infamie della borghesia capitalista americana che pretende di dirigere il mondo intero nel nome degli “immortali principi” della libertà e dell’uguaglianza, quando essa stessa tratta i negri come mai osarono fare i più feroci colonialisti della vecchia Europa.
La vampata di odi razzisti (o, come pietosamente dicono i gazzettieri, di “rivolta negra”) di cui è teatro il Nord degli Stati Uniti ha messo a nudo in forma drammatica l’inconsistenza dei miti sui quali si reggeva la finzione dell’onorabilità del “sistema americano”.
Nella mitologia storica degli USA, la guerra civile era stata combattuta dalla civiltà (incarnata dal Nord) contro la barbarie (incarnata dal Sud), dalla cultura contro l’oscurantismo, dalla filantropia contro il bieco dominio dei negrieri. Il capitalismo industrializzatore degli Stati settentrionali non era sceso in guerra contro l’arretrata economia agraria del Sud per difendere la propria libertà di sfruttare una gigantesca riserva di forza-lavoro incatenata alla zolla di terra: no, aveva preso le armi per difendere ed affermare gli eterni principi di libertà eguaglianza e fratellanza.
I negri fuggiranno in parte nel Nord; li attirava il miraggio di una libertà e di un’eguaglianza fraterna come premio ed effetto della guerra civile. Si ritrovarono liberi, si, ma di vendere la propria forza-lavoro inerme, liberi di essere soli e nemmeno protetti dal costume che imponeva al negriero di usare, certo, la frusta ma di nutrire, vestire e mantenere il più possibile in vita il fustigato.
Non furono più legati alla patriarcale farm del padrone, ma divennero servi degli ingaggiatori di manodopera a buon prezzo, degli organizzatori della concorrenza fra operai e del crumiraggio, dei proprietari di orribili stamberghe in spaventosi quartieri sovraffollati. La borghesia illuminata si commuoveva (e avrebbe avuto ragione di farlo se fosse stata sincera) del ghetto ebraico, ma costruiva il suo ghetto negro, la sua Harlem, e ne faceva il paradiso di bottegai-strozzini, di usurai, di trafficanti in carne maschile e femminile, di spacciatori di stupefacenti religiosi e di marijuana.
Non erano frustati, ma una lenta macina li logorava, un meccanismo sottile ribadiva ai loro piedi l’antica catena. Erano manovali semplici, ma, se al bianco non qualificato era possibile varcare la barriera del mestiere, al negro il salto era impossibile: al ghetto delle abitazioni si univa il ghetto delle qualifiche professionali, e, poiché i nuovi immigrati di colore erano inermi, indifesi, sospettati, sperduti in un mondo indifferente od ostile, a parità di condizioni i manovali di colore scoprirono che il loro salario era meno della metà (oggi, dopo tanto progresso, è salito al... 57%!) di quello dei fratelli non di colore: al ghetto del mestiere si aggiungeva il “ghetto del reddito”.
Vigeva la fratellanza, nel Nord. Ma a condizione che i “fratelli” neri non invadessero i sacri recinti della supremazia bianca, che viaggiassero in vagone separato, che mangiassero ad un tavolo diverso, che “imparassero” in scuole tutte per loro, le più squallide, le più sprovvedute, che vivessero nel recinto di slums maledetti. Erano eguali solo nella galera della fabbrica, nel senso che erano sfruttati tra sfruttati; ma anche lì un’invisibile barriera li rendeva più miseri, più maltrattati, insomma più schiavi.
Secondo la stessa mitologia, la giganteggiante “civiltà” borghese prodotta dall’industrializzazione capitalistica riconosceva diritti eguali a tutti i cittadini americani, e possedere questi diritti era sufficiente perché i negri fossero in realtà eguali ai bianchi.
Oggi, si riconosce che, ad un secolo dalla vittoria della “civiltà” sulla “barbarie” nella guerra civile, neppure sulla carta l’uguaglianza dei diritti giuridici è ancora assicurata, mentre lo stato dei fatti dimostra che, per possedere in realtà la parte incompleta di eguaglianza che le nuove leggi “garantiscono loro”, i negri devono ricorrere alla forza bruta contro le forze dell’ordine che dovrebbero proteggerli e contro la violenza di cui ogni istituzione americana è imbevuta.
Il mito voleva che la barriera di colore fosse il prodotto non di cause sociali, ma di fattori morali e intellettuali; che nascesse da un’insufficiente “illuminazione” e “moralizzazione” di cittadini di pelle bianca legati a pregiudizi secolari, a tare ereditarie.
Oggi, perfino il giornale più conservatore ammette qui da noi che il negro americano è nelle condizioni in cui è perché è e deve restare il senza-riserva a disposizione dello sfruttamento della macchina produttiva; che l’odio di razza è un odio di classe; che la violenza razziale è una violenza inseparabile dalla struttura economica e dal tessuto generale della società esistente; che i negri si ribellano perché sono pagati immensamente al di sotto della media nazionale, perché sono stipati in luridi quartieri trasudanti miseria depravazione e malattia, perché sono preda indifesa di sciacalli compratori di carne umana e dispensatori di alcool e di stupefacenti (o di preghiere), perché sono dannati ai lavori più sudici, più pesanti, più vili; perché sono vittime di usurai ed esattori delle imposte e degli affitti; peché insomma sono i più proletari dei proletari nella repubblica delle stelle e strisce; perché sono i “terroni” di quel paese, e sono trattati come qui da noi, nell’evolutissimo Nord italico, i “terroni” senza riserva hanno l’onore d’essere trattati.
Oggi, perfino un assistente sociale cattolico e socialriformista come lo Harrington deve ammettere che, quand’anche la più perfetta delle leggi spazzasse via le limitazioni razziali che tengono avvilito e sottomesso il negro, l’avvilimento e la sottomissione rimarrebbero, tanto il razzismo è incancrenito nel meccanismo stesso della società borghese.
Secondo il mito americano, gli USA non erano e non sono imperialisti, non hanno colonizzato e non colonizzano nessuno, non temono rivolte coloniali. In realtà, il capitalismo yankee ha colonizzato le proprie zone depresse e ha fatto dei suoi cittadini proletari di classe quello che i vecchi imperialismi facevano delle popolazioni di colore soggiogate col ferro e col fuoco.
La rivolta negra è un episodio insieme della guerra di classe proletaria contro lo sfruttamento capitalistico e dell’insurrezione coloniale contro i colonizzatori borghesi. Piangano su di essa i moralisti: noi ci auguriamo che essa divampi, di là da secolari pregiudizi, e si fonda con la lotta di classe dei proletari bianchi; che questi comprendano che uno solo è il nemico, quello stesso che li ha tenuti e che li tiene divisi!
Prima che, passata la buriana della “rivolta negra” in California, il conformismo internazionale seppellisse il fatto “increscioso” sotto una spessa coltre di silenzio; quando ancora i borghesi “illuminati” cercavano ansiosamente di scoprire le “misteriose” cause che avevano inceppato laggiù il “pacifico e regolare” funzionamento del meccanismo democratico, qualche osservatore delle due sponde dell’Atlantico si consolò ricordando che, dopo tutto, le esplosioni di violenza collettiva degli uomini di colore non sono una novità in America, e che, per esempio, una altrettanto grave si verificò – senza seguito – a Detroit nel 1943.
Ma qualcosa di profondamente nuovo c’è stato, in questo fiammeggiante episodio di collera non solo vagamente popolare, ma proletaria, per chi l’abbia seguito non con fredda obiettività, ma con passione e speranza. Ed è ciò che fa dire a noi: La rivolta negra è stata schiacciata; viva la rivolta negra!
La novità – per la storia delle lotte di emancipazione dei salariati e sottosalariati negri, non certo per la storia delle lotte di classe in generale – è la quasi puntuale coincidenza fra la pomposa e retorica promulgazione presidenziale dei diritti politici e civili, e lo scoppio di un’anonima, collettiva, “incivile” furia sovvertitrice da parte dei “beneficati” dal “magnanimo” gesto; fra l’ennesimo tentativo di allettare lo schiavo martoriato con una misera carota, che non costava nulla, e l’istintivo, immediato rifiuto di questo schiavo di lasciarsi bendare gli occhi e curvare nuovamente la schiena.
Rudemente, non istruiti da nessuno – non dai loro leader, nella grande maggioranza più gandhisti di Gandhi; non dal “comunismo” marca URSS che, come si è fatta premura di ricordare subito l’Unità, respinge e condanna la violenza – ma ammaestrati dalla dura lezione dei fatti della vita sociale, i negri di California hanno gridato al mondo, senza averne coscienza teorica, senza aver bisogno di esprimerla in un linguaggio articolato, ma dichiarandola col braccio e nell’azione, la semplice e terribile verità che l’uguaglianza civile e politica non è nulla, finché vige la disuguaglianza economica, e che da questa si esce non attraverso leggi, decreti, prediche ed omelie, ma rovesciando con la forza le basi, di una società divisa in classi. È questa brutale lacerazione del tessuto di finzioni giuridiche e di ipocrisie democratiche, che ha sconcertato e non poteva non sconcertare i borghesi; è essa che ha riempito e non poteva non riempire di entusiasmo noi marxisti; è essa che deve far meditare i proletari assopiti nella falsa bambagia delle metropoli del capitalismo storicamente nato in pelle bianca.
Quando il Nord americano, già avviato sui binari del pieno capitalismo, lanciò una crociata per l’emancipazione della schiavitù regnante nel Sud, non lo fece per motivi umanitari o per rispetto agli eterni principi dell’89, ma perché occorreva infrangere i ceppi di una economia patriarcale precapitalista, e “liberarne” la forza-lavoro affinché si donasse come gigantesca risorsa all’avido mostro del Capitale. Già prima della guerra di secessione, il Nord incoraggiava la fuga degli schiavi dalle piantagioni sudiste: troppo lo allettava il sogno di una mano d’opera che si sarebbe offerta sul mercato al prezzo più vile e che, oltre a questo vantaggio diretto, gli avrebbe assicurato quello di comprimere le mercedi della forza-lavoro già salariata, o almeno di non lasciarle salire. Durante e dopo quella guerra il processo fu rapidamente accelerato, generalizzandosi.
Era un passo storicamente necessario per uscire dai limiti di un’economia ultra-arretrata; e il marxismo lo salutò, ma non perché ignorasse che, liberata nel Sud, la manodopera negra avrebbe trovato nel Nord un meccanismo di sfruttamento già pronto e, sotto certi aspetti, ancora più feroce. Libero il “buon negro” sarebbe stato, nelle parole del Capitale, di portar la sua pelle sul mercato del lavoro per farvela conciare: libero dalle catene della schiavitù sudista ma anche dallo scudo protettivo de un’economia e di una società fondate su rapporti personali ed umani, anziché impersonali e disumani; libero – cioè solo, cioè nudo, cioè inerme.
E in verità, lo schiavo fuggito nel Nord si accorse di non essere meno inferiore di prima; perché pagato meno; perché privo di qualifiche professionali; perché isolato in nuovi ghetti come il soldato di un esercito industriale di riserva e come una potenziale minaccia di disgregazione del tessuto connettivo del regime della proprietà e dell’appropriazione privata; perché segregato e discriminato come colui che doveva sentirsi non uomo ma bestia da lavoro, a come tale cedersi al primo offerente non chiedendo né di più, né di meglio.
Oggi, a un secolo dalla presunta emancipazione, esso si vede concedere la “pienezza” dei diritti civili nell’atto stesso in cui il suo reddito medio è spaventosamente inferiore a quello del concittadino bianco, il suo salario è la metà di quello del suo fratello in pelle non scura, la mercede della sua compagna è un terzo del salario della campagna del salariato non di colore. Questo nell’atto stesso in cui le dorate metropoli degli affari lo chiudono in ghetti spaventosi di miseria, di malattia, di vizio, isolandovelo dietro invisibili muraglie di pregiudizi costumi e regolamenti polizieschi.
Questo nell’atto stesso in cui la disoccupazione che l’ipocrisia borghese chiama “tecnologica” (per dire che si tratta di una “fatalità”, di un prezzo che si deve pagare per progredire, di una colpa che non è della società presente) miete le vittime più numerose nelle file dei suoi compagni di razza, perché sono le file dei manovali semplici e dei sottoproletari addetti a compiti sudici e faticosi.
Questo nell’atto stesso in cui, uguale di fronte alla morte sui campi di battaglia al commilitone bianco, è reso profondamente disuguale da lui di fronte al poliziotto, al giudice, all’agente del fisco, al padrone di fabbrica, al bonzo sindacale, al proprietario della sua topaia.
Ed è anche vero – e assurdo per i collitorti – che la fiammata della sua rivolta è divampata in quella California in cui il medio salariato negro guadagna più che nell’Est; ma è appunto in quelle terre di boom capitalistico e di fittizio “benessere” proletario, che la disparità di trattamento fra genti di pelle diversa è più forte; è appunto lì che il ghetto, già chiuso lungo le coste atlantiche, si va precipitosamente rinserrando al cospetto della classe dominante – che è bianca!
È contro la ipocrisia di un egualitarismo scritto gesuiticamente sulla carta, ma negato nei fatti di una società scavata da solchi profondissimi di classe, che la collera negra è virilmente esplosa, non diversamente da come esplose la collera dei proletari bianchi vorticosamente attirati e accatastati nei nuovi centri industriali del capitalismo avanzante, stipato nelle bidonville, nelle “coree”, nei quartieri di catapecchie della cristianissima società borghese, e in essa liberi di vendere la propria forza lavoro per... non morir di fame; come esploderà sempre la santa furia delle classi dominate, sfruttate e, come se non bastasse, schernite!
«Rivolta premeditata contro il rispetto della legge, i diritti del vicino e il mantenimento dell’ordine!», ha esclamato il cardinale di Santa Madre Chiesa McIntyre, come se il novello schiavo-senza-ceppi-ai-piedi avesse motivo di rispettare una legge che lo curva a terra e ve lo tiene inginocchiato, o avesse mai saputo, egli “vicino” dei bianchi, di possedere dei “diritti”, o avesse mai potuto vedere nella società basata sul trinomio bugiardo di libertà, eguaglianza e fratellanza, qualcosa di diverso dal disordine elevato a principio.
«I diritti non si conquistano con la violenza», ha gridato Johnson. Menzogna. I negri ricordano, anche solo per averlo sentito dire, che una lunga guerra è costata ai bianchi la conquista dei diritti loro negati dalla metropoli inglese; sanno che una più lunga guerra è costato a bianchi e negri temporaneamente uniti lo straccio di una emancipazione ancor oggi impalpabile e remota. Vedono e sentono ogni giorno la retorica sciovinista esaltare lo sterminio dei pellerossa contrastanti la marcia dei Padri verso terre e “diritti” nuovi, e la rude brutalità dei pionieri del West “redento” alla civiltà della Bibbia e dell’Alcool. Che cos’era questa, se non violenza?
Oscuramente, essi hanno capito che non c’è nodo nella storia americana, come in quella di tutti i paesi, che non sia stato sciolto dalla forza; che non v’è diritto che non sia la risultante di un cozzo, spesso sanguinoso, sempre violento, tra le forze del passato e quelle dell’avvenire.
Cent’anni di pacifica attesa delle magnanime concessioni del bianchi che cosa hanno portato loro, all’infuori del poco che l’occasionale esplosione di collera ha saputo strappare, anche solo con la paura, alla mano avara e codarda del padrone? E come ha risposto, il governatore Brown, difensore di diritti che i bianchi sentivano minacciati dalla rivolta, se non con la democratica violenza dei mitra, degli sfollagente, dei carri armati e dello stato d’assedio?
E che cos’è, questa, se non la esperienza delle classi oppresse sotto tutti i cieli, in qualunque colore della pelle, di qualunque origine “razziale”? Il negro, poco importa se proletario puro o sottoproletario, che a Los Angeles gridò: “La nostra guerra è qui, non nel Vietnam”, non formulava un concetto diverso da quello degli uomini che scalarono il cielo nelle Comuni di Parigi e di Pietrogrado, distruttori dei miti dell’ordine, dell’interesse nazionale, delle guerre civilizzatrici, e annunziatori di una civiltà finalmente umana.
Non si consolino i borghesi pensando: episodio lontano, che non ci tocca – da noi la questione razziale non si pone. La questione razziale è, oggi in forma sempre più manifesta, una questione sociale. Fate che i disoccupati e i sotto-occupati del nostro lacero Sud non trovino più la valvola dell’emigrazione; fate che non possano più correre a farsi scuoiare oltre i sacri confini. O a farsi ammazzare in sciagure non dovute alla fatalità, alle imprevedibili bizzarrie dell’atmosfera, o, chissà mai, al malocchio, ma alla sete di profitto del Capitale, alla sua ansia di risparmiare sui costi del materiale, dei mezzi di alloggiamento, dei mezzi di trasporto, dei dispositivi di sicurezza, pur di assicurarsi un più alto margine di lavoro non pagato, e magari lucrare sulla ricostruzione che segue agli immancabili, tutt’altro che impreveduti, e sempre ipocritamente lacrimati, disastri.
Fate che le bidonville delle nostre città manifatturiere e delle nostre capitali morali (!!) brulichino, più che già non avvenga oggi, di paria senza-lavoro, senza-pane e senza riserve, e avrete un razzismo italico, fin da ora visibile del resto nelle querimonie dei settentrionali sui “barbari” e “incivili” terroni.
È la struttura sociale in cui siamo dannati a vivere oggi che suscita simili infamie; è sotto le sue macerie ch’esse scompariranno. È questo che ammonisce e ricorda, agli immemori dormienti nel sonno illusorio del benesserismo, e drogati dall’oppio democratico e riformista, la “rivolta negra” della California – non lontana, non esotica, ma presente in mezzo a noi; immatura e sconfitta, ma foriera di vittoria!
Qualunque sviluppo sia destinata ad avere l’eroica rivolta dei proletari negri in America (noi scriviamo il 27 luglio, e la tipografia sta per iniziare la chiusura estiva), essa segna una svolta nella storia degli sfruttati di colore che, mentre riempie di entusiasmo i rivoluzionari, deve essere di vigoroso incitamento, di salutare frustata, a tutti gli schiavi del capitale, in primo longo a quelli in pelle bianca, in tutti i paesi del mondo.
Tra le urla di sdegno dei benpensanti – non ultimi quei “progressisti” borghesi ai quali non pareva vero di plaudire alle innocue e pacifiche marce per la pace o per i “diritti civili” e che ora strillano alla “illegalità” e agli “orrori” di una rivolta aperta tendente a scavalcare ogni confine – essa parla un linguaggio che, con sgomento, gli stessi organi della classe sfruttatrice sono costretti a registrare e, loro malgrado, a trasmettere.
Non è più la silenziosa e quasi implorante richiesta di “diritti” formali, di eguaglianze giurifiche: è l’esplosione di collera di chi ha capito per lunga esperienza che legge e diritto sono strumenti della classe che domina e sfrutta, non armi della classe sfruttata; che la eguaglianza è una beffa di fronte alla realtà della diseguaglianza economica e sociale, della disoccupazione, dei bassi salari, del ritmo di lavoro frenetico a cui sono costretti tutti gli operai, ma in primo luogo i negri; che, di fronte a ciò, preci e petizioni non contano nulla, come non contavano nulla di fronte ai colpi di frusta dei negrieri al tempo in cui gli uomini di colore non erano liberi di vendere la propria forza-lavoro a qualunque padrone.
Non è più l’occasionale sfuriata di studenti in una cittadina universitaria del Sud americano, “patriarcale” e “arretrata”; è la fiammata d’ira di proletari stipati nella più grande e moderna città industriale del Nord, l’orgoglio dell’industria automobilistica americana.
Non è più un episodio isolato: è un incendio che si propaga non solo da una città all’altra, ma, cosa ben più importante, da proletari negri a proletari bianchi solidarizzanti con essi. È una pagina di guerra di classe, orgogliosa quanto violenta, spavalda quanto implacabile. È il segno premonitore di quello che avverrà il giorno in cui i proletari, indipendentemente dal colore della loro pelle, insorgeranno a spezzare, non con la preghiera ma con la forza, le proprie catene nelle cittadelle dorate del “progresso capitalista”.
I borghesi hanno subito gridato allo scandalo, agli orrori del saccheggio, degli incendi, delle sparatorie. Ma è questo lo scandalo? o non è invece il martirio al quale i salariati negri rifugiatisi nel civilissimo Nord sono sottoposti da un secolo, e che li condanna a salari inferiori della metà a quelli dei lavoratori bianchi, e li espone inermi a una disoccupazione ricorrente? È questo l’orrore, o è il ghetto nel quale la cristianissima società borghese rinchiude i suoi schiavi liberati nelle grandi metropoli industriali? Ed è violenza “irresponsabile” quella dei proletari negri che si ribellano, mentre sarebbe violenza legittima quella dei padroni bianchi che li taglieggiano? Per noi quella violenza anonima è santa come fu quella degli schiavi romani, come fu quella dei sanculotti francesi, come fu quella degli operai e mugik russi.
Urlino pure i “progressisti” alla Luther King o Bob Kennedy che così si distruggono i frutti di un lavoro paziente di riforma. I proletari negri NON POSSONO PIÙ, se anche lo volessero, avere pazienza; cent’anni di riforma non hanno arrecato loro nemmeno la millesima parte di ciò – ed era poco – che, proprio un secolo fa, un’autentica guerra guerreggiata, la guerra civile fra Nord e Sud, riuscì a strappare non con discorsi o petizioni ma con il linguaggio delle armi. Quelle conquiste, allora importanti, hanno mostrato in un lungo calvario la propria insufficienza, provando nello stesso tempo come la democrazia rappresenti per gli sfruttati soltanto una lustra: non si può superarle – annullandole in superiori conquiste – se non con un nuovo turno, diverso perché di classe (e di classe proletaria), di guerra civile.
È il linguaggio questo che parlano i proletari negri ai loro dominanti. Ma lo parlano anche ai loro fratelli proletari non di colore, perché ricordino che uno è il nemico, e che da esso ci si libera solo spezzando il giogo che pesa sul collo di tutti gli sfruttati; perché si ridestino alla coscienza che i proletari negri si libereranno veramente nella sola misura in cui, uniti ad essi, si libereranno i proletari di ogni altra razza, strappando dalle torve mani di un padrone, che è lo stesso per tutti, gli strumenti del suo dittatoriale potere, oggi protetto dai paracadutisti sguinzagliati ad arrestare, ferire ed uccidere, in nome della proprietà e del Capitale, chi ha l’orribile colpa di non voler morire di fame!
Contro i proletari negri in rivolta si scagliano oggi tutti i difensori, laici ed ecclesiastici, dell’ordine. È naturale: questi hanno qualcosa, e molto, da perdere; i primi non hanno da perdere che le loro catene. Vada quindi ad essi la solidarietà dei rivoluzionari comunisti di ogni paese, fieri di battersi contro il nemico comune di tutti gli sfruttati al grido che non ha tramonto; Proletari di tutto il mondo (quindi di tutti i paesi e di tutte le razze), unitevi!
Nel numero scorso del giornale, come in quello da poco uscito del “Programme Communiste”, abbiamo espresso l’entusiasmo dei rivoluzionari comunisti per la eroica, magnifica lotta dei proletari negri d’America, accennando alle ragioni di classe che stanno alla base di questa formidabile esplosione di odio verso la classe dominante, e mettendo in rilievo le finalità sociali che, sia pure in modo tendenziale e in forma non dichiarata né cosciente, le hanno conferito, con terrore e sdegno della borghesia del mondo intero, un carattere rivoluzionario.
Carattere sociale della rivolta negra
L’alto significato teorico delle gloriose giornate di Newark e Detroit risiede prima di tutto nel fatto che esse costituiscono una luminosa conferma delle previsioni marxiste sull’inevitabilità della catastrofe dalla quale gli ideologi borghesi e tutta la gamma degli opportunisti pretendono che il capitalismo sia oggi in grado, in virtù di “speciali” risorse, di premunirsi. D’un colpo solo, la “rivolta negra” (usiamo per un momento questo termine) ha spazzato via – in un bagliore di ferro e di fuoco – le panzane accreditate dalla intellettualità piccolo-borghese circa l’inarrestabile marcia verso il benessere e sulla pacifica eliminazione dei contrasti politici e sociali, mentre ha rimesso in poderosa luce la tesi marxista che la strombazzata prosperità capitalistica si regge su piedi di argilla, dandone ulteriore conferma – cosa ancor più importante – appunto là, vecchio assioma marxista, dove la “prosperità” è maggiore, le suggestioni della propaganda riformista e pacifista sono più diffuse, e le possibilità di corruzione materiale e morale più alte. È appunto là che dei proletari hanno ricordato ai loro fratelli di tutto il mondo di “non aver nulla da perdere eccetto le loro catene”.
Giacché, questo è l’altro grande aspetto dei fatti di Newark e di Detroit (non i soli, come si è visto e si vede tuttora, ma per adesso i più imponenti): di proletari si tratta, di salariati in rivolta nello scenario di alcune fra le più grandi concentrazioni industriali non solo degli Stati Uniti ma del mondo. Sia la motivazione sia la direzione del loro moto sono le stesse delle vampate di collera dei giornalieri messicani nelle fertili valli della California in anni recenti e, in forma periodica, ogni anno, o dei manovali di varia provenienza – e di pelle bianca – nelle galere aziendali dell’Est, da cui è punteggiata la storia sanguinosa del capitalismo americano in tempi lontani e vicini.
Altrove parliamo delle testimonianze, scarne ma inconfondibili, della solidarietà testimoniata dai lavoratori bianchi ai loro fratelli in pelle nera: esse basterebbero a dimostrare la radice di classe, e solo per etichetta di razza, del grande terremoto abbattutosi sulle cittadelle dorate di S.M. il Capitale yankee.
La manodopera negra è senza dubbio la peggio pagata, ma ciò vale in misura analoga per i manovali portoricani assorbiti più o meno stabilmente dall’industria dell’Est, per i salariati agricoli messicani stagionalmente arruolati per le aziende agricole nell’Ovest, o per gli americani di vecchia data che campano faticosamente, ad esempio, nelle aree depresse degli Appalachi. I proletari negri, essendo in prevalenza non qualificati, sono i più esposti alla disoccupazione (ad Harlem, il 9% dei negri sono disoccupati contro il meno del 4% della media nazionale; fra i giovani al disotto dei 20 anni, la percentuale ascende al 25% circa), ma lo sono pure gli stessi portoricani e, in una certa misura, tutti i giovani bianchi che il processo di meccanizzazione esclude da molte possibilità di impiego nell’industria. I negri vivono in quartieri orrendi, certo ma negli stessi rioni si ammassano gli immigranti di varia origine e di tutt’altra razza costretti a vendere la propria forza-lavoro all’insaziabile mostro capitalista.
Il capitalismo prende in origine l’avvio da una base territoriale più o meno omogenea di lingua e di costumi – il mercato nazionale della forza-lavoro – ma, nella sua prepotente espansione, non può non andare ad attingere manodopera a basso prezzo, se non bastano le sacche di depressione interna, fuori dai confini del paese: dovunque, quell’esercito internazionale di riserva che ad esso, potenza mondiale, offre disperato le braccia.
Eccoli i supersfruttati, che soffrono come tali indipendentemente dalla loro pelle (anche se la loro qualifica di “stranieri” o di “gente di colore” serve di comodo pretesto per martoriarli e spremerli ancora di più) e che, appunto perciò, sono destinati, per un apparente paradosso, a divenire l’avanguardia delle lotte di classe nel paese adottivo. Engels vedeva negli irlandesi – stipati in quelli che l’ipocrisia di oggi chiamerebbe “ghetti razziali” e che erano semplicemente dei mostruosi quartieri operai – le punte avanzate, l’elemento di massima irrequietudine, nel moto istintivo di rivolta proletaria in Inghilterra. I più fulgidi episodi di insurrezione violenta negli Stati Uniti hanno nomi e cognomi di “stranieri”. Nell’uno e nell’altro caso gli attori del dramma sociale erano l’incarnazione del proletario puro, del senza-riserve che appunto “non ha nulla da perdere eccetto le sue catene”, del salariato autentico che tocca con mano l’abisso di menzogna delle “nuove frontiere”, le frontiere che il capitalismo valica per attingere manodopera dove costa di meno. Tanto varrebbe parlare di conflitto razziale per i martiri di Chicago del lontano e pur tanto vicino 1886, o per i formidabili “wobbies”, gli I.W.W., di anni più recenti, in gran parte immigrati tedeschi, irlandesi, italiani, spagnoli!
Infine, quand’anche si volessero considerare solo i negri – come cittadini e non come proletari – e chiudere in una bottiglia il loro moto di rivolta applicandovi il tappo con scritto “questione razziale”, che cosa dimostra quel moto se non che perfino sul terreno generico dei famosi “diritti” e della celebre integrazione, la dinamica delle forze sociale ha posto fisicamente le vittime delle peggiori “ingiustizie” di fronte ai problemi che investono i rapporti generali, non locali né particolari, fra società – tutta la società – e Stato – l’intero edificio di oppressione e di difesa della classe dominante – mostrando loro che la questione è politica e di forza e non ammette se non l’alternativa fra violenza subita e violenza esercitata?
Significa questo che i negri di Detroit ne abbiano avuto esplicita coscienza? No: ma con questo? La coscienza segue, non precede, l’azione, e questa è il portato di un cozzo reale e materiale di forze, di una lacerazione in atto nel tessuto, apparentemente solido, di una società intrinsecamente precaria. Nomini pure il governo delle commissioni di inchiesta: la storia ha posto la questione su ben altro terreno!
I limiti storici del moto
Il nostro entusiasmo da un lato, la nostra solidarietà dall’altro, resterebbero tuttavia al di sotto del nostro compito di partito, se chiudessimo gli occhi sui limiti storici – oltre che sulle deficienze, sugli errori, sui rischi di involuzione sotto il duplice assalto della repressione statale borghese e del veleno opportunistico – di un moto prepotentemente scaturito dalle viscere del meccanismo di produzione borghese.
Non si tratta di un problema accademico ma di quella stessa esigenza di battaglia che ha spinto i nostri grandi Maestri a trarre dai più fulgidi episodi di lotta proletaria gli insegnamenti che essi davano alle generazioni successive non solo con le loro luci, ma anche e soprattutto con le loro ombre. Deficienze ed errori sono inevitabili in una lotta uno dei cui dati fondamentali è il carattere spontaneo; e può misconoscere la spontaneità del moto americano solo chi dia credito alle menzogne della Central Intelligence Agency sull’azione determinante svolta in esso dai soliti sobillatori o, peggio, da delinquenti comuni, saccheggiatori e piromani; solo dunque chi abbia scelto il ruolo di lacchè del regime costituito.
I limiti storici bisogna per capirli vederli sullo sfondo di tutto il movimento operaio, americano e mondiale. Non si possono valutare nelle loro luci e nelle loro ombre i fatti di Newark e di Detroit se li si considera come un episodio qualunque in un paese qualunque. Al contrario, bisogna vederli nella portata mondiale che essi hanno in quanto avvenuti nel cuore stesso del pilastro mondiale dell’imperialismo, gli USA, al centro del suo sistema nevralgico, l’industria automobilistica, e nell’immenso valore che potrebbero, anzi avrebbero già potuto assumere, proprio per questa ragione, ai fini della riscossa mondiale del proletariato. È qui che balzano in luce i loro limiti attuali.
Abbiamo già accennato alle testimonianze di solidarietà non soltanto morale fornita dai proletari non colorati. Esse sono inconfutabili, tanto più che vengono da parte borghese. Mancano invece notizie sul come, dove, quando, tale solidarietà si è manifestata. Ignoriamo se, per esempio, essa si sia espressa solo nel gesto dei cecchini che imbracciano il fucile e sparano dai tetti, o in altre e più estese forme di aiuto, specie quando le forze armate locali ricevevano l’imponente rinforzo dei paracadutisti mobilitati d’urgenza dalla Casa Bianca e quanto fior di carri armati spazzavano a raffiche di mitraglia le strade; se la paralisi “parziale” della General Motors, della Ford, della Chrysler, sia stata dovuta all’astensione volontaria delle maestranze al completo; se azioni unitarie di sciopero e comitati unitari di agitazione siano sorti e, in caso affermativo, quanto tempo siano rimasti in vita e quali parole d’ordine abbiano dato.
Questo silenzio (giacché proprio di silenzio, non di mancanza di informazioni nostre si tratta) non è casuale: tutto l’opportunismo, in qualunque paese, ha provveduto a chiudere la rivolta americana nell’ambito di situazioni e problemi “particolari”, a confinarla in un ghetto politico di isolamento dal mondo esterno, prima di tutto dal mondo “esterno” degli altri paesi e del proletariato di altro colore. Questo silenzio (tanto più significativo in quanto le stesse fonti borghesi attribuiscono all’arresto della produzione tre quarti dei danni monetari causati dalla lotta, e parlano di un miliardo di dollari andati in fumo in pochi giorni, tanti quanti il governo italiano ricevette in prestito dagli USA in conto “ricostruzione nazionale”), è l’altra faccia del silenzio che potremmo dire “attivo” delle organizzazioni “operaie” bianche negli Stati Uniti e fuori.
Silenzio che romperebbe una forza politica organizzata che ponesse su scala generale, come punto cardine di principio, la questione di una battaglia unica, non divisa da linee di colore, e valorizzante su un piano più alto l’istintiva solidarietà dei proletari comuni.
Non una voce si è invece levata dal campo dei non colorati (e poteva essere solo la voce di un partito di classe) a gridare: Questa lotta è di tutti noii, il nostro nemico è lo stesso, unica è la volontà di attaccarlo con la violenza che voi, fratelli in pelle nera, avete esercitato a viso aperto, come, tante volte in un secolo di storia, i nostri padri hanno fatto! Se quindi c’è stata la solidarietà istintiva dei proletari bianchi, qualunque forma essa abbia assunta, è mancata quella di una corrispondente forza politica. Non poteva esserci, là dove manca – e non da oggi – il partito di classe, della dottrina e del programma marxisti, e loro veicolo attivo nel cuore dell’imperialismo mondiale, là dove essi sono destinati a fungere da perno della strategia mondiale comunista.
Qui il tragico nodo. Perciò abbiamo intitolato il nostro articolo: “Necessità della teoria rivoluzionaria e del partito de classe in America”, il che è quanto dire al mondo.
È stato diverso il panorama delle forze politiche espresse dalla classe operaia negra? È quello che vedremo in un articolo successivo.
Il Programma Comunista, nº 16, 1967
Nel numero scorso, abbiamo cercato di indicare brevemente i limiti storici dell’eroica battaglia dei proletari negri di Newark e Detroit, riconoscendoli in primo luogo nella mancanza non di un’istintiva solidarietà degli sfruttati in pelle bianca (che, in forma più o meno estesa, c’è stata), ma di una corrispondente presa di posizione da parte delle organizzazioni politiche e sindacali che raggruppano l’enorme maggioranza – bianca, ovviamente – dei salariati americani.
La nostra denuncia di codesti organismi, che è d’altronde la denuncia di una lunga storia di invigliacchimento seguito al tramonto dell’impetuosa ondata rivoluzionaria degli I.W.W., trova nuova e schiacciante conferma, proprio in questi giorni, nell’entrata in sciopero nella stessa Detroit dei 160 mila dipendenti della Ford – in questi giorni, dopo che la paurosa sfuriata negra è passata; non allora, quando i due moti potevano confluire in uno solo e gigantesco, capace di scuotere alle fondamenta l’aureo edificio della “prosperità” capitalistica in stelle e strisce.
Va ribadito con forza, perché ricade integralmente sulle organizzazioni sindacali e sui partiti politici operai in America – e in tutto il mondo, prima che dovunque e più che mai in Europa – la responsabilità di qualunque limitazione, deviazione, insufficienza e perfino involuzione mostrino le teorizzazioni che della fiammata del luglio e dell’agosto hanno dato o danno i cosiddetti “leader negri”. Ricadono su quegli organismi venduti alla classe dominante, che non a caso negli Stati Uniti riproducono nella propria struttura e nella propria ideologia le stesse discriminazioni a danno della minoranza negra da cui l’intera società americana è solcata.
Da questa constatazione, che deve fare arrossire i sedicentemente evoluti proletari “non di colore”, bisogna prender le mosse per rispondere al quesito che ci eravamo posti.
Ha, da parte sua, il proletariato negro espresso dal suo seno una forza politica capace di dire la parola che le forze politiche operaie bianche non hanno saputo, né voluto, né per una sconcia tradizione, potuto dire nei giorni di ferro e di fuoco di Detroit?
Una prima constatazione positiva, ovvia del resto perché documentata da tutta la stampa, oltre che facilmente prevedibile per i marxisti, è che di fronte al grido imperioso di quei giorni il blocco eterogeneo della “popolazione negra” si è spezzato nelle sue componenti di classe, ad ulteriore riprova del fondo vigorosamente sociale della rivolta.
Da un lato la borghesia negra – quella che si è dolcemente inserita nel sistema e che a favore dei confratelli “disagiati” non osa chiedere nulla più che miserabili “diritti” da conseguire coi metodi imbelli delle pacifiche marce e della rinunzia alla violenza – ha gettato l’ultima foglia di fico che le restava addosso presentandosi nella vergognosa nudità di paladina dell’ordine costituito. «Se la polizia avesse sparato subito e molto – si è sentito in dovere di urlare il giornale negro “Michigan Chronicle” – i tumulti sarebbero già cessati», chiaro invito al governo, se il caso si ripetesse, a picchiare prima e più sodo! Mentre il solito corteo di leader, più o meno religiosi, invocava riforme, commissioni d’inchiesta, aumento della rappresentanza politica della popolazione di colore, qualche contingente negro in più nella guardia civica, la fine delle discriminazioni nei caffè e negli autobus, ecc., il tutto fra salamelecchi al potere esecutivo e alla “imparzialità” di legislatori e giudici.
Il canagliume borghese non conosce nessuna “color line” – ha una tinta sola, quella della sbirraglia.
Dall’estremo opposto, si sono levate voci di timbro ben diverso, che non solo hanno chiamato i proletari negri a liberarsi dalla supina accettazione del sordido paternalismo dei padroni bianchi (il cosiddetto “ziotomismo”), a boicottare l’infame borghesia negra schieratasi sullo stesso fronte dei borghesi bianchi, a svergognare le ipocrite dichiarazioni dell’unico senatore negro, Brooks, e ad accogliere con le dovute pernacchie il deputato negro Conyers accorso fra i dimostranti nel tentativo di distoglierli dagli atti di “teppismo”. Non hanno esitato a rivendicare il ricorso alla violenza come l’unica arma dal cui impiego senza preconcetti moralistici i super sfruttati lavoratori negri possano attendere un rovesciamento della situazione nella quale da cent’anni marciscono, diversa nella forma ma forse ancor più dura nella sostanza di quella che gli schiavi del Sud avevano cercato (solo in parte riuscendovi) di scrollarsi dosso.
Sono le stesse voci che, poco dopo i fatti di Newark, lanciavano ai proletari negri la parola d’ordine dei rifiuto di vestire la casacca militare per andare a uccidere e farsi uccidere nel Vietnam, perché fossero difesi e, se possibile, rimpinguati i forzieri dei più arroganti padroni capitalistici del mondo.
Queste voci si sono levate, bisogna darne atto, dal partito che si fregia del titolo di Potere Nero e ai cui leader appartengono, ma non ne sono affatto i più significativi, Stokely Carmichael e, ultimo arrivato, Rap Brown, strani relitti di un “comitato di coordinazione degli studenti non violenti” convertitisi oggi alla dottrina della violenza.
Ora come alla gigantesca portata storica dell’elementare esplosione di collera dei proletari negri nulla tolgono le sue debolezze organiche sul piano politico, così il merito di essersi assunta la responsabilità di difenderla in nome della violenza armata nulla toglie a quanto v’è in questa ideologia di fumoso, contraddittorio, negativo, e perfino, sotto certi aspetti francamente reazionario – come è inevitabile nella devastazione mondiale prodotta dallo stalinismo, due volte assassino dell’Internazionale Comunista.
Come tutte le mistiche della violenza in sé e per sé, questa è un sacco in cui ognuno – quindi anche ogni esponente di classi e di dottrine diverse – può pescare ciò che gli piace di più e che gli conviene meglio.
Parlare di “rifiuto del sistema” non è dire nulla, finché non si precisa né il senso del “rifiuto”, né il concetto di “sistema”; come non significa nulla giurare nella “rivoluzione” finché non si sostanzia questa generica professione di fede dandole un contenuto, una direzione e un obiettivo di classe.
Schierandosi sulle posizioni di “Che” Guevara e di Castro, Carmichael non dà forse alla “rivoluzione” invocata il senso borghese di una lotta di liberazione nazionale? Predicare il rifiuto di servire in guerra contro i vietnamiti – che potrebbe significare un ritorno al concetto che il capitalismo si abbatte sul fronte interno, non «creando due, tre, quattro Vietnam» alla periferia – rischia di sboccare nell’invocazione individualistica e passiva dell’obiezione di coscienza, se non si traduce nella formula: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile, per l’abbattimento dello Stato borghese e l’instaurazione della dittatura proletaria!
Ma è la stessa insegna del Potere Nero che permette ai più diversi programmi di raccogliersi sotto un unico ombrello e impedisce a quelli che tuttavia partono dalla radice di un’interpretazione di classe del “problema negro” di svolgere tutte le conseguenze implicite nella propria iniziale denuncia.
Non a caso si è sentito, in nome appunto di quella insegna, parlare da alcuni dell’esigenza per i proletari super-sfruttati di pelle scura di organizzarsi in un partito indipendente dalla borghesia della stessa pelle – vilmente integratasi nella classe dominante e nel suo Stato – che contrapponga al belante pacifismo, democratismo e riformismo di quella l’impiego virilmente proclamato della violenza armata. Ma, ancora una volta, per rivendicare con altri metodi la carta straccia dei “diritti civili”, o per rovesciare il “sistema”?
Da altri si sente dire di creare una terza forza che si inserisca fra i due tradizionali partiti americani agendo come dinamico “gruppo di pressione” a favore e nell’interesse generale della popolazione negra. Ma ciò significherebbe ripiombare nell’ideologia piccolo-borghese, parlamentare e legalitaria, cancellando ogni linea di classe nel magma indistinto del popolo, o della razza.
O infine, ed è il peggio, rivendicare la famosa “spartizione” fra i negri e i bianchi, il raggruppamento delle due razze sotto l’autorità di due Stati, obiettivo tanto assurdo e irrealizzabile quanto reazionario perché distrugge la stessa radice sociale del problema e trasferisce sul piano di un conflitto fra Stati quella che dovrebbe essere la lotta spinta alle conseguenze estreme dello scontro armato, fra classi sociali.
Lo stesso Carmichael, proclamando alla conferenza della Organizzazione per la solidarietà latino-americana a Cuba, nello scorso agosto: «La rivoluzione cubana è anche la nostra», e plaudendo al grido di Castro: «La battaglia dei negri per l’affermazione dei loro diritti è paragonabile a quella condotta dai vietnamiti e a suo tempo, dai cubani», avvalora un indirizzo che si risolverebbe nel trapianto in America della guerriglia nazionale (contro... l’esercito, non contro la borghesia americana ed il suo Stato!), per obiettivi conciliabili col principio sancito dalla stessa costituzione statunitense della “resistenza all’oppressione”. Il fine ultimo non sarebbe già la distruzione del meccanismo generatore dell’estorsione di plusvalore dal sudore e dal sangue proletari, ma l’”equa” ripartizione del profitto (o meglio delle briciole del profitto nazionale e mondiale, giacché il capitalismo yankee estorce plusvalore ai proletari di tutto il mondo) fra le classi o, addirittura (come in Castro e Guevara), fra le nazioni, gli Stati, le “razze”.
Rinasce qui la mistica fumosa e controrivoluzionaria della violenza per la violenza, del Potere Negro privato di ogni fondamento storico e sociale, infine di un razzismo alla rovescia.
E ciò significa snaturare, violentare e capovolgere il senso di classe delle giornate di Detroit.
Ma abbiamo detto che un’interpretazione di classe esiste purtuttavia nel blocco
indistinto e dietro la cortina fumogena del Potere Negro, e se ne può
riconoscere la voce nelle parole e negli scritti di James Broggs.
Il concetto è qui che il proletariato negro in America è l’espressione spinta
all’estremo dello sfruttamento capitalistico, «l’immagine delle contraddizioni
che la società americana [solo americana?] non può risolvere né sul piano
nazionale né su quello internazionale»: esso, il super-sfruttato per eccellenza,
deve quindi levare la bandiera della rivoluzione sociale che gli operai bianchi
hanno lasciata cadere; esso che non può aspettare per fare questa rivoluzione
che gli operai bianchi, imbastarditi dal pacifismo dei loro falsi profeti, si
decidano finalmente a muoversi.
Parole forti, ma che si autodistruggono, perché, da questa consapevolezza di rappresentare, in un certo senso, la classe proletaria “allo stato puro”, dovrebbe scaturire l’orgoglioso proclama: «Noi, in quanto vittime dello sfruttamento più indegno ad opera del Capitale leviamo la bandiera della dittatura comunista in nome di tutti gli sfruttati, qualunque sia il colore della loro pelle».
Quando Broggs dice: «Ieri il concetto di potere operaio esprimeva la forza sociale rivoluzionaria della classe operaia organizzata entro il processo della produzione capitalistica. Oggi il concetto di potere nero esprime la nuova forza sociale rivoluzionaria della popolazione negra (...) una forza sociale rivoluzionaria che deve lottare contro gli operai e i ceti medi che beneficiano del sistema fondato sulla oppressione e sullo sfruttamento dei negri, e gli danno il loro appoggio», ha ragione in quanto si scaglia contro l’aristocrazia operaia e alle vili mezze classi.
Ma quando ne deduce: «Aspettarsi che la lotta per il potere negro comprenda gli operai bianchi (tutti, anche i super sfruttati, i manovali, i diseredati di mille provenienze?) nella lotta negra significa aspettarsi che la rivoluzione accolga il nemico nel proprio campo», egli trasforma quella che potrebbe essere ed istintivamente è la punta avanzata di una rinascita rivoluzionaria classista nella retroguardia di un moto nazionale e razziale oscurantista.
Così come vi ricade quando, partendo dalla giusta constatazione che un’altissima percentuale di cittadini negri degli Stati Uniti è spedita a svenarsi e ad uccidere altri proletari nel Vietnam, non si sogna di levare il grido: Compagni in casacca militare, bianchi come noi siamo neri, seguiteci nella rivolta contro il comune nemico, l’imperialismo capitalistico! Fraternizziamo insieme con coloro che ci si obbliga a considerare nemici!
Per amara che sia, la constatazione va fatta: non nell’azione pratica, ma nell’indirizzo politico e nella sua traduzione in dottrina e programma, neppure dal seno dell’eroico proletariato negro si è levata – ma è colpa nostra, di noi militanti degli orgogliosi paesi capitalistici avanzati – la parola che sola può spalancare le porte dell’avvenire: Proletari di tutto il mondo, di tutte le razze, di tutti i paesi, unitevi per l’abbattimento del regime capitalistico e per l’instaurazione della vostra dittatura!
Non potere negro, ma potere proletario.
Così, una volta di più, la necessità della teoria rivoluzionaria marxista e del partito di classe, suo portatore e suo organo di battaglia, in America – e dire America è dire il mondo – è posta con drammatica urgenza dalla grande luce e dalle terribili ombre dei fatti di Newark e di Detroit.
L’atteggiamento dei partiti opportunisti, in particolar modo del Partito Comunista Americano, nei riguardi delle rivolte nere tende allo scopo essenziale di mistificare il reale carattere di classe di queste sommosse di fronte agli occhi dei proletari bianchi (ed anche negri) americani e di tutto il mondo. Così viene ribattuto il tasto della rivolta razziale e questa versione è servita ai proletari in tutte le salse.
La liberazione dei negri, incompiuta all’epoca di Lincoln e della guerra di secessione un secolo fa, dovrebbe essere portata a termine oggi, e il compito del movimento dei negri dovrebbe essere di ottenere la famosa integrazione la quale dovrebbe eliminare i confini fra le razze e dare a tutti i cittadini gli stessi diritti.
«L’America non è mai riuscita a diventare una vera comunità», strillano gli opportunisti, come se l’Italia, ad esempio, o uno qualsiasi degli Stati moderni fosse una vera comunità.
Ma quello che non deve apparire chiaro agli sfruttati, perché altrimenti l’esempio potrebbe essere contagioso, è appunto il fatto che il fronte della lotta non è di razza, ma di classe e che sono appunto gli strati più bassi del proletariato americano a muoversi per gli stessi obbiettivi per cui si sono mossi e si muovono in Europa gli operai italiani o tedeschi o francesi; contro i salari di fame, contro la crescente disoccupazione, contro il carnaio della guerra del Vietnam, ecc..
E quel putrido involucro di pretta marca stalinista che è il P.C.A. non ha saputo chiedere agli operai bianchi se non di effettuare delle fermate del lavoro per discutere sulle “conseguenze della rivolta dei negri” proprio nel momento in cui Washington bruciava e nelle strade delle principali città americane si sparava contro i neri in rivolta.
Origine di classe della situazione dei negri americani
Già durante la guerra di secessione Marx chiariva che lo scopo primo della grande borghesia industriale del Nord non era quello di liberare i negri in senso generica, ma quello di abbattere il monopolio terriero dei grandi proprietari del Sud e di rendere disponibile (liberare nel senso storico in cui la borghesia ha liberato i contadini in Europa) per l’industria una numerosa manodopera a basso prezzo trasformando i negri in salariati.
Una nuova schiavitù sostituiva all’antica: la schiavitù del lavoro salariato, comune a tutti i proletari ma particolarmente gravosa per i negri messi nella condizione di costituire in permanenza l’esercito di riserva dei disoccupati, per la situazione stessa in cui essi erano avviati al lavoro.
Alla fine della guerra, la previsione di Marx si realizza puntualmente: i negri strappati dalle piantagioni emigrano al Nord per lavorare nelle fabbriche, e se una parte rimane al Sud, scollegata da qualsiasi possibilità di lavoro, si trasforma in una massa sottoproletaria accampata nelle bidonville.
Da questo momento, la questione negra cessa di essere una questione di razza per divenire una questione sociale.
Che a lungo non siano stati riconosciuti ai negri nemmeno i diritti civili, che effettivamente si sia tentato di giocare sul colore della pelle e sui sentimenti razzisti della piccola borghesia e anche del proletariato bianco, come sul sottoproletariato dei “poveri bianchi” nelle città e nelle campagne del Sud, che questo odio sia stato per un secolo e venga tutt’oggi coltivato anche nelle masse non meno sfruttate dei negri – dei portoricani, degli italiani, dei cinesi – nulla toglie al fatto che lo sfruttamento a cui i negri sono sottoposti sia uno sfruttamento capitalistico, e che la questione sia quindi di classe e non di razza.
La borghesia ha sempre bisogno di dividere con ogni mezzo gli sfruttati per mantenere il suo dominio di classe, e a questo scopo è disposta ad usare qualsiasi possibilità, a fomentare il nazionalismo, il razzismo, l’antisemitismo, ecc.
Nel caso dei negri la discriminazione era molto facile ed era favorita dal fatto che, sbattuti dall’oggi al domani sul mercato del lavoro, senza nessuna riserva, senza nessuna pratica del lavoro industriale, costretti a mutare le loro secolari abitudini in un lasso di tempo particolarmente breve, si prestavano molto bene alla politica dei bassi salari dei lavori peggiori, più umili e perciò peggio retribuiti e meno sicuri: questo portava come conseguenza immediata la creazione dei famosi ghetti di cui tanto si parla e che non sono altro che le zone peggiori, più malsane, più malandate e che perciò costano meno, comuni a tutte le città del mondo, dove si ammassano la classe operaia e gli strati sottoproletari.
Per vedere un ghetto “negro” non occorre andare negli Stati Uniti, basta andare alle porte di Torino o di Milano, o visitare le baracche in cui vivono gli emigrati italiani in Svizzera o in Belgio o dove vivono i lavoratori algerini in Francia.
Anche contro questi operai che non hanno la pelle nera, ma che si trovano a lavorare nelle stesse condizioni dei lavoratori negri americani, si attua la politica di divisione fomentata dalla borghesia capitalistica la quale vuole che l’operaio italiano peggio pagato sia odiato dall’operaio svizzero specializzato e che l’operaio algerino sia disprezzato e sputacchiato dall’operaio francese, come ieri, e non solo in Germania, ma in tutto il mondo, si aizzavano gli operai tedeschi o americani o russi a sputare sul proletario ebreo.
Che la questione stia in questi termini lo dimostra il fatto che fra gli stessi negri esiste una feroce divisione in classi. Anche se la loro stragrande maggioranza è costituita da proletari e semiproletari, non manca certo una piccola borghesia bottegaia o dedita alle professioni liberali, che sfrutta all’osso il proletariato dei ghetti e contro cui giustamente si rivolse la collera dei proletari negri l’estate scorsa.
Non manca nemmeno una grande borghesia nera, interessata quanto quella bianca allo sfruttamento di manodopera a basso prezzo qualunque sia il colore della pelle.
Anzi, tutti questi strati non proletari costituiscono la base specifica del movimento per i diritti civili e per la integrazione razziale: è logico che il negro possessore di denaro chieda di avere gli stessi diritti del capitalista bianco e di essere ammesso con gli stessi titoli al grande banchetto dove si consuma lavoro non pagato estorto ai lavoratori sia bianchi che neri!
Il Programma Comunista, n.11, 1968
Le corbellerie dei maoisti
È chiaro che se, come noi sosteniamo, le rivolte dei negri americani altro non sono che il movimento degli strati più sfruttati del proletariato americano, i quali accendono le polveri della battaglia di classe proprio nella più munita cittadella del capitalismo mondiale, le teorie maoiste sulla guerra popolare, sull’accerchiamento delle città da parte delle campagne, sui popoli rivoluzionari, ecc. vengono schiacciate dal fatto stesso che quel movimento sia esploso, ed assumono il loro vero carattere di utopie piccolo-borghesi basate, da un lato, sulla teorizzazione delle rivoluzioni anticoloniali, dall’altro, sulla sfiducia nella possibilità rivoluzionaria del proletariato.
Sembra quasi che la storia abbia voluto ancora una volta divertirsi a mettere in ridicolo le corbellerie dei grandi uomini e, mentre fa del “non violento” Luther King una vittima della violenza, e vede i suoi seguaci altrettanto non violenti pronunziare e attuare minacce di violente rappresaglie, mette il Presidente Mao, “più grande marxista di tutti i tempi”, in contraddizione con sé stesso facendo scoppiare un violento moto di classe proprio là dove mai egli se lo sarebbe aspettato: in quelle città che secondo lui dovevano essere accerchiate e cannoneggiate dalla circostante campagna, in seno a quel popolo che il grande duce cinese aveva irrimediabilmente bollato come reazionario.
Se poi è vero quello che i cinesi hanno sostenuto in un loro appello al Nord Vietnam perché continui la lotta: cioè che gli americani vogliono trattare la pace con Hanoi perché le loro contraddizioni interne e le tensioni sociali provocate dalla rivolta dei negri impediscono loro di continuare la guerra, questo mette in luce che, dove non sono riusciti a battere l’imperialismo e a fermare il macello i famosi “aiuti” cinesi, riuscirà forse una semplice impennata del proletariato americano il quale farà saltare la base stessa da cui parte l’aggressione al Vietnam.
E questo conferma la tesi da noi sostenuta che solo il collegamento fra la lotta di classe del proletariato e la lotta dei popoli coloniali contro la dominazione mondiale dello stesso padrone, il Capitale, avrebbe dato a questi ultimi l’unica possibilità di vittoria, e che sono mille volte traditori della causa del Vietcong coloro che, pur gridando Viva il Vietnam, sabotano la lotta del proletariato europeo e americano e gli impediscono l’uso della violenza di classe, la sola che possa fermare la guerra.
Essenza piccolo-borghese di “Potere Nero”
Ma se il movimento nero è un movimento di classe e non di razza, mal si accordano con esso i dirigenti del cosiddetto Potere Nero. Anzi, il senso in cui il movimento viene instradato è perfettamente contrario agli interessi di classe del proletariato americano, e negro in particolare, perché toglie ogni reale possibilità di vittoria al movimento stesso e ne fa solo un combattimento di disperati in perpetua quanto inconcludente rivolta.
La rivolta dell’estate scorsa ha fatto acquisire ai proletari neri la nozione della violenza: tutti si sono convinti sulla propria pelle che bisognava rispondere con il ferro e con il fuoco al bestiale sfruttamento capitalistico, fonte continua di macelli e di guerre in cui il compito di farsi scannare a maggior gloria della patria tocca sempre ai proletari. I dirigenti pacifisti e non violenti, i sostenitori della pacifica integrazione sono stati cacciati dalla folla inferocita al grido di “zii Tom”. Luther King stesso, il principale sostenitore della non violenza, e la cui morte ha provocato la rivolta attuale, non perché i negri seguissero le sue direttive ma perché hanno visto colpito in lui uno dei loro, era stato sonoramente fischiato e messo da parte fin dall’estate scorsa, e la marcia pacifista dei netturbini di Memphis con la quale egli voleva riproporre la lotta pacifica si è trasformata nella violentissima rivolta attuale.
Spazzati via dalla rivolta stessa i dirigenti non violenti, si sono sostituiti ad essi gli elementi del Potere Nero, movimento che nel suo nome stesso indica tutto un programma. Questi dirigenti sostengono la necessità della violenza nei confronti della oppressione a cui è soggetta la comunità nera, ma non vedono le radici di classe del movimento e della stessa oppressione. Essi sostengono perciò che lo sfruttamento a cui sono soggetti i neri americani è uno sfruttamento di tipo coloniale e che la società americana è imbevuta di razzismo, il che è perfettamente vero, ma è solo una conseguenza del fatto che la società americana (come quella italiana, francese, tedesca o russa, signori opportunisti!) è una società capitalista e come tale usa tutti i mezzi, razzismo compreso, per sfruttare meglio il lavoro umano.
Da questa definizione che Carmichael e compagni danno alla situazione dei negri negli Stati Uniti discendono importante conseguenze per la direzione in cui dovrà muoversi la lotta, e prima di tutto la concezione unitaria e monolitica della comunità nera. Non si vedono cioè le divisioni di classe che scindono in campi avversi questa stessa comunità, anzi si tende a superarle in vista della creazione di un grande fronte che veda i neri contro i bianchi, contro la “società bianca”, come dicono i dirigenti del Black Power.
Naturalmente, se lo sfruttamento dei neri è uno sfruttamento coloniale, si pone anche per loro la questione della conquista della indipendenza nazionale, o meglio, dato che in America questo è impossibile, di “contestare” la “società bianca”. E questo potere è inteso nel senso più riformistico e democratico del termine e non ha nulla a che vedere con la rivoluzione. Si tratta di acquisire un potere all’interno della società americana e dello Stato americano attraverso la formazione di un partito nero autonomo, e la sua vittoria, o comunque una sua affermazione elettorale. Nel campo economico si tratta di “far sbrigare ai neri gli affari dei neri” di dare loro una certa autonomia nell’ “amministrazione” ad esempio dei fondi assistenziali messi a disposizione dallo Stato.
Risulta chiaro che la direzione del movimento nero è nelle mani della piccola borghesia, la quale, nella sua confusione riformistica, non può che condurlo in un giro vizioso e senza possibilità di soluzione perché dimentica, per dirla con Harrington, che “il nero è sì povero perché è nero, ma, cosa forse più importante, è nero perché è povero”. In questo apparente paradosso è racchiusa l’essenza di classe dello sfruttamento a cui sono sottoposti i proletari negri americani.
Ancora molto resta da dire su questa questione, anche perché riveste una importanza fondamentale come primo movimento violento che scoppia nella più terribile roccaforte del capitalismo mondiale.
Queste note non vogliono essere altro che l’inizio di un lavoro che è importante impostare.
I giornali borghesi sembrano ignorare nei loro resoconti – e comunque lo considerano solo marginalmente – uno dei più scottanti problemi che dilaniano la società americana: il problema negro.
E quando sono costretti dalla risonanza dei fatti a descrivere le rivolte di cui
i negri sono protagonisti, puntualmente distorcono il significato reale degli
avvenimenti, i motivi che li hanno ispirati, gli obiettivi verso cui tendono.
L’informazione imparziale non è certo una virtù del giornalismo borghese!
I negri afroamericani sono circa il 10% della popolazione degli U.S.A.;
concentrati dapprima quasi esclusivamente nei paesi del Sud (Louisiana,
Mississippi, Alabama, Georgia, Sud Carolina, Nord Carolina, Tennessee, Kentucky,
Arkansas, Texas, Florida, Virginia) dove, come schiavi, lavoravano, nelle
piantagioni di cotone, tabacco, canna da zucchero, essi, dopo la guerra di
secessione (1861-65) emigrarono verso le grandi città del Nord America.
La seguente tabella (fonte:
Department of Commerce, Bureau of the Census) illustra come le percentuali degli
abitanti negri in tre stati del Sud (Arkansas, Louisiana, Mississippi) seguano
una curva discendente, mentre le percentuali degli abitanti negri nelle restanti
zone degli Stati Uniti vadano lentamente aumentando (e ancor più chiaramente lo
illustrerebbe se considerasse non l’insieme degli U.S.A.
ma alcuni stati del Nord).
Year | USA | Arkansas Louisiana Missisipi |
1900 | 11,6% | 45,5% |
1930 | 9,7% | 38% |
1940 | 9,8% | 37% |
1950 | 10% | 33% |
1960 | 10,6% | 32,5% |
Nelle grandi metropoli del Nord i negri trovarono un capitale affamato di forza-lavoro, ma poco disposto a pagare salari che consentissero una vita decente.
Di fatto le condizioni del negro-operaio non mutarono rispetto a quelle del negro-schiavo; essi erano soltanto passati dalla schiavitù delle piantagioni del Sud alla nuova forma di schiavitù delle fabbriche del Nord.
Inoltre la loro condizione di sotto-proletari era aggravata dai pesanti pregiudizi razziali dell’ideologia dominante, che li escludeva (e spesso li esclude tuttora) dalle scuole dei bianchi, dai ritrovi dei bianchi, dai bar dei bianchi ecc.
Da parte dei negri questo stato fu accettato a lungo come logica conseguenza di una “inferiorità biologica” della propria razza rispetto a quella bianca, oppure si cercò di superarlo per vie legislative, educative, giuridiche, insomma con l’agitazione pacifica a favore di pacifiche riforme.
Lo smascheramento di questa ideologia mistificante condusse alla formazione di
una organizzazione politica che aveva lo scopo di affrancare la comunità negra
dalla duplice schiavitù cui era soggetta:
1) la schiavitù razziale (razzismo);
2) la schiavitù economica (sfruttamento).
I primi nove anni del movimento furono contraddistinti dalla parola d’ordine della non-violenza.
Durante questo periodo il Black Power non si affermò come movimento rivoluzionario, perché la tendenza generale era di “far accettare i negri nella società dei bianchi”, e non di trasformare violentemente i rapporti di produzione esistenti.
L’intransigenza razziale dei bianchi e il peggioramento delle condizioni di vita dei negri attraverso l’aumento dei distacchi nel salario, nell’occupazione, nell’istruzione ecc., convinsero l’avanguardia “di colore” che la strada da percorrere era un’altra:
che l’emancipazione del popolo negro passa attraverso l’emancipazione dalla schiavitù economica, e perciò soltanto attraverso la trasformazione rivoluzionaria delle forme di produzione dominanti nella società americana.
Questo livello di comprensione indusse a mutare la parola d’ordine del movimento, che divenne:
«La violenza della reazione si combatte con la violenza della rivoluzione».
L’estrema forma di questa radicalizzazione è espressa dal ’’Partito delle Pantere Nere”
Oggi i negri rappresentano una parte significativa della classe operaia americana, della quale costituiscono anzi la punta eversiva; soltanto la divisione, all’interno della classe lavoratrice, tra bianchi e negri spiega perché le lotte non abbiano assunto dimensioni rivoluzionarie.
Invero, il proletariato negro costituisce oggi il principale elemento da cui
può scaturire una trasformazione dei rapporti di produzione dominanti ma perché
ciò accada si devono superare e risolvere i seguenti problemi:
1) Saldatura tra il movimento proletario negro e quello bianco.
2) Rivoluzionamento da parte del proletariato bianco dei sindacati tradizionali.
3) Superamento delle barriere ideologiche (razzismo) all’interno del movimento
operaio stesso.
A proposito del primo punto sono accaduti numerosi fatti nei quali due movimenti, nel corso della lotta hanno agito con unità di azione.
Durante lo sciopero dei cantieri navali di Newport News, in Virginia (1967) gli scioperanti picchiarono i crumiri, respinsero i poliziotti e scesero in città a rompere vetrine e ripulire negozi.
Ed erano scioperanti bianchi e negri quelli che picchiavano: crumiri bianchi e negri, e poliziotti bianchi e negri.
Nonostante ciò occorre dire che la saldatura fra i due movimenti avviene soltanto nelle fasi di lotta aperta, e assai lentamente, né ovunque.
La classe dirigente americana è consapevole del pericolo che potrebbe provenire da un’alleanza tra proletari negri e bianchi, a tal fine ha messo in opera, sul piano economico e sociale, numerosi meccanismi discriminanti, tendenti ad assicurare al proletariato bianco una posizione di privilegio rispetto a quello negro.
Durante il quinquennio 1962-1967 il tasso di disoccupazione dei bianchi è stato generalmente del 5% secondo i dati ufficiali; in termini reali, del 10%.
Per i non bianchi primi fra tutti i negri (indiani americani, portoricani e messicani costituiscono una minoranza), il tasso di disoccupazione è stato tre volte maggiore: la sottoccupazione nei ghetti di colore variava, in tredici grandi città industriali, dal 28% al 48%.
La maggior parte dei benefici previdenziali va a favore degli operai specializzati; quindi dei non-negri; i salari più bassi e le mansioni più umili sono riservate quasi esclusivamente ai non-bianchi. E a tutto ciò si aggiungono le profonde sperequazioni nel campo dell’istruzione.
Per ciò che concerne il secondo punto occorre dire che i sindacati americani sono sempre più divenuti strumenti di mediazione fra capitale e lavoro, e che la loro politica si fonda esclusivamente sulla dinamica salariale, ed è per giunta prettamente corporativa.
Si sono, però, verificati innumerevoli casi in cui gli operai bianchi hanno rifiutato la politica dei sindacati ponendosi su un terreno di lotta politica generale e diretta… Un altro sintomo del decadere dell’influenza dei sindacati così come sono oggi sulla classe operaia bianca sono gli scioperi a gatto selvaggio.
Sperimentati per la prima volta nel 1955, nei grandi scioperi non autorizzati nel settore automobilistico, essi sono da allora costantemente aumentati.
Il terzo si riferisce al superamento barriera ideologica che divide il proletariato negro da quello bianco: il razzismo, retaggio di una società caratterizzata dalla storia della schiavitù, ha permeato la società americana divenendo l’elemento chiave dell’ideologia dominante e il maggiore ostacolo alla fusione tra i due movimenti operai, creando azioni e reazioni che li spingono a divergere anziché a confluire.
La divisione tra bianchi e negri è quindi il problema centrale della vita americana; né possiamo aspettarci che la si possa cancellare a breve scadenza. Ma il fatto obbiettivo è e rimane che operai bianchi e negri sono vittime della stessa potenza sociale ed economica: quella del capitale.
Ed è sulla base del riconoscimento che il nemico da combattere è lo stesso che sarà possibile ritrovare l’unità nell’organizzazione e nella lotta, giacché, se è vero che il proletariato negro, in quanto è il più sfruttato, rappresenta l’elemento più rivoluzionario della società americana, è anche vero che una trasformazione rivoluzionaria della società stessa sarà possibile nella sola misura in cui proletari negri e bianchi sapranno superare le divisioni artificiose create dal nemico per riconoscere che l’avversario da battere è comune: il capitalismo.
Poco più di un secolo fa, Marx scriveva che il proletariato in pelle bianca non può emanciparsi se non si emancipa in pelle nera; il che, è ovvio, vale altrettanto per inverso!
Nel quadro di un’informazione sui movimenti di classe in USA alla quale intendiamo dare carattere continuativo, accenniamo anzitutto brevemente alle Pantere Nere, il movimento che oggi meglio esprime l’aspirazione all’emancipazione della “comunità” negra, in lotta quotidiana contro la violenza della polizia, accanita nella sua reazione contro uno strato sociale senza peso economico e totalmente abbandonato a sé stesso, come il sottoproletariato.
Il giornale Black Panter è l’eco assidua di queste battaglie e dei problemi di difesa e organizzazione della “comunità” che esse comportano. Le sue fotografie sono quelle dei militanti uccisi, imprigionati, delle manifestazioni e delle lotte contro gli sbirri, delle devastazioni da questi compiute, dei campi di battaglia e anche dei nemici uccisi nello scontro – i “pig” – i porci (i poliziotti).
Questa lotta contro un nemico che ha sempre e solo la faccia del “porco” poliziotto, oltre il quale non si riesce a vedere la determinazione di classe e politica, rappresenta la vera anima del movimento e anche il suo graduale dissanguamento in una lotta che non si può affrontare alle radici.
I suoi dirigenti vengono deliberatamente e ripetutamente colpiti dalla polizia, che cerca ogni pretesto per ingaggiare una battaglia che le consenta l’eliminazione degli elementi pericolosi – cosa che le è riuscita più volte – come nell’attacco in cui furono uccisi Bunchy Carter (membro del “ministero della difesa”) e John Huggins (del “ministero delle informazioni”) e in cui venne ferito Eldridge Cleaver (poi rifugiato in Algeria); l’arresto e il processo, naturalmente con verdetto di classe, sono l’altra via. Il dirigente Huey P. Newton, che è il teorizzatore del gruppo, Bobby Seale e Angela Davis sono fra i nomi più noti incorsi in queste retate.
Risulta che, attualmente, le carceri statunitensi “ospitano” almeno 400 membri delle Pantere Nere. La polizia attacca anche le sedi di partito, come si è verificato durante i preparativi della sezione plenaria di Filadelfia per la “Convenzione costituzionale del popolo rivoluzionario”, o sostiene battaglie scaturite da episodi singoli, come il maltrattamento di un bambino o di un ubriaco, cui ben presto partecipano tutti i membri del quartiere. La guerra aperta è lo stato normale di vita di una comunità che si vede come blocco contrapposto al resto della società.
Al di sopra di ogni differenza, i membri della “comunità” si sentono uniti da una solidarietà effettiva; le Pantere Nere pongono infatti in primo piano l’unità totale del loro gruppo razziale e assumono la direzione anche della più insignificante battaglia, senza arrestarsi – ed è questo un loro punto d’onore – di fronte a scrupoli morali e legali: non esitano a difendere neppure “lo elemento criminale”, visto come risultato di una situazione di disperata oppressione.
Le Pantere Nere si pongono effettivamente come rappresentanti del popolo negro contrapposto al popolo bianco. Qui vi è certamente un limite teorico. Ma quale partito “marxista” ha oggi il coraggio di difendere un “delinquente” comune, un “teppista”, di mostrare i nessi sociali e gli aberranti rapporti di classe che producono questi elementi “asociali”, e le ribellioni individuali che possono trovare un’unica via di salvezza nell’incanalarsi in una spinta di rivolta sociale organizzata? La difesa dell’azione anche individuale degli elementi della loro comunità rappresenta nel contempo il carattere di forza e la debolezza teorica di un movimento che oltrepassa i limiti di classe per riconoscere quelli della comunità razziale.
Il partito delle Pantere Nere non lotta per il negro in quanto proletario oppresso, colpito e anche buttato in un angolo o depauperato in tutti i sensi, per conseguenza più sensibile alla propaganda della rivoluzione sociale, ma per il negro in generale, dando quindi un peso ben maggiore alle differenze etniche che a quelle di classe. La lotta di classe viene riconosciuta come esistente solo nelle singole comunità, quasi come un affare interno ad esse, e se il richiamo è apertamente verso il sottoproletariato negro, del quale si rivendica lo spirito di lotta accanita, ciò avviene perché nel suo stato si vede la condizione generale del negro e perché esso diviene mezzo all’emancipazione della comunità negra al di fuori dell’emancipazione della classe lavoratrice dal capitale, unica condizione per l’emancipazione di tutti gli strati oppressi e il superamento di ogni questione razziale.
La comunità negra è certo, insieme con diverse altre minoranze razziali, la parte della società americana che riunisce in sé gli elementi più sfruttati, peggio trattati, i manovali senza alcun altro attributo che quello di fornire forza lavoro grezza, i senza-lavoro che il “progresso tecnologico” produce e riproduce continuamente, gli elementi ad occupazione saltuaria, “senza dio né morale” gli “asociali” e i “teppisti”, quelli col “cromosoma sbagliato”, “tendenti al crimine”, ecc.; ma non va assolutamente considerata come una comunità a sé, un gruppo indipendente, che può venire separato dall’insieme della società, se no si cade nell’utopia da una parte e in un disegno a dir poco retrogrado dall’altra.
È perfettamente comprensibile che i proletari e i sottoproletari di pelle nera, rimasti isolati in una lotta che solo saltuariamente riceve un appoggio dagli altri lavoratori in un paese in cui avere la pelle bianca equivale a ricevere un trattamento di favore sul posto di lavoro e nella società – un privilegio che in una certa fase (quella della disgregazione degli organismo di classe, politici e economici) si difende anche contro la concorrenza dei compagni della stessa pelle nell’applicazione della legge inumana de la lotta fra uomo e uomo dominante nel mondo del capitalismo – in questa situazione, dicevamo, è perfettamente comprensibile che essi non vedano nei loro compagni di classe bianchi i loro fratelli. Tanto più che lo Stato borghese ha capito da un pezzo che fomentare l’odio razziale significa scongiurare ogni solidarietà di classe capace di scuoterlo nelle sue fondamenta.
Ed è giusto che chi, in una tale situazione, con la scusa dell’assenza politica dei salariati bianchi, conclude che quelli neri devono stare ad “aspettare”, raccolga il più grande disprezzo?
I proletari combattivi, anche in una piccola avanguardia, indipendentemente dal colore della loro pelle, devono muoversi per trascinarsi dietro gli strati indecisi, devono mostrare loro la necessità di organizzarsi per contrastare lo sviluppo stesso del capitalismo, la sua pressione schiacciante sulla classe venditrice di forza lavoro, e per abbatterne il dominio. Che una tale organizzazione, per una serie di circostanze, abbia temporaneamente una maggioranza di salariati neri, non deve cambiare nulla al carattere non razziale dell’organizzazione stessa.
La classe operaia americana, tuttavia, è rimasta per troppo tempo priva della sua guida politica perché possa superare le enormi difficoltà che si frappongono allo sviluppo di un simile processo, senza dover affrontare una lotta durissima non solo contro il capitale, ma per decifrare gli stessi suoi interessi di classe, e sopportare sacrifici dolorosi e tentativi destinati al fallimento. Un prezzo che inevitabilmente dovrà pagare sarà di porsi momentaneamente al seguito di ideologie improprie, non adeguate alla lotta di classe proletaria.
Il movimento delle Pantere Nere risente in modo determinante di questo isolamento tragico; il suo errore è di ritenerlo ormai definitivo. Incapace di giungere per proprio conto alla analisi della situazione attuale, frutto di quella vittoria della controrivoluzione che coinvolge un periodo di vari decenni e una area di estensione mondiale, esso ha cercato un’intesa con il partito comunista ufficiale degli Stati Uniti, totalmente ancorato alle posizioni dello stalinismo, e peggio, giungendo poi inevitabilmente alla rottura per il diversissimo atteggiamento di fronte all’uso della violenza. La ricerca di un contatto con forze più combattive ha quindi portato le Pantere Nere all’incontro con i cosiddetti “maxisti-leninisti”, con a capo da una parte la Cina e dall’altro il “terzo mondo” in genere, che apparentemente si trovano nella stessa condizione di oppressi dal medesimo imperialismo, e che hanno al loro attivo una guerra nazionale contro gli Stati Uniti.
È con questo ibrido apporto – che confonde la lotta di indipendenza (più o meno reale) dal legame con l’imperialismo con quella dell’emancipazione di classe – che le Pantere Nere hanno “arricchito” le loro posizioni precedenti: di qui nasce la teoria che mette sullo stesso piano la lotta dei sottoproletari neri e quella dei popoli coloniali, che stabilisce un nesso fra la metropoli bianca e la colonia nera all’interno dello stesso Stato, dall’altra, concludendone che c’è una “classe operaia della metropoli e c’è una classe operaia della colonia negra”, con interessi propri e divergenti; e che afferma quindi la necessità di organizzazioni distinte e anche contrapposte fino a postulare una vera e propria solidarietà fra gli operai bianchi e la loro classe borghese dominante da un lato, e fra i diversi strati di pelle nera dall’altro. Alla lotta di classe, in breve, si contrappone la lotta delle “comunità” di colore.
La responsabilità di tale atteggiamento viene, per la verità, addossata ai proletari bianchi, “parassiti che vivono alle spalle dell’umanità”, e in parte una tale responsabilità esiste (vista tuttavia con analisi e prospettiva errate): ma non sembra che le Pantere Nere abbiano mai concepito la solidarietà di classe se non in funzione dei propri interessi di comunità, invece di farli confluire in quelli generali della classe operaia. Inoltre, come si è visto, il richiamo esplicito non è alla classe operaia ma al sottoproletariato in genere e negro in particolare: «Siamo lumpen (straccioni) – dichiara orgogliosamente Cleaver (ved. Quaderni Piacentini, Nr. 42, nov. 1970) – Il lumpen-proletariato è costituito da tutte quelle persone che non hanno investito alcun capitale nei mezzi di produzione o nelle istituzioni della società capitalistica; che sono parte perpetuamente in riserva dell’ “esercito industriale di riserva”; che non hanno mai lavorato e che non lavoreranno mai», ecc., ecc.
Il tentativo è di adeguare a questa categoria sociale una teoria e una tattica, cercando nelle ragioni storiche e sociali stesse dell’impotenza politica del sottoproletariato una forza e una via nuove e originali: il sottoproletariato, non avendo la possibilità di boicottare la produzione con uno sciopero, ed essendo costretto alla lotta nelle strade, sarebbe più rivoluzionario, non avrebbe «nessun diretto oppressore eccetto forse la polizia dei pigs con la quale si scontra quotidianamente», e non si capisce che questo significa anche la sua fatale sconfitta.
Ben diverso è il rapporto colonia-metropoli: anche una colonia è in un certo rapporto di dipendenza dal paese imperialista, ma è nello stesso tempo produttrice e fornitrice di alcuni prodotti, in genere materie prime, e in alcuni casi è in grado di svolgere una vera e propria opera di ricatto, mentre spesso è ben disposta a raggiungere accordi con l’imperialismo per lo sfruttamento del proprio proletariato. Non ha quindi la caratteristica, descritta da Cleaver per il sottoproletariato, di essere “tagliata fuori dall’economia”. Tutt’altro! Essa si lamenta di essere tagliata fuori dal commercio mondiale, che è ben altra cosa.
Si può anche notare di passaggio che parimenti errata è l’applicazione della guerriglia come forma di lotta armata: per la colonia essa trova la sua origine nel fatto che la lotta non può essere spinta fino alla distruzione dei rapporti borghesi, ma è solo un modo per esercitare una certa pressione e cambiarne l’indirizzo. Il movimento di classe, al contrario, sappiamo bene che non ha da perdere che le sue catene e perciò si organizza in una vera e propria guerra che lo deve condurre al controllo totale del potere politico (non ammette quindi alcuna autonomia locale al suo interno).
Il punto debole delle Pantere Nere è decisamente la teoria; e la cosa salta agli occhi se si considerano i punti programmatici. Non si tratta nemmeno di un programma politico, ma di punti che dovrebbero servire alla mobilitazione delle masse. La “piattaforma-programma” è dell’ottobre 1966, ma viene rivendicata tale e quale anche oggi, e merita la definizione, nel caso più benevolo, di riformismo tradizionale, appoggiato da una forma di lotta di guerriglia. I dieci punti rivendicano per la comunità negra: libertà, pieno impiego, alloggio decente, educazione adeguata alla propria storia e razza (punto particolarmente retrogrado), esenzione dal servizio militare, cessazione delle persecuzioni poliziesche, libertà ai prigionieri negri, tribunali con giurie negre, plebiscito sotto patrocinio delle Nazioni Unite (sic!) per stabilire la volontà della comunità negra; chiedono infine che si ponga termine alla razzia capitalistica e si tenga fede alla promessa di cento anni fa, cioè il pagamento di 40 acri e 2 mules a titolo di risarcimento del lavoro schiavistico e delle soppressioni in massa (accettato anche in denaro contante!).
Quello che manca è una minima analisi politica ed economica della via per il conseguimento dell’emancipazione (e che cos’è un programma se non la formulazione di tesi che esprimono tali analisi?): vi è solo una seria di richieste allo Stato dominante, concepite come suoi doveri, che potranno anche mobilitare sul terreno della violenza gruppi di sfruttati, ma non possono modificare l’essenza dei rapporti di classe se non sulla carta.
Indicativo, a questo proposito, è che si giunga a scrivere petizioni alle Nazioni Unite che dovrebbero, «in base alla semplice giustizia», svolgere «un’azione universale, comprese sanzioni politiche ed economiche, contro gli USA» colpevoli del reato di genocidio così come è stato definito dalle stesse Nazioni Unite nella Assemblea Generale del 9 dicembre 1948. Si potrebbe pensare ad una pura e semplice, anche se molto ingenua, manovra per rendere “pubblica” la situazione negra, ma la conclusione della piattaforma-programma sintetizzata più sopra dà il giusto fondo “teorico” alla cosa: «tutti gli uomini sono stati creati eguali e dotati dal Creatore di alcuni diritti inalienabili, fra cui la vita, la libertà, il conseguimento della felicità» che comportano i soliti interventi correttivi del “popolo” più o meno sovrano, quando, come del classico pensiero borghese-democratico, sorge il tiranno o i diritti vengono comunque calpestati.
Il movimento che oppone violenza aperta alla violenza mistificata dello Stato democratico e razzista degli Stati Uniti, intende dunque agire nell’ambito stesso di questa società e si riduce a reclamare una certa autonomia per la propria gente. Ammirevole nella sua battaglia a viso aperto, si muove tuttavia su un terreno equivoco e sostanzialmente antistorico.
Proprio questo aspetto, che si ritiene legato alle esperienze degli “eroici” popoli nord‑coreano e vietnamita, è la parte retrograda del movimento ed entra in crisi e contraddizione intrinseca man mano che la lotta di classe si sviluppa e riprende il suo contenuto reale, ponendo come vero suo protagonista il proletariato (non importa in quale pelle!), cioè la classe che sopprime ogni pretesa di autonomia in tutti i campi, da quello della scuola, della “giustizia”, del “servizio militare”, della famiglia, a quello dell’organizzazione politica, economica, statale, perché tutto è fuso, in un unico irresistibile movimento, quello della classe sfruttata nel suo insieme, guidata da un unico partito.
Tuttavia, è indubbio che la esperienza dolorosa dei proletari e sottoproletari negri, limitati in una lotta a sfondo razziale che vede chiusa davanti a sé la via di un reale affrancamento nelle condizioni economiche e sociali date, potrà contribuire con i suoi continui sacrifici di generose forze, gli assassinii perpetrati dai difensori dell’ “ordine”, i processi scandalosamente repressivi e lo stesso razzismo crescente al polo opposto (tutte cose che potranno anche condurre a un lento dissanguamento di energie proletarie), contribuirà ad aprire gli occhi al proletariato bianco e non bianco e a generare un’avanguardia politica che sappia unire nelle sue file tutti i proletari senza discriminazioni di razza. Questo, l’augurio e anche l’omaggio che noi formuliamo per il bene dei negri in coraggiosa battaglia come dei bianchi in torpido sonno!
Quelli che un po’ tutti i commentatori politici hanno concordato nel giudicare come gli episodi di rivolta più gravi dalla fine degli anni Sessanta ad oggi che hanno sconvolto gli Stati Uniti d’America il maggio scorso sono dei veri e propri episodi di collera proletaria.
A Liberty City, ghetto nero di Miami in Florida, una serie montante di scontri fra neri e polizia hanno causato 15 morti e 400 feriti; circa 300 neri sono stati arrestati. La rivolta di Liberty City – veramente il nome ideale per un ghetto! – altro non è che un anello della lunga catena di violenze razziali che periodicamente hanno sconvolto gli Stati Uniti in questo secolo; gli episodi più importanti: St. Louis nel 1919, Detroit nel 1945 ed infine nella seconda metà degli anni Sessanta la maggior parte delle città americane.
Erano proprio state le rivolte degli anni Sessanta ad aprire fra la pseudo-sinistra il “dibattito” sulla questione, come allora veniva definita, afro‑americana. Fiumi di parole scritte, grande “business” editoriale, miriadi di soluzioni faticosamente ponzate in altrettanti dibattiti, ed infine la risoluzione del problema era arrivata grazie al presidente Johnson, autentico maestro nel promuovere macelli in Indocina, e alle sue leggi sui diritti civili, che sancivano la parità del cittadino di colore nei confronti del bianco.
Tutti i sinceri democratici di questo mondo avevano tirato un sospiro di sollievo e, pur con qualche tiratina d’orecchi a questa America un po’ imperialista e un po’ razzista ma sinceramente democratica, ci si compiaceva della capacità peculiare a ogni democrazia di migliorare le condizioni di esistenza di quegli strati popolari momentaneamente esclusi dal godimento del “benessere nazionale”.
Le riforme, ecco la vera soluzione del problema! Oggi, passati più di dieci anni, anche il sociologo più bislacco potrà dire che le condizioni di vita e di lavoro della maggior parte dei neri americani non sono affatto migliorate; noi sosteniamo che addirittura sono peggiorate. Ci confortano in tale affermazione le cifre sulla enorme massa di disoccupati negli Stati Uniti e la certezza che, quando forza lavoro è espulsa dalla produzione, è sempre la parte più debole del proletariato che per prima è messa alla porta, e in America i neri sono certamente fra i meno protetti dall’apparato sindacale e politico. Non stiamo a ricordare le condizioni di estrema povertà e abbruttimento degli abitanti dei ghetti americani, dove i topi scorrazzano liberamente negli alloggi malsani e le bande di giovani disoccupati e sottoproletari si danno la caccia fra loro. SSiSiano o no mistificate con l’appellativo di guerra fra razze, gli episodi di rivolta nei ghetti americani sono autentiche esplosioni di lotta di classe. I sociologi americani, e i marxologhi nostrani gli fanno comunque coro, sono maestri nel ricondurre ogni episodio che turbi l’ordine sociale nell’alveo dello scontro fra etnie o fra gruppi non meglio identificati come “devianti” dal controllo della società; per poi dimostrare come il gioco democratico in definitiva sia capace di sanare tali frizioni, anche se poi è sempre la Guardia Nazionale a sedare le rivolte sparando a vista sui neri.
E i politici, che hanno imparato la lezione dai sociologi e dai fatti, appena le acque si sono calmate si affrettano a riformare le leggi, ma si badi bene, non certo per migliorare le condizioni di esistenza del proletariato nero, ma per pacificare lo stato giuridico della piccola e media borghesia di colore e nello stesso tempo per gratificare il comportamento forcaiolo di quei dirigenti neri che durante le rivolte si sono adoperati “a far sbollire gli animi più accesi” o meglio ancora a indicare alla polizia i capi delle rivolte. Ed in questa tattica, ormai vecchia quanto efficace, del “dividi ed impera” la borghesia americana ha e avrà sempre buon gioco nei confronti del proletariato di colore fino a che il proletariato delle metropoli, senza distinzione di razza, non saprà chiaramente indicare la via storica affinché ogni episodio di rivolta proletaria possa veramente risultare proficuo alla causa del proletariato internazionale.
Purtroppo allo stato attuale delle cose il dominio della società borghese è tale e tanto che non solo il capitale ha saputo mettere in concorrenza operaio con operaio nella singola fabbrica, ma ha anche costretto con la politica delle diversificazioni salariali il proletariato nero a mettersi in concorrenza col bianco. Ed ecco perché il capitalismo a stelle e strisce con tutti i suoi problemi di carattere economico, come le crisi monetarie (produttiva e la disoccupazione) e politiche (come la crisi iraniana e quella afgana) è sempre riuscito, una volta scoppiata la rivolta, a circoscrivere prima e poi spegnere l’incendio della lotta di classe, riproponendo così intatto il suo dominio sul proletariato delle metropoli americane. QQuQuesta divisione spiega l’origine degli errori degli ideologi del cosiddetto “movimento” nero «errori imputabili all’incapacità ad affrancarsi dalla prospettiva del nazionalismo nero, che in alcuni casi prende i connotati di vero e proprio razzismo alla rovescia. Errori di localismo, dovuti all’incapacità ad avere una prospettiva che vada oltre le mura del ghetto, e nello stesso tempo, incapacità a travalicare sia il limite del concetto di democrazia così come quello di integrazione nella società borghese. Ma tutti questi errori sono imputabili al proletariato nero oppure sono dovuti al ritardo storico del proletariato occidentale, che generalmente è di pelle chiara? Che forse qualche altra voce, al di fuori della nostra, purtroppo così lontana e debole, si è levata dal tempo della III Internazionale ad oggi ad indicare la giusta prospettiva al proletariato statunitense tutto?
Certo si ha un bel dire che abbisognerebbe una maggiore collaborazione fra proletariato bianco e nero, quando poi i neri sono in genere perfino esclusi da qualsiasi altra forma di organizzazione sindacale che non sia di colore. I rivoluzionari sanno che solo nel Partito Comunista è possibile infrangere quelle barriere di razza, sesso e classe sociale che sono nello stesso tempo prodotti e produttori del modo di produzione capitalistico. Ma questa sintesi non si ha nella classe per generazione spontanea ma come risultato di prolungate e spesso dure battaglie sul terreno della lotta di classe, e solo a condizione che il Partito Comunista sappia esercitare la propria influenza decisiva in questo processo. Quindi rallegrarsi alla fiammata di collera del giovane e indifeso proletariato nero ma lavorare, anche oscuramente e da lontano, affinché le future rivolte che già da oggi attendiamo possano saldarsi alla ripresa del movimento del proletariato internazionale, nella prospettiva, peculiare a tutti i comunisti, dell’abbattimento del regime capitalistico dell’instaurazione di quella dittatura del proletariato che sola sarà in grado di sanare ogni contraddizione fra nazionalità e razze alla scala dell’intero pianeta.
Dopo la rovinosa caduta del presunto “comunismo russo” l’America è alla ricerca d’un nemico credibile, capace di catalizzare gli umori sempre più neri determinati dalla recessione economica. Ma mentre il bersaglio si sposta ora sul “pericolo giallo”, ora sulla sindrome tedesca (vedi la fuga di notizie sulle ipotesi di guerra messe a punto dal Pentagono), “il piccolo segreto sporco” dell’America, come lo chiama il settimanale “Time”, e cioè la lotta di classe, viene evocato apertamente nelle elezioni primarie.
Messaggi e programmi dei candidati sia democratici sia repubblicani hanno uno specifico richiamo classista. Ma di quali classi si parla esattamente, quali sono le classi che vengono citate dai grigi democratici e da Superbush, alquanto ridimensionato dai bollettini di guerra che provengono dal sottosuolo economico e sociale?
Grande protagonista delle primarie è la middle class, la classe media che sta perdendo terreno sul piano dei numeri e dei redditi, corteggiata da tutti perché ineguagliabile serbatoio di voti. Ma ricompare anche la working class, la classe lavoratrice identificata con una espressione abbandonata da anni a favore di quella più neutrale di working people, perché la prima puzzava troppo di marxismo, dunque di comunismo, dunque di impero del male, dunque di slealtà verso tutto ciò che l’America rappresenta, dunque unamerican.
Così riferisce da New York il corrispondente del Corriere della Sera.
Ma come, ora che il comunismo non c’è più, si va a riscoprire la peste? Il fatto è che la “gente”, the people, come si preferisce dire per lenire con le parole il troppo crudo linguaggio delle classi, riconosce ormai che «è proprio vero che i ricchi stanno diventando più ricchi e i poveri più poveri».
È proprio quello che “la peste” ha contagiosamente rivelato dal Manifesto dei Comunisti ad oggi. Che sia l’America della già “affluent society”, della “big society”, dell’edonismo reganiano, a riscoprire la lotta di classe?
Il marxismo non solo non lo ha mai escluso, ma lo ha profeticamente affermato quando con la chiusura forzata della I Internazionale, decise di spostare simbolicamente la sua sede a New York. IIlIl “sogno americano” dura già da troppo tempo, ogni tanto però turbato da terribili incubi, tipo grande crisi del 1929, crisi del 1941, del 1973, fino a quella attuale, riconosciuta come la più grave degli ultimi 40 anni.
È vero, le classi ci sono sempre state, ma esse appaiono più vere quando le cose vanno male. Puntualmente, come abbiamo sempre sostenuto, la crisi economica ciclica colpisce la classe proletaria, ma è anche macello delle mezze classi che “noi sentitamente disprezziamo”. Esse si lamentano infatti che “gli americani non sono tutti eguali e con le stesse opportunità, che il governo non fa l’arbitro neutrale, e che chi ha governato negli ultimi 12 anni ha fatto soprattutto gli interessi dei ricchi».
Ben gli sta, diciamo noi, perché lo diciamo da almeno 140 anni; ma appena i fatti, i “merdosi fatti” tanto cari al pragmatismo delle mezze classi lo mettono a nudo, allora non lo abbiamo mai detto, o al massimo siamo stati degli insopportabili menagrami.
Le classi medie, incapaci d’un orientamento politico omogeneo, di classe, appunto, oscillano tra il grande Capitale (rappresentato dal partito dei ricchi, dei protestanti) e la pressione proletaria che purtroppo in America non conosce la vera tradizione di classe, nel senso europeo della parola, a causa della peculiare storia dell’area americana. Ciò non toglie, al di là della mancanza d’una genuina tradizione comunista in America, che le mezze classi sono il termometro della crisi, e la stanno rivelando in tutta la sua drammaticità. Non c’è da illudersi che esse siano capaci di far fronte alla profonda crisi del capitale made in USA; i due grandi partiti, nel loro stuccoso gioco delle parti, stanno dando fondo a tutta la loro fegatosa demagogia, producendo i classici fenomeni della polarizzazione di destra, tipo neo‑nazismo alla ku‑klux‑klan, e dei reverendi neri a sinistra. Ma la peste, col suo contagio, non guarda al colore della pelle, non fa discriminazioni di sesso e di religione:
Il dato “rivoluzionario” in America consiste nel fatto che il tasso di profitto punta verso il basso e costringe il paese del grande capitale a far leva sulla sua prepotenza militare per supplire alle oggettive difficoltà strutturali.
L’America si pone così come gendarme del mondo, minacciando più o meno scopertamente l’Europa “germanica” ed il Giappone dell’interminabile miracolo economico. I due ex‑nemici, dati per spacciati dopo il secondo conflitto mondiale, si dimostrano più vitali dell’intatta America, proprio secondo le valutazioni del partito di classe e della Rivoluzione comunista.
Che il contagio si propaghi fino a superare il vallo atlantico, fino a ricongiungersi alla grande tradizione comunista europea, per l’unità della “working class” di tutti i continenti.
Più di 50 i morti, centinaia i feriti, parecchie migliaia gli arrestati nella feroce repressione che ha visto l’impiego di ben 13 mila uomini tra Polizia, Guardia nazionale ed Esercito, con impiego di armi pesanti, mezzi corazzati, aviazione.
I soldati reduci da Panama e dal Medio Oriente si sono trovati a fare i cani da guardia in casa propria; un giornale inglese, l’Observer, ha scritto in prima pagina «La superpotenza rioccupa una città sventrata».
Il motivo scatenante è stata la sfacciata assoluzione dei poliziotti che qualche mese prima avevano massacrato di botte un operaio nero, ma le vere cause dell’esplosione di rabbia, come ha riconosciuto anche la scandalizzata stampe borghese, sono da ricercare nella miseria, nella disperazione in cui vive la popolazione dei ghetti.
Quando, quasi trent’anni fa, scoppiò la rivolta nera di Watts la disoccupazione in quel quartiere era del 15%, oggi nell’intero South Central Los Angeles, un’area di circa 90 chilometri quadrati dove si accalcano mezzo milione di negri e latino americani, essa raggiunge il 40%. Sui 9 milioni di abitanti di Los Angeles ben 1.336.000 sono iscritti nelle liste di indigenza, un abitante su 7 ha un reddito al di sotto del livello di povertà.
E Los Angeles non è un’eccezione negli USA, dove l’85% della popolazione vive ormai in grandi agglomerati urbani: secondo le statistiche ufficiali ben 36 milioni di americani, il 14,7% della popolazione del paese che domina il mondo, uno su sette appunto, sono poveri.
La povertà non è questione di razza, infatti se è vero che in percentuale sono i negri a crepare più spesso di fame (il 32%), è povero anche il 10,7% dei bianchi ed in numero assoluto i negri poveri sono 9 milioni contro 21 milioni di bianchi e 6 milioni tra ispanici ed altri. Tutte le statistiche sulla povertà concordano che questa è in crescita e che cresce continuamente il divario tre i ricchi, sempre più ricchi, ed i poveri, sempre più poveri e sempre più numerosi.
L’analisi sociologica non aiuta molto di più, aiuta invece un’analisi dei rapporti tra le classi. I “poveri” non costituiscono una classe, spesso si identificano col sottoproletario. Esistono borghesi più poveri di proletari. La borghesia sa che le rivolte della povertà non possono avere in sé alcuno sbocco e, nei momenti di crisi, lascia che il problema sia risolto con la repressione. La questione cambia se i poveri sono anche proletari che lavorano ma il cui salario non è sufficiente per vivere, se sono disoccupati ancora legati ai loro compagni rimasti al lavoro e quindi ancora organizzabili sul piano sindacale e politico.
Dal 1898 negli Stati Uniti sono scomparsi quasi tre milioni di posti di lavoro nel settore manifatturiero, quello che pagando buoni salari e richiedendo una modesta preparazione professionale ed intellettuale, occupava una manodopera generica spesso composta da negri o ispanici. Durante gli anni ‘80 c’è stata una spettacolare crescita di operai retribuiti col minimo del salario: «Nel 1964 gli americani in questa categoria erano 11,2 milioni ma negli anni successivi erano scesi a 6,6 milioni e si erano stabilizzati intorno a quella cifra fino ai tempi di Reagan quando gli uomini e le donne con compensi di soli 12.000 dollari all’anno sono aumentati ininterrottamente fino a raggiungere i 14,4 milioni» (Il Sole 24 ore, 20 maggio).
D’altronde il salario minimo non è stato elevato una sola volta tra il 1981 e il 1989 ed oggi non rappresenta «che il 25% del salario medio dell’industria contro il 50% di trent’anni fa» da Le Monde Diplomatique, giugno 1992).
Anche il salario settimanale reale è dal 1973 che è in continua, anche se lenta, discesa: nel 1973 era pari a 327,45 (in dollari del 1982‑84), nel 1982 era sceso a 276,95 e nel 1990 è arrivato a 274,76 con una diminuzione del 19,1% rispetto al 1973.
Se esiste dunque il problema di una povertà crescente che riguarda non solo gli Stati Uniti ma tutti i paesi capitalistici, risulta sempre più chiaro che negli ultimi anni c’è stato in tutti questi paesi, un attacco diretto alle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia che è risultato più massiccio nei paesi che sono stati più colpiti dalla crisi economica. Sono stati gli operai finora a pagare la crisi del sistema capitalistico statunitense e per essi “il sogno americano” è finito dal 1973.
Fino ad allora essi avevano goduto di tutti î privilegi derivanti dall’essere schiavi della borghesia più potente del mondo ed hanno costituito quella “aristocrazia operaia” che ha sorretto il regime e perfino le sue guerre imperialiste; adesso però la discesa delle loro condizioni di vita iniziata lentamente vent’anni fa, si fa sempre più veloce ed i privilegi svaniscano con la disoccupazione che cresce e i salari che diminuiscono ogni giorno mentre sale lo sfruttamento; infatti se fino a qualche anno fa la borghesia riusciva a scaricare il peso della crisi soprattutto sui negri, sugli ispanici sugli immigrati cercando di camuffare il problema di classe sotto quello razziale, adesso questo gioco non è più possibile e le condizioni di tutti i proletari vanno sempre più unificandosi al livello peggiore.
D’altronde l’ottenimento da parte della minoranza negra dei diritti civili ha permesso in pochi anni di mostrare che cosa si celava sotto la questione razziale: la borghesia negra ha potuto arricchirsi e prendere il suo posto accanto a quella bianca mentre il proletariato negro è rimasto a svolgere i lavori peggiori, peggio pagati e a vivere nei ghetti. Su queste basi materiali noi fondiamo la nostra speranza ed il nostro augurio che dalle rivolte della fame e della disperazione che si esauriscono senza lasciare traccia si passi finalmente all’ORGANIZZAZIONE della lotta per la distruzione del regime capitalistico e del suo Stato. Noi auspichiamo che le minoranze operaie più coscienti inizino un lavoro metodico, costante, di riorganizzazione del proletariato in organismi economici per la difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, indipendentemente dalla sua razza, dalla sua religione e del colore della sua pelle.
Noi auspichiamo che all’odio verso una società sempre più ingiusta, sempre più violenta ed oppressiva rinascano i primi nuclei del Partito sulle basi del classico programma comunista rivoluzionario, aperto a tutti gli individui che vogliono dedicare la loro esistenza allo scopo esaltante della dittatura proletaria, del comunismo.