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I comunisti non hanno da schierarsi nella contesa interna alla borghesia venezuelana
Legalitarismo pro e contro l’Assemblea Costituente
Come abbiamo già affermato più volte, in Venezuela non si è mai avuta alcuna rivoluzione, e meno che mai di orientamento socialista. Il governo Chavez e il chavismo hanno rappresentato e rappresentano la continuità della borghesia al potere. Con Chavez, Maduro e con i vari gruppi e partiti che si raggruppano nella cosiddetta “rivoluzione bolivariana” e del “socialismo del XXI secolo”, la borghesia ha dato continuità alla propria dittatura di classe, che si presenta come una democrazia parlamentare, cioè borghese, che i chavisti chiamano “partecipativa e protagonista”.
La nascita del chavismo come nuovo movimento politico, che arrivò al governo nel 1999, ha permesso alla borghesia di rinsaldare il controllo politico sulle masse, dopo il logoramento sofferto dai partiti AD, COPEI, MEP, CAUSA R, MAS, PCV e altri, a causa della crisi capitalistica degli anni ’80 e ’90 del secolo passato.
Il chavismo, una volta giunto al governo, di fronte a una situazione di diffusa agitazione sociale e alla maturazione di forti aspettative di un qualche miglioramento nelle classi inferiori, le deviò sul falso obbiettivo della convocazione di una Assemblea Costituente che avrebbe “rifondato la patria” e “completata la democrazia”.
La Costituzione approvata con referendum popolare nel 1999 consentì un maggiore controllo politico ed organizzativo sulla società. Il chavismo iniziava a spostare il baricentro del potere da quei settori imprenditoriali, politici, militari e religiosi che costituivano la vecchia cupola che amministrava gli interessi della borghesia, a beneficio di un nuovo strato sociale, legato a settori della criminalità, come il narcotraffico internazionale, il quale assumeva il controllo del governo e delle istituzioni dello Stato, attribuiva un crescente ruolo ai militari nella gestione della cosa pubblica, e assicurava così la continuità al potere borghese.
Questa nuova forza politica guidata da Chavez, in falsa alternativa a quella dei borghesi, faceva assegnamento sul sostegno dell’opportunismo internazionale, organizzato attorno al regime cubano e al Forum di San Paolo.
Le masse salariate del Venezuela, al di là di episodi sporadici e isolati, non hanno avanzato rivendicazioni proletarie di classe, né prima né dopo l’avvento del chavismo. In ogni momento la borghesia ha esercitato un controllo politico sulle masse e sulle loro organizzazioni.
I cicli sfavorevoli della crisi capitalistica hanno portato chiusure di aziende, disoccupazione, accelerazione della caduta dei salari, e sono accompagnati dalla penuria di alimenti e medicine, che aggrava la tragedia della fame e provocano il rinfocolarsi di malattie già sradicate o controllate.
In questi frangenti si è talvolta fatta avanti la piccola borghesia, cercando di resistere alla sua proletarizzazione, e ha dato voce alle sue tipiche rivendicazioni con un sonoro frasario “radicale”, essenzialmente nazional-democratico, di difesa della produzione nazionale, di freno ai monopoli e alle multinazionali e ad altre parole d’ordine controrivoluzionarie che hanno caratterizzato quei movimenti che in tutto il mondo si autoproclamano di sinistra o addirittura comunisti, ma che non vanno al di là della richiesta di un cambio della guardia.
Come prevedibile oggi, dopo alcuni anni di ripresa economica, pagata con l’aumento del prezzo del petrolio, il Venezuela è precipitato in una nuova crisi, che sottomette la classe salariata a un drammatico deterioramento delle proprie condizioni.
Ma dal 1999 anche le contraddizioni in seno alla borghesia sono state foriere di scontri fra il governo chavista e i suoi oppositori. Nella lotta per il controllo del potere entrambi i fronti borghesi hanno manovrato per sfruttare a proprio vantaggio il crescente malcontento del proletariato. E le masse salariate, non potendo contare su un chiaro punto di riferimento rivoluzionario o soltanto di classe, si sono accodate a uno o all’altro degli schieramenti, così allontanandosi dalla lotta per i propri interessi.
Diversivo e demagogia
L’attuale convocazione di una Assemblea Nazionale Costituente (ANC) è una nuova manovra tattica del chavismo in risposta alla mobilitazione del fronte borghese di opposizione, che chiede la caduta del governo e l’anticipo delle elezioni presidenziali. Le elezioni dei membri della ANC si sono svolte il 30 luglio e ora questi si apprestano a riformare la Costituzione.
Le manovre e i tatticismi di entrambi i fronti sono assurti ad un certo punto a contrapposizione fra poteri istituzionali. Prima, dal 2015, lo scontro con l’Assemblea Nazionale, il Parlamento, controllata dall’opposizione; più recentemente con la Procura del “Pubblico Ministero”, detto anche “Potere Civico”, la quale ha rotto col chavismo e ha offerto spazi politici all’opposizione. Il chavismo cerca di ristabilire il proprio controllo centralizzando il potere nella Assemblea Nazionale Costituente, che si collocherebbe a potere supremo, al di sopra delle altre istituzioni e specificatamente di quelle controllate dall’opposizione. Dunque il chavismo promuove la ANC non solo come organo che riformerà la Costituzione ma come organo di governo. Siccome l’opposizione ha deciso di astenersi dalla partecipazione a queste elezioni, la ANC è pienamente controllata dal chavismo.
In questo scontro fra schieramenti borghesi per il controllo del potere, il chavismo utilizza la ANC come un’istanza governativa al di sopra degli altri poteri, esecutivo, legislativo, giudiziario, elettorale e amministrativo. Si starebbe così concretizzando una sorta di colpo di Stato costituzionale. La democrazia comprende anche questi scenari!
Entrambi i fronti borghesi sviluppano le proprie strategie mediatiche, stringono alleanze e cercano sostegni internazionali.
Ciò implica, come accade spesso, che questa contraddizione interna alla borghesia si presenti anche sotto la forma di una contraddizione interimperialista. Il governo nordamericano appoggia l’opposizione politica venezuelana. Trump ha annunciato misure di rappresaglia contro i funzionari del governo venezuelano, ma senza toccare aspetti economici fondamentali, giacché in ultima analisi il governo chavista gli garantisce comunque le forniture costanti di petrolio, un settore economico alla base dell’interdipendenza fra i due paesi.
Alcune componenti politiche tendono a confluire nella proposta di un “governo di centro”, con la confluenza fra “chavisti critici” e “oppositori moderati” e rifiutano la convocazione delle elezioni per la ANC.
A causa della posizione astensionista dell’opposizione di fronte all’ANC, sembra non vi sia spazio per un accordo fra le due parti. Tuttavia trattative sono in corso e una delle dimostrazioni di questo si è avuta nella decisione di concedere gli arresti domiciliari a Leopoldo Lopez.
Negli ultimi tre anni gli spazi per il negoziato sono stati il “Tavolo di dialogo per la pace”, il Consiglio Nazionale dell’Economia e altri colloqui che si sono avvalsi della mediazione della Chiesa o di presidenti di altri paesi. Nel Consiglio Nazionale dell’Economia il governo ha raggiunto accordi con gli imprenditori per adottare misure economiche. Adesso si tratta però di arrivare ad accordi politici che permettano al chavismo di prendere tempo per arrivare alle elezioni presidenziali del 2018.
La borghesia quindi dispone di due differenti opzioni per governare e gestire la crisi economica e politica: con il chavismo e con la ANC, che cerca convalida dai prossimi processi elettorali, oppure affidando il governo a elementi dell’opposizione. Questo potrebbe avvenire sia se l’opposizione vincesse le elezioni, anticipate o meno, sia se il presidente rassegnasse le dimissioni aprendo la strada a un “governo di unità nazionale”.
Tanto per il chavismo, quanto per l’opposizione, questo scontro offre l’opportunità di allontanare le masse salariate da qualsiasi lotta per le rivendicazioni di classe: aumenti di salario, riduzione della giornata di lavoro, riduzione dell’età pensionabile, servizi sociali, mense, asili nido e sanità, di cui i lavoratori hanno bisogno, ed in particolare le donne lavoratrici.
La distrazione dei lavoratori verso l’ANC viene favorita dal sindacalismo di regime che non ha esitato a presentare candidati e a convocare riunioni per “far emergere” le “proposte dei lavoratori”, nascondendo che l’ANC è un’alternativa demagogica e ingannevole che solo a parole offre soluzioni ai problemi che affliggono i proletari, portato della crisi capitalistica mondiale. E questa crisi non ha alcuna soluzione di carattere costituzionale o legislativo.
I due fronti borghesi e il loro codazzo di frazioni piccolo-borghesi, convergono sulla necessità di difendere l’economia nazionale e la produttività delle imprese. Il chavismo afferma che la Costituente deve favorire lo sviluppo delle produzioni, e l’opposizione risponde che non c’è bisogno dell’ANC per perseguire lo stesso obbiettivo. Entrambi i fronti convergono nel fare appello ai lavoratori affinché si sottomettano al supersfruttamento per “uscire dalla crisi”. Il chavismo distrae i salariati chiamandoli a votare per la Costituente, l’opposizione li distrae chiamandoli ad astenersi dalla Costituente. Ma entrambi non danno alcun cenno, anche simulato, di mobilitazione per le rivendicazioni operaie.
Per i lavoratori salariati non c’è possibilità di liberarsi dalle loro sofferenze: se in Venezuela, come nel resto del mondo, la crisi capitalistica si acutizzerà, il che è quanto di più probabile, aumenterà la disoccupazione e il salario reale continuerà a cadere; se invece l’economia nazionale andasse verso una ripresa, le principali aziende cercheranno di recuperare profitto aumentando la produttività, sottoponendo la classe operaia a un più alto sfruttamento mantenendo il più elevato tasso di disoccupazione possibile.
A tutto ciò solo la ripresa della lotta operaia per obiettivi immediati di classe, in organismi sindacali di classe, può porre un argine e instradarla verso l’unica soluzione alla crisi capitalistica, la rivoluzione proletaria, che certo nessuno dei fronti che si disputano il controllo dello Stato in Venezuela vuole.
Sono entrambi una garanzia del conformismo e della conservazione dell’attuale regime e delle sue condizioni di sfruttamento del lavoro salariato, di difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione e del prodotto del lavoro associato. Qualsiasi riforma populista che provenga dalle consorterie borghesi non cambierà il modo di produzione né interesserà la generazione e l’appropriazione del plusvalore.
Manovrette elettorali
L’opposizione, da parte sua, ha convocato, con l’appoggio dei suoi alleati internazionali, un Plebiscito, che ha chiamato “Consultazione Popolare”, in una data precedente all’elezione della ANC, con l’intenzione di dimostrare la sfiducia della popolazione nei confronti del governo e della ANC e per arrivare alla sospensione delle elezioni per la ANC. Il chavismo ha reagito convocando per la stessa data, il 16 luglio, una consultazione per approvare le elezioni della Costituente. Così il 16 luglio il governo è riuscito a sbarrare il passo agli oppositori con la partecipazione massiccia dei suoi sostenitori. Dall’altro canto anche l’opposizione ha rivendicato un’alta affluenza al suo voto.
Il governo non ha fatto alcuna marcia indietro e le elezioni della ANC si sono svolte come previsto il 30 luglio.
Ma nei giorni precedenti il presidente Maduro ha riconosciuto che fra governo ed opposizione vi erano state delle trattative segrete, costretto a renderlo pubblico a causa della “svista” dall’ex premier spagnolo José Luis Zapatero, che ne aveva parlato con i media. Così sono state immediatamente indette per il 10 dicembre le elezioni dei governatori e dei sindaci, la cui convocazione era uno dei punti oggetto di trattativa fra le parti.
Il 4 agosto si è quindi insediata la ANC che ha subito eletto la propria direzione composta da noti rappresentanti del chavismo. Il 5 agosto l’ANC ha assunto la decisione di destituire la Procuratrice Generale della Repubblica e contemporaneamente un alto dirigente chavista è stato designato “Difensore del popolo”. La ANC ha stabilito inoltre che la durata massima del proprio mandato non sarà di sei mesi ma di due anni. Con questo il chavismo ha fatto capire chiaramente che intende schiacciare l’insubordinazione dell’Assemblea Nazionale e della Procura Generale.
La minaccia Usa conflitto fra Stati capitalisti
L’ipotesi di un intervento militare degli Stati Uniti in Venezuela, per “ristabilire la democrazia”, è stato evocato da entrambi i fronti borghesi, uno per chiederlo esplicitamente, l’altro per respingerlo. Però un’azione di questa ampiezza passa attraverso la valutazione del quadro internazionale generale in quanto sia la Russia sia la Cina, oltre ad altre potenze, hanno interessi da difendere in Venezuela. Gli Stati Uniti finora hanno annunciato insignificanti sanzioni, dovendo tenere in considerazione che il Venezuela è un importante fornitore di petrolio e che un boicottaggio della principale industria del paese avrebbe un impatto negativo anche sull’economia statunitense.
I mezzi di comunicazione hanno divulgato l’annuncio del presidente statunitense Donald Trump secondo il quale gli Stati Uniti non scarterebbero la possibilità di un intervento militare contro il Venezuela. Con minore eco è circolata anche la dichiarazione del Pentagono il quale ha affermato di «non avere ricevuto alcun ordine relativo al Venezuela». Ciò fa pensare che non necessariamente la minaccia di Trump potrà avere un effetto pratico, almeno per adesso, ma che si tratti soltanto di una strategia mediatica nella contesa imperialistica.
La Russia si è pronunciata contro le minacce del governo degli Stati Uniti e ha denunciato il loro finanziamento ai gruppi violenti di oppositori al governo Maduro.
Di fronte a questa situazione di tensione e scontro fra i governi di Stati Uniti e Venezuela, il proletariato venezuelano e internazionale deve avere chiara la corretta posizione rivoluzionaria e anticapitalista che occorre assumere.
1. Le minacce degli Stati Uniti contro il governo venezuelano si inseriscono nello scacchiere internazionale guidato dalle grandi potenze le quali, nella ricerca di un’uscita dalla crisi determinata dalla caduta del tasso del profitto e del collasso dei mercati, si incamminano verso una terza guerra mondiale, che permetterebbe di ringiovanire il capitalismo attraverso la distruzione di capitali e infrastrutture, merci e vite umane in eccesso. La tensione fra i governi di Stati Uniti e Venezuela si aggiunge allo scontro fra USA e Corea del Nord e alla contrapposizione interimperialistica in Siria e in Ucraina. I blocchi e le alleanze imperialistiche vanno configurando i possibili fronti che si scontreranno in una possibile terza guerra mondiale. Le loro motivazioni, dietro i discorsi di demagogica propaganda, non sono che il controllo dei mercati e l’approvvigionamento delle materie prime.
2. Entrambi i borghesi governi “aggressori” e quelli “aggrediti” pronunciano le stesse parole di “difesa della patria”, di “sovranità” e di “diritti umani”. Il proletariato deve capire che la “difesa della patria” si traduce nella difesa dell’economia nazionale, la quale si basa sullo sfruttamento del lavoro salariato, e che la difesa del mercato e della produzione presuppongono l’appropriazione privata dei prodotti del lavoro sociale. “Abbiamo una Patria” grida il chavismo in Venezuela, “abbiamo una Patria” grida in coro la borghesia internazionale, perché la patria è lo spazio in cui il capitalismo compie il suo ciclo di estrazione del plusvalore. Il proletariato non ha e non vuole avere una patria. La patria è il capitalismo e lo sfruttamento del lavoro salariato. Per questo i lavoratori devono scontrarsi ugualmente con tutti i governi, siano essi aggrediti o aggressori. Il proletariato deve avanzare parole d’ordine anticapitaliste in opposizione al governo di ogni paese, senza lasciarsi ricattare dalla minaccia di una invasione straniera.
3. Il ricatto e la minaccia di guerra non devono fermare le lotte rivendicative. In Venezuela i lavoratori devono allontanarsi da entrambi i fronti borghesi, che si scontrano per il controllo del potere, e devono incamminarsi verso l’organizzazione e la lotta per aumenti salariali, la riduzione dell’orario di lavoro, la riduzione dell’età pensionabile e altre loro rivendicazioni, dando impulso ai sindacati di classe, senza compromessi con i padroni, con il governo e loro alleati, dando vita a scioperi a oltranza e senza assoggettarsi alle imposizioni ricattatorie della “garanzia dei servizi minimi”.
4. I governi borghesi dei paesi aggrediti utilizzano la minaccia militare per alimentare i discorsi patriottici, guadagnarsi il consenso popolare ed allontanare i lavoratori dalla lotta per i loro veri interessi. A questa manovra reazionaria si uniscono i sindacati di regime.
5. La penetrazione dei capitali di Cina, Russia, India e Iran nel grande affare del petrolio venezuelano obbliga gli Stati Uniti a reagire per conservare la propria quota di mercato. La politica del governo venezuelano per un “mondo multipolare” si riduce alla ripartizione della sua rendita petrolifera fra le diverse potenze imperialiste e fra alcuni paesi con i quali ha stabilito alleanze politiche, fra cui Cuba. A livello interno si ha una ripartizione della rendita petrolifera che vede la partecipazione, oltre a diversi gruppi capitalistici locali, dei militari tramite una loro azienda per il commercio del petrolio e del gas.
Con la Cina vige uno schema di finanziamento secondo il quale il Venezuela fornisce petrolio, arricchendo sia impresari cinesi sia le mafie corrotte legate al governo chavista. Gli Stati Uniti tentano di ridurre le importazioni di petrolio venezuelano, ma questo danneggerebbe le raffinerie nordamericane costruite proprio per trattare il petrolio pesante con le caratteristiche di quello venezuelano. Pertanto gli Stati Uniti difenderanno il loro accesso e il loro controllo sulle riserve più grandi del mondo, ubicate in Venezuela, per un insieme di vantaggi geopolitici, militari e logistici. Tutto ciò fa del Venezuela uno dei teatri della contesa interimperialista.
6. In Venezuela quindi non è in corso uno scontro fra socialismo e capitalismo, come vogliono far credere i fronti borghesi e imperialisti in lotta fra loro e l’intero apparato mediatico internazionale. I lavoratori salariati sono chiamati a riannodare le file della lotta di classe e presentarsi di fronte alla società, insieme al loro partito, come un’unica classe rivoluzionaria capace di salvare il pianeta dalla distruzione alla quale lo conduce inesorabilmente il modo di produzione capitalistico.
Un programma per la lotta di classe
L’Assemblea Nazionale Costituente non porterà nessuna soluzione alla crisi capitalista e non andrà oltre ad alcune misure populiste e demagogiche finalizzate a placare il malcontento delle masse salariate.
I due fronti borghesi utilizzeranno lo strumento elettorale, regionali e presidenziale, come mezzo per ripartirsi le quote di potere e come valvola di sfogo al malcontento sociale.
Le velleitarie azione violente di qualche oppositore saranno pretesto per la repressione di qualsiasi movimento o protesta di operai per loro rivendicazioni. Un altro pretesto per la repressione dei lavoratori saranno le campagne mediatiche sulle minacce di invasione straniera che permetteranno al governo borghese di adottare un’ulteriore militarizzazione della vita sociale, tacciando qualsiasi protesta come antinazionale.
Non mancheranno gruppi autoproclamatisi di sinistra che da entrambi i fronti si presenteranno ai lavoratori come opzioni di ricambio: da quello chavista PSUV e i suoi alleati; dall’opposizione il MUD, Primero Justicia, AD, Voluntad Popular, ecc. I lavoratori devono rifiutare queste finte alternative che finiscono inevitabilmente per appellarsi alla “difesa della patria”, alla “ripresa dell’economia nazionale e dell’industria petrolifera”, “all’eredità di Chavez”, alle “proposte classiste” nell’ANC e a qualsiasi altra rivendicazione antiproletaria e controrivoluzionaria.
Fino ad oggi i lavoratori salariati presentano disorganizzazione e incapacità di iniziativa. Questo aspetto è in gran parte il risultato del lavoro dei sindacati di regime.
Questa situazione di smobilitazione rivendicativa viene rafforzata dall’azione congiunta dei padroni e del governo, che hanno represso qualsiasi tentativo di organizzazione e di azione sindacale di classe.
I tentativi di alcuni gruppi di lavoratori e sindacati di fabbrica di organizzarsi indipendentemente dai fronti borghesi in lotta, di far proprie le rivendicazioni immediate dei salariati e di assumere i metodi della lotta di classe sono stati immediatamente e duramente repressi dai padroni e dal governo, utilizzando come pretesto le accuse di terrorismo e di cospirazione antinazionale minacciando l’arresto dei dirigenti operai e la loro consegna ai tribunali militari.
Questo rende difficile la nascita di sindacati e di ogni organizzazione classista.
Tuttavia sono sempre presenti, e con l’avanzare della crisi capitalistica si faranno più aspri, i meccanismi economici e sociali alla base della contraddizione fra capitale e lavoro i quali determineranno il riannodarsi della lotta di classe.
Ogni lotta rivendicativa tenderà rapidamente a trasformarsi in una lotta politica contro la borghesia, purché abbia presa fra i lavoratori l’azione di propaganda e di organizzazione del partito comunista.
Il fattore chiave sarà il partito rivoluzionario, chiamato, oltre che a introdurre la coscienza nel seno della classe operaia, a promuovere la formazione di sindacati di classe, l’organizzazione di base dei lavoratori, e a incanalarne le lotte fino a farle confluire nell’urto finale con la borghesia, per la presa del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato, per l’attuazione del programma comunista che segnerà la soluzione rivoluzionaria alla crisi del capitale.
Anche in Francia l’attacco come ovunque contro la classe operaia
In tutti i vecchi paesi imperialisti, la crisi del capitalismo obbliga la borghesia ad attaccare il proletariato. Ovunque le sue lamentele sono le stesse – costo del lavoro troppo elevato, mercato del lavoro poco flessibile, troppe tasse sulle imprese, necessità di sussidi di disoccupazione, costringere i lavoratori ad accettare qualsiasi condizione salariale e di lavoro, portare l’età di pensione a 67 anni e perché no a 70 come in Portogallo e presto sarà in Italia.
Il modello è la Germania dove la coalizione di governo Spd‑Vert di Schröder, ha imposto le riforme più radicali, tanto che oggi il 25% della forza lavoro è precaria e impoverita, contro il 15‑20% negli altri paesi europei, ma ben il 30% in Giappone e.
La borghesia francese, benché in ritardo, non si è certo fermata. Progressivamente ha modificato il Codice del Lavoro, con l’appoggio dei sindacati collaborazionisti, adattandolo ai bisogni del capitale.
L’avvio l’ha dato nel 2000 il governo “di sinistra” Jospin con la legge sulle 35 ore che, in cambio, ha permesso grande flessibilità sugli orari: è divenuto possibile aumentare l’orario senza pagare gli straordinari, e diminuirlo quando le attività calano, recuperando le ore lavorate in più nei mesi precedenti. A questo si aggiunge la forte estensione dell’accessibilità ai contratti a termine, mantenendo una disoccupazione strutturale che pesa sui salariati e ricorrendo in modo massiccio alla mano d’opera straniera a basso costo.
Tuttavia, per resistere alla competizione internazionale sempre più aggressiva, queste misure non sono sufficienti. Non è certo la prima volta che, davanti alla mobilitazione dei lavoratori, la borghesia e i suoi governi hanno dovuto fare un passo indietro. Possiamo ricordare il grande sciopero dei ferrovieri del 1986 e il movimento contro il Contratto di Primo Impiego (CPE) del gennaio-marzo 2006.
Ciononostante i diversi governi successivi, con la complicità dei sindacati, sono riusciti ad imporre un numero di misure, tra le quali le più pesanti sono state quelle di portare l’età di pensionamento a 62 anni, con la promessa di portarla a 67, e la legge El Khomri che già attaccava a fondo il Codice del Lavoro.
Le nuove misure vanno a completare questa riforma: facilitare i licenziamenti e ridurne il costo; estendere la contrattazione aziendale a spese della categoriale; riduzione della durata delle indennità di disoccupazione e del loro ammontare, con l’obbligo di accettare qualunque lavoro alla seconda proposta; infine portare l’età della pensione a 67 anni.
L’insieme di queste misure, se serviranno a rendere più competitiva l’industria francese, e dunque a permettere maggiori profitti per il capitale, sarà una sciagura per la classe operaia.
Negli ultimi due anni si è avuta una leggera ripresa delle produzioni, ma presto arriverà una nuova recessione, allora queste misure renderanno più facili i licenziamenti, con l’esplodere del numero dei disoccupati. Questo porterà a scioperi e lotte sociali e probabilmente a scioperi generali.
Noi saremo lì partecipando attivamente a queste lotte e contribuiremo alla loro unificazione.
Per la manifestazione del 12 settembre a Parigi contro la 2ª legge sul Lavoro
Come rendere i lavoratori sfruttabili a piacere nel come quando e quanto
La seconda “riforma del Lavoro” in Francia è la continuazione della prima, la legge EL‑Khomri, spinge ancora di più verso la precarietà e la sottomissione dei lavoratori
Perché un tale accanimento? Semplicemente perché il capitalismo mondiale è in crisi. La stessa crisi che scatena la guerra commerciale tra i diversi capitalismi. Per resistere a questa concorrenza accanita, tutte le borghesie nazionali, francese, tedesca, italiana, spagnola, cinese, statunitense, etc. debbono aumentare lo sfruttamento dei proletari.
Anche in Francia i rappresentanti della borghesia, ieri il governo “socialista”, oggi di centro, fingono di voler adattare il Codice del Lavoro ad una società più “moderna”, che permetterebbe ai padroni di assumere. In realtà questi assumono solo nella prospettiva di crescita industriale, cioè se hanno bisogno di altra mano d’opera. Ma la recessione in cui il capitalismo si dibatte dal 2007 si è tradotta in una caduta della produzione (fino a ‑16,5% in Francia), in ristrutturazioni, in licenziamenti di massa e nella delocalizzazione incontrollata verso paesi a basso costo di produzione. La riforma del lavoro non cambierà nulla; al contrario, in questo contesto, faciliterà i licenziamenti e la disoccupazione!
La vera ragione di questa legge è quindi aumentare la flessibilità sul lavoro e il tasso di profitto, rendendo ancor più precari i lavoratori: lo scopo è trasformare, di fatto, ogni contratto a tempo indeterminato in determinato.
In Germania, paese di riferimento per le borghesie europee, le “riforme” Schröder hanno condotto alla pauperizzazione e alla precarietà di un quarto della popolazione attiva: con salari che vanno da 450€ a meno di 1.000€ al mese! Le subforniture provenienti dai paesi dell’Europa centrale – Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca – e la precarietà della forza lavoro tedesca sono alla base del “miracolo” del capitalismo tedesco.
La prossima riforma nell’agenda dell’attuale governo francese è quella sulla disoccupazione sul modello dei “jobs center” tedeschi, un dispotismo organizzato per convertire i disoccupati in bisognosi: un ritorno al 19° secolo!
I riformisti di ogni razza parlano di attacco senza precedenti alle conquiste sociali. Ma nel capitalismo non c’è nulla di acquisito una volta per tutte. Solo degli opportunisti incorreggibili, come i vecchi stalinisti o in Francia il Front de Gauche, possono far credere che nel capitalismo sia possibile conquistare, in modo alla lunga progressivo, un miglioramento delle condizioni di vita materiale dei lavoratori.
Nel trentennio 1945‑1975 i lavoratori, a seguito di lotte spesso difficili e lunghe, hanno visto migliorare le loro condizioni. Questo è stato possibile perché in quel periodo il capitalismo mondiale ha conosciuto un periodo d’espansione quasi continuo e praticamente senza crisi, almeno sul continente europeo, perché le recessioni non hanno risparmiato né l’Inghilterra, né gli Stati Uniti. Ma questa espansione è stata permessa grazie alla distruzione massiccia e ai terribili massacri della seconda guerra mondiale.
Questo periodo si è definitivamente chiuso con la crisi di sovrapproduzione internazionale del 1974‑1975. Successivamente il capitalismo mondiale, seguendo cicli della durata di 7 o 10 anni, dopo un periodo di espansione, che è andato rallentando di ciclo in ciclo, va da una crisi di sovrapproduzione a un’altra. E non può essere altrimenti.
Il grande ruolo storico del capitalismo è stato socializzare le forze produttive nell’industria e nell’agricoltura, sostituendo la produzione familiare del piccolo contadino e dell’artigiano con il lavoro collettivo della grande industria e della agricoltura moderna.
Così facendo il capitalismo ha sviluppato in maniera considerevole le basi economiche della società comunista. Ma ciò è stato fatto sviluppando la produzione mercantile, eredità di un mondo dove la produzione non era ancora socializzata, e assoggettando la produzione all’accumulazione del capitale. L’accumulazione del capitale si basa sullo sfruttamento del lavoro salariato, sul fatto che il lavoratore produce un valore maggiore di quello che costa la sua forza lavoro.
Più la produttività del lavoro aumenta più, socialmente e alla fine, il tasso del profitto cala! Condannando così a morte il modo di produzione capitalista. Nello stesso tempo non si può avere equilibrio tra la produzione e il mercato: la produzione capitalista si trova in uno squilibrio costante, che si traduce innanzitutto in fallimenti locali; in seguito, mano a mano che si gonfia la produzione e che la massa di merci da vendere diventa sempre più considerevole, i fallimenti aumentano, come aumenta l’indebitamento, e in fine scoppia la crisi di sovrapproduzione.
La base economica socializzata, incentrata sul lavoro associato, è incompatibile con i rapporti di proprietà capitalistici, il capitale e il lavoro salariato, i quali presuppongono entrambi la produzione mercantile. Così il corso del capitale diviene caotico e catastrofico.
Il capitalismo ha già prodotto due guerre mondiali; ineluttabilmente ne produrrà una terza se non si ferma la sua corsa omicida. La soluzione esiste, l’abbiamo nelle nostre mani: occorre abolire i rapporti di produzione capitalistici – il lavoro salariato e il capitale – e sopprimere il mercantilismo e la produzione di merci, passando ad una gestione comunista, ad una contabilità fisica dei prodotti e della loro distribuzione, mettendo così in accordo la produzione, che è già socializzata, con i consumi.
Ma per far questo occorre affrontare un grosso ostacolo: la grande borghesia, che vive dello sfruttamento del lavoro salariato, come in passato l’aristocrazia fondiaria viveva dello sfruttamento del lavoro servile della terra. Occorre rovesciare il sistema con la forza, spazzando il suo Stato e i suoi partiti, espropriando la borghesia e mettendola fuori legge.
Allora si aboliranno i rapporti di produzione capitalistici e la società comunista, che si trova in gestazione in seno alla società borghese, potrà svilupparsi liberamente. Scopo della produzione non sarà più l’accumulazione del capitale, ma soddisfare i bisogni dell’umanità. L’umanità potrà svilupparsi armoniosamente rispettando gli equilibri della natura, cosa che oggi è totalmente impossibile.
Ma per arrivare a questo, bisogna ritrovare la via della solidarietà tra i lavoratori e della lotta di classe. Occorre cominciare ad organizzarsi in un vero sindacato di classe, che inquadrerà i lavoratori sulla base dei loro interessi materiali, indipendentemente dalle differenze di razza, religione o credenze filosofiche e politiche. Un sindacato che non esiterà a condurre lotte lunghe e dure, non appena le circostanze lo permetteranno. Un sindacato che lavori a superare le divisioni su base categoriale e che al contrario porti avanti rivendicazioni che tendono ad unire tutti i lavoratori indipendentemente dalla categoria professionale. Un sindacato che non farà finta di organizzare i lavoratori ma che si batterà per estendere la lotta il più possibile, collegando lavoratori di diverse aziende, centralizzandola per renderla più efficace.
Questo è il primo passo, ma per arrivare all’obiettivo finale, occorre organizzarsi sul piano politico e formare un grande Partito Comunista Internazionale su scala mondiale.
Per questo vi invitiamo a unirvi nelle file del Partito Comunista Internazionale. Se oggi siamo una esile minoranza domani saremo in milioni.
Sfratto degli immigrati a Roma
Il capitale importa forza lavoro e la tratta peggio che nello schiavismo
La società borghese è la forma di vita associata che sul piano storico maggiormente esalta contraddizioni insolubili e paradossali. Se il bisogno è la motivazione che spinge i lavoratori a vendere la propria forza lavoro per produrre plusvalore a vantaggio della classe capitalista, quest’ultima deve mantenere con ogni mezzo masse sconfinate di uomini nella condizione di proletari, separati a forza dall’immensa ricchezza sociale prodotta grazie allo straordinario sviluppo delle forze produttive proprio del nostro tempo.
Le città moderne, devastate dalla permanente febbre edilizia, male inguaribile del modo di produzione capitalistico, offrono uno spettacolo a un tempo bizzarro e rivoltante di una grande abbondanza di case vuote e di masse di esseri umani senza un tetto. Questo diventa vieppiù vistoso a mano a mano che la crisi torna a mordere, trasformando in disoccupati tanti lavoratori, mentre una pletora di capitali che non trovano investimento produttivo imboccano la strada dell’immobiliare, nella costruzione di case, che resteranno invendute o sfitte.
In Italia si aggiunge la pura speculazione di appropriarsi di una qualche rendita sui fabbricati appartenuti a enti pubblici del pletorico quanto obsoleto parastato, antica dubbia gloria di ormai antiche stagioni della storia repubblicana.
Un caso particolarmente schifoso di quest’ultima tipologia è quello di un edificio situato nel centro di Roma, in via Curtatone, a due passi dalla stazione Termini. Si tratta di un palazzone di architettura razionalista costruito negli anni ’50 del secolo scorso a sede della Federconsorzi, uno dei carrozzoni del vecchio sistema clientelare democristiano la cui funzione precipua consisteva nell’elargizione di “denaro pubblico” (sempre plusvalore estorto ai proletari) al capitale investito nelle aziende agricole. Negli anni ’90, con il commissariamento, poi la liquidazione della Federconsorzi, il palazzo restava vuoto e inutilizzato. La proprietà dell’immobile passava a un Fondo di investimento, l’Omega, che fa capo alla Società di Gestione del Risparmio Idea Fimit, un gigante finanziario la cui funzione è incamerare e far rendere le proprietà immobiliari di grandi banche e di enti pubblici. Approfittando, non a caso, di uno dei momenti più acuti della crisi, la Fimit nei soli tre anni anni dal 2008 al 2011 è diventata la prima SGR italiana nel settore e la quarta in Europa.
Nel 2013 gli uffici ormai inutilizzati di Via Curtatone vennero occupati da alcune centinaia di immigrati, in prevalenza dal Corno d’Africa. Molti di essi, provenendo da paesi in guerra come la Somalia o da regimi considerati dittatoriali come l’Eritrea, hanno ottenuto lo stato di rifugiati politici. Per quattro anni famiglie intere e singoli, condannati a condizioni di vita assai dure a causa dell’incedere della crisi anche nel paese di “accoglienza”, avevano convissuto, in condizioni ben lontane dagli agi e dal lusso, ma creando quella rete di relazioni di solidarietà che soltanto gli strati subalterni della società sanno stabilire fra loro.
Ora un sindaco come la Raggi, espressione di un movimento populista e demagogico qual’è il Movimento 5 Stelle, e un ministro dell’Interno come Marco Minniti, esponente di punta del PD, formatosi nella scuola di polizia del’ex sedicente Partito Comunista Italiano, hanno comprovato la loro rivoltante libidine di servire gli interessi della classe capitalistica, anche a costo di mandare sotto i ponti un migliaio di uomini, donne e bambini.
Il 19 agosto la polizia invadeva con violenza implacabile lo stabile occupato e ne cacciava tutti gli abitanti, gettando dalle finestre le loro povere cose. Nei giorni successivi, centinaia di migranti occupavano in una protesta silenziosa i giardinetti al centro di Piazza Indipendenza, fino a quando, il 24, le forze di polizia, avanzando dietro ad un enorme blindato dotato di un potente idrante, li hanno cacciati anche di lì senza risparmiare manganellate e altri atti di vile quanto gratuita violenza.
La macchina repressiva dello Stato ha assolto il suo compito di bastonare i più deboli. Eccolo lì lo Stato capitalista, incapace di affrontare anche un temporale di stagione senza che la sua inclita capitale veda trasformarsi le strade in laghi. Eccolo, sempre pronto a dispiegare la sua forza per affamare, terrorizzare e dividere i proletari. Senza uno straccio per coprire le sue vergogne, lo Stato del capitale dimostra a tutti la sua natura di strumento di oppressione dei lavoratori da parte della avida e cinica classe capitalista alla quale non è sconosciuto alcun crimine, fosse anche il più efferato.
Nei giorni successivi una stampa asservita e vigliacca ha imbrattato le pagine dei giornali descrivendo gli occupanti dell’immobile con gli abusati luoghi comuni xenofobi, con ignobili menzogne degne della più rancida propaganda razzista.
Ora centinaia di persone sono ancora per la strada.
La classe dei proprietari fondiari, a difesa della rendita, impone ai diseredati una vita difficile e disagiata, fino al limite estremo della sopravvivenza.
Sarà invece la classe operaia, quando avrà ricostruito le sue autonome e robuste organizzazioni di classe, e quando sarà tornata a dispiegare il suo movimento di scioperi esteso ed unitario contro il padronato e le sue istituzioni, a farsi carico anche della difesa di tutti i diseredati che sempre più si accrescono all’interno della società del capitale, e ne farà sue le rivendicazioni.
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Riunione generale di lavoro
Torino,
26‑28 maggio
[RG128]
La questione militare - La prima guerra mondiale
Nel settore mediorientale e caucasico il conflitto 1914/15 ebbe conseguenze territoriali e politiche che perdurano tutt’oggi, come testimoniano le gravi crisi che mai si placano nei paesi dell’area: Siria, Palestina, Iraq, Egitto, Libia. Le potenze imperialiste vincitrici stravolsero completamente il Medio Oriente dividendo il collassato impero Ottomano con confini artificiali ed imponendo nei governi dei nuovi Stati gruppi di potere loro sottomessi.
Fu il teatro bellico più esteso di tutta la prima guerra mondiale, con uno schieramento di forze asimmetrico: impero Ottomano e imperi Centrali contro gli imperi russo e britannico. Si aggiunsero poi con un significativo ruolo truppe irregolari arabe, che dettero vita alla Rivolta Araba contro la Turchia, e truppe volontarie armene che si organizzarono nella Resistenza Armena, anch’esse contro la Turchia.
Ebbero luogo 5 campagne militari principali: quella del Sinai e della Palestina, quella della Mesopotamia, del Caucaso, di Persia e di Gallipoli.
Nel settore furono massicciamente impegnate truppe locali e quelle provenienti dalle colonie: la Francia mobilitò dall’Africa e dai Caraibi 1,4 milioni di soldati e l’Inghilterra ben 4,5 milioni dal suo immenso impero: le sue unità più efficienti provenivano dal British Indian Army, di comprovata esperienza contro forze tribali.
Le potenze europee intendevano spartirsi quanto rimaneva dell’impero Ottomano. Il 1° agosto 1914, inizio delle operazioni in Europa, fu anche firmato un accordo segreto di alleanza militare tra l’impero tedesco e quello ottomano: il governo di Berlino intendeva aprirsi una strada verso la Persia e l’India, a scapito di Londra, anch’essa fortemente interessata agli idrocarburi del Caspio.
Enver Pascià, ministro della guerra e capo della Rivoluzione dei Giovani Turchi, esprimeva gli interessi della borghesia turca che, con il progetto panturaniano, mirava a costituire una forma di imperialismo camuffato da antimperialismo. Per primo intendeva riprendersi i territori dell’Anatolia orientale, persi a seguito della guerra russo-turca del 1877‑78, con il porto di Batumi in Georgia e la città fortificata di Kars. Era di grande importanza strategica per gli Imperi Centrali, e maggiormente per la Germania, l’apertura di un fronte turco-russo, che in Europa avrebbe alleggerito la pressione russa sul fronte orientale.
La Anglo-Iranian Oil Company aveva ottenuto i diritti sui maggiori giacimenti petroliferi persiani ad esclusione di quelli di alcune province rivierasche sul Caspio, che intendeva acquisire con la guerra: il petrolio era diventato il combustibile di tutta la grande flotta militare britannica e man mano anche di quella commerciale.
Abbiamo commentato una mappa sulla divisione dell’impero Ottomano prevista dall’accordo segreto Sykes-Picot tra Inghilterra e Francia e sulla definizione delle relative aree di influenza: si concedevano territori caucasici alla Russia e si prevedeva una zona attorno a Gerusalemme affidata ad amministrazione internazionale.
La comunità armena, stimata attorno ai 2 milioni, era diffusa su gran parte dell’impero, con concentrazione nei territori caucasici al confine con la Russia e una forte presenza a Costantinopoli. Fu la minoranza etnica più attiva e organizzata politicamente, prese parte alla guerra riuscendo alla fine, grazie al sostegno russo, che l’aveva utilizzata in funzione antiturca, ad ottenere il riconoscimento di nuove entità statali armene, che ebbero però breve vita.
Il governo dei Giovani Turchi, temendo una crisi provocata dagli armeni presenti nel suo esercito, il 25 aprile 1915 dette l’avvio ad una vasta campagna di rastrellamenti, arresti, deportazioni e impiccagioni che in pochi mesi causò lo sterminio di circa 1,5 milioni di armeni. La maggior parte perì per stenti in campi di concentramento, altri per le armi dall’esercito turco e dalle milizie curde. A loro volta agli armeni erano attribuiti stermini nei confronti delle popolazioni musulmane nei territori caduti sotto il loro controllo.
Le milizie della minoranza curda parteciparono al conflitto, alcune con gli ottomani e una minoranza con i russi, indotti da promesse di qualche concessione statale. Si rivelarono ingestibili e il loro utilizzo fu limitato. Ma, nonostante gli accordi di Sévres del 1920, che riconosceva un’entità statale ai curdi, i britannici, forti degli accordi Sykes-Picot con la Francia, mai concessero i territori promessi, ricchissimi di petrolio.
Le molteplici comunità tribali arabe nella regione dell’Hegiaz, lunga fascia costiera sulla costa orientale del Mar Rosso, nel 1916 dettero vita alla Rivolta Araba allo scopo di liberarsi dal dominio ottomano e costituire una entità statale araba sotto la guida dell’emiro Faysal. Erano addestrati da consiglieri militari britannici, tra cui il colonnello Lawrence “d’Arabia”. Questi promise all’emiro territori in realtà destinati alla Francia secondo gli accordi Sykes-Picot. Alla fine del conflitto il regno hascemita dell’Hegiaz ebbe vita breve e travagliata fino a quando fu annesso al neonato Regno Saudita nel 1932, vanificando le speranze degli arabi di realizzare un loro Stato unitario. Successivamente la Società delle Nazioni con l’istituzione del Mandato dette veste giuridica all’occupazione militare di tutti quei territori. Londra mise Faysal a capo del regno dell’Iraq, inventato nel 1921, che comprendeva ampi territori rivendicati dalla comunità curda, che pure aveva contribuito alla guerra. Suo fratello Ab Allah Husayn fu nominato emiro della Transgiordania, ora divenuto regno hascemita di Giordania.
Già da queste brevi note storiche si possono vedere le origini delle principali cause dei conflitti attuali.
La campagna del Caucaso fu inizialmente combattuta tra impero ottomano e impero zarista. La rivoluzione russa influenzerà notevolmente l’esito della campagna e le risoluzioni territoriali. L’impero britannico ne approfitterà per inserirsi a difesa ed estensione delle sue importanti concessioni petrolifere nel Caspio.
Il comando tedesco qui applicò la “strategia della distrazione”, l’apertura di un fronte secondario e lontano da quello principale in Europa per costringere lo zar a spostare truppe nel Caucaso.
Il 1° novembre 1914 la Russia zarista dichiarava guerra all’impero ottomano e l’offensiva penetrava con discreto successo in territorio turco. La controffensiva turca, con milizie curde, bloccò solo parzialmente l’avanzata russa. Si distinsero associate ai russi le truppe volontarie armene che riuscirono a conquistare e tenere delle posizioni sul lago Van.
Enver decise di lanciare sulle montagne del Caucaso una offensiva invernale per ribaltare la situazione ed invadere la Russia. Su un fronte che si snodava su 1.500 Km si prevedeva di superare valichi di montagna oltre i 2.000 metri di quota con una ridotta rete stradale e senza linee ferroviarie, affidando i rifornimenti ai convogli a trazione animale; tutto ciò limitava l’uso dell’artiglieria pesante. L’offensiva partì il 22 dicembre ed inizialmente registrò un certo successo. Il comandante in capo russo ordinò la ritirata generale. Enver decise l’assalto finale ma, per la carenza di munizioni e cibo, con le linee di rifornimento bloccate dalla neve, si risolse in un disastro totale: giunsero rinforzi russi e la maggior parte del quartier generale russo non aveva rispettato l’ordine di ritirata.
L’Inghilterra decise allora di dare il via alla campagna di Gallipoli con cui mirava di forzare i Dardanelli e occupare Costantinopoli, costringendo l’impero ottomano ad uscire dalla guerra e ristabilire le comunicazioni attraverso il Mar Nero con l’impero russo. Nonostante l’enorme utilizzo di uomini e mezzi di Inghilterra, Francia, Australia e Nuova Zelanda, la campagna soffrì di carenze logistiche inammissibili e si risolse dal febbraio 1915 al gennaio 1916 in un terribile disastro militare che causò la perdita di oltre 252.000 uomini, circa la metà del contingente, e la perdita di diverse unità navali di grosso tonnellaggio e di alcuni sottomarini. I reparti turchi opposero una inaspettata resistenza ai ripetuti sbarchi, bloccati sulle spiagge. Subirono anch’essi perdite di 250.000 uomini, l’80% di essi. Questa prima operazione anfibia fu base di studio per il successivo sbarco in Normandia e di per tutti quelli della Seconda Guerra mondiale.
Contemporaneamente, nell’aprile del 1915, iniziava la Resistenza di Van della comunità armena appoggiata da una limitata manovra dei russi, a cui il governo turco rispose con la deportazione forzata degli armeni della regione.
I piani dei comandi zaristi per una nuova offensiva nella primavera del 1917 non furono mai attuati per lo scoppio della rivoluzione del Febbraio. In particolare le unità del Caucaso iniziarono a ritirarsi per la stanchezza e le sofferenze, per l’avversione alla guerra e per l’agitazione politica tra i ranghi dell’esercito. Il processo di disintegrazione dell’esercito zarista era tale che verso la fine del 1917 non c’era più alcuna forza militare russa attiva nel Caucaso, ma l’armata ottomana non fu in grado di approfittare di questa situazione per il pessimo stato delle sue unità.
Sorsero i primi Comitati per il governo della Transcaucasia, affidati per buona parte agli armeni, che rivendicavano un regolare inquadramento delle loro forti truppe nei nuovi organismi che si stavano formando.
Il 5 dicembre 1917 ottomani e bolscevichi firmavano un armistizio che segnò la fine delle ostilità; i residui soldati russi ritornarono a casa sostituiti dalle truppe armene, che non erano nella condizione di proteggere un territorio così vasto. Il 6 febbraio la Terza armata ottomana partiva per una facile riconquista dei territori.
Il 3 marzo 1918 la delegazione ottomana firmava con la nuova Repubblica sovietica russa il trattato di Brest-Litovsk con il quale il governo bolscevico cedeva agli ottomani tutti i territori annessi dallo zarismo dopo la guerra del 1877‑78. Nel trattato fu riconosciuta la Repubblica della Transcaucasia. Ma gli ottomani ripresero i combattimenti finché l’armata armena fu dispersa.
L’impero ottomano giunse alla fine della guerra avendo perso importanti campagne ma con un chiaro successo nel Caucaso. Tutti gli accordi e i confini stabiliti dall’accordo di Sèvres del 1920 non portarono ad alcuna pace definitiva e già l’anno seguente scoppiò la guerra tra Georgia e Armenia e poi tra Armenia e Azerbaigian. Nemmeno ora ad un secolo di distanza e dopo la dissoluzione dell’Urss vi è una pace stabile e certa in quelle regioni.
Il concetto e la pratica della dittatura - Prima di Marx
Con la Rivoluzione del Luglio 1830 troviamo sulle barricate parigine, accanto ai plebei eredi degli antichi sanculotti, un proletariato numeroso. La borghesia liberale, sfruttando la paura che suscitava il proletariato armato, riuscì a sostituire il reazionario re Carlo X con suo cugino Luigi Filippo d’Orleans e con una monarchia costituzionale.
Il 20 agosto Filippo Buonarroti torna a Parigi, affiancando un’azione legale e propagandistica, ora possibile, all’azione settaria e cospirativa. L’azione legale mirava ad un programma minimo, consistente innanzitutto nella richiesta del suffragio universale e dell’imposta progressiva. A Parigi nasce la “Società degli amici del popolo”, dove accanto a liberali e repubblicani borghesi sono presenti Buonarroti ed i suoi, a partire da Teste e da Voyer D’Argenson. Dopo una tentata insurrezione degli operai di Lione nel 1831, nel 1832 ha fine la “Società degli amici del popolo”. Dalle sue ceneri nasce la “Società dei diritti dell’uomo e del cittadino”, al cui interno è un comitato Lebon, su posizioni buonarrotiane, contrapposto ai repubblicani borghesi di Raspail.
Nel 1833 appare lo scritto “Boutade d’un riche” di Voyer D’Argenson, dove si dice che tutta la ricchezza viene dal lavoro, e si invita il popolo a sollevarsi non “per reclamare un misero aumento di salario” ma per impadronirsi del potere.
Con la repressione del 1832 e il conseguente restringersi delle possibilità di azione legale, Buonarroti intensifica l’azione settaria. “L’ordine regna a Varsavia”, come dice il ministro degli esteri francese Sebastiani, ed in tutta Europa. In questo ordine la borghesia accetta una posizione talvolta paritaria ed il più delle volte subordinata alle monarchie e ai vecchi ceti nobiliari, a cui si affida controvoglia, spaventata da quello spettro del comunismo che comincia ad aggirarsi per l’Europa.
Con l’insurrezione operaia del 1834 a Lione e poi a Parigi, e le conseguenti leggi repressive nel 1835, termina la “Società dei diritti dell’uomo”. Buonarroti intervenendo alla sezione di Lione di detta Società, cerca di evitare la rivolta in quanto intempestiva e votata alla sconfitta; ciò non gli impedisce, a sconfitta avvenuta, di difenderne i protagonisti e di rivendicarne l’azione. Comportamento analogo ebbe Karl Marx riguardo alla Comune di Parigi del 1871.
In questi anni capita spesso a Buonarroti di essere accusato di attendismo, per la prudenza e la contrarietà ad azioni insurrezionali, avventate e male organizzate. Anche allora, come in tempi più recenti, la maggior parte degli apostoli del fare e dell’azione è poi finita gradualmente nel campo nemico, dopo aver portato al carcere o alla morte gli elementi migliori.
In uno scritto del gruppo buonarrotiano di Lebon si invitano gli operai a scioperare per ottenere aumenti di salario. Vi si parla di far tacere le ridicole gelosie e le deleterie rivalità tra le associazioni operaie dei vari settori, e di creare un comitato centrale di delegati in rappresentanza delle associazioni particolari. In articoli analoghi leggiamo: «Dire loro che sono liberi di discutere il prezzo del loro lavoro, è una insultante derisione per chi non ignora che, posti fra i bisogni dell’oggi e quelli del domani, essi sono costretti a subire la legge del più forte, la legge del capitale». Secondo un rapporto di polizia del 1834, Voyer D’Argenson si sarebbe recato al comitato della Società che si occupava degli operai per sostenere la necessità delle Coalitions e della formazione di un comitato centrale in rappresentanza di tutti i settori della classe operaia.
All’influenza diretta di Buonarroti è dovuta probabilmente la formazione delle “Legioni rivoluzionarie” e della “Società delle famiglie” nel 1835. Nel 1836 nasce la “Società delle Stagioni” ad opera dei suoi eredi diretti Blanqui, Barbés e l’operaio Bernard. Buonarroti muore il 17 settembre 1837, all’età di 76 anni.
Il rapporto tra il repubblicano italiano Giuseppe Mazzini e Buonarroti mette in risalto con chiarezza le rispettive posizioni. Quest’ultimo crea a Parigi nel 1831 una “Giunta liberatrice italiana”, con un direttorio esecutivo di tre membri: egli stesso, Pietro Mirri, suo fedele collaboratore, e il moderato Salfi. Della giunta faceva parte un altro suo fidato collaboratore, il conte Carlo Bianco di Saint-Jorioz, capo della setta degli Apofasimeni. Dopo il fallimento dei moti del 1831, e in particolare dell’ambigua e sgangherata spedizione in Savoia, Buonarroti si dimette dal direttorio esecutivo con la conseguente fine della Giunta liberatrice.
Nello stesso anno fonda la setta dei “Veri Italiani”, mentre Mazzini, nato a Genova nel 1805, già membro della Carboneria e della setta degli Apofasimeni, fonda la “Giovine Italia”. Nel 1832 è stretto un accordo tra le due organizzazioni. Riconosciamo a stento il Mazzini del 1831, che si pronuncia contro “l’aristocrazia bourgeoise, finanziaria, proprietaria”, e parla del “trionfo d’una classe sovra un’altra, d’un’aristocrazia nuova sopra una vecchia”. In questi primi scritti Mazzini intende per “popolo” né borghesia né aristocrazia. Questo apparente sentimento classista è dovuto all’ambiente buonarrotiano in cui ha mosso i primi passi, e in particolare a Carlo Bianco di Saint-Jorioz, nella cui setta inizialmente militava.
Già pochi mesi dopo, nel 1832, le parole del genovese cambiano rapidamente. Scrive lo storico Galante Garrone: «Il principio sansimoniano dell’associazione universale sottentrerà a quello buonarrotiano della lotta di classe». Scrive Mazzini nel 1833: «Certo: la mia repubblica non istà nell’innalzare una classe – e sia qualunque – struggendone un’altra. La mia Repubblica si basa sul Popolo – per Popolo intendo l’aggregato di tutte le classi». Per Mazzini la lotta di classe costituiva ora una pericolosa divisione all’interno del popolo italiano, ed era quindi un ostacolo al raggiungimento dell’indipendenza e della repubblica, e della “missione” dell’Italia.
Con il fallimento della spedizione mazziniana in Savoia del 1834, sconsigliata fortemente da tutte le organizzazioni buonarrotiane, si arriva alla rottura definitiva tra i “Veri Italiani” e la “Giovine Italia”, e quindi fra i due. Come abbiamo già detto, per Buonarroti il risorgimento è parte di una rivoluzione sociale europea. Scrive Galante Garrone: «Per lui, la lotta sarebbe stata anche e prima di tutto lotta contro le classi privilegiate. Di qui la necessità di scegliere bene i compagni di lotta, di prestabilire i fini e le istituzioni da raggiungere, di affidare a una dittatura rivoluzionaria il compito di gettare arditamente le basi della nuova società egualitaria».
Importante è anche la sua influenza su alcuni settori del cartismo inglese: il cartista James Bronterre O’Brien, irlandese, redattore politico di vari giornali inglesi, nel 1836 traduce in inglese la “Cospirazione” di Buonarroti. I due hanno in comune la concezione che è necessario impadronirsi del potere per realizzare le riforme desiderate, e la critica nei confronti di Owen, che pure apprezzano per molti aspetti, ma certamente non per l’appellarsi alla bontà dei ricchi e degli aristocratici. Dopo la pubblicazione della “Cospirazione” in inglese Buonarroti scrive ad O’Brien: «Mi rallegro di aver appreso in modo certo che in Inghilterra tutto non è avidità di ricchezze e spirito di bottega, e che accanto ai vostri signori e ai vostri preti di Pluto, ci sono pensatori profondi, amici devoti del popolo e ammirevoli spregiatori delle follie umane».
Come abbiamo già detto il comunismo di Buonarroti ha poco a che fare con la scienza e nulla con la dialettica e con il materialismo. Noi che siamo comunisti e materialisti scientifici, cerchiamo di adoperare al meglio la dialettica, senza fare di questa, o della scienza, un feticcio con cui riempirsi la bocca; e la dialettica ci dice che Buonarroti, Babeuf e i loro compagni, sono i nostri diretti precursori.
La rivoluzione ungherese del 1919
Dello studio sulla rivoluzione in Ungheria del 1919 il compagno ha esposto il capitolo che ne riguarda “La preparazione”, concentrandosi sul periodo che va dal gennaio del ’18 al marzo del ’19.
Le masse proletarie, esauste da anni di guerra e dalla carestia, iniziano una serie di lotte contro i nemici di classe, borghesia e monarchia, ma il loro generoso istinto viene represso dal regime con l’aiuto dei socialdemocratici.
Nel gennaio 1918, al grido “Abbasso la guerra! Pace! Viva il proletariato russo!”, la classe lavoratrice si mise in sciopero. Lo sciopero scoppiò senza che la direzione del PSDU lo sapesse o lo volesse. Si sforzò di mettersi alla sua testa per condurlo sugli obliqui sentieri della democrazia. Lo sciopero, scoppiato con impeto rivoluzionario in tutto il paese, fu spezzato solo dopo tre giorni con l’intervento del governo che schierò l’esercito nelle strade con cannoni e mitragliatrici. Il PSDU utilizzò tutte le energie per risospingere le masse operaie nelle fabbriche. Le maggiori di queste non seguirono le direttive del PSDU e i suoi membri e delegati non furono ascoltati e vennero respinti dagli operai. Ma l’azione non poteva contare più sul successo. Il primo movimento rivoluzionario in forze del proletariato ungherese andò a vuoto.
Nel giugno del 1918, grazie all’influenza dei prigionieri di guerra, quasi 500.000, rimandati in patria dalla Russia comunista, lo sciopero alla MAV sfociò in un’insurrezione. Ne seguì una violenta repressione, non osteggiata dall’inerzia del PSDU. I lavoratori furono richiamati in massa al servizio militare e rimandati al fronte. La lotta condotta eroicamente per otto giorni dalla classe operaia fu sconfitta un’altra volta e i suoi capi languivano in carcere o erano mandati al fronte.
Per il 28 ottobre 1918 era annunciata una grande manifestazione a Budapest. Contemporaneamente si costituì il Consiglio dei soldati che la sera stessa si mise in collegamento col gruppo degli operai rivoluzionari. Le masse operaie erano intenzionate a salire da Pest a Buda e nella cittadella dimostrare davanti l’abitazione dell’arciduca Giuseppe. Davanti al ponte delle catene la massa tentò di rompere i cordoni dei soldati e della polizia, i soldati si trassero in disparte ma la polizia sparò sulla folla e rimasero a terra morti e feriti. Il giorno seguente gli operai della fabbrica d’armi forzarono i depositi e si armarono. Gli operai delle altre fabbriche aderenti al gruppo rivoluzionario erano in gran parte già armati.
La prima attività pubblica del Consiglio Nazionale fu quella di inviare una delegazione, in cui era rappresentata anche la direzione del PSDU, per indurre gli operai a consegnare le armi, ma non vi riuscì.
Il 1° novembre, quando il crollo militare era già palese, il PSDU si dichiarò pronto ad offrire l’aiuto degli operai anche alla salvezza della dinastia asburgica, con la promessa del suffragio universale. Al posto del vecchio governo successe il conte Mihály Károlyi, con l’aiuto del partito radicale borghese e dei socialdemocratici. La borghesia capì che lo sfruttamento del proletariato avrebbe potuto continuare solamente su una base democratica, e che la socialdemocrazia era pronta a dare aiuto a tale riorganizzazione dell’ordine sociale borghese esponendo un altra faccia dello stesso modo di produzione capitalistico. I ministri designati dal PSDU nella nuova coalizione “democratica” di governo giurarono fedeltà nelle mani dell’arciduca Giuseppe.
Nelle fabbriche di Budapest e nel resto del paese ogni produzione era quasi cessata, non vi erano materie prime, in seguito all’occupazione militare i centri industriali erano rimasti senza approvvigionamento di carbone e di ferro. Gli immensi debiti di guerra e gli altri oneri statali, che pesavano per ben 40 miliardi di corone, non si potevano infatti trasferire semplicemente sulla classe operaia, la quale pretendeva sempre più energicamente la sussistenza e condizioni di lavoro adeguate.
Anche gli alimenti scarseggiavano. L’Ungheria era inascoltata fra i predoni vincitori dell’Intesa: l’Austria ottenne 288.000 tonnellate di viveri e vestiario, l’Ungheria, che versava in condizioni drammatiche, solo 635.
Béla Kun, con altri compagni, arrivò a Budapest illegalmente sotto il nome di Dottor Emil Sebestyèn nel novembre del 1918, e subito si incontrò con alcuni vecchi compagni socialdemocratici espulsi dal partito per la loro opposizione, e anche con i giovani socialisti che non erano stati conquistati dalla “rivoluzione delle rose”. Ben presto si organizzarono per la fondazione del partito e la redazione della stampa.
Fin dalle prime ore del mattino i comunisti si riunivano per avere le direttive del lavoro quotidiano, poi si recavano nelle fabbriche, nelle caserme, nei sindacati, nei villaggi, per far propaganda. Convocavano assemblee e talvolta avendo scontri accesi con i rappresentanti del PSDU, i quali a volte riuscivano anche a cacciare i comunisti dalle fabbriche e dalle sedi sindacali. Manifesti e volantini venivano affissi sui muri e opuscoli diffusi ovunque alle masse: «Nella repubblica democratica l’esercito permanente, la polizia e l’esercito dei funzionari, assicurano il dominio della borghesia sul popolo. Mai la borghesia metterà fine allo sfruttamento (...) Lo Stato borghese è uno strumento al servizio del mantenimento dello sfruttamento. Lo Stato proletario, strumento della dittatura del proletariato, opprime la borghesia, togliendole il capitale, per ridarlo alla società».
Intanto in tutto il paese si organizzava la controrivoluzione. I latifondisti, i magnati del capitale, migliaia di ufficiali che avevano perduto i guadagni e il potere, come pure il clero preoccupato della sorte della sua vita parassitaria, cominciarono ad organizzarsi e ad armarsi.
L’azione del Partito comunista era incessante su tutti i fronti: agitazione nelle fabbriche, propaganda interna e fra le truppe d’invasione. La sua agitazione e il suo lavoro organizzativo miravano ad attirare i soldati nel campo rivoluzionario e a guadagnare alla causa della rivoluzione tutte le organizzazioni armate dello Stato (ad eccezione della polizia). Il Partito comunista aveva i suoi centri di agitazione e i suoi collegamenti ovunque, dagli uffici del ministero della guerra fino alle truppe scaglionate sulla linea di demarcazione. Le organizzazioni del Partito coglievano ogni occasione per procurarsi delle armi. Tra i soldati smobilitati venne diffusa la parola d’ordine di non riconsegnare le armi nelle caserme. Dal materiale dell’armata tedesca smobilitata, che ritornava dai Balcani attraverso l’Ungheria, il Partito riuscì a procurarsi non meno di 35.000 armi.
Scrive Kun in una lettera a Lenin del 5 gennaio 1919: «Da noi la situazione è molto buona, il nostro partito si ingrandisce di giorno in giorno (...) Tutti gli operai metallurgici sono in agitazione e la maggior parte di essi sta dalla nostra parte. Gli altri esitano ancora, ma li trattiene solo l’idea di conservare l’unità del partito (...) Tutto lascia supporre che fra qualche giorno il governo non sarà più composto che da socialdemocratici, il che vuol dire che allora la controrivoluzione conoscerà un nuovo slancio. Noi sappiamo benissimo che la nostra sorte si decide in Germania, tuttavia, indipendentemente da ciò, facciamo tutto il possibile per affrettare il momento in cui gli operai si impadroniscano del potere (...) Tutti gli eserciti si stanno disgregando, mentre da noi gli operai si armano».
Il PCU respinse senza esitazione ogni proposta volta a instaurare qualsiasi potere transitorio al posto del potere sovietico. Fin dalla fondazione del Partito i capi della rivoluzione borghese-democratica tentarono di circuirlo per giungere ad un accordo che portasse ad una qualsiasi soluzione provvisoria, ad un modus vivendi che permettesse di fronteggiare il nemico esterno. Quando Károlyi offrì al PCU il portafoglio alla guerra nel governo borghese provvisorio, il Partito lo respinse in maniera tale da escludere ogni equivoco. Il PCU prese nettamente posizione contro il tentativo di costituire un “governo operaio”, un governo puramente socialdemocratico. All’unanimità il PCU oppose a quella proposta una mozione che reclamava l’attuazione immediata del potere dei Consigli.
Dalla fondazione del Partito fino alla presa del potere le sedizioni armate contro gli organismi del potere borghese si moltiplicavano di giorno in giorno. Il 12 dicembre 1918 la guarnigione di Budapest sfilò in armi e cacciò il ministro della guerra del governo provvisorio. I comunisti organizzavano insurrezioni anche in provincia. Il 25 dicembre gli ussari rivoluzionari di Kecskemét occuparono le caserme e disarmarono gli ufficiali. Il 26 dicembre a Budapest scontro tra operai e soldati, con numerosi morti e feriti. Il 31 dicembre nelle due più grandi caserme di Budapest conflitto fra i soldati orientati dal PCU e i governativi, seguito da una manifestazione armata contro la socialdemocrazia. Nel gennaio del 1919 cominciarono, sotto la direzione del Partito, le manifestazioni di massa contro la stampa borghese e la distruzione delle redazioni dei giornali borghesi.
A Budapest e in provincia furono espulsi con la forza i direttori e i grossi azionisti delle fabbriche più importanti e cominciarono in molti casi le occupazioni delle aziende. A Salgótarján, centro della regione mineraria settentrionale, vi fu un’insurrezione armata con sedici morti e oltre novanta feriti. A Szarvas spalatori e manovali combatterono nelle strade con nove morti e oltre quaranta feriti.
Altre insurrezioni si susseguirono a Budapest e in provincia nella seconda metà di gennaio; nelle caserme si organizzava la resistenza armata contro l’ordine del ministro socialdemocratico di disarmare i soldati di orientamento comunista, e in particolare le giovani leve; dopo sanguinosi combattimenti, i soldati comunisti conservarono le armi. Si susseguirono anche le manifestazioni armate dei sottufficiali smobilitati e dei mutilati. Il PCU proseguiva nell’organizzazione di reparti armati contro il governo borghese e la controrivoluzione che i grandi proprietari monarchici cominciavano a predisporre.
Oltre l’azione condotta per l’occupazione delle fabbriche, il Partito lanciò la parola d’ordine per l’occupazione delle abitazioni. Nel febbraio i braccianti iniziarono ad occupare le grandi proprietà terriere e in molte località erano guidati dai comunisti.
La linea del PCU era diretta nettamente senza esitazioni verso l’insurrezione armata, verso il rovesciamento del potere della borghesia e il suo annientamento, verso la dittatura del proletariato. Il Partito faceva incetta di armi e già le utilizzava anche nei combattimenti quotidiani.
Poiché grandi masse di operai e contadini poveri appoggiavano gli operai e i soldati in armi, la borghesia ungherese, che poteva contare sulla socialdemocrazia, era tra due fuochi: l’ultimatum dell’Intesa e la lotta per il potere degli operai. Ma il vero volto della democrazia borghese non tardò a rivelarsi e una mattina un distaccamento di 160 poliziotti, armato di mitragliatrici e bombe a mano, assaltò la sede del PCU e devastò tutto. Contemporaneamente fu presentata una mozione per escludere i comunisti dai Consigli Operai.
Nel gennaio i minatori di Salgótarján avevano aderito al PCU; il governo fece occupare militarmente tutto il distretto compiendo un enorme eccidio. Ciò non frenò le adesioni al PCU nemmeno localmente, nonostante continuasse il terrore del governo. Anche a Pozson (Bratislava) gli operai dichiararono la dittatura del proletariato, ma solo dopo 36 ore di potere vennero abbattuti dalle truppe czeche e la città fu definitivamente occupata dalla Cecoslovacchia.
Anche nei villaggi di campagna il proletariato lottava; nel Comitato di Arad i lavoratori della terra si spartirono le terre; intervenne l’autorità che cercò di soffocare il movimento con arresti.
Il governo ristabiliva il diritto ai capitalisti di comandare nelle fabbriche, tolto loro dagli operai, sopprimeva i Consigli di fabbrica e li sostituiva con i Comitati di fabbrica e l’antico sistema dei fiduciari. Ma la classe operaia non si volle piegare all’ordinanza e il giorno della sua pubblicazione si radunò nella sede della Lega metallurgica, per farla respingere. Con una provocazione si riuscì a far fallire l’assemblea e il PSDU ebbe un pretesto per perseguire i comunisti. Vi furono degli scontri di piazza durante i quali fu devastata la sede del giornale socialdemocratico “Nèpszava”, colpevole di una odiosa campagna di calunnie anticomuniste. I poliziotti intervenuti si spararono l’uno contro l’altro, vi furono molti feriti e sette morti. Il governo il 20 febbraio fece arrestare quasi tutta la dirigenza del Partito Comunista, le sedi del Partito e del giornale “Vörös Újság” vennero chiuse e sequestrate. Béla Kun e i compagni arrestati vennero picchiati duramente dai “compagni-poliziotti”, membri del partito socialdemocratico.
Le masse operaie chiesero allora energicamente la liberazione dei comunisti. Nei grandi centri industriali la federazione sindacale più importante, quella dei metallurgici, prese posizione a fianco dei comunisti. I tipografi entrarono in sciopero. Il governo borghese era impotente di fronte alle organizzazioni costituite dal PCU fra i soldati smobilitati, i quali si contarono presto in alcune centinaia di migliaia; ed era imponente anche il fronte dei disoccupati.
Ai primi di marzo nelle più grandi fabbriche la direzione passò nelle mani dei consigli operai d’azienda, formati non secondo le norme di legge ma ubbidendo solo al diritto rivoluzionario.
Nel frattempo il nuovo Comitato Centrale del Partito, il cui dirigente era Tibor Szamuely, in completa clandestinità proseguiva il suo lavoro insieme ai comunisti che si trovavano in prigione. Kun riusciva ad avere libri e giornali ed anche una macchina da scrivere, inoltre poteva mantenere i contatti anche con Lenin grazie alla rete clandestina del partito.
Il compagno continuava la serie dei rapporti sulla storia indiana approfondendo il periodo dai primi del Novecento fino al 1920, delineando il declino economico politico e militare dell’Inghilterra ed il lento rafforzarsi del nazionalismo indiano.
La politica inglese riuscì a limitare l’importanza del Congresso e a ridurre all’impotenza le correnti nazionaliste più avanzate: il Congresso si spaccò ed il “nuovo partito estremista” fu disperso.
Nel frattempo i nazionalisti mantennero un’apertura verso la Lega Musulmana, che veniva spinta verso il Congresso da due eventi del 1911.
L’attacco dell’Italia all’Impero Ottomano, reso possibile dalla benevola neutralità inglese, che innescò la prima guerra balcanica, a seguito della quale l’Impero Ottomano perse tutti i suoi residui possedimenti in Europa, fatta eccezione per Costantinopoli. Questi eventi, insieme a una serie di massacri perpetrati in Persia dai russi, allora alleati degli inglesi, destarono lo sdegno dei musulmani indiani, profondamente influenzati dal panislamismo, che videro l’Inghilterra dietro l’attacco finale all’ultimo grande Stato islamico indipendente.
Il secondo fatto importante fu la revoca della spartizione del Bengala, spostando la capitale da Calcutta a Delhi, atto del tutto inaspettato e visto dai musulmani indiani come il venir meno di una serie di impegni delle autorità coloniali. Emerse quindi la convinzione che al fine di tutelare gli interessi della comunità musulmana in India fosse da ricercare un accordo con il Congresso.
In generale, gli anni dal 1914 al 1947 furono segnati dalla ineluttabile crisi del sistema di potere coloniale, dovuta al sovrapporsi di tre processi. Il primo fu il declino dell’Inghilterra; il secondo la crescita del nazionalismo indiano, che subito dopo la prima guerra mondiale si trasformò da sostanzialmente elitario a moto di massa.
Il terzo fu la progressiva perdita d’importanza economica dell’India per la Gran Bretagna. L’India era stata fondamentale per l’Inghilterra perché ottemperava a un triplice “impegno imperiale”: il pagamento delle home charges e degli altri debiti contratti con l’Inghilterra; il ruolo di acquirente di manufatti industriali inglesi e di esportatrice di prodotti agricoli e di materie prime; l’impiego per l’esercito di truppe indiane, pagate dai contribuenti indiani. Solo il primo “impegno imperiale” sussisteva ancora (ma solo fino agli anni Quaranta, quando l’India passò, da debitrice, a creditrice dell’Inghilterra), mentre gli altri due divennero sempre più inapplicabili già a partire dagli anni della prima guerra mondiale.
L’economia inglese, come tutte le capitalisticamente avanzate dell’epoca, attraversava un processo di mutamento che, progressivamente, la rendeva sempre meno dipendente dalle colonie, sia per l’acquisto delle materie prime sia per la vendita dei manufatti industriali. Le industrie inglesi si volgevano a produrre merci che, pur avendo ancora mercato nei paesi occidentali, erano però scarsamente commerciabili nelle colonie a causa del limitato potere d’acquisto di queste.
Durante la prima guerra mondiale l’apporto dell’esercito indiano alla vittoria dell’Intesa fu notevole, ma i costi per il suo dispiegamento, soprattutto quando era impiegato su larga scala, iniziavano ad essere intollerabili.
Nell’agosto 1914 l’India venne a sapere di essere entrata in guerra al fianco dell’Inghilterra contro gli Imperi Centrali. Subito vi furono dichiarazioni di lealtà e solidarietà da parte di diversi settori della borghesia indiana, che contavano così di portare gli inglesi a nuove e più generose concessioni politiche. Ma la mancata risposta inglese a queste attese lasciò campo ad un processo di radicalizzazione.
Nel 1917 la nostra rivoluzione in Russia fu seguita con interesse da molti indiani politicizzati, che da tempo denunciavano le analogie esistenti fra l’impero zarista e quello anglo-indiano. Tra questi era Manabendra Nath Roy il quale, dopo aver contribuito al costituirsi del Partito comunista messicano nel 1919, aveva partecipato al secondo congresso dell’Internazionale Comunista. Ma, tornato in patria con incarico dell’Internazionale, non trovò gran seguito tra altri marxisti indiani, né riuscì a stabilire un consistente contatto con le classi operaia e contadina.
Del resto le condizioni oggettive descritte in questo rapporto trovano poche similitudini tra quanto accaduto in Russia ed in India. Anche le condizioni soggettive grandemente divergono, come sarà ben descritto nel prosieguo dello studio.
L’11 novembre 1918 la Germania firmò l’armistizio che metteva fine alla prima guerra mondiale.
Già nel febbraio 1919 incominciarono a circolare voci di una campagna di “disubbidienza civile”. L’uomo che sosteneva questa iniziativa era Mohandas Karamchand Gandhi. Dopo la morte verrà riconosciuto “padre della nazione” e la borghesia mondiale lo santificherà per i metodi di lotta “non violenti”: “satyagraha”, “fermezza nella verità». Ideali che non gli impedirono di schierarsi più volte dalla parte dei macellai imperialisti britannici. Nel 1899, agli inizi della seconda guerra boera, dichiarò che gli indiani dovevano sostenere lo sforzo della guerra se volevano legittimare la loro richiesta di cittadinanza. Nel 1906 creò il Corpo Sanitario Indiano per portare assistenza nella guerra contro gli zulu. Durante la prima guerra mondiale sostenne la Gran Bretagna promuovendo anche una campagna di reclutamento di soldati indiani.
Nell’aprile del 1917 si ebbero in India una serie di agitazioni: la prima nel Bihar, dove i contadini erano sfruttati dai piantatori inglesi di indaco, e altre nel Gujarat, dei contadini del distretto di Kaira e degli operai di Ahmedabad. Gandhi ne fu tra gli organizzatori, ed ottenne moderati successi che gli procurarono un certo seguito. Il tutto però tramite la mediazione tra le parti. Nel grande sciopero tra il dicembre del 1918 e il gennaio del 1919 gli operai tessili di Bombay, prevalentemente di etnia maratti, chiamarono Gandhi a dirigere la lotta, ma questi rifiutò per non mettersi contro gli imprenditori, prevalentemente gujarati e parsi, che avevano iniziato ad appoggiarlo politicamente ed economicamente.
In quegli anni le nostre tesi sul nazionalismo e sul colonialismo erano chiaramente esposte al secondo Congresso dell’Internazionale e divenivano un chiaro indirizzo teorico e pratico per tutti i comunisti. Vi si distinguono tre tipi di paesi in rapporto al movimento nazionale: il primo era formato dalle nazioni capitalisticamente avanzate, in cui il movimento nazionale borghese progressivo era terminato da tempo; il secondo includeva i paesi dell’Europa orientale, l’Austria, i Balcani e la Russia dove nel XX secolo si erano in parte sviluppati dei movimenti nazionali; nel terzo erano i paesi semicoloniali. In Asia «le forze motrici della rivoluzione nazionale democratica borghese saranno gli operai ed i contadini» e si auspica «la più stretta alleanza tra il proletariato comunista dell’Europa occidentale e il movimento rivoluzionario contadino dell’Oriente delle colonie e dei paesi arretrati in genere». I socialisti «devono sostenere gli elementi più rivoluzionari dei movimenti democratici borghesi di liberazione nazionale, aiutarli nella loro insurrezione, e, se il caso si presenta, nella loro guerra rivoluzionaria contro le potenze imperialiste che li opprimono». Infatti, contro la tesi secondo cui non vi potevano esser più guerre nazionali, Lenin scriveva: «Ogni guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Continuazione della politica di liberazione nazionale delle colonie saranno, necessariamente, le guerre nazionali da parte di queste contro l’imperialismo».
Il movimento di Gandhi non era stato di sicuro “l’elemento più rivoluzionario del movimento borghese”, tanto che, col pretesto della non-violenza, più volte riuscì a disarmare le masse indiane di fronte alla ferocia dei loro oppressori. Pur atteggiandosi a difensore dei paria, gli ultimi delle caste indiane, Gandhi riteneva fondamentale la divisione della società in caste.
Il 24 febbraio 1919, durante un periodo di tensioni sociali molto forti e importanti scioperi in diverse città, Gandhi annunciò una campagna di “disubbidienza civile”. Per la spinta dal basso dalle montanti lotte, fu indetta una serie di harlal, scioperi generali, in tutta l’India. I primi, il 30 marzo e il 6 aprile a seconda delle zone, si distinsero per la partecipazione e le scene di fraternizzazione fra indù e musulmani. La situazione sfuggì presto al controllo sia degli inglesi sia dei gandhiani, e in varie parti del subcontinente scoppiarono disordini con morti e feriti, in particolare nel Punjab ma anche a Bombay, ad Ahmedabad e a Calcutta. Richiamato all’ordine dalla codarda borghesia indiana Gandhi sospese il movimento, e si dette ad organizzare un corpo di volontari addestrati alle “tecniche di lotta non-violente”, che avrebbero inquadrato e diretto i futuri movimenti di massa.
Nel 1920 il governo indiano stabilì che una quota fissa e cospicua delle entrate fiscali non avrebbe più potuto essere utilizzata dall’Impero, norma presentata come un concreto passo in avanti verso il “governo responsabile” promesso nel 1917, ovvero l’autogoverno. A circa il 3% più ricco della popolazione, che corrispondeva all’elettorato attivo, essenzialmente proprietari terrieri, mercanti e prestatori di denaro, industriali e ricchi professionisti, era devoluta la gestione di oltre un terzo delle risorse finanziarie delle province, offrendo loro la possibilità di influenzare, assai più di quanto fosse mai avvenuto in precedenza, la destinazione delle restanti risorse. Ma queste riforme erano del tutto insufficienti rispetto agli ideali ed alle necessità del nascente nazionalismo indiano.
Il partito di Gandhi si trovava di fronte a due interessi inconciliabili: da un lato gli operai e i contadini che, seppur privi di un radicato loro partito rivoluzionario, spinti da una grave crisi economica, ponevano energicamente in avanti la questione sociale, dall’altro una parte della borghesia indiana, ben consapevole della situazione e contenta di accettare le parziali concessioni della corona Inglese.
Ma il partito di Gandhi non aspirava certo a mettersi alla guida degli operai e dei contadini e rilanciò la lotta anticoloniale attraverso un movimento di non-cooperazione e non-violento: progressivo boicottaggio dello Stato coloniale attraverso la rinuncia ai titoli e agli incarichi onorifici, dimissioni dagli impieghi statali civili ed evasione fiscale. Successivamente si aggiunsero le dimissioni dall’esercito e dalla polizia e il boicottaggio delle elezioni previste dalla legge di riforma. Quindi un’azione politica molto moderata, preferita dalla maggioranza del Congresso e della Lega Musulmana, timorosi che la rivoluzione contro gli inglesi si potesse trasformare in una rivoluzione sociale contro gli strati privilegiati indiani di cui erano i rappresentanti. Gli esiti del movimento contro la spartizione del Bengala costituivano un monito preoccupante, che aveva trovato una conferma recente nella doppia rivoluzione in Russia.
È stata presentata l’attività sindacale del partito nel quadrimestre successivo alla riunione generale di gennaio, suddivisa in tre settori: 1) l’intervento nelle manifestazioni del movimento operaio, con appositi volantini recanti l’indirizzo politico-sindacale del partito; 2) la redazione di testi per la stampa di partito; 3) il lavoro svolto all’interno delle organizzazioni sindacali.
Siamo intervenuti:
- Alla manifestazione nazionale del SI Cobas del 4 febbraio a Modena – con un testo in italiano e sua traduzione in inglese – organizzata in risposta all’arresto del Coordinatore Nazionale di questo sindacato. Il volantino in inglese, introdotto da un breve cappello di spiegazione, l’abbiamo pubblicato nel n. 6 di “The Communist Party”;
- Alle manifestazioni per lo sciopero dell’8 marzo, indetto per la giornata internazionale della donna;
- Al presidio presso lo stabilimento FCA (Fiat) di Cassino, organizzato dal SI Cobas contro le condizioni imposte agli operai lì trasferiti dallo stabilimento di Pomigliano;
- Ad alcuni picchetti per scioperi organizzati dal SI Cobas a Roma, presso la TNT e una struttura alberghiera;
- Alle tre manifestazioni milanesi per il Primo Maggio: quelle mattutine dei sindacati confederali e dell’Usb; quella pomeridiana di SI Cobas, Cub e Sgb. Il testo del volantino, di carattere più politico, come tradizione per la giornata internazionale dei lavoratori, è stato tradotto in sei lingue (inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese, russo).
Sulla stampa italiana, oltre a riportare i volantini succitati, abbiamo:
– terminata la pubblicazione della dettagliata descrizione e commento delle manovre della Cgil, e della Fiom in particolare, dalla firma del contratto collettivo unitario del 2008 a quello, dopo otto anni nuovamente unitario, del novembre 2016, passando per l’accordo di Pomigliano, l’uscita della Fiat da Confindustria con il nuovo contratto di gruppo diverso da quello metalmeccanico, da due contratti collettivi metalmeccanici cosiddetti “separati”, dai tre accordi intersindacali sulla rappresentanza del giugno 2011, maggio 20013 e, infine, 10 gennaio 2014;
– descritto il movimento di lotta dei lavoratori Alitalia e dato il nostro indirizzo in merito, in particolare polemizzando con la parola d’ordine della nazionalizzazione dell’azienda, impugnata dal sindacalismo di base;
– tradotto: dall’inglese gli articoli sulla lotta dei ferrovieri della Southern Rail (che opera nella parte meridionale del Regno Unito) contro il cosiddetto “agente unico” e quella dei tranvieri irlandesi; dallo spagnolo una nota sullo sciopero generale in Brasile del 28 aprile; dal francese un articolo sul movimento in Guyana francese che ha visto la lotta dei lavoratori subordinata e confusa in un generico movimento popolare;
– redatto una nota sul panorama internazionale delle lotte dei lavoratori portuali, una sulla questione in Italia dei voucher ed un articolo di polemica “Contro la parola d’ordine di uscita dall’Euro dall’Europa dalla Nato”, brandita dal cartello politico denominatosi Eurostop di cui l’Usb, per volere del gruppo politico che la dirige, è parte costitutiva fondamentale;
– nel nostro organo di stampa in lingua spagnola “El Partido Comunista”, oltre alle versioni originali degli articoli sopra indicati, abbiamo reso conto dello sviluppo, cui collaboriamo, della mobilitazione dei lavoratori dei tribunali in Venezuela e scritto una nota a sostegno del corretto utilizzo e dispiego dello sciopero contro i vari metodi di crumiraggio (“Impulsar la lucha reivindicativa sin rompehuelgas”).
All’interno dell’Usb siamo intervenuti al suo secondo congresso e nell’assemblea provinciale confederale a Genova, esponendo, sul piano politico, la nostra critica alla parola d’ordine d’uscita dalla UE, dall’Euro e dalla Nato, e sul piano sindacale denunciando l’ostacoli alla partecipazione degli iscritti all’attività. Sempre riguardo al congresso abbiamo redatto un esteso articolo di analisi e polemica la cui seconda ed ultima parte è pubblicata su questo numero.
L’articolo esprime il senso e la prospettiva della milizia nel sindacato dei compagni del nostro partito, che consideriamo quelle del corretto e sano comunismo rivoluzionario nel suo rapportarsi con gli organismi di lotta immediata, economica, del proletariato. Questa impostazione notiamo che è suffragata, pur negli ancora piccoli sviluppi attuali del movimento operaio, sia dal corso complessivo del congresso, sia dall’attività ad esso seguita, in vista dello sciopero generale promosso da parte del sindacalismo di base, e di cui qui a lato rendiamo conto.
Fine del resoconto di Torino
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Il percorso accidentato ma segnato verso un fronte unico sindacale di classe
Lo scorso numero, a cappello del volantino che abbiamo distribuito in occasione dello sciopero generale dei trasporti e della logistica del 16 giugno, che ha avuto un apprezzabile successo, abbiamo descritto e commentato il comportamento delle diverse organizzazioni sindacali.
L’8 luglio, lo stesso cartello sindacale promotore di quello sciopero – Cub, SI Cobas, Sgb, Slai Cobas, Usi Ait – ne proclamava uno generale di tutte le categorie della classe lavoratrice, per venerdì 27 ottobre.
A seguito di questa proclamazione i nostri compagni hanno collaborato a redigere un documento a nome del “Coordinamento Iscritti Usb per il Sindacato di Classe” intitolato “Problemi dello sciopero del 27 ottobre”, pubblicato il 4 agosto, nel quale, sottolineata l’importanza della mobilitazione, ne venivano evidenziati alcuni limiti, al fine di superarli.
1) La proclamazione dello sciopero era avvenuta senza consultare né l’Usb né la Confederazione Cobas; questo era, con ogni evidenza, frutto della volontà, principalmente della maggioranza della dirigenza CUB e di quella di SGB, di impedire ogni azione comune – sul piano nazionale e confederale – con quei due sindacati, adducendo a pretesto la firma da parte di quelle organizzazioni del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014. Lo sciopero così proclamato quindi andava a suggellare quella divisione del sindacalismo di base nell’azione di lotta che da 7 anni – cioè dalla nascita dell’Usb nel maggio 2010 – vede promuovere scioperi separati e in concorrenza fra questa e la CUB. Il documento del Coordinamento, nel sottolineare come una delle cause del successo dello sciopero del 16 giugno fosse stata l’unità del sindacalismo di base, comprendente anche la Confederazione Cobas del Lavoro Privato, con la sola eccezione dell’Usb che senza alcuna giustificazione non vi aveva aderito, indicava la necessità di estendere e completare l’unità d’azione del fronte del sindacalismo cosiddetto conflittuale.
2) Riguardo ai tempi dell’organizzazione dello sciopero il documento sosteneva come questi erano evidentemente troppo larghi. Si legge nel documento: «L’idea dello sciopero del 16 giugno era nata a seguito del referendum in Alitalia in cui i lavoratori avevano in modo patente disconosciuto l’operato dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) e che si era svolto il 24 aprile. Lo sciopero fu proclamato per prima dalla Cub il 3 maggio: un mese e 13 giorni in anticipo. Già non poco tempo, ma certo fa parte dell’allenamento e del rafforzamento del movimento operaio e delle sue organizzazioni di lotta raggiungere la capacità di saper dispiegare nel più breve tempo possibile un’azione generale nazionale. Lo sciopero del 27 ottobre però è stato proclamato l’8 luglio, 3 mesi e mezzo prima!».
3) Riguardo la piattaforma rivendicativa dello sciopero il documento notava come la piattaforma recasse un ventaglio di rivendicazioni troppo ampio e variegato, tale da far risultare la mobilitazione non come una prova di forza per uno o pochi obiettivi concreti ma come «una manifestazione d’opinione per un mondo migliore» o meglio, per essere più precisi, un’espressione di un dato fronte di partiti. Invece di una piattaforma di sciopero, per la sua ampiezza abbiamo qui un programma generale e generico di riforme. La solita pretesa di “portare” il movimento operaio “sul terreno politico” allontana i lavoratori da simili mobilitazioni che, essendo convocate per ottenere “tutto”, istintivamente sono sentite inutili in quanto non otterranno nulla. Invece uno sciopero generale del sindacalismo di base è di per sé un grande fatto politico, che infatti allarma i borghesi. La classe proletaria spontaneamente vi ricorre, arma da non svilire, in vista di obiettivi pratici che, se non nell’immediato per lo meno nel medio termine, reputa effettivamente raggiungibili. Quando il sindacalismo cosiddetto conflittuale avrà la capacità di far sentire ai lavoratori che lo sciopero generale è utile e necessario, che non si tratta di una vaga manifestazione ideologica, i lavoratori vi aderiranno sempre più numerosi. La classe lavoratrice, attraverso la lotta sindacale, arriverà sul terreno politico, ma non strattonata a forza, bensì avanzando richieste unificanti e di volta in volta rafforzata, fino a giungere, lungo questo sentiero, allo scontro frontale col regime capitalista.
Un certo interesse ed apprezzamento rispetto al documento ha permesso di stabilire contatti con alcuni militanti sindacali di varie organizzazioni – Usb, Cub, SI Cobas, Confederazione Cobas, Cgil – e di redarre un “Appello per la formazione di un Fronte Unico Sindacale di Classe. Per un’azione generale di lotta di tutta la classe lavoratrice. In difesa della libertà di sciopero”, che riprendeva il primo dei punti messi in evidenza dal documento del Coordinamento Iscritti Usb per il Sindacato di Classe.
L’Appello, datato 18 agosto, si rivolgeva: - a tutti i lavoratori affinché aderissero allo sciopero generale; - agli iscritti e ai militanti dei sindacati che ancora non avevano aderito allo sciopero affinché premessero sulle proprie dirigenze per ottenere l’adesione; - agli iscritti e ai militanti dei sindacati che avevano proclamato lo sciopero affinché premessero sulle proprie dirigenze onde impedire che queste ponessero ostacoli all’allargamento dello sciopero agli altri sindacati di base; - alle aree di opposizione di sinistra in Cgil affinché aderissero e sostenessero lo sciopero.
L’intento dell’Appello, al fine del rafforzamento in tutto il sindacalismo di base dell’indirizzo per l’unità d’azione della classe lavoratrice, era raccogliere e coordinare le forze di quei settori che nei vari sindacati di base erano ostili alla pratica, messa in atto da anni dalle dirigenze, con l’eccezione di quella del SI Cobas, degli scioperi separati fra sigle ed in concorrenza.
Non era, come erroneamente qualcuno ha inizialmente inteso, un appello rivolto alle dirigenze bensì, come d’altronde era chiaramente scritto, alla base delle organizzazioni sindacali, “agli iscritti ed ai militanti”, affinché questi facessero pressione sui vertici delle organizzazioni per ottenere lo sciopero unitario.
Questo nella convinzione dei nostri compagni che, quand’anche ciò fosse stato ottenuto col presente sciopero, o in quelli futuri, le reale, piena e coerente applicazione dell’indirizzo dell’unità d’azione della classe lavoratrice potrà avvenire solo contro la maggioranza delle attuali dirigenze dei sindacati di base. Si trattava quindi di un appello non per chiedere, e quindi in un certo senso legittimare, le attuali dirigenze, ma per combatterle.
L’appello ci pare abbia soddisfatto le migliori aspettative. Ha raccolto circa 200 adesioni da iscritti e delegati di quasi tutti i sindacati cui era rivolto: Usb, SI Cobas, Cub, Confederazione Cobas, Sgb, sinistra Cgil. Di quest’ultima hanno aderito sia componenti dell’area “Il sindacato è un’altra cosa” sia elementi al di fuori di essa ma certamente ascrivibili all’opposizione di sinistra interna. Non hanno invece aderito elementi di “Democrazia e Lavoro”, cosa che si sperava avvenisse in virtù delle recenti ritorsioni padronali che hanno portato a provvedimenti disciplinari e al licenziamento di alcuni delegati in essa organizzati.
De “Il sindacato è un’altra cosa”, d’altronde, hanno aderito all’appello solo alcuni delegati mentre l’area nel suo complesso, in occasione del suo seminario svoltosi a Treviglio (Bergamo) i primi giorni di settembre, pur lasciando libertà ai suoi componenti d’aderire, ha valutato, come da relazione del suo Coordinatore nazionale de facto, di non farlo, adducendo quale ragione quella di non voler entrare nelle diatribe che dividono il sindacalismo di base. Questa appare una scusa più che una ragione reale, dato che il senso dell’appello era proprio superare e vincere le misere contrapposizioni fra le varie sigle del sindacalismo conflittuale. Ci pare invece corretta l’indicazione data riguardo allo sciopero generale, cioè di aderirvi solo nella eventualità che l’unitarietà del sindacalismo di base fosse stata effettivamente raggiunta. Nel qual caso naturalmente sarebbe stato da verificare l’effettivo impegno con cui questa adesione fosse messa in pratica. Questa è un’altra ragione che avrebbe dovuto motivare a superare le divisioni fra le dirigenze sindacali per dispiegare uno sciopero generale unitario.
Al di sopra degli indirizzi decisi nel seminario dall’area di opposizione di sinistra in Cgil “Il sindacato è un’altra cosa”, il fatto che in esso si sia discusso dell’Appello è indicativo del buon successo dall’iniziativa.
Certamente ha contribuito ad orientare anche varie organizzazioni sindacali di base – pur con tentennamenti, titubanze, furbizie – nella direzione auspicata dai loro iscritti suoi firmatari.
A muovere il primo passo è stata l’Usb, con una “Lettera aperta” dell’Esecutivo Nazionale Confederale del 31 agosto rivolta “A tutte le strutture sindacali di base e di classe”, in cui auspicava l’organizzazione di uno sciopero generale unitario ma chiedeva di spostare la data della mobilitazione dal 27 ottobre a circa metà novembre, adducendo quale ragione gli impegni per l’organizzazione il 2 e il 3 novembre a Roma del congresso giovanile della Federazione Mondiale Sindacale, cioè ciò che rimane della Internazionale dei sindacati di marca staliniana legati al blocco imperialista russo prima del crollo di quel falso socialismo, fra il 1989 ed il 1992.
A molti, fra cui i nostri compagni, tale pretesto è sembrato sfacciatamente insincero e inconsistente; tuttavia non vi erano ragioni per non accettare la proposta dell’Usb, se l’obiettivo era quello dello sciopero unitario. La dirigenza Usb si è sempre distinta per la sua condotta cosiddetta “autoreferenziale”, cioè per organizzare scioperi separati e in concorrenza con quelli degli altri sindacati, di base e confederali. L’esempio più chiaro e recente era stato lo sciopero generale dei trasporti e della logistica del 16 giugno, cui anche la Confederazione Cobas Lavoro Privato aveva aderito, mentre l’Usb, senza alcuna giustificazione, lo aveva disertato. Così pure l’Usb non aderisce, pur invitata, ai tentativi di organizzazione unitaria di una mobilitazione di categoria che alcuni militanti di varie organizzazioni sindacali di base hanno tentato di costruire nel Pubblico Impiego, col gruppo “Pubblico Impiego in Movimento”, e fra gli autoferrotranvieri. Infine, al recente secondo congresso, nell’assise nazionale del Lavoro Privato svoltasi a maggio, un emendamento volto a sostenere i tentativi di coordinamenti intersindacali ha incontrato l’opposizione della dirigenza e, pur avendo avuto il sostegno di molti delegati metalmeccanici e FCA (Fiat), è stato bocciato.
Su queste basi era verosimile interpretare il comunicato dell’Esecutivo Usb come un modo per soddisfare le pressioni interne dei delegati volte a sostenere lo sciopero unitario e per apparire favorevole a questa ipotesi, nella consapevolezza che con ogni probabilità il comportamento specularmente settario della maggioranza della dirigenza Cub, che si rifiuta di imbastire azione generali e confederali con l’Usb, col pretesto dell’adesione di questa al TUR, avrebbe prodotto il rigetto ed il fallimento della proposta d’azione unitaria, la cui responsabilità sarebbe però caduta sulla Cub e sul cartello promotore dello sciopero del 27 ottobre, e non sull’Usb.
Da ciò derivava che la condotta più saggia sarebbe stata quella di accettare la proposta dell’Usb, ponendo la sua dirigenza nella posizione ad essa assai sgradita di dover condividere una giornata di sciopero generale con tutto l’intero arco del sindacalismo di base, perdendo così il ruolo di prima donna e la sempre ricercata sua egemonia, ed esponendo i suoi iscritti al rischio di scoprire il fatto, cui sempre sono tenuti all’oscuro, che il movimento sindacale di base e di classe non si esaurisce affatto nei confini organizzativi dell’Usb.
Per quanto detto i promotori dell’Appello, sempre col contributo dei nostri compagni, hanno redatto una prima nota di aggiornamento, in cui la proposta dell’Esecutivo Usb era considerata un primo piccolo ma importante successo dell’iniziativa e si esortava a continuare nella diffusione dell’Appello e nella ricerca di sottoscrizioni.
Il 4 settembre con un Comunicato nazionale il SI Cobas rispondeva alla Lettera aperta dell’Esecutivo Usb: dopo aver denunciato la pretestuosità della ragione addotta per richiedere il rinvio dello sciopero, si dichiarava tuttavia disponibile a discuterne, proponendo un limite temporale di 10 giorni. L’apertura del SI Cobas alla proposta dell’Usb non era priva di coraggio in quanto comportava tensioni con quelle organizzazioni e componenti che, all’interno del cartello promotore degli scioperi del 16 giugno e del 27 ottobre, erano dichiaratamente ostili ad azioni unitarie con l’Usb. Inoltre va riconosciuto come questo sindacato abbia anche in passato aderito a scioperi nazionali, sia promossi dalla Cub, sia dalla Usb, sia organizzati dalla Cgil e dalla Fiom.
Come alla Lettera aperta dell’Esecutivo Usb, anche alla risposta del SI Cobas i promotori dell’Appello facevano seguire una nota di aggiornamento, la seconda, di carattere analogo alla prima, indicandolo come un secondo successo della loro iniziativa.
L’11 settembre usciva con una lunga riflessione sullo sciopero generale il piccolo ADL Cobas, il quale sostanzialmente si faceva anch’esso sostenitore dello sciopero unitario, e il giorno successivo si aggiungeva l’Esecutivo Nazionale Confederale della Confederazione Cobas, fatto anche questo notevole, visto l’atteggiamento opposto tenuto anche da questo sindacato da molti anni a questa parte.
Giovedì 14 settembre si veniva però a conoscenza, con gran sorpresa, della proclamazione da parte dell’Usb di uno sciopero generale del pubblico impiego per il 17 novembre, cui seguiva di lì a poco quella per il settore trasporti. Due atti che con ogni evidenza parevano sabotare il tentativo di concordare una data per uno sciopero generale unitario. Tuttavia il 20 settembre un comunicato del Coordinamento Nazionale Usb, quindi di un organismo apicale più largo dell’Esecutivo, chiariva perentoriamente che nel caso fosse stata concordata una data per lo sciopero unitario differente da quella del 17, l’Usb avrebbe ritirato e spostato lo sciopero.
Il 21 settembre toccava al piccolo Unicobas esprimersi a favore dello sciopero unitario e ad indicare, come già aveva fatto la Confederazione Cobas, quale data più consona quella del 10 novembre.
Per sabato 23 settembre a Milano era stata convocata dai sindacati promotori dello sciopero del 27 ottobre un’Assemblea nazionale per la sua preparazione. Ad essa l’Appello faceva riferimento, invitando lavoratori, iscritti e militanti sindacali a parteciparvi.
Va detto che il documento del 4 agosto pubblicato a nome del Coordinamento Iscritti Usb per il Sindacato di Classe criticava questa Assemblea, il cui manifesto di convocazione invitava i cosiddetti “movimenti” senza aggettivo – in quanto non operai – e gli studenti, ma non le organizzazioni sindacali, che del movimento operaio sono attori fondamentali e non ignorabili. Ciò era stato fatto chiaramente per continuare a soddisfare la pretesa di chi, all’interno del cartello promotore lo sciopero, non desiderava l’unità d’azione con l’Usb.
Oltre a ciò, a seguito delle manovre delle varie organizzazioni sindacali in reazione al successo avuto dall’Appello, i sindacati promotori dell’Assemblea hanno affidato ad essa il compito e la responsabilità di decidere in merito alla questione della unitarietà dello sciopero, che, dato il carattere della proposta dell’Usb, doveva passare necessariamente per uno spostamento della data. Lo stesso SI Cobas, pur aprendo alla discussione su tale possibilità, nel suo comunicato si rimetteva al volere dell’Assemblea.
Questa, va chiarito, è una finzione di comodo, una scappatoia demagogica e diplomatica per sottrarsi alle proprie responsabilità. Come viene convocata questa assemblea per rappresentare davvero gli iscritti nei posti di lavoro e nei territori inquadrati nei vari sindacati? Se è sicuramente vero che le dirigenze dei sindacati, anche di base, molto spesso ostacolano la democrazia interna per garantirsi il controllo delle organizzazioni e l’esecuzione delle loro direttive politico sindacali, ciò non significa che lo strumento decisionale dei sindacati possa essere subordinato o sostituito da un’assemblea nazionale come questa, dove ciascuna organizzazione e corrente porta le sue truppe fedeli, che si misurano con interventi limitati dal poco tempo disponibile. Insomma, l’assemblea, presentata ipocritamente come una manifestazione democratica e spontanea, diventa l’esatto opposto, un ambito in cui è assai facile per le varie strutture organizzative approfittare della confusione per imporre le proprie direttive facendole passare come volontà della base e dei lavoratori.
Chiaro invece che alla fine le decisioni in merito allo sciopero saranno prese, com’è inevitabile, dalle dirigenze dei sindacati, nei loro rapporti di scontro e di mediazione. Ed anche è opportuno che così sia, quando avremo domani dirigenze veramente fedeli ai bisogni e alle aspettative della base e ricche di esperienza di guerra di classe.
In tutto l’arco sindacale di base preso in esame, quindi, l’unico sindacato ad essersi espresso esplicitamente contro lo sciopero unitario è stata la piccola Usi‑Ait. Ma la vera forza che si oppone è quella della maggioranza della dirigenza nazionale Cub, cui però si oppone una minoranza di peso apprezzabile, che in parte ha ricevuto forza dall’iniziativa dell’Appello. Di questa fa parte la Cub Trasporti. Questa, riguardo all’effettiva messa in atto dello sciopero, cioè sul piano delle adesioni e del blocco dell’attività economica da esso generati, ha un peso proporzionalmente superiore a quello, comunque importante, degli iscritti alla Cub. Insomma, lo sciopero generale messo in atto dalla Cub, per una parte importante è uno sciopero dei trasporti. Ed il fatto che questa categoria della Cub sia di orientamento opposto a quello della maggioranza della dirigenza nazionale del sindacato, non è di secondaria importanza.
Un altro aspetto che l’iniziativa dell’Appello ha messo in luce è il comportamento dei vari gruppi politici e si è potuto verificare alla prova dei fatti la pasta dei proclami alla “unità d’azione”. Diversi militanti sindacali di vari gruppi politici si sono espressi, anche con un certo fervore, favorevolmente all’appello, ma riservandosi di aderire, correttamente, sentita la loro organizzazione politica: nella maggioranza dei casi ne è seguito il silenzio e la mancata adesione. Le organizzazioni politiche – oltre al nostro partito che coi suoi compagni ha collaborato alla sua promozione – che hanno nei fatti sostenuto l’Appello, facendo aderire i loro militanti lavoratori, si contano sulle dita di una mano.
Infine, ultimo aspetto da evidenziare, riguardo alla battaglia interna alle organizzazioni sindacali per l’affermazione di un autentico indirizzo classista, e in particolare all’Usb, va notato come – in coerenza e a dimostrazione di quanto affermato nell’articolo sul secondo congresso di questo sindacato, di cui qui a lato è pubblicata la seconda ed ultima parte – l’Appello ha trovato il sostegno sia di iscritti Usb che già avevano partecipato alla battaglia contro l’adesione al Testo Unico sulla Rappresentanza, e che aveva condotto alla formazione del Coordinamento Iscritti Usb per il Sindacato di Classe, sia di iscritti di recente adesione. Ciò dimostra, a correttezza di quanto affermato nella conclusione del succitato articolo, che se e nella misura in cui i lavoratori aderiranno e faranno crescere le dimensioni di questo sindacato, dando credito a ciò che esso afferma circa la necessità della lotta e dell’indirizzo sindacale di classe, per la sua dirigenza sarà sempre più difficile controllare ed usare l’organizzazione per i suoi obiettivi politici, che sono in contrasto con le necessità pratiche del movimento operaio.
* * *
Mandiamo il giornale in stampa all’indomani dell’Assemblea nazionale a Milano del 23 settembre.
È andata come i nostri compagni si attendevano. Non ha deciso nulla, anche se ha finto di farlo con una farsesca votazione finale, confermando decisioni prese precedentemente dalle dirigenze dei sindacati promotori. L’ipocrisia sta in queste dirigenze che dichiarano il contrario.
L’assemblea si è sostanzialmente spaccata in due, con una robusta minoranza favorevole allo sciopero unitario ed una maggioranza contraria.
Quasi tutti gli interventi hanno trattato di questo problema, e ciò è stato indubbiamente in parte un risultato dell’iniziativa dell’Appello, a cui molti interventi hanno fatto esplicito od implicito riferimento, in positivo o in negativo. Questo dimostra il successo dell’iniziativa, che ha creato problemi alle dirigenze, che hanno dovuto difendersi e con alcuni, dichiaratamente ostili all’indirizzo dell’unità d’azione dei lavoratori, che hanno apertamente manifestato la loro insofferenza.
L’assemblea ha così sanzionato la decisione di mantenere lo sciopero nella data del 27 ottobre, rigettando la proposta di Usb di spostarlo il 10 o il 17 novembre.
Era la decisione che la dirigenza Usb si attendeva, e in cui sperava, come ha palesato in un comunicato pubblicato puntualmente il giorno successivo, intitolato “È la semplicità che è difficile a farsi”. La dirigenza Usb ha potuto così apparire sostenitrice dello sciopero unitario, gettando sul cartello sindacale promotore dello sciopero del 27 ottobre la responsabilità dei due scioperi generali separati e l’accusa di settarismo. Gli iscritti Usb resteranno ancora una volta rinchiusi nel loro sindacato, ignari per lo più che esistono altre organizzazioni sindacali di base con le quali sarebbe utile e necessario unirsi nella lotta e che spesso sono portatrici di indirizzi e metodi di azione più classisti, sulla questione del TUR e su altre. Agli iscritti che si interrogano sul rapporto con gli altri sindacati di base la dirigenza Usb ora avrà buon gioco a descriverli come settari.
Sul piano generale del movimento operaio, la riproposizione di due scioperi generali del sindacalismo di base, separati ed in concorrenza, come avviene da anni, indebolirà la forza dello sciopero. I due scioperi separati impediranno inoltre il sostegno ad esso da parte dell’area di opposizione di sinistra in Cgil “Il sindacato è un’altra cosa”.
Non si tratta di fare il conto aritmetico delle sigle e correnti sindacali, ma della somma dei lavoratori in esse inquadrati, suscettibili di essere portati allo sciopero, al fine di colpire il padronato, l’economia nazionale, il regime borghese, e dare della classe e alla classe lavoratrice una manifestazione di forza.
Il successo dell’iniziativa dell’Appello “Per un fronte unico sindacale di classe” si spiega non certo con la forza numerica dei suoi promotori, che sono un piccolo gruppo di militanti, ma con la correttezza del suo indirizzo che trova terreno fertile nella classe e nei militanti sindacali.
È stato un primo passo di un cammino, che i nostri compagni cercheranno di far proseguire al meglio, certi che questo necessario indirizzo d’azione sindacale si rafforzerà, coltivato e propagandato in tutte le organizzazioni sindacali, contribuendo a portare la base degli iscritti e dei militanti in ciascuna di esse a sbarazzarsi della maggioranza delle attuali dirigenze, o, verificata nella pratica lotta che ciò non sia possibile, a riorganizzarsi in sindacati sani.
Lavoratori della scuola in Perù
Sciopero ad oltranza contro i peggioramenti
In Perù, il 15 giugno, gli insegnanti della Regione Cuzco, decisero di iniziare uno sciopero ad oltranza contro l’intenzione del governo di adottare una nuova riforma della scuola, per l’aumento degli stipendi da fame, promesso nella campagna elettorale dal vincitore in carica, per un maggiore investimento nella scuola pubblica, e per il pagamento del cosiddetto “debito sociale”, ovvero dei finanziamenti promessi per lo stato sociale.
Dopo 80 giorni, 60 lavorativi, di sciopero ad oltranza, cominciò ad unirsi, a poco a poco, la quasi totalità degli insegnanti delle varie regioni, riuscendo ad indire uno sciopero generale su tutto il territorio peruviano. È stata una lotta tenace contro tutto e contro tutti, con diversi dirigenti dei sindacati che non perdevano occasione per contenere la protesta e conciliare con lo Stato. Gli oltre 250.000 insegnanti hanno così paralizzato l’intero anno scolastico.
La riforma della scuola in questione è molto simile a quella che è stata imposta in Messico. Tra le varie misure la più importante è quella della libertà di licenziamento, strumento utile al padronato per rompere l’unità sindacale, sbarazzandosi dei lavoratori più combattivi, generando competizione e incertezza tra gli altri, attaccando le condizioni di lavoro dei docenti.
Il salario di un insegnante è circa di 1.200 soles; poiché i prezzi dei prodotti e dei servizi di prima necessità sono colpiti dall’alta inflazione, molti docenti sono condannati ad una vita in povertà e a difficoltà materiali anche per esercitare il proprio lavoro: questo ha spinto i lavoratori della scuola alla lotta intransigente.
Era da molti anni che un movimento di sciopero non si espandeva con tanta portata, arrivando fino alla capitale, fortino della borghesia peruviana. La generalizzazione dello sciopero, la solidarietà tra lavoratori stabili e precari, l’arrivo di migliaia di insegnanti nelle piazze della capitale, e i metodi intransigenti nella lotta sono un precedente per il futuro e un esempio da seguire.
Ma, e soprattutto, la lezione più importante sta nell’insubordinazione alla burocrazia sindacale, uno sciopero che ha scavalcato i vecchi servitori del capitale peruviano.
Il SUTEP, Sindacato Unico dei Lavoratori della Scuola del Perù, e la sua direzione, denominata CEN SUTEP, si sono visti scavalcare dalla grande dimostrazione di lotta e perseveranza dei gruppi di insegnanti riuniti su basi regionali, portandoli alla rottura con la dirigenza nazionale. Questa, sempre più subordinata agli interessi dello Stato con cui collabora attivamente, si è opposta in tutti i modi allo sciopero e ha provato innumerevoli volte a fermarlo senza riuscirvi. Vedendosi scavalcata, ha cercato di mitigare la rabbia e l’odio dei lavoratori firmando un accordo per l’aumento dello stipendio a 2.000 soles.
Il ministro della educazione, Marilù Martes, e tutta la struttura repressiva di cui dispone lo Stato, hanno accusato gli scioperanti di terrorismo, vandalismo e sommossa. In realtà a praticare terrorismo contro gli scioperanti durante tutta la lotta è stata la borghesia peruviana, con la minaccia di licenziamenti in massa, schierando l’artiglieria mediatica per reprimere e impedire la solidarietà di classe, e usando lacrimogeni, idranti e pallottole di gomma sugli scioperanti durante le manifestazioni. Nonostante ciò, e nonostante l’aumento salariale, il tradimento di vari dirigenti e gli accordi stipulati con i vertici sindacali, la lotta è continuata per i suoi obiettivi.
La scuola ha ripreso la sua attività solo il 4 settembre sotto una specie di “tregua” promossa dai sindacati di regime con il governo, il quale dovrebbe rivedere la sua politica di riforma. Come prima cosa è stato ufficializzato che da novembre gli stipendi degli insegnanti saranno aumentati a 2.000 soles (617 dollari)
Ma l’apertura dell’anno scolastico si è tenuta in un clima di agitazione dei lavoratori, che è sfociato in un nuovo sciopero di 24 ore l’8 settembre con una manifestazione dei docenti nel centro di Lima, repressa con lancio di lacrimogeni da parte della polizia, che ha impedito ai manifestanti di arrivare a Plaza San Martin, vicino al Congresso e al Ministero della Educazione.
Il rappresentante del sindacato di regime SUTEP a Lima ha dichiarato: «Abbiamo sospeso lo sciopero nazionale, però non è stato ritirato. La lotta in atto prosegue perché il ministro fino ad oggi non ha dato risposte alle rivendicazioni dei lavoratori. La lotta prosegue senza sconti». I sindacati di regime si vedono obbligati a porsi sul fronte della protesta, ma il loro scopo è quello di frenarla e distrarla con falsi obiettivi. La loro richiesta delle dimissioni del ministro dell’Educazione è un diversivo per il movimento dei lavoratori in lotta, perché il cambiare un funzionario non cambierà le politiche antioperaie del governo borghese; inoltre le dimissioni sono avallate dall’opposizione al governo attuale in Perù per meri interessi elettorali. Tra l’altro l’attuale ministro è arrivato all’incarico grazie alla destituzione da parte del parlamento del suo predecessore, dovuta senza dubbio allo sciopero dei lavoratori.
La lotta dei peruviani, che oggi sembra placata, riporta lezioni e conferme che il nostro Partito ha saputo trarre dalla controrivoluzione e dall’opportunismo.
La lotta per migliori condizioni di vita dei lavoratori non potrà essere vittoriosa, nel caso di questa e di tutte le lotte presenti e future, senza l’estensione dello sciopero a tutti i settori, praticando la solidarietà di classe, senza la messa in opera dei metodi classisti di lotta, con organizzazioni proletarie scevre dal collaborazionismo con il nemico di classe.
Come in Perù anche in Messico abbiamo visto un lungo sciopero contro una simile riforma della scuola. E non sarà l’ultimo. Il capitalismo in crisi cerca di accrescere l’estrazione di plusvalore intensificando lo sfruttamento sulla classe operaia. L’obiettivo di questa riforma è rompere l’unità dei docenti, lanciandoli nella fossa della concorrenza, di licenziamenti in massa e del peggioramento delle condizioni di lavoro.
Non si potrà migliorare le condizioni generali di vita nel capitalismo senza la solidarietà di classe. Il proletariato è l’unica classe che non ha nulla da perdere e un mondo da guadagnare, con la ripresa della lotta di classe, come fece 100 anni fa, spingendo sulla contraddizione tra lavoro salariato e capitale, comunismo o guerra imperialista. Questa classe è internazionale, così come è internazionale il suo programma di emancipazione e il suo Partito.
L’USB al suo secondo Congresso nazionale
La “Federazione del sociale”
Questo indirizzo della dirigenza USB non è una novità ed era già stato espresso con la formula del “sindacato metropolitano” – cui abbiamo già accennato – all’Assemblea nazionale della RdB‑CUB nel maggio 2009, quella che sancì la fine del “Patto di Base” e la rottura fra RdB e CUB.
Le argomentazioni usate dall’allora (e odierno) coordinatore nazionale di USB erano analoghe a quelle di oggi: «Il mondo del lavoro – affermava – si è trasformato radicalmente. Esiste una diffusione di soggetti diversi che non hanno un luogo di lavoro fisico o che (...) lo hanno per pochi mesi». E indicava di rompere con «l’egemonia del sindacalismo puro» per abbracciare «pratiche diverse ma assolutamente efficaci che si realizzano nelle metropoli e sul sociale». Per questo l’Assemblea avrebbe dovuto produrre «una proposta di sintesi politico/organizzativa su cui far misurare una nuova, più larga assemblea generale del sindacalismo di base, aperta ai movimenti e ai soggetti sociali che la ritengano utile e intendano ritessere una relazione con essa».
Il secondo congresso di USB ha fatto un passo in avanti nell’applicazione di questo indirizzo d’azione interclassista. Se nel maggio 2009 si proponeva un’apertura ai movimenti sociali, cioè una relazione del sindacato con essi, ora si indica di inquadrarli nel sindacato stesso attraverso la creazione di un apposito “ambito organizzativo”: la Federazione del Sociale.
La dirigenza USB attribuisce a questa nuova struttura una importanza tale da definirla nel documento congressuale “terza gamba dell’organizzazione”, insieme a quella di USB Lavoro Privato e USB Pubblico Impiego. «USB FdS è destinata a rafforzare la vocazione confederale dell’USB e il suo orizzonte di costruzione e organizzazione dell’intero blocco sociale». La Federazione del Sociale «comprende e coordina tanto l’ASIA USB quanto l’USB Pensionati, che mantengono la loro struttura organizzativa e statutaria».
Particolarmente chiaro sui compiti che dovrebbero spettare alla nuova struttura del sindacato è stato un rappresentante dell’Esecutivo nazionale intervenuto al primo congresso di USB Pensionati, il 10 maggio: «Un nuovo soggetto che andremo a costituire che sarà utilizzato e sarà la casa per tutto quello che è il lavoro irregolare, il lavoro autonomo, quello finto e quello vero, che costituisce oggi una fetta molto ampia del mondo del lavoro». E il documento conclusivo approvato dal Congresso nazionale, all’interno della Federazione del Sociale, ad ASIA e USB Pensionati ha aggiunto un nuovo soggetto: lo SLANG, acronimo di “Sindacato lavoratori autonomi di nuova generazione”.
Poiché la condizione di lavoro autonomo è un modo per le aziende per evitare l’assunzione del lavoratore, risparmiando sul costo del lavoro, sarebbe corretto che il sindacato si facesse carico di una battaglia per unificare le condizioni di questi lavoratori a quelle degli assunti a tempo indeterminato. Quindi sarebbe necessario inquadrare i precari negli organismi dei restanti lavoratori dell’impresa. Invece con lo SLANG si va a creare una struttura in cui il lavoro autonomo è inquadrato separatamente. In questo modo si rischia nella Federazione del Sociale di ribadire la condizione del suo isolamento e di abbandonarlo all’influenza di gruppi strati e ceti esterni alla classe lavoratrice. La Federazione del Sociale infatti dovrebbe farsi carico di organizzare e sostenere i più svariati movimenti interclassisti, da quelli degli utenti dei servizi sociali, a quelli in difesa dell’ambiente, fino alla riqualificazione dei quartieri. I giovani salariati precari, i disoccupati, i pensionati, che dovrebbero ritrovarsi a farne parte si vedrebbero impegnati in attività lontane dalla lotta sindacale, affogati nell’interclassismo. Precari e pensionati, invece d’essere accolti nella condizione di solidarietà e di forza della loro classe lavoratrice, sono sospinti verso l’impotenza, e la disperazione, dei declassati.
Nella sana tradizione di classe i disoccupati ed i pensionati dovrebbero invece essere inquadrati nelle strutture categoriali di origine, per mantenere il legame coi lavoratori attivi e con la loro azione sindacale, non in una struttura a sé. Il nostro partito si è battuto per questo tipo d’inquadramento dentro la CGIL quando, fino alla fine degli anni settanta, dava indicazione di militare in quel sindacato, denunciando ad esempio l’organizzazione separata dei pensionati nel Sindacato Pensionati (SPI).
La creazione di USB Pensionati ricalca quella strada, con l’aggravante che si allontanerebbero ulteriormente i lavoratori in quiescenza dalla classe attiva non solo sul piano dell’inquadramento ma anche su quello dell’attività, indirizzandoli principalmente verso il sostegno al lavoro nei “movimenti sociali” invece che in quello sindacale, o magari verso attività di Patronato.
Movimento sindacale e partiti politici
L’intervento di USB nei “movimenti sociali” non inizia con la costituzione della Federazione del Sociale ma, come spiega lo stesso documento congressuale, ha già avuto da tempo una sperimentazione, avviata prima con la formula del “sindacato metropolitano” e poi con quella della “confederalità sociale”.
Tuttavia questa attività, in contrasto con gli obiettivi proclamati, risulta essere debole, presente solo in alcune località, poco organizzata. Si prenda l’esempio di ASIA che all’interno della neonata Federazione del Sociale è la struttura più antica e, teoricamente, con un’attività più comprovata. Ha svolto infatti il suo sesto congresso all’interno del secondo di USB, mentre l’organizzazione dei pensionati, altra componente della FdS, era al primo. Basti pensare che il documento congressuale di ASIA è stato pubblicato sul sito internet dell’organizzazione soli 7 giorni prima (il 6 maggio) del suo Congresso nazionale e che lo statuto dell’associazione (ricordiamo che il documento congressuale recita: «USB FdS comprende e coordina tanto l’ASIA USB quanto l’USB Pensionati, che mantengono la loro struttura organizzativa e statutaria») risulta persino inesistente.
Il problema è che anche questo settore di attività, in cui la dirigenza vuole impegnare sempre più il sindacato, richiede energie che non abbondano, il che rende ancora più erronea la scelta di non concentrare quelle poche e preziose di cui si dispone nel lavoro propriamente sindacale, di classe.
Quindi, per quanto siano non condivisibili e criticabili gli ambiziosi progetti della dirigenza d’impegno del sindacato nel campo dei movimenti sociali e del lavoro autonomo, va considerato che una loro anche parziale realizzazione sarà tutt’altro che facile e scontata. Ciò dovrebbe tranquillizzarci, ma lo fa solo in parte per quanto andiamo a spiegare. Bisogna infatti fare una chiarificazione sul mondo di questi movimenti e come i sindacati, non solo USB, si relazionano con essi.
Mentre nel campo della classe salariata i gruppi di lavoratori che si avvicinano al sindacato lo fanno a prescindere dalla loro appartenenza ideologica e politica, spinti dalla necessità di difendere le proprie condizioni di vita e lavoro, in quello dei “movimenti sociali” l’intervento del sindacato è molto spesso mediato da una relazione con organismi che già operano nel settore e che, per quanto si presentino come “sociali”, sono invece politici: collettivi, centri sociali, ecc. Si tratta della galassia del cosiddetto “movimento”, senza aggettivi in quanto non “operaio”. È un fenomeno tipico dell’imperialismo, della fase ultima del capitalismo, espressione dell’agitarsi inconcludente degli strati sociali intermedi, mezze classi, coltivati da ciascun capitalismo nazionale, in misura della propria potenza, in quanto preziosi per affievolire la contrapposizione fra la classe lavoratrice e la borghesia, ai quali lascia spazio economico l’effimero benessere e morale la temporanea debolezza della classe operaia. Il fenomeno è tornato a manifestarsi in Italia e negli altri paesi a capitalismo maturo a partire dal ‘68.
Intervenendo in questo campo ciascun sindacato incontra quindi, ben diversamente da quanto accade fra sindacati, dei “soggetti politici”, e va da sé che ciascuna dirigenza sindacale opera una selezione scegliendo di relazionarsi coi gruppi politicamente a sé affini. Alla fine, dietro le articolate giustificazioni teoriche e gli ambiziosi progetti di “blocco sociale”, poco importa quanto velleitari, l’effetto pratico che conta, il segreto di pulcinella, è la prosaica creazione di una massa di manovra da esibire nelle manifestazioni e di una base di appoggio dentro il sindacato, utili alla dirigenza per il perseguimento delle sue manovrette politiche.
Perché, naturalmente, la “terza gamba” del sindacato avrà un peso in termini di delegati, negli organismi confederali, territoriali e nazionali. Ed essendo questi scelti sulla base di un processo di selezione politica, già danno e ancor più daranno alla dirigenza una maggiore garanzia di successo nell’imporre il suo indirizzo all’interno del sindacato.
Questo rimestare delle dirigenze sindacali coi “movimenti sociali”, conduce ad una caratterizzazione politica del sindacato, non frutto di una maturazione in quella direzione della classe lavoratrice, ma in senso opposto, perché va ad esacerbare la contrapposizione fra le varie organizzazioni sindacali di base e quindi a indebolire il movimento di lotta della classe, la cui crescita è la condizione alla base del suo generale rafforzamento organizzativo sindacale e, infine, politico.
I vari sindacati di base tendono così ad assomigliare a sindacati di partito, in perenne competizione e guerra fra loro. Non che diventino partiti e cessino di essere sindacati. Ma con la scusa di agire “nel sociale” le dirigenze acquisiscono maggiori margini di controllo sull’organizzazione per usarla ai propri scopi, di quanti ne avrebbero se si limitassero al lavoro nel campo della sola classe salariata.
Sindacato e “ruolo politico”
Il documento congressuale spiega come l’attacco contro la classe lavoratrice si sia fatto sempre più duro – il che è sotto gli occhi di tutti – e afferma che per affrontarlo è necessario un elevamento del sindacato ad una funzione anche “politica”: «Oggi è largamente superato (...) il sindacato di stampo tradeunionista, legato unicamente alla vertenza e all’intervento aziendalistico e (...) c’è una disponibilità del quadro dirigente dell’organizzazione, ma non solo di quello, ad assumere anche una funzione e un ruolo politico (...) Anche il sindacato complice e collaborazionista ha risposto alla politicizzazione dello scontro con la politicizzazione (...) Accettare la sfida della politicizzazione dello scontro, e quindi della nostra funzione, significa avere un quadro dirigente diffuso di qualità ed attrezzato».
A parte il fatto che per un sindacato che si vuole di classe dovrebbe venire spontaneo non seguire i passi del sindacalismo “complice e collaborazionista”, cerchiamo di fare un poco di chiarezza, giacché è nella confusione che l’opportunismo sguazza.
Intanto va detto che, fra il sindacato “legato unicamente alla vertenza e all’intervento aziendalistico”, che i dirigenti di USB definiscono erroneamente tradeunionista, e il sindacato che assume “una funzione e un ruolo politico”, di mezzo c’è moltissimo. Soprattutto c’è il sindacalismo di classe.
Nel primo sindacalismo non possiamo, a rigore, far rientrare nemmeno la Cisl, ma forse solo alcuni sindacati cosiddetti autonomi, come la Fismic in FIAT. L’indirizzo sindacale di classe mira alla unificazione delle lotte dei lavoratori, in quanto è la condizione per il massimo sviluppo della forza operaia. Quindi esso indica di lavorare per il superamento delle varie divisioni fra i salariati: di reparto, fra aziende, fra categorie, fra stabili e precari, fra statali e privati, fra piccole e grandi aziende, fra autoctoni ed immigrati, e poi di sesso, opinione politica, religione, nazionalità. Sul piano delle organizzazioni sindacali indica la strada della unità nell’azione di lotta, cioè nello sciopero.
Per la migliore realizzazione di questo indirizzo è necessario il rispetto della funzione sindacale, mentre l’immaturo, frettoloso, utilizzo del sindacato per una “funzione politica” non può che rallentare o far retrocedere l’avanzamento in questa direzione, venendo a dividere i lavoratori e il movimento sindacale sulla base delle opinioni politiche.
È sul piano pratico della lotta, non su quello delle opinioni, dell’ideologia, della teoria sociale, che la massa dei lavoratori seguirà l’indirizzo sindacale comunista, perché quello si dimostrerà il più coerente ed efficiente nel perseguire la difesa effettiva e il rafforzamento della classe salariata. Mentre gli altri indirizzi sindacali, emananti dalle altre scuole e partiti politici, mano a mano che la lotta di classe si farà più dura per effetto dell’avanzare inesorabile della crisi economica del capitalismo, finiranno per subordinare questo obiettivo sindacale – a parole proclamato non certo solo dai comunisti – ai loro obiettivi politici opportunisti e controrivoluzionari.
In questo senso solo l’indirizzo sindacale comunista non strumentalizza il sindacato, non perché i comunisti siano in buona fede e gli altri no, ma in quanto è l’unica espressione di un obiettivo politico generale che coincide col migliore e massimo sviluppo del movimento sindacale.
Va chiarito quindi che non ci scandalizziamo né ci indigniamo per il fatto che le dirigenze sindacali cerchino di perseguire obiettivi politici. In linea generale possiamo ammettere che credano di farlo per il bene dei lavoratori. Un sindacato apolitico non può esistere. La politica riguarda ogni aspetto della vita sociale e ha un rapporto evidente e cruciale col campo sindacale. Proprio in quanto il sindacato inquadra i lavoratori in base alla loro condizione sociale e non alla loro fede politica o religiosa, per via naturale in esso si sviluppano differenti indirizzi sindacali che si riconducono in modo più o meno coerente ai vari partiti politici. È bene diffidare da chi nasconde le proprie opinioni ed intenzioni; viceversa è da apprezzare la massima chiarezza e va pretesa la tutela della libertà d’espressione nel sindacato. Battersi per l’apoliticità del sindacato non può che risolversi da un lato nella repressione dell’espressione e della manifestazione delle diverse opinioni politiche, dall’altro nel mantenimento di una finzione – l’apoliticità – dietro cui si nasconde la sostanza di un qualunquismo che altro non è che una delle vesti dell’ideologia della classe dominante.
Ciò che denunciamo quindi non è il perseguimento da parte della dirigenza di USB dei suoi obiettivi politici – fatto ineluttabile – ma il contrasto che si manifesta fra questi obiettivi e le necessità pratiche del movimento di lotta dei lavoratori e della loro organizzazione sindacale.
L’indirizzo della dirigenza di USB volto a far assumere una funzione politica al sindacato, laddove la costruzione del sindacato di classe è obiettivo ancora lontano, laddove la concreta attività sindacale di USB fatica ancora ad emanciparsi dai confini aziendali, va a frenare e deformare lo sviluppo del sindacato, come accade al corpo di un neonato costretto in fasce maldisposte. Ciò avviene per esempio, come sopra descritto, con la creazione della “terza gamba” del sindacato, la Federazione del Sociale, allo scopo di allargare la base su cui la dirigenza possa contare all’interno del sindacato per i suoi obiettivi politici.
I veri obiettivi “politici” della dirigenza USB
Questi obiettivi politici sono quelli espressi dalla cosiddetta Piattaforma Sociale Eurostop, di cui USB è componente fondamentale, riassunti nella formula “No Euro, No UE, No NATO” (si legga il nostro recente articolo “Contro la parola d’ordine di uscita dall’Euro dall’Europa dalla Nato”).
Il nostro obiettivo politico è l’abbattimento del capitalismo, quello della dirigenza di USB la lotta contro il neoliberismo, cioè per una pretesa forma migliore del capitalismo, illudendosi che sia data la possibilità di riformare questo sistema, e non solo quella di subirlo o distruggerlo.
La lotta al neoliberismo si traduce in pratica in lotta per un governo di “sinistra”, per via elettorale. A tal scopo, ben più che lo sviluppo dell’unità della classe lavoratrice, è utile la formazione di un movimento politico, qual’è appunto Eurostop, al cui servizio viene messa USB, coinvolgente il più ampio spettro possibile dell’elettorato, e quindi anche ceti, strati e classi sociali diversi dalla classe salariata.
Mentre il comunismo rivoluzionario indica di abbattere il capitalismo, e che a tale scopo la strada è solo quella della rivoluzione – cioè sul piano nazionale la distruzione dell’apparato statale borghese e la sua sostituzione con quello temporaneo della classe lavoratrice e su quello internazionale il rigetto di tutti i fronti di alleanze fra Stati capitalisti – il riformismo deve cercare e indicare sempre un preteso obiettivo politico migliorativo ed un fronte internazionale di Stati borghesi migliore o meno peggiore per il quale schierarsi. Questo obiettivo politico sarebbe oggi l’uscita dall’Euro e dall’Unione Europea e, sul fronte delle alleanze internazionali, dalla NATO, per schierarsi con l’altro fronte imperialista, la Russia e, in Siria ad esempio, col regime di Assad.
Di questi obiettivi politici la base degli iscritti sa poco, ma di fatto ne è coinvolta quanto meno sul piano economico, visto che con i soldi delle loro quote vengono finanziati convegni, manifestazioni e perfino viaggi di delegazioni nazionali di USB nei teatri di guerra – come nel Donbass (Ucraina) e in Siria – ospitate e protette dalle strutture politiche e militari di una delle parti belligeranti.
Nei confronti di queste guerre locali, che tendono ad assumere un carattere sempre più generale e che noi sappiamo giungeranno a conflagrare, se non sarà la rivoluzione proletaria ad impedirlo, in un nuovo conflitto imperialista mondiale, la dirigenza di USB assume una posizione che è già interventista, cioè suscettibile di schierare i lavoratori su uno dei fronti di guerra.
Queste posizioni non sono una novità, dato che sono proprie del gruppo politico che dirige questo sindacato fin dalla sua nascita nei primi anni ottanta col nome di RdB, e già si sono manifestate in occasione delle precedenti guerre in Iraq e in Serbia, nelle quali la dirigenza si schierò a sostegno dei regimi di Saddam Hussein e Milosevic.
Sono le posizioni politiche dell’opportunismo socialdemocratico, in veste stalinista, che sostituisce la classe operaia con il “popolo”, col “blocco sociale”, l’internazionalismo con il nazionalismo, il comunismo col capitalismo di Stato.
Conclusioni
Che questo indirizzo della dirigenza di USB sia stato largamente approvato dal secondo congresso del sindacato non significa che esso vedrà una sua realizzazione. Quale che sia la volontà della dirigenza di un sindacato essa deve fare i conti, oltre che con il nemico di classe, con la vivente natura dell’organo sindacato, con la ragione per la quale esso è nato, è cresciuto ed esiste. Un sindacato non nasce per la semplice volontà dei suoi organizzatori e dirigenti ma perché incontra la necessità ad organizzarsi e difendersi dei lavoratori. Una dirigenza sindacale col suo indirizzo può danneggiare o favorire lo sviluppo della forza e dell’organizzazione della classe lavoratrice, non fare di essa ciò che desidera.
Nonostante le velleità della dirigenza di USB a sviluppare l’intervento nei movimenti sociali creando una apposita struttura organizzativa, il lavoro sindacale resterà, com’è oggi, parte fondamentale dell’attività dell’organizzazione e col suo movimento tenderà ad attrarre verso sé le energie esistenti.
Se per secoli e fino ad oggi il sindacato ha avuto certi caratteri e confini, organizzando solo la classe lavoratrice, è perché ciò corrisponde a determinati caratteri materiali del capitalismo, che non saranno le fantasie innovatrici ed opportunistiche dei dirigenti USB a cambiare.
Nella misura in cui nuovi gruppi di lavoratori aderiranno ad USB, irrobustendola, il lavoro sindacale come un volano condizionerà sempre più l’organizzazione e la dirigenza dovrà fare i conti con questa necessità pratica.
Questo si rifletterà anche sul piano dello sviluppo di una pluralità di posizioni e indirizzi sindacali, tanto meno reprimibili se e quanto più continuerà ad aumentare la massa degli organizzati.
Gli stessi dirigenti di USB ne sono certamente consapevoli e se sul piano congressuale hanno formulato regolamenti, come visto, tanto restrittivi, cosa che per ora è stata accettata per l’immaturità complessiva del sindacato, sul piano aziendale e di categoria è lasciato spesso un maggiore margine di libertà d’azione, come s’è visto ad esempio in occasione dello sciopero del 30 giugno in FCA, promosso dal SI Cobas, cui hanno aderito i gruppi sindacali delle fabbriche FIAT di Melfi e Termoli, o a Genova il 4 giugno, dove l’USB Vigili del fuoco e parte dei delegati della federazione territoriale sono scesi in corteo coi lavoratori dell’ILVA mobilitati dalla Fiom.
Già in questo congresso si sono manifestate posizioni differenti dall’indirizzo della dirigenza – in quello del Lavoro Privato, che è il più importante – espresse sotto forma di mozioni e ordini del giorno, vertenti sui punti messi in rilievo in questo nostro articolo: necessità di concentrare le energie sul lavoro sindacale, erroneità dell’indirizzo volto a far assumere al sindacato un “ruolo politico”, unità d’azione col sindacalismo di base.
In una mozione approvata in diversi congressi regionali del Lavoro Privato e quindi approdata al congresso nazionale di categoria, e qui respinta, si legge: «Il lavoro è il centro dell’attività sindacale, quella prioritaria. Il resto sono escamotages, fughe dalla realtà (...) Di fronte alla politicizzazione del dissenso, la risposta non è politicizzarci a nostra volta. Al contrario: si deve riprendere e rafforzare il lavoro di base prettamente sindacale, camerale. Che non vuol dire solo e soltanto partecipare all’elezione di Rsu e Rsa. Tutt’altro (...) L’unità di tutti quelli che lavorano nello stesso luogo, qualsiasi contratto abbiano, deve essere la priorità di USB (...) USB sostiene le iniziative delle lavoratrici e dei lavoratori messe in campo nei luoghi di lavoro, indipendentemente dalla loro eventuale appartenenza sindacale».
In questa direzione continua il nostro lavoro di comunisti.
PAGINA 6
Il corso del capitalismo mondiale
Produzioni-commerci-finanza
Rapporto esposto alla riunione generale a Torino di maggio
Il capitale finanziario
Il forte rallentamento dell’accumulazione del capitale per tutto il ciclo che va dal 1973 al 2007 è stato accompagnato da un accrescimento considerevole dell’indebitamento, tanto pubblico quanto privato, e di una speculazione senza precedenti nel ciclo 1950‑1973. Ormai l’indebitamento in tutti i grandi paesi capitalistici, compresa la Cina, va oltre quello raggiunto dagli Stati Uniti alla vigilia della Grande Depressione del 1929‑1932, nella quale l’indice della produzione industriale aveva toccato il punto più basso con una caduta del 43%.
La speculazione diventa tanto più frenetica quanto più l’accumulazione di capitale viene rallentata dalla caduta del tasso del profitto. Le banche, le compagnie d’assicurazione, i fondi di investimento, i fondi pensione, ecc. si gettano a corpo morto nella speculazione piuttosto che investire nell’industria, che frutta troppo poco. La speculazione non crea alcuna ricchezza, è un gioco in cui c’è chi perde e chi guadagna scambiandosi grandi quote di plusvalore già prodotte.
Se l’accumulazione del capitale rallenta in seguito alla caduta del saggio del profitto, la massa delle merci prodotte è comunque gigantesca e la domanda di materie prime resta sostenuta. Tale domanda viene oggi ulteriormente accresciuta dall’accumulazione accelerata del capitale in Cina. Durante tutto il periodo dal 2000 al 2007, benché la crescita nei vecchi paesi imperialisti sia rimasta a livelli modesti, il suo considerevole volume complessivo mondiale ha richiesto un volume di materie prime che hanno reso necessari accresciuti investimenti per la ricerca e l’estrazione sia di petrolio e di gas naturale sia di metalli. Tali investimenti sono stati intrapresi guardando al lungo periodo, ed i loro effetti si fanno sentire oggi, quando la produzione industriale mondiale è inferiore al massimo del 2007.
Questa forte domanda di materie prime ha dapprima favorito la speculazione spingendo i prezzi verso l’alto. Gli speculatori, sui cereali, i metalli o le risorse energetiche, contando su una domanda forte, ne comprano grandi quantità, spesso a termine, cioè con pagamento differito, per esempio di 3 mesi, provocando così una penuria passeggera, aspettando che i prezzi salgano prima di rivenderle, ottenendo un guadagno. È così che il prezzo del petrolio ha potuto sorpassare i 150 dollari al barile e che i cereali hanno visto il loro prezzo salire alle stelle nel 2007‑2008, aggravando la penuria e la carestia. Questo racket è organizzato in forma completamente legale, con la benedizione degli Stati, che esistono soltanto per difendere gli interessi della grande borghesia.
La stessa speculazione si è avuta nel settore immobiliare, ma anche sui titoli di ogni genere. Si comprano dei titoli, obbligazioni, azioni, ecc., cioè dei prestiti a interesse, non tanto in vista di questo interesse ma semplicemente nella prospettiva di vedere crescere le loro quotazioni, e dunque rivendere a un prezzo più alto. Si contraggono anche debiti a tale scopo. La speculazione è tanto più frenetica oggi che il denaro non è caro, che il “prezzo del denaro”, cioè l’interesse, è basso.
Una tecnica finanziaria è quella della “cartolarizzazione” che consiste nel vendere assieme prestiti di diversa qualità e natura, nella speranza che, combinando titoli diversi, si riduca il rischio: i crediti che diventassero inesigibili verrebbero compensati dagli altri. Questi “montaggi” sono utilizzati negli Stati Uniti fin dall’inizio degli anni ’70. I prodotti “derivati”, invece, sono dei contratti di assicurazione contro un rischio finanziario. Vengono utilizzati fin dal XVII secolo per i cereali sulle piazze finanziarie di Londra, Amsterdam e Parigi ed hanno sempre permesso alle banche di fare sostanziosi profitti.
Ma a partire dagli anni ’90, e soprattutto durante il ciclo 2000‑2007, la speculazione si è distinta per ampiezza e per una rinnovata “creatività” nel “montaggio” dei titoli di ogni genere. Le banche producevano titoli “cartolarizzati”, che cedevano a delle società ad hoc, le quali si incaricavano di venderli, facendoli uscire così dai loro bilanci, e trasferendo il rischio all’idiota che li aveva comprati. Nei prodotti derivati, che permettono in effetti guadagni significativi, ma anche perdite, sono stati utilizzati titoli di ogni tipo. Il prodotto derivato ha il vantaggio che non è sottomesso ad alcun controllo e la banca può farlo uscire dal suo bilancio come se niente fosse. Oggi i derivati detenuti da Deutsch Bank, Barclays, BNP Paribas e Royal Bank of Scotland rappresenterebbero più di 20 volte i loro attivi e più di 300 i loro fondi propri. Il tracollo di questi mostri avrà effetti catastrofici.
I finanzieri partono dal principio che sia possibile calcolare matematicamente il rischio dei singoli titoli del derivato, e dunque una previsione sul rischio complessivo. Soltanto che quando la generale crisi di sovrapproduzione si manifesta le insolvenze e i fallimenti delle imprese arrivano a catena, la bolla esplode e salta tutto il pentolone.
Questo è ciò che è avvenuto alla fine del 2007 e nel 2008‑2009.
Nel momento di maggiore euforia il valore dei titoli “cartolarizzati” era arrivato a 7.424 miliardi di dollari, cioè la metà del PIL americano, mentre il Dow Jones, l’indice della borsa di New York, l’11 ottobre 2007 raggiungeva il record vertiginoso di 14.198 punti con un aumento dell’84% rispetto al settembre 2002.
Ma ciò che doveva succedere inevitabilmente accadde. Lehman Brothers, la quarta banca di investimenti americana, stava realizzando dei profitti notevoli nel settore immobiliare, che era in pieno boom, con dei prestiti ipotecari “cartolarizzati”. Nel 2006 il suo portafoglio di titoli ipotecari raggiungeva i 146 miliardi di dollari, con un volume d’affari di 19,3 miliardi e un guadagno netto di 4,2 miliardi. Queste operazioni erano realizzate tramite un “effetto leva” di 31, cioè questi 146 miliardi rappresentavano 31 volte il valore dei fondi propri della banca, tutto il resto era stato preso in prestito sul mercato bancario per essere prestato una seconda volta. Nel primo trimestre del 2007 i primi sintomi della crisi di sovrapproduzione si sono fatti sentire con alcune insolvenze nel pagamento delle rate dei mutui immobiliari. La banca ha dovuto indebitarsi per fare fronte alle perdite e ai rimborsi. La macchina arrivò a bloccarsi perché il numero dei mancati pagamenti aumentava in maniera esponenziale. Per di più quei prestiti erano a tasso variabile. Il 17 marzo del 2008, dopo che Bear Stearns, il secondo gruppo finanziario nei crediti ipotecari, aveva sfiorato il fallimento, Lehman Brothers vide precipitare il suo titolo in borsa del 48%. L’agonia della banca continuerà fino al 13 settembre, dopo che il suo valore in borsa era sceso del 93% costringendola a dichiarare fallimento.
Un secondo mastodonte, l’AIG, il primo assicuratore mondiale il cui attivo superava i 1.000 miliardi di dollari (Il Pil dell’Italia nel 2007 era di 2.203 miliardi di dollari), poco dopo il fallimento di Lehman Brothers è stato salvato dallo Stato americano grazie a un apporto di fondi pubblici di 182 miliardi. Senza questo investimento l’intero sistema finanziario internazionale avrebbe rischiato di crollare come un domino.
I titoli di borsa allora si inabissarono e il 9 marzo del 2009 il Dow Jones toccò il suo livello più basso a 6.457 punti: una scivolata del 54% che ha superato quella del 1931, che fu del 52,6%.
Se il valore dei titoli sale o precipita il paese non è più ricco o più povero di prima. Se un agente acquista un immobile per un milione di euro, che in seguito, a causa della speculazione, gonfia il suo prezzo fino a 2 milioni, la ricchezza del paese non è cresciuta di un centesimo: se questo agente vende ora l’immobile al prezzo di 2 milioni, intasca sì ricchezze per 2 milioni, ma che sono state prodotte in precedenza: si ha solo un trasferimento di un valore che era già in possesso dell’acquirente. Al contrario se l’immobile, in seguito a una recessione, vede il suo prezzo abbassarsi al di sotto del milione, l’agente perde parte del suo capitale investito a favore dell’acquirente. Avviene lo stesso per tutti i titoli con il balletto delle loro quotazioni. Questo gioco permette solo a uno strato di parassiti di vivere nel lusso a spese dei borghesi minchioni, ma si tratta sempre di plusvalore che è già stato prodotto nel processo di produzione. In borsa i borghesi si scambiano denaro fra di loro, esattamente come in una partita a poker. Al contrario, nel caso della speculazione sulle materie prime, cereali, petrolio, ecc., è tutta la società che viene truffata, fino ad affamare i poveri. Questi parassiti meriteranno i lavori forzati!
Le banche centrali e gli Stati intervengono generosamente per evitare i crolli del sistema finanziario perché una recessione sarebbe oggi ben peggiore di quella del 1929‑1931. Quando la crisi colpisce il denaro diventa raro e più caro. In questi casi le banche smettono di prestarsi soldi, e senza questi prestiti, di norma effettuati quotidianamente, tutto il sistema finanziario si paralizza, anche nei flussi finanziari internazionali. Alle banche europee diventa più difficile ottenere dollari per i loro investimenti internazionali. All’interno dell’Europa il Nord non vuole più prestare soldi al Sud e, mentre in precedenza il mercato europeo tendeva a unificarsi, ora ciascuno ripiega sul proprio mercato nazionale.
Gli Stati si sono indebitati per salvare le banche, al punto che alcuni di essi sono stati costretti a dichiararsi insolventi o nella situazione di doverlo minacciare.
L’intervento energico delle banche centrali, la FED, la Banca di Inghilterra, la BCE, la Banca di Cina, cercano di ritardare il crollo del sistema finanziario sia ricomprando miliardi di titoli, buoni del tesoro o ipoteche, sia prestando alle banche centinaia di miliardi a tassi prossimi allo zero, o addirittura nazionalizzandole come accade nel Regno Unito. Il denaro progressivamente si rimette a circolare e gli Stati che non riescono più a ottenere prestiti sul mercato a un tasso ragionevole, possono farlo di nuovo presso le loro banche nazionali salvate dalla banca centrale.
Le banche centrali hanno anche prestato denaro alle banche creditrici, o acquistato loro titoli. Ma queste, invece di prestarselo vicendevolmente, lo riversano nei loro conti correnti presso la banca centrale. Migliaia di miliardi sono così affluiti verso le banche centrali.
Il secondo effetto, e non di minore importanza per la borghesia, è che il valore dei titoli riprende a salire: dopo avere toccato il punto più basso quel 9 marzo del 2009, il Dow Jones è risalito regolarmente per superare l’8 marzo del 2014 il picco massimo dell’ottobre del 2007 con un indice di 14.413 punti. Oggi, luglio 2017, supera i 20.000 punti! La grande e la piccola borghesia si sono prese una grande paura, hanno visto la rovina da vicino. Ma nulla è perduto, sarà per la prossima volta. Nel frattempo qualcuno ha perso i suoi risparmi, e questo non è male.
In Cina le banche aprono molto al credito, applicando le direttive della banca centrale. Questa condotta, associata ai grandi lavori pubblici che mobilitano centinaia di miliardi di dollari, ha evitato una recessione conclamata. Gli effetti secondari sono il prosperare della speculazione, grazie al denaro facile, e una forte inflazione.
Il denaro è abbondante e non è caro, come dicono gli economisti borghesi. Ma evidentemente non viene regalato per strada al primo venuto. Gli Stati possono prendere denaro a prestito a un costo basso, mentre si sono pesantemente indebitati durante la crisi. Le grandi imprese dei paesi imperialisti, che hanno rimpinguato le loro casseforti in seguito alle ristrutturazioni, contraggono prestiti a buon mercato, non tanto per investire, dato che non ci sono molte prospettive di ripresa, ma per conservare i loro tesoretti, che investono nella finanza!
Gli Stati e le grandi imprese dei paesi in via di sviluppo, i quali, a differenza dei vecchi paesi imperialisti, non sono in recessione, possono contrarre debiti a buon mercato. Questi capitali nordamericani, europei e giapponesi, che non trovano impiego nei continenti di origine, espatriano verso quei paesi in cui il capitale continua ad accumularsi ad un ritmo sostenuto o quantomeno discreto. Ma la festa per questi paesi è finita nel 2014 allorché la FED ha messo fine al proprio terzo “quantitative easing”, accelerando la venuta di una recessione che ha cominciato ad avere i suoi effetti in un certo numero di questi paesi: Brasile, Sudafrica ecc.
INDEBITAMENTO IN % DEL PIL (BRI) | ||||||||||
2007 | 2008 | 2009 | 2010 | 2011 | 2012 | 2013 | 2014 | 2015 | 2016 | |
PUBBLICO | ||||||||||
Giappone | 145,3 | 149,8 | 168,5 | 175,8 | 189,7 | 196,6 | 202,9 | 210,6 | 207,9 | 212,9 |
Italia | 105,3 | 107,9 | 120,7 | 119,5 | 112,3 | 130,7 | 138,6 | 150,9 | 152,9 | 151,3 |
Belgio | 89,9 | 97,7 | 105,5 | 104,0 | 106,6 | 116,4 | 114,8 | 126,1 | 123,1 | 124,2 |
Regno Unito | 44,6 | 54,8 | 68,5 | 81,9 | 95,8 | 98,2 | 94,5 | 105,6 | 104,9 | 116,6 |
Spagna | 36,5 | 41,5 | 55,2 | 59,5 | 69,4 | 86,2 | 99,9 | 112,9 | 111,6 | 112,2 |
Francia | 65,8 | 71,8 | 83,2 | 86,8 | 90,7 | 99,8 | 99,7 | 108,7 | 109,0 | 111,0 |
Stati Uniti | 60,7 | 71,6 | 81,5 | 91,1 | 99,7 | 102,5 | 99,0 | 101,3 | 100,1 | 100,8 |
Germania | 63,9 | 68,0 | 75,3 | 84,5 | 84,3 | 86,8 | 81,8 | 82,2 | 78,0 | 75,3 |
DELLE IMPRESE NON FINANZIARIE | ||||||||||
Cina | 96,8 | 96,3 | 119,9 | 120,7 | 119,9 | 130,6 | 140,7 | 149,9 | 162,7 | 166,3 |
Belgio | 122,6 | 141,0 | 148,1 | 135,7 | 143,0 | 147,8 | 149,0 | 150,5 | 154,8 | 163,2 |
Francia | 103,9 | 108,9 | 112,6 | 111,8 | 116,8 | 120,6 | 118,8 | 125,8 | 126,6 | 128,5 |
Spagna | 124,4 | 127,5 | 130,3 | 132,2 | 132,3 | 126,0 | 120,0 | 112,6 | 106,7 | 101,7 |
Giappone | 98,3 | 103,5 | 106,7 | 101,5 | 101,8 | 99,8 | 98,5 | 97,4 | 94,4 | 95,5 |
Regno Unito | 83,3 | 93,9 | 91,9 | 86,9 | 85,5 | 87,6 | 82,1 | 76,3 | 73,4 | 76,2 |
Italia | 75,7 | 78,4 | 81,1 | 81,3 | 79,3 | 83,4 | 81,4 | 80,4 | 77,6 | 75,9 |
Stati Uniti | 69,8 | 72,6 | 70,4 | 66,8 | 66,1 | 66,7 | 67,4 | 68,7 | 70,7 | 72,5 |
Germania | 55,9 | 57,0 | 58,3 | 55,3 | 52,6 | 53,0 | 54,9 | 52,6 | 52,6 | 53,2 |
DELLE FAMIGLIE | ||||||||||
Regno Unito | 93,2 | 94,4 | 97,0 | 93,9 | 91,3 | 90,1 | 87,7 | 85,9 | 86,3 | 87,6 |
Stati Uniti | 97,7 | 95,4 | 95,7 | 90,6 | 86,2 | 83,2 | 81,4 | 80,2 | 79,2 | 79,5 |
Spagna | 81,1 | 81,9 | 84,0 | 83,5 | 81,8 | 80,6 | 77,1 | 72,7 | 67,8 | 64,4 |
Giappone | 62,9 | 62,9 | 65,4 | 62,5 | 63,5 | 62,9 | 62,8 | 62,3 | 61,8 | 62,5 |
Belgio | 45,7 | 48,3 | 50,5 | 51,5 | 53,7 | 54,7 | 55,8 | 57,8 | 58,8 | 59,4 |
Francia | 46,5 | 48,6 | 52,5 | 53,7 | 54,8 | 55,2 | 55,6 | 56,0 | 56,6 | 57,4 |
Germania | 61,1 | 59,5 | 61,8 | 59,2 | 57,0 | 56,3 | 55,3 | 54,2 | 53,6 | 53,4 |
Cina | 18,8 | 17,9 | 23,5 | 27,2 | 27,7 | 29,7 | 33,1 | 35,7 | 38,8 | 44,4 |
Italia | 38,2 | 39,1 | 42,5 | 43,7 | 43,8 | 44,0 | 43,5 | 42,7 | 42,1 | 41,4 |
DEL SETTORE NON FINANZIARIO | ||||||||||
Belgio | 168,3 | 189,3 | 198,7 | 187,2 | 196,6 | 202,5 | 204,8 | 208,2 | 213,6 | 222,6 |
Cina | 115,6 | 114,2 | 143,3 | 147,9 | 147,6 | 160,3 | 173,8 | 185,6 | 201,6 | 210,6 |
Francia | 150,4 | 157,5 | 165,2 | 165,5 | 171,6 | 175,9 | 174,4 | 181,8 | 183,3 | 185,9 |
Spagna | 205,5 | 209,3 | 214,3 | 215,7 | 214,0 | 206,6 | 197,1 | 185,4 | 174,5 | 166,1 |
Regno Unito | 176,4 | 188,4 | 188,9 | 180,8 | 176,8 | 177,7 | 169,8 | 162,2 | 159,6 | 163,8 |
Giappone | 161,2 | 166,3 | 172,1 | 164,0 | 165,3 | 162,8 | 161,3 | 159,7 | 156,2 | 158,0 |
Stati Uniti | 167,5 | 167,9 | 166,1 | 157,5 | 152,3 | 149,9 | 148,9 | 148,9 | 149,9 | 152,0 |
Italia | 113,8 | 117,6 | 123,6 | 125,0 | 123,1 | 127,3 | 124,9 | 123,1 | 119,7 | 117,3 |
Germania | 117,0 | 116,5 | 120,1 | 114,5 | 109,6 | 109,3 | 110,1 | 106,7 | 106,2 | 106,6 |
Ma l’indebitamento, tanto pubblico che privato, a seconda delle fonti può variare anche del doppio. Ad esempio la Banca di Francia tiene conto soltanto dei debiti presso le banche, mentre molti debiti si contraggono presso organismi istituzionali come assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione, ecc. L’OCSE tiene conto di tutti i prestiti, ma aggiunge anche alcuni oneri ineludibili che non sono in senso proprio dei debiti. In definitiva sembra che sia la Banca dei Regolamenti Internazionali quella che fornisce dati più vicini alla realtà, e qui ci riferiamo ai suoi dati.
Nel settore privato l’indebitamento, tanto delle famiglie quanto delle imprese non finanziarie, dopo avere toccato il massimo nel 2009, segna una leggera diminuzione, salvo per il Belgio e la Francia dove continua a crescere. L’indebitamento delle famiglie in Francia si spiega con l’acquisto della casa di abitazione grazie ai tassi di interesse molto bassi: nel 2016 le banche prestavano in media all’1,5% per vent’anni. Le famiglie più indebitate sono quelle anglosassoni: 87,6% del PIL nel Regno Unito e 79,5% negli Stati Uniti nel 2016, contro un indebitamento dal 62% al 41% per gli altri paesi. Da notare che l’indebitamento delle famiglie cinesi è del 44% del PIL.
Per quanto riguarda le imprese non finanziarie il debito in Cina ammonta al 166% del PIL, il livello più alto, segue il Belgio col 163,2%, poi la Francia col 128,5% e la Spagna col 101,7. Il Giappone ha un tasso di indebitamento intermedio delle sue imprese non finanziarie col 95,5%. Gli altri paesi si situano al di sotto dell’80% del PIL, che è comunque tanto. Il paese meno indebitato, e ciò non ci stupisce, è la Germania con il 53,2% del PIL.
La contropartita di questo indebitamento è la massa di titoli che si trovano nei bilanci delle banche e degli organismi istituzionali. Per quanto riguarda le banche, l’ammontare dei prestiti in sofferenza, cioè di quelli per cui non è stato effettuato alcun pagamento negli ultimi tre mesi, in Europa ammonta a più di 1.000 miliardi di euro, dei quali circa 349 riguardano l’Italia. Per ciò che riguarda gli altri organismi siamo nell’oscurità più totale: non se ne sa assolutamente nulla!
Intanto lo “shadow banking”, il sistema bancario “ombra”, ha assunto una crescente importanza negli ultimi decenni in misura inversamente proporzionale alla disponibilità sempre più ridotta delle banche a concedere prestiti. Si stima che il suo peso a fine del 2015 ammontasse a 92.000 miliardi di dollari, cioè il 122% del PIL mondiale, di cui 30.000 miliardi in Europa e 26.000 negli Stati Uniti. Per la Cina si stima un peso di 8.000 miliardi, un valore sicuramente inferiore alla realtà, conoscendo le tradizioni cinesi in questo campo. Queste cifre sono semplicemente indicative, perché una buona parte delle attività del sistema bancario “ombra” sfugge a ogni controllo.
Cosa nasconde l’espressione suggestiva di “banca ombra”? Si tratta di prestiti sotto forma di crediti al consumo, ad esempio per comprare un’automobile, o finalizzati all’investimento sotto la forma di titoli “cartolarizzati” più o meno sofisticati che vengono accordati o venduti da organismi istituzionali non bancari, come le compagnie di assicurazione sulla vita, i fondi pensioni, i fondi di investimento, gli “hedge funds”, cioè i fondi speculativi, e ogni tipo di organismo di prestiti al consumo. Ciò che distingue il sistema bancario collaterale è che non ci sono depositi come i conti bancari e non sono sottomessi alla stessa regolamentazione delle banche, e i controlli e i vincoli giuridici sono molto più deboli, o addirittura completamente assenti per gli “hedge funds”, i quali hanno spesso le loro sedi nei paradisi fiscali.
Lo “shadow banking” è destinato a crescere sempre più perché le banche vogliono continuare a prestare, e a speculare, ma con il minore rischio possibile. Prima della recessione del 2008‑2009 le banche scorporavano una parte dei loro crediti dai bilanci e li vendevano a delle società ad hoc, il cui scopo era di rivenderli a degli investitori. Tuttavia le banche continuavano a speculare per proprio conto e si tenevano nei bilanci i loro titoli “cartolarizzati”, che venivano considerati come i migliori.
Tanto più che i loro titoli, trasformati in prodotti derivati, erano assicurati da società specializzate. Una di queste, la compagnia di assicurazioni AIG, si faceva garante per dei “Credit Default Swap”, che potremmo tradurre “compenso per crediti insoluti”, per un ammontare di 2.700 miliardi di dollari per banche disseminate nell’intero pianeta. Tuttavia quando arrivò la recessione l’AIG venne sommersa da una valanga di insolvenze e non poté farvi fronte. Ciò costrinse il governo degli Stati Uniti a intervenire per impedire il verificarsi di uno shock generale. La caduta del corso delle azioni che ne seguì fece andare in rosso i bilanci di numerose banche.
Di questo prese occasione la Commissione Europea, con il sostegno di tutti gli Stati, per unificare i mercati dell’Unione entro il 2019. A differenza degli Stati Uniti, che costituiscono un mercato unico non solo dal punto di vista geografico ma anche finanziario, il mercato europeo è frammentato non soltanto a livello nazionale ma anche nella separazione fra mercato bancario e non bancario. Mentre negli Stati Uniti anche le piccole e le medie imprese come le grandi hanno accesso a un mercato unico che permette loro di emettere obbligazioni, tanto presso le banche quanto presso organismi non bancari, questa possibilità in Europa è riservata alle sole grandi imprese. Le piccole e medie imprese (PMI) per ottenere prestiti dipendono completamente dalla buona volontà delle banche.
L’acquisto massiccio di buoni del tesoro e di obbligazioni delle grandi imprese da parte della BCE, prosciugando i mercati e portando i tassi di interesse a livelli vicini allo zero, ha spinto gli investitori verso le obbligazioni e i titoli più aleatori, ma anche più remunerativi come quelli delle PMI.
I risparmiatori finora investivano nei titoli sicuri come i buoni del tesoro o nelle grandi imprese di Stato. In Francia il risparmio delle famiglie nel 2016 ammontava a 4.841 miliardi di euro e ogni anno vengono risparmiati altri 70 o 80 miliardi; e in Europa ogni anno almeno 200 miliardi. Questi non sono poca cosa e gli Stati vorrebbero orientarli verso l’industria e in particolare verso le PMI.
È interessante a questo punto abbozzare una prima analisi di classe. Gli economisti parlano di “famiglie”, in generale e senza distinzione di classe. Ma si sa che, per esempio, in Francia i 3/4 del risparmio sono detenuti dal 20% dei nuclei familiari. Se il 20% delle famiglie detiene 3.631 miliardi su 4.841, considerando che i nuclei familiari sono in tutto 37,4 milioni, ciò significa che in media ciascuna di queste famiglie più abbienti dispone di risparmi per 485.394 euro. Si ha dunque a che fare con la grande e la media borghesia, che detiene la maggior parte del risparmio e della ricchezza in generale e soprattutto la proprietà dei mezzi di produzione.
All’altro capo si trova il 20% dei nuclei familiari che non risparmiano affatto o che hanno un risparmio negativo. Lì si trova il vero proletariato, insieme ai contadini poveri, ai minimi artigiani, ai lavoratori pensionati che sopravvivono con assegni miserabili, e il sottoproletariato. Resta il 60% di famiglie che possono risparmiare il 5 o il 10% dei loro redditi e che detengono un quarto del risparmio nazionale, cioè 1.210 miliardi d’euro, cioè una cifra media di 53.922 euro per ciascun nucleo familiare. In questo caso si ha a che fare con l’infame palude degli strati sociali intermedi, sui quali si appoggia la grande borghesia per mantenere il suo dominio di classe. Ma fortunatamente la crisi si sta occupando di proletarizzarli liberandoli dai loro risparmi. È certo che la grande borghesia li sacrificherà per primi. Alcuni si uniranno ai ranghi del fascismo, una parte si unirà a noi per rovesciare la borghesia.
Per incitare le “famiglie”, cioè i borghesi e i piccolo borghesi, a comprare questi titoli, gli Stati prevedono degli incentivi fiscali.
È notevole il finanziamento delle imprese da parte delle assicurazioni. In Francia le assicurazioni rappresentano il 39% dei risparmi (di cui il 54% è detenuto dalle banche che offrono anche servizi di assicurazione sulla vita); sono titoli per un valore di 1.349 miliardi di euro, di cui il 56%, ovvero 756 miliardi, sono stati investiti nelle imprese francesi. Nel solo 2016, 63 miliardi di euro sono stati consacrati al finanziamento delle PMI, un impegno che si è triplicato in soli sei anni.
Le banche sono pronte a partecipare a questa creazione di un mercato unico della finanza rivendendo titoli cartolarizzati allo “shadow banking”, che si incaricherà di rivenderli all’investitore finale. Le banche nel passaggio intascheranno una commissione e poiché continueranno a gestire questi titoli una volta venduti, si faranno pagare per il servizio, il tutto con rischi minori. E la BCE per aiutarle, in garanzia dei suoi prestiti, è pronta a prendere titoli “cartolarizzati”.
In un articolo di “Le Monde Diplomatique” del gennaio del 2016 leggiamo: «Né le piccole e medie imprese, che costituiscono il grosso del tessuto produttivo, né i progetti di infrastrutture voraci di capitali riusciranno a trovare finanziamenti adeguati. La causa è nei circuiti tradizionali ingrippati. Le banche storcono il naso a prestare e le pubbliche istituzioni sono limitate da costrizioni di bilancio. Ma la proposta illuminante della Commissione riguarda lo sviluppo della cartolarizzazione dei prestiti bancari. Con questa tecnica le banche rivendono i loro crediti sui mercati di capitali sotto la forma di titoli finanziari. Ciò permette loro di sbarazzarsi dei loro rischi intascando nello stesso tempo le commissioni percepite in occasione della concessione dei prestiti. Questo è ciò che facevano allegramente nei primi anni 2.000, trasferendo agli investitori i prestiti immobiliari delle famiglie americane trasformati in azioni».
Evidentemente la BCE ci vuole rassicurare, dicendo che si tratterà di titoli cartolarizzati di qualità, e non di “subprimes”. La storia si conosce: basta vedere chi sta alla presidenza della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, dal 1995 al 2013 capo del governo del Lussemburgo, uno dei maggiori paradisi fiscali.
Il problema di fondo è che non basta creare organismi capaci di finanziare le imprese europee. Affinché queste ultime investano c’è bisogno che vedano delle prospettive di vendere, ed è proprio qui che risiede il problema. Anche se c’è stata una ripresa dopo la fine del 2014, resta assai moderata. La sola cosa che va a gonfie vele è la speculazione, che ha superato in intensità e in volume quella della fine del primo decennio del nuovo secolo.
C’è una banca italiana che ha ben compreso il trucco, si tratta della banca Intesa Sanpaolo. Essa ha nel suo bilancio numerosi crediti deteriorati. Come risolvere il problema? Li trasforma in fondi di investimento: «In 18 mesi noi abbiamo ridotto i Non Performing Loans [i crediti deteriorati] di 7,5 miliardi di euro senza accusare perdite (...) Si tratta di un modello di affari sostenibile che si fonda sulla forza del risparmio degli italiani» (“Les Échos”, 23 maggio 2017). E di banche senza scrupoli ce ne sono senza dubbio molte altre.
Il nostro giro d’orizzonte dell’attuale situazione del capitale finanziario non sarà completo se non affrontiamo la scottante questione del bilancio delle banche centrali. Ricordiamo che il bilancio di una banca è costituito da due colonne: da una parte le passività, che corrispondono ai depositi, dall’altra gli attivi, che corrispondo ai crediti effettuati con il denaro dei depositi e che fruttano gli interessi.
I fondi propri di una banca, che fanno parte del passivo, costituiscono solo a una piccola percentuale del bilancio. Ad esempio i fondi propri della Bank of America rappresentano all’incirca il 9,4% del suo bilancio, in questo caso particolare una quota molto elevata; quelli della Commerz‑Bank il 6,2%, quelli della BNP il 5,1% e quelli della Deutsche Bank erano fino a poco fa del 3,8%, ma sono stati portati al 4,34% dal 31 marzo del 2017. Per finanziare i loro prestiti le banche utilizzano i depositi dei loro clienti e li completano con denaro preso in prestito presso altre banche. Le banche di investimento, le quali a differenza delle banche generiche non hanno depositi dei clienti, devono prendere a prestito tutto il denaro che prestano a tassi superiori, presso banche ordinarie.
La stessa cosa vale per le banche centrali. I loro clienti non sono privati o imprese, ma le banche del paese, le quali devono depositare una parte dei loro depositi nella banca centrale su un conto aperto a loro nome. Si tratta di quote che la banca centrale fa aumentare o diminuire per regolare il sistema monetario e l’ammontare dei prestiti che le banche possono accordare in funzione della situazione economica. Nel caso della BCE i suoi clienti sono le banche centrali della Zona Euro. Queste ultime depositano una certa percentuale dei loro capitali sul proprio conto presso la stessa BCE.
Se si prende la FED, il suo bilancio ammonta nel 2017 a 4.471 miliardi di dollari. Ciò significa che ha un deposito di 4.471 miliardi ai quali corrispondono un eguale ammontare di crediti. Questo stesso bilancio era di 851 miliardi nel 2005. Il “quantitative easing” ha permesso alle varie banche centrali di contenere la deflazione e di rimandare il crollo del sistema finanziario, ma ha gonfiato pericolosamente i loro bilanci. Queste banche centrali hanno comprato a man bassa, e nel caso della BCE e della Banca del Giappone continuano a comprare montagne di buoni del tesoro e di obbligazioni (nel caso della FED di titoli ipotecari) con soldi che esse non possedevano, ma che appartenevano alle banche depositanti. Se una parte significativa di questi titoli dovesse fallire, i pompieri si trasformerebbero in incendiari, provocando il fallimento delle banche che hanno depositato i loro capitali nelle banche centrali. A meno di pagare con carta straccia, provocando così un’inflazione galoppante che condurrebbe di fatto a una svalorizzazione di tutti i titoli e dunque anche del risparmio, salvo per i valori immobiliari e per l’oro. Un’inflazione del 20% ridurrebbe il risparmio mobiliare di un quinto.
Questo il bilancio delle tre maggiori banche centrali: FED 4.471 miliardi di dollari; BCE 4.568; Banca del Giappone 4.467. Il bilancio della BCE supera quello della Fed e della Banca del Giappone, e la differenza non può fare altro che crescere dato che la FED ha cessato la sua politica di “quantitative easing” il 29 ottobre del 2014 mentre la BCE continua a comprare titoli per un valore di 720 miliardi d’euro l’anno, contro i 645 miliardi della Banca del Giappone. La sola banca il cui bilancio sarebbe superiore, secondo il giornale “Les Échos”, sarebbe quella della Cina.
Sono circa tre anni che la Fed ha smesso di comprare titoli e ora si pone il problema della riduzione del suo bilancio al livello che aveva prima della crisi, cioè attorno ai 1.000 miliardi di dollari. Un problema che si porrà anche per le altre banche centrali, a condizione che la crisi del capitale lasci loro abbastanza tempo. La riduzione del bilancio e la risalita progressiva dei tassi sono un bel rompicapo per la borghesia!
I titoli che la FED ha comprato, arrivati a scadenza vengono regolarmente rimborsati dal debitore; ma quest’ultimo rimette lo stesso ammontare di titoli sul mercato, poiché non riesce a ridurre la propria montagna di debiti, la quale al contrario continua ad accrescersi. Finora la FED ha riacquistato sul mercato la stessa quantità di titoli, ma a partire dalla fine di quest’anno dovrebbe incominciare progressivamente sbarazzarsene. Non può farlo in maniera drastica poiché provocherebbe uno shock di tutto il sistema finanziario. Perché ogni riduzione di bilancio ovviamente si traduce in un aumento dei tassi. Una risalita dei tassi conduce a una svalorizzazione dei titoli che sono stati acquistati con dei tassi bassi, poiché il loro rendimento è inferiore a quello delle nuove obbligazioni che vengono emesse. Inoltre la risalita dei tassi dei Buoni del tesoro a 10 anni comportano ugualmente un ribasso del valore delle azioni. In 18 mesi la FED ha già rialzato 3 volte il tasso di riferimento, che è attualmente all’1,25%. Questa decisione ha fatto risalire il tasso dei titoli di Stato, e in particolare dei Buoni del tesoro a 10 anni al 2,45%. Attualmente la maggior parte degli economisti americani considera che un tasso del 3% per i Buoni del tesoro a 10 anni sia una linea rossa che non si può superare, poiché comporterebbe una forte svalutazione delle obbligazioni ancora in corso, comprate a tassi nettamente inferiori e che rischiano di provocare vendite massicce di azioni, il che potrebbe portare a un nuovo crac.
Come si vede la FED si trova nelle condizioni di un elefante in una cristalleria. È costretta a muoversi a piccoli passi. Ha pianificato di sbarazzarsi di Buoni del tesoro, cominciando con 6 miliardi, che aumenterà per gradi di 6 miliardi ogni 3 mesi fino a raggiungere un tetto di 30 miliardi mensili. Per gli altri titoli incomincerà con 4 miliardi, che aumenterà sempre per gradi fino a 20 miliardi. Praticamente la FED dovrà sbarazzarsi di 50 miliardi di titoli al mese. Per arrivare a questo ritmo mensile ci sarà bisogno di un anno intero, ai quali bisognerà aggiungere ancora 5 anni perché la FED ritrovi il suo bilancio e la quantità di titoli detenuti precedenti la crisi.
Ci diranno che nulla urge e che la FED ha tutto il tempo. Tuttavia è la crisi che potrebbe non voler attendere. Si può invece dubitare che la FED abbia il tempo di sanare il proprio bilancio prima del ritorno della recessione: 6 anni sono un periodo lunghissimo. La durata dei cicli varia infatti da 7 a 11 anni. 2007 più 11 fa 2018. Anche ammettendo che il ciclo in corso possa durare di più, diciamo due anni, arriviamo al 2020. La crisi sarà di ritorno quando la FED avrà appena cominciato a ridurre il suo bilancio. E che dire della BCE e della Banca del Giappone che non avranno neanche il tempo di cominciare?
Conclusioni
Abbiamo visto che dopo il 2014 si è avuta una ripresa industriale dei grandi paesi imperialisti. Tuttavia questa è più che moderata, procedendo ad un ritmo compreso fra l’1 e il 2% l’anno; per la Francia è inferiore all’1% annuo e per il Giappone è rimasta decisamente negativa. Davvero poco di cui vantarsi: tutti questi paesi infatti, a parte la Germania, il Belgio e gli Stati Uniti, hanno una produzione industriale inferiore a quella raggiunta nel 2007, con diminuzioni che vanno dal 12% al 25%.
Gli Stati Uniti si sono distinti per una forte ripresa nel 2010 con un +6,1%, ma che ha poi rallentato per diventare negativa nel 2016. Questa crescita ha tuttavia permesso nel 2014 agli Stati Uniti di sorpassare il precedente massimo dalla produzione industriale. Ma se si va a vedere nel dettaglio ci si rende conto che è stato il settore energetico a trainare gli indici, mentre il livello della produzione manifatturiera è ancora inferiore a quello raggiunto nel 2007. Ci vorranno ancora 3 anni, al ritmo di crescita attuale, per tornare a quel livello. In quanto all’edilizia il suo indice è inferiore del 56% di quello raggiunto nel 2004!
Anche la Cina profitta del più favorevole clima attuale: dopo un forte rallentamento dal 2012 al 2015, ha segnato una certa ripresa, sempre considerando che occorre prendere con sospetto le cifre ufficiali. In ogni caso sono presenti i sintomi di una grave sovrapproduzione: forte rallentamento con eccesso di produzione in settori chiave come l’acciaio, il cemento, l’energia, ecc. E va crescendo un forte indebitamento tanto pubblico quanto privato. Facile a spiegarsi: la crescita industriale in Cina si è mantenuta grazie ai grandi lavori pubblici e ai notevoli investimenti negli armamenti, che richiedono molto acciaio, e a un indebitamento galoppante, esattamente come negli altri grandi paesi industriali che si sono mantenuti a colpi di “quantitative easing” e grazie a un indebitamento pubblico e privato considerevole.
Tutto è pronto per una formidabile crisi di sovrapproduzione. La situazione attuale è comparabile a quella della vigilia del 1929, ma in peggio. L’indebitamento pubblico e privato è ben superiore e gli Stati e le banche centrali hanno esaurito tutte le loro munizioni.
Allorché la crisi di sovrapproduzione esploderà in Cina, coincidendo con quella degli Stati Uniti, dell’Europa e di altri paesi asiatici, come Giappone, Corea, India, più nulla potrà arrestarla, nessuno sbarramento resisterà, si affonderanno a vicenda. Le banche centrali saranno travolte e numerosi Stati saranno costretti a dichiararsi insolventi. Banche fondamentali del sistema finanziario mondiale, come la Deutsche Bank, cadranno a decine.
La terra si aprirà allora sotto i piedi dell’aristocrazia operaia e della piccola borghesia. L’ignobile palude delle mezze classi sarà rovinata e con essa una parte della grande borghesia. Proletariato e borghesia saranno spinti a uno scontro sanguinoso, provocato da una frattura irreversibile in una società polarizzata.
Allora si farà di nuovo sentire la voce rivoluzionaria del proletariato comunista con la rinascita alla scala mondiale di un grande Partito Comunista Internazionale e di una Internazionale sindacale rossa.
Dopo non pochi anni di estrema crisi del capitalismo, nella ripresa che seguirà, si porrà l’alternativa o Rivoluzione Comunista Mondiale o Terza Guerra imperialista Mondiale.