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La messinscena della lotta nazionale in Catalogna
Ieri, 6 ottobre del 1934, sono da poco passate le 20, il presidente della Generalitat Lluis Companys è affacciato a un balcone del palazzo dell’istituzione di cui è il massimo responsabile e di fronte a una nutrita folla proclama l’indipendenza della Repubblica Catalana.
La risposta del governo centrale spagnolo è immediata. Il primo ministro Alejandro Lerroux ordina al generale Domingo Batet, di origine catalana, di dichiarare lo stato di guerra e di arrestare senza indugio Companys e gli altri capi del movimento indipendentista.
Nella notte a Barcellona vengono erette barricate per fronteggiare l’esercito. Un battaglione di fanteria leale a Madrid, dotato di una batteria di artiglieria, sale lungo le Ramblas. Un primo scontro si ha davanti alla sede di un’organizzazione sindacale, dove si sono asserragliati un gruppo di uomini armati di fucili, fra cui alcuni militanti del Partito Catalano Proletario. Gli indipendentisti sparano e uccidono un sergente; il loro improvvisato fortilizio è allora preso a cannonate. Fra gli indipendentisti si contano morti e feriti. Poco dopo i cannoni sono schierati davanti al palazzo della Generalitat, difeso da un centinaio di mossos d’esquadra.
Companys invita Batet a unirsi ai ribelli, ma il generale risponde “sono per la Spagna”. Si spara, gli indipendentisti hanno la peggio. Alle sei del mattino Companys si arrende. Si conclude così dopo soltanto 10 ore la breve vita della Repubblica Catalana. Companys è arrestato, processato e condannato a 30 anni di carcere per ribellione.
Oggi, 27 ottobre del 2017, dopo una pacifica sceneggiata, al centro dell’attenzione dei media per oltre due mesi, in una diatriba giuridico-istituzionale col governo spagnolo guidato dal premier Mariano Rajoy, deciso a reprimere ogni velleità del nazionalismo catalano, il parlamento della Comunità Autonoma approva con voto segreto la dichiarazione unilaterale di indipendenza e proclama la Repubblica Catalana. Il presidente della Generalitat catalana Carles Puigdemont viene indagato per ribellione dalla procura generale dello Stato spagnolo. Rischia 30 anni di carcere. Allora ecco che Puigdemont parte in automobile dalla natia Gerona alla volta di Marsiglia, da dove si imbarca in un volo per Bruxelles. In una conferenza stampa nella capitale belga il presidente catalano dichiarerà nei giorni successivi a che tornerà in Spagna soltanto se avrà la garanzia di un processo equo, si dichiara “cittadino europeo” e parla della capitale belga come della “capitale d’Europa” faro dei diritti umani.
La pantomima di guerra di indipendenza popolare catalana del XXI secolo si conclude, da entrambe le parti, pienamente nel religioso rispetto dei riti elettorali, delle parlamentari istituzioni democratiche e del diritto costituzionale, senza azzardare nemmeno una barricata né un solo colpo di fucile. Marx insegna che gli eventi storici si ripetono, ma la prima volta in tragedia, la seconda in farsa. In questo caso la velleitaria tragicommedia del 1934 si è ripetuta in una ancora più spenta commedia nella quale il fervore patriottico e i sacri furori dei due incrociati nazionalismi, quello catalano e quello centralista spagnolo, si sono oscenamente sgonfiati insieme alla boria dei protagonisti, privi anche del senso della vergogna e del ridicolo.
Dietro ai proclami e alle parole altisonanti non si scopre altro che la lotta per accaparrarsi quote del tesoro pubblico e la caccia al consenso elettorale da parte di fazioni politiche borghesi concorrenti e storicamente putrefatte le quali, per coprire la loro grottesca viltà, cercano di rifarsi e dare dignità alle gesta, pure insensate e ispirate da concezioni reazionarie, dei loro predecessori degli anni ’30.
Occorre ricordare che il 1934 era in Spagna segnato dall’insurrezione proletaria delle Asturie, la quale si poneva scopi ben diversi ed ormai opposti a quello di creare un’altra piccola patria borghese.
Cosa rappresenta l’indipendenza della Catalogna e come si è generata questa almeno apparente spinta centrifuga che rende sempre più precario il quadro istituzionale della Spagna post-franchista definito dalla costituzione del 1978?
Innanzitutto occorre ricordare che per noi marxisti la forza di coesione di uno Stato, cioè dello strumento di oppressione della classe dominante rispetto alle altre classi della società, è direttamente proporzionale alla sua potenza economica.
Se lungo gli oltre cinque secoli successivi all’unificazione dei regni di Castiglia e d’Aragona la Spagna ha visto a più riprese il manifestarsi di forti tendenze centrifughe, questo è dovuto certamente alle sue peculiari caratteristiche geografiche e storiche. La relativa povertà delle impervie e semi aride regioni del centro della penisola iberica è stato a lungo in contrasto con il relativo sviluppo delle zone costiere, attratte più dai traffici sulle lunghe distanze che dal proprio retroterra. Queste cause economiche hanno fatto sì che il processo di accentramento statale sia stato lento, difficile e che anche nella fase di affermazione dell’assolutismo le rivolte regionali non fossero affatto infrequenti.
Così scriveva Carlo Marx nel 1854 nella serie di articoli pubblicati sulla “New York Daily Tribune” dal titolo La Spagna rivoluzionaria, che abbiamo ampiamente commentato nel nostro studio “Marx ed Engels sulla Spagna” in Comunismo n.38: «Nella formazione del regno spagnolo si verificarono circostanze particolarmente favorevoli alla limitazione del potere regio. Da una parte, le terre della penisola iberica furono riconquistate poco a poco durante le lunghe lotte contro gli arabi e strutturate in regni diversi e separati tra di loro: in questo periodo nacquero leggi e costumi popolari e le conquiste successive, realizzate specialmente dai nobili, diedero a questi un enorme potere, mentre diminuiva quello del re. Dall’altra parte, le città e i borghi così conquistati si preoccuparono di dare sicurezza e solidità all’organizzazione interna, dato lo stato di necessità in cui si trovava la popolazione nel momento della loro fondazione. Doveva infatti abitare in comunità chiuse come piazzeforti, unico modo per avere una certa sicurezza di fronte alle scorrerie continue degli arabi. Nello stesso tempo, la conformazione peninsulare del paese e il continuo interscambio con la Provenza e con l’Italia fecero nascere importanti città commerciali e marittime sulla costa. Sin dal lontano secolo XV, le città costituirono l’elemento più importante all’interno delle Cortes, composte dai loro rappresentanti assieme a quelli del clero e della nobiltà. È pertanto degno di essere messo in rilievo il fatto che la lenta riconquista contro il nemico arabo, in una ostinata lotta di quasi ottocento anni, abbia dato alla penisola iberica, nel momento della sua piena emancipazione, un carattere del tutto diverso da quello dell’Europa contemporanea: agli inizi dell’epoca del risveglio europeo, la Spagna si trovò con i costumi dei goti e dei vandali al nord, e con quelli degli arabi al sud» (New York Daily Tribune, 9 settembre 1854).
Dunque il processo di accentramento dello Stato spagnolo giunse a compimento con un certo ritardo rispetto a quanto era avvenuto ad esempio in Francia e quando si realizzò non riuscì a creare uno Stato unitario altrettanto forte. Questa debolezza relativa della monarchia spagnola permise alla Francia del XVII secolo, cioè nella fase in cui lo Stato assoluto raggiunse il suo auge, di trarre profitto dall’insurrezione catalana del 1640 per incamerarsi l’area storica della Catalogna transpirenaica, ovvero Perpignano e il Rossiglione, che oggi restano regioni francesi in cui si parla ancora la lingua catalana.
Oggi il fronte nazionalista pone al centro del propria giustificazione storica la dissoluzione delle istituzioni catalane, la Generalitat e i Fueros (leggi locali), con i decreti di Nueva Planta che seguirono l’assedio di Barcellona del 1713-14 da parte delle truppe regolari francesi e spagnole contro i partigiani di Carlo III nell’ambito della guerra di successione spagnola.
Come continua a spiegarci Marx nello stesso articolo: «Quale spiegazione, dunque, si può fornire del singolare fenomeno consistente nel fatto che, dopo quasi tre secoli di una dinastia asburgica seguita da un’altra borbonica – ognuna delle quali basta e avanza per schiacciare un popolo – sopravvivono ancora come allora le libertà municipali della Spagna? E che proprio nel paese in cui, tra tutti gli Stati feudali, nacque la monarchia assoluta nella sua forma meno leggera, il centralismo non sia ancora riuscito a piantare le proprie radici?
«La risposta non è difficile. Le grandi monarchie si formarono nel XVI secolo e si affermarono ovunque seguendo la decadenza delle contrapposte classi feudali: l’aristocrazia e le città. Però, negli altri Stati europei la monarchia assoluta si presentò come un centro di civiltà, come promotrice dell’unità sociale. Fu in quegli Stati il laboratorio dove si mescolarono ed elaborarono i diversi elementi della società in maniera tale da indurre le città ad abbandonare l’indipendenza locale e la sovranità medievale in cambio della legge generale delle classi medie e del dominio comune della società civile.
«In Spagna, al contrario, mentre l’aristocrazia si inabissava nella degradazione senza perdere i suoi peggiori privilegi, le città persero il loro potere medievale senza guadagnare in importanza moderna. Fin dallo stabilirsi della monarchia assoluta, le città vegetarono in uno stato di continua decadenza (…) Con il declino della vita commerciale e industriale delle città divenne sempre più scarso il traffico interno e meno frequente il contatto tra gli abitanti delle varie regioni, si trascurarono i mezzi di comunicazione e furono abbandonate le grandi strade (...)
«In questo modo la monarchia assoluta trovò in Spagna una base materiale che, per sua stessa natura, respingeva il centralismo. Essa stessa, inoltre, fece quanto fu in suo potere per impedire che si sviluppassero interessi comuni basati in una divisione nazionale del lavoro e in una moltiplicazione del traffico interno, unica e vera base sulla quale poter creare un sistema amministrativo uniforme e leggi generali.
«Così, la monarchia assoluta spagnola, malgrado la sua apparente somiglianza con le monarchie assolute dell’Europa in genere, deve essere piuttosto catalogata vicino alle forme di governo asiatiche. Come la Turchia, la Spagna continuò a essere un conglomerato di repubbliche mal governate con alla testa un sovrano nominale. Il dispotismo presentava caratteri diversi nelle varie regioni a causa dell’arbitraria interpretazione della legge generale da parte dei viceré e dei governanti. Malgrado il suo dispotismo, il governo non riuscì a impedire che continuassero a esistere nelle varie regioni diversi diritti e costumi, monete, bandiere o colori militari, oltre ai vari sistemi fiscali».
Non è dunque un caso se anche a compimento del convulso processo che portò all’affermazione definitiva del capitalismo in Spagna si siano perpetuate grandi differenze nel grado di sviluppo economico delle diverse regioni, le quali hanno alimentato forme di ribellismo rispetto allo Stato centrale, trapassato frattanto dal dispotismo di tipo orientale al moderno dispotismo borghese.
Non fu un caso dunque se alla fine dell’Ottocento, nelle regioni in cui maggiore era la vitalità economica e dove più solidamente si era impiantato il nuovo modo di produzione, favorendo dunque un certo sviluppo industriale, si assistette alla rinascita di nazionalismi come quello catalano e quello basco. In entrambi i casi questi movimenti non esprimevano una necessità rivoluzionaria nazionale borghese. Questa in realtà si era già compiuta, in varie ondate, in un lungo tormentoso percorso storico, che aveva subito un forte impulso a partire dalla dominazione napoleonica e dalla successiva guerra di liberazione nazionale contro i francesi, alla base della costituzione liberale del 1812.
Allora, aveva spiegato ancora una volta Marx, si era avviato un processo che trascinò con sé, anche nelle sue fasi più avanzate, un carattere fortemente contraddittorio che lo segnò sin dall’inizio come un peccato d’origine: «Tutte le guerre per l’indipendenza dirette contro la Francia comportano contemporaneamente sia l’impronta della rigenerazione, sia quella della reazione; ma in nessun’altra parte il fenomeno si presenta con l’intensità con cui esso avviene in Spagna».
Nella visione marxista il processo della genesi delle nazioni moderne non vede come fattore principale l’affermazione dell’autodeterminazione dei popoli oppressi, come vuole la vulgata borghese. Certo, in date fasi storiche e in certi paesi, il programma del “Manifesto del Partito Comunista” del 1848 prescriveva ai comunisti di appoggiare i partiti che si ponevano quale scopo da raggiungere l’emancipazione nazionale. Lo sviluppo del capitalismo ha portato con sé la formazione di entità statali, le quali erano in fase di gestazione già in epoche preborghesi, ma questo si è manifestato più come un processo di agglomerazione che di frammentazione lungo linee basate su aspetti etnici, culturali o linguistici.
Il rifiuto di appoggiare aprioristicamente ogni movimento di autodeterminazione nazionale lo precisammo con notevole chiarezza nel lontano 1950 nell’articolo dal titolo Il proletariato e Trieste apparso sul numero 8 di “Battaglia Comunista”: «È controrivoluzionaria la ideologia piccolo-borghese secondo cui per dare slancio alle rivendicazioni di classe in Europa conveniva attendere la liberazione di ogni “nazionalità” oppressa, la soluzione di ogni problema etnico marginale ai grandi Stati. Tutti questi oppressi nella lingua, nelle università, nelle carriere borghesi, soprattutto in quella più “cannaruta” [in napoletano “ghiotta”, ndr] delle deleghe elettorali, avrebbero vietato in eterno agli operai di accorgersi dello sfruttamento padronale, dell’oppressione sociale».
Il nazionalismo catalano e quello basco, pur nelle loro diversità, hanno avuto lungo tutta la loro storia un segno sostanzialmente reazionario perché, proponendosi come obiettivo l’affermazione di nazioni fittizie, hanno costantemente sviato l’attenzione dei lavoratori dai propri interessi economici immediati e dai i loro fini storici.
Si consideri soprattutto che le rivendicazioni incentrate su questioni culturali o linguistiche in entrambi i casi dovevano fare i conti con il fatto che da alcuni secoli le principali città catalane, e da sempre quelle del Paese Basco, hanno visto una netta preminenza del castigliano, non solo come strumento linguistico veicolare, usato cioè fra madrelingua diversi, ma anche di uso quotidiano, rispetto al catalano e all’euskera, i quali restavano confinati prevalentemente nelle campagne. Mentre l’euskera non è mai stato una lingua veicolare ed è rimasto frantumato in numerosi dialetti fino al tentativo iniziato nel 1968 (cioè in regime franchista) di unificazione a tavolino (il cosiddetto “euskera batua”, cioè basco unificato) operato dall’Accademia della lingua basca, il catalano ha conosciuto invece anche una fase, nel tardo medioevo, in cui ha svolto effettivamente il ruolo di lingua ufficiale dello Stato aragonese. Inoltre quella catalana è stata una delle prime lingue, fra quante derivano dal latino, in cui si sia sviluppata una produzione letteraria considerevole che abbracciava anche la filosofia e la scienza. Notevole in questo senso il caso del filosofo e poeta Raimondo Lullo (Ramon Llull in catalano) morto nel 1316.
Tuttavia già agli inizi del XV secolo il catalano aveva incominciato a perdere terreno come lingua di cultura, per poi essere messo ulteriormente a margine con l’adozione del castigliano a lingua ufficiale della monarchia spagnola, unificata dai Re Cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia nell’ultimo quarto del secolo.
Ma queste glorie passate poco importavano una volta entrati nel vortice della modernità, con la loro funzione progressiva esaurita da secoli, sepolta sotto la coltre di un’unità statuale non troppo solida, sebbene con una lunga tradizione di continuità. In tale cornice, piaccia o meno ai cultori della “purezza” culturale e razziale delle patrie, si è svolto anche in Spagna il processo di creazione di un mercato nazionale, alla base dell’organizzazione territoriale dello Stato che tanta importanza ha avuto nello sviluppo del capitalismo moderno. Fatto questo che noi poniamo a presupposto indispensabile alla predisposizione delle condizioni oggettive del comunismo, fondato sull’alto sviluppo delle forze produttive raggiunto dalla formazione economico-sociale borghese.
In Spagna dunque si sono sviluppati questi nazionalismi, dal punto di vista della storia nati già morti, fuori tempo massimo rispetto alla stagione delle rivoluzioni nazionali borghesi in Europa. Infatti hanno preso forma quando lo Stato unitario e il mercato nazionale erano realtà già assodate. Questi movimenti, anche qualora riuscissero a creare Stati indipendenti staccandosi dal resto dello Stato spagnolo, ipotesi sempre altamente improbabile, non conquisterebbero alcuna reale indipendenza politica ed economica e sarebbero precipitati nella forza d’attrazione esercitata dalla Francia e dall’Europa centrale.
Dopo la fine del regime franchista, il cui esplicito centralismo veniva espresso dal motto “España una, grande y libre”, il nuovo quadro democratico, nel quale pure si trasfondevano gli elementi essenziali di quello apertamente dittatoriale precedente, volle dare una risposta alla spinosa questione delle minoranze con il sistema delle Comunità Autonome, alle quali furono assegnate una parte delle funzioni fino ad allora prerogativa del governo centrale. Questo significava andare incontro alle esigenze e agli interessi di quegli strati borghesi e piccolo-borghesi che attraverso l’identità della minoranza etnica, reale o fittizia che fosse, avevano veicolato le istanze delle libertà borghesi attraverso i quattro decenni della dittatura franchista. Né si può nascondere che anche negli ultimi anni del regime, grazie anche a un certo allentamento della censura nei confronti delle lingue regionali, le aspirazioni di affermazione della piccola borghesia furono incoraggiate a incanalarsi verso i risorgenti nazionalismi.
Tale strada si rivelava di una certa efficacia per rafforzare la base di consenso al nuovo regime democratico, a distogliere l’attenzione dal conflitto sociale offrendo all’opinione pubblica la rappresentazione spettacolare di conflitti nazionali e regionali in gran parte fittizi, anche quando esteriormente armati e violenti. Si veda il nostro approfondito studio “Le cause storiche del separatismo basco” in Comunismo n.42.
Questa diffusione, sedimentazione e accumulazione di motivi ideologici regressivi ha continuato ad avere un ruolo importantissimo nel sopire e distogliere le lotte dei lavoratori per quattro decenni. Tali “imbalsamati nazionalismi”, mantenuti artificialmente in vita, hanno avuto il loro peso a favore della conservazione: se non si è assistito ad una sostanziale ripresa delle lotte operaie anche dopo la crisi del 2008, che ha messo a terra l’economia spagnola, ha determinato un peggioramento drastico delle condizioni di vita dei lavoratori e ha creato milioni di nuovi disoccupati. Anzi, a partire da allora, la parziale perdita di coesione interna della sovrastruttura statale nazionale è diventata un ulteriore strumento delle politiche anti-operaie di austerity dettate alla borghesia dalla crisi. Spesse volte infatti la repressione delle manifestazioni di dissenso più innocue per il potere, e noi diremmo anche più imbelli, è stata affidata a forze regionali. Questo è avvenuto nel 2011 quando i mossos d’esquadra, la polizia catalana cui hanno inneggiato nelle ultime settimane gli indipendentisti qualificandola come “la nostra polizia”, repressero con inutile brutalità una manifestazione pacifica del movimento degli “indignados” provocando 33 feriti e arrestandone 20 in Plaza de Catalunya, nel centro di Barcellona.
La sceneggiata che ha tenuto banco negli ultimi mesi, e fatto trepidare la rincoglionita opinione pubblica, è inspiegabile prescindendo dalle preoccupazioni di natura volgarmente elettorale di un ceto politico corrotto e miope. Dopo avere pasturato per decenni le masse proletarie e piccolo borghesi con temi ideologici di segno opposto, ma di eguale natura, sciovinismo spagnolo monarchico e centralista contro nazionalismo repubblicano catalano, ora i politicanti raccolgono i frutti del veleno che hanno somministrato. I notabili del politicantismo borghese di entrambi i fronti hanno da atteggiarsi a strenui difensori della democrazia, della costituzione, della libertà della patria borghese.
Da una parte la coalizione non può fare a meno di premere l’acceleratore (a motore spento! elettorale!) sull’indipendenza, illudendo che senza la zavorra della Spagna e delle tasse da devolvere all’amministrazione centrale dello Stato le ricchezze della Catalogna resterebbero ai catalani di tutte le classi. Tale tema, caro ai demagoghi che in molti paesi europei agitano i vessilli del regionalismo e dell’indipendentismo, compreso il leghismo nostrano, ha facile presa sulle mezze classi e sull’aristocrazia operaia, sempre disposti a farsi imbonire con vuote promesse.
Infatti, nell’attuale fase di capitalismo decrepito, non basta richiamarsi alle radici culturali della Catalogna, la mistica della nazione non avrebbe alcuna presa senza riferimenti all’indipendenza fiscale. Infatti le secessioni o anche le unioni di Stati non sono mai un fatto prevalentemente “culturale”, anche se elementi come la lingua nazionale hanno svolto in passato un ruolo centrale nel processo di unificazione del mercato, un fatto che corre parallelamente all’affermazione del modo di produzione capitalistico.
Non è certo il bisogno di sentirsi liberi di parlare il catalano che può motivare l’aspirazione di una fazione consistente della borghesia catalana di liberarsi dalla soffocante tutela del governo madrileno. Oggi la lingua catalana moderna, alla cui unificazione ha contribuito solo un lavoro accademico svolto “a tavolino”, grazie alla politica linguistica della Comunità Autonoma, non solo è tornata a svolgere un ruolo importante in Catalogna a ogni livello della vita sociale, forse ancora più di come accadeva fino ai primi anni del XV secolo nel regno aragonese, ma viene imposta in molte occasioni della vita sociale come veicolo linguistico obbligatorio, soppiantando il castigliano. Questo avviene anche nei corsi universitari, anche se frequentati da molti studenti stranieri, costretti a seguire lezioni in catalano, chiudendo a chi parla castigliano, la lingua di oltre mezzo miliardo di uomini.
Tale atteggiamento ideologico, che fa il paio con l’imposizione franchista del castigliano, è una versione “colta” del vecchio disprezzo col quale la borghesia e le mezze classi catalane trattavano i xarnegos, cioè gli immigrati provenienti dalle regioni depresse della Spagna che fino agli anni ’70 arrivavano in Catalogna per lavorare. Essi e i loro figli non parlavano e non imparavano il catalano, e per questo affibbiavano loro un’etichetta paragonabile a quella di “terrone” in Italia agli immigrati nelle città del Nord industriale dalle zone più arretrate del Meridione, per dividerli dai fratelli di classe autoctoni.
Oggi il fronte che si raccoglie dietro al nazionalismo catalano deve fare dimenticare i propri peccati, primo fra tutti quello di avere governato la comunità autonoma di Catalogna sia pure con brevi interruzioni per complessivi trent’anni a partire dal 1980.
Ma il radicalismo altisonante di questo movimento indipendentista, che agita la bandiera a strisce rosse e gialle ereditata dalle guerre medievali della Reconquista contro i Mori (la senyera, il vessillo adottato a metà del XII secolo), avrà qualche difficoltà a scardinare il quadro istituzionale dello Stato spagnolo. Questo, paradossalmente, potrebbe anche uscire rafforzato dalle vicende di questi mesi, grazie alle dosi massicce del veleno sciovinista, di segno contrario, fautore dello Stato unitario. La borghesia spagnola ha giocato la carta della repressione aperta del referendum del 1° ottobre scommettendo consapevolmente sulla rinascita del nazionalismo monarchico.
Sull’altro fronte borghese, l’estrema sinistra dello schieramento capitalistico, in Spagna, in Italia e ovunque in Europa, si è invece unita al coro dei fautori dell’inesistente, impossibile e reazionaria indipendenza catalana. Con diverse, ma sempre ingannatrici sfumature, che non nascondono la sostanza della loro collocazione all’interno dello schieramento di classe borghese, stalinisti, trotskisti, anarchici e le loro correnti nei sindacati di regime e di base, non hanno saputo resistere alle sirene del nazionalismo e dell’ennesima patria borghese, che vorrebbe dare i natali a un nuovo Stato, che si affiancherebbe a tutti gli altri nell’oppressione della classe lavoratrice.
Alcuni hanno voluto vedere una “mobilitazione delle masse”, pura messa in scena dei sindacati traditori catalani che il 3 ottobre hanno chiamato ad uno “sciopero generale”, in gran parte una vera e propria serrata in combutta con i padroni! L’attivismo e il movimentismo sono i nostri nemici più insidiosi perché vogliono fare dimenticare che in questa contesa, tutta interna a fazioni della classe nemica, ugualmente reazionarie, il proletariato non ha nulla da guadagnare e tutto da perdere, qualunque sia il fronte borghese che ne uscirà vincitore.
Corea del Nord
Tensione
crescente nelle faglie fra i massimi imperialismi mondiali
Gli ultimi test nucleari e missilistici nord-coreani hanno fatto salire la tensione nell’area Asia-Pacifico, nel contesto del confronto imperialistico fra Cina e Stati Uniti, nel quale sono coinvolti altri Stati con peso considerevole nell’area come Giappone e Russia, e forze regionali come la Corea del Sud. Il quadro generale è quello di un riarmo che coinvolge non solo le maggiori potenze imperialistiche ma anche gli attori regionali, facendo dell’Asia (secondo i dati del SIPRI riferiti al 2016) la regione del mondo che ha registrato nello scorso anno il maggiore incremento delle spese militari: +4,6%.
Lo scorso 15 settembre la Corea del Nord ha lanciato un missile balistico che ha sorvolato il Nord del Giappone, prima di inabissarsi nelle acque a est dell’isola di Hokkaido. Ha percorso 3.700 chilometri, nessuno dei precedenti era arrivato così lontano, dimostrando la capacità di colpire l’isola statunitense di Guam, che ospita importanti basi aeree e di sottomarini nucleari d’attacco. Si tratta del 23° lancio missilistico compiuto dal Nord Corea nel 2017, preceduto da un altro del 28 agosto con un missile caduto nel Mar del Giappone dopo aver percorso 2.700 chilometri.
Tra i due ultimi lanci la Corea del Nord ha effettuato il 3 settembre la sua sesta prova nucleare facendo esplodere in un tunnel sotterraneo una testata di una potenza valutata di 100/120 chilotoni, circa 5 volte la bomba sganciata dagli Stati Uniti su Nagasaki il 9 agosto 1945. L’ordigno è il più potente finora approntato dalla Corea del Nord, 5 o 6 volte maggiore di quello del precedente quinto esperimento, del 9 settembre 2016, in cui i nordcoreani affermano di aver provato una bomba H miniaturizzata.
Quindi P’yongyang prosegue a potenziare il proprio arsenale, ritenendo la deterrenza atomica necessaria ad assicurare la sopravvivenza dello Stato.
Anche i servizi statunitensi ad inizio agosto erano arrivati alla conclusione che la Corea del Nord avrebbe potuto armare con una testata atomica miniaturizzata un missile in grado di colpire l’isola di Guam e stimano che avrebbe la capacità di raggiungere le città statunitensi della West Coast.
Tutto ciò ha messo in moto i pennivendoli della borghesia pronti a diffondere sui media l’epidemia della paura atomica.
Non è una novità. Non è la prima volta che la stampa sforna rappresentazioni apocalittiche di guerra e la paura per una catastrofe dovuta ad attacchi atomici è stata una costante, fomentata nei decenni, di quella che hanno chiamato Guerra Fredda. Tutto questo allarmismo ha il deliberato proposito di spaventare il mondo. Ma il terrore che si cerca di suscitare non è nient’altro che il riflesso della disperazione della borghesia di tutti i paesi.
La Guerra Fredda aveva affidato agli Stati Uniti il compito reazionario di salvaguardare i propri interessi di classe contro la possibilità della planetaria rivoluzione proletaria.
Però l’imperialismo statunitense, che dalla fine della Seconda Guerra mondiale ha sostituito la Gran Bretagna nel ruolo di gendarme dell’ordine mondiale, con sempre maggiore difficoltà riesce a garantire questo compito reazionario. Nel mondo la sua forza è seriamente messa in discussione dalla crescita della potenza di altri briganti imperialisti. Lo si è visto chiaramente nelle vicende mediorientali, e la stessa questione coreana ne è testimone. Gli Stati Uniti, ad esempio, non possono utilizzare contro il regime di P’yongyang gli stessi mezzi usati contro quello di Saddam Hussein in Iraq ai tempi delle guerre del Golfo. Non solo per paura di una rappresaglia dei nordcoreani, che potrebbe infliggere gravi perdite ai vicini Giappone e Corea del Sud, ma principalmente perché in Corea non si gioca una partita a due tra gli Stati Uniti ed il regime di Kim Jong-un, ma una ben più vasta che riguarda tutta l’area Asia-Pacifico.
Gli equilibri in quest’area dipendono principalmente dal confronto con la Cina. Una possibile operazione militare degli USA contro la Corea del Nord deve prevedere la reazione cinese, che sebbene manifesti, in questo momento, disapprovazione nei confronti delle iniziative del vicino nordcoreano, non può permettere un crollo della Corea del Nord, col rischio di ritrovarsi i soldati USA ai confini. Né tanto meno gli Stati Uniti possono spingere la Cina ad attuare sanzioni troppo dure contro la Corea del Nord. Per mettere in difficoltà P’yongyang Pechino potrebbe interrompere la fornitura di petrolio, ma il governo cinese non ha nessun interesse a provocare il collasso economico del paese vicino e del suo regime. La Cina non può fare a meno della Corea del Nord sul piano strategico.
Gli Stati Uniti che con la vittoria nella Seconda Guerra mondiale hanno imposto il loro dominio anche sul Pacifico, ora vedono la prospettiva che questa loro posizione sia messa in discussione, in primis dall’imperialismo cinese. Lo scontro inter-imperialistico, che, oltre alla Cina, coinvolge la Russia, le potenze europee, il Giappone ecc., minaccia il primato USA dappertutto. Dalla Siria all’Ucraina gli Stati Uniti si trovano a scontrarsi con altre potenze imperialiste che, anche se di secondo rango, contendono loro il primato, almeno su scala regionale.
Gli Stati Uniti non sono più l’unico gigante economico e militare in un mondo di pigmei. L’estensione del capitalismo a quelle che erano state le vecchie colonie delle borghesie europee e le lotte per l’indipendenza nazionale che si sono sviluppate in questi Paesi hanno radicalmente cambiato l’equilibrio internazionale. Dai Paesi che una volta erano assoggettati a potenze straniere sono sorti degli Stati nazionali che oggi reclamano un proprio ruolo internazionale e alcuni di loro, come la Cina, hanno raggiunto i primi posti nel mondo e vogliono rimettere in discussione la spartizione dei mercati scaturita dagli accordi inter-imperialistici alla fine del secondo conflitto mondiale. Ovunque è all’ordine del giorno questa nuova spartizione imperialistica, il vecchio equilibrio è saltato e nessuno può prevedere su quali basi sorgerà il nuovo.
Ne risulta sconvolto il meccanismo della conservazione mondiale, imperniato su alcune potenze imperialistiche, ieri sulla Gran Bretagna, poi sugli Stati Uniti e sul condominio di questi con la Russia. E la borghesia internazionale guarda con terrore alla confusione che regna nel mondo. La perdita di prestigio e di forza dell’imperialismo statunitense pone a tutti gli Stati borghesi un grave problema: a chi si potranno affidare contro la rivoluzione proletaria?
La paura della borghesia è lo stato d’animo di una classe che vede in pericolo l’ordine che le garantisce il mantenimento dei propri privilegi.
Scrivevamo in quegli anni: «La borghesia guarda con terrore alla confusione che regna nel mondo. Era logico che gli Stati Uniti, i quali centralizzano le forze e i sentimenti della borghesia internazionale, compreso il folle terrore della rivoluzione comunista, si buttassero sull’arma del terrorismo atomico. La conservazione capitalistica si illude di guarire dal proprio terrore iniettandolo nel nemico. Ma il suo gioco non riesce nei confronti delle avanguardie rivoluzionarie del proletariato. Diciamolo alto e forte: le minacce dei gangster dell’atomo non ci spaventano (…) Diffondendo raccapriccianti anticipazioni sulla guerra nucleare (…) vantandosi di esser pronta a bruciare il pianeta pur di difendere la propria esistenza, la classe dominante si illude di inchiodare la classe operaia mondiale sulla croce di questo dilemma: o accettazione indefinita del capitalismo o distruzione di ogni forma di vita sul pianeta» (Diffondendo l’epidemia della paura e l’ossessione atomica, il capitalismo tenta di immobilizzare i suoi becchini, 1958)
Il ricatto è chiaro. La borghesia si illude che la rivoluzione proletaria si possa arrestare con i classici mezzi dei “gangster”. Alle minacce di ieri e a quelle di oggi il Partito risponde allo stesso modo: «Alle minacce di diluvio atomico, che tanto terrorizzano la gente, noi non crediamo. Non crediamo alle minacce di suicidio della classe dominante. Non vi crediamo perché siamo certi che la rivoluzione impedirà all’imperialismo di assassinare il mondo».
Noi siamo certi della fine del capitalismo e siamo certi che esso perirà senza trascinare con sé nella tomba tutto il genere umano in una immane distruzione atomica. Nella storia non c’è un solo esempio di classe dominante che si sia suicidata, liberando la rivoluzione dal compito di eliminarla. Non certo lo farà la vile borghesia.
«L’apocalisse atomica è l’estrema minaccia di una classe dominante che ha esperito tutti i mezzi per spezzare il movimento rivoluzionario. Ma questo è una forza insopprimibile finché dura la società di classe. La borghesia capitalista non intende deporre il potere, ma il movimento rivoluzionario non si distrugge. Di qui la disperazione dei furiosi nemici del proletariato e del comunismo; di qui il ricorso al terrorismo atomico; di qui il tentativo di scaricare la propria tormentosa paura sull’odiato nemico che, cento volte battuto, rialza la testa. Di qui, infine, il gigantesco bluff del suicidio atomico».
Sappiamo bene di quali crimini sono capaci di macchiarsi le classi dominanti per fermare la rivoluzione avanzante, e conosciamo la ferocia sanguinaria con cui la borghesia ha finora schiacciato il movimento rivoluzionario del proletariato. Ogni classe dominante, non solo tenta di fermare l’avanzata rivoluzionaria con la minaccia di distruzione, ma si dota anche dei mezzi per poterlo fare.
«Ogni classe dominante, trovatasi a tu per tu con le classi soggette, ha posseduto, nello scorrere dei secoli, la propria terrificante minaccia di distruzione come alternativa all’insorgere dei propri nemici di classe. Proprio nel bel mezzo della Parigi rivoluzionaria, sorgeva la Bastiglia, formidabilmente munita, imprendibile dal punto di vista militare, armata di cannoni e munizioni, di quanto bastava a fulminare l’abitato, dove trovavano rifugio i sanculotti. Ma la Bastiglia non fu presa dalla folla insorta a seguito di una regolare azione militare, con assedio ecc. Cadde dall’interno, simboleggiando la frana che si verificava nella compagine della società: coloro che avrebbero dovuto adoperare la terribile arma contro le masse insorte furono essi stessi fulminati dalla ben più terribile minaccia che la Rivoluzione faceva pesare sul capo della sbigottita classe dominante» (Bomba H contro rivoluzione, 1952).
Siamo sicuri che, come nel caso della Bastiglia, lo stesso avverrà per qualunque terribile arma la borghesia vorrà usare per fermare la rivoluzione proletaria.
Uno Stato che volesse usare le armi atomiche dovrebbe temere non solo la possibile rappresaglia del nemico di guerra, ma soprattutto le reazioni della popolazione al suo interno e dello stesso esercito. Dopo aver seminato per anni il terrore dovuto al potere distruttivo delle armi atomiche il loro utilizzo potrebbe scatenare una terribile ondata di follia collettiva. Come potrà la borghesia minacciare il mondo di sterminio atomico e, nello stesso tempo, impedire che masse cariche di paura per la terribile prospettiva non facciano saltare i gangli vitali del suo stesso ordinamento sociale? Il terrore atomico che la propaganda borghese diffonde tra le masse contagia tutti gli strati sociali e va ad indebolire la stessa struttura dello Stato borghese, perché si diffonde anche tra i suoi servitori e le strutture repressive che assicurano la conservazione dell’ordine borghese. La contraddizione insanabile in cui si trova la borghesia è che non può evitare che il terrore della guerra nucleare diffuso tra le masse penetri nella stessa macchina che tale guerra deve condurre.
Propagandare la paura per le conseguenze catastrofiche di una guerra ha il solo obiettivo di immobilizzare il proletariato per condurlo all’adesione alla guerra e alla difesa della patria. Si cerca di inculcare nelle menti dei proletari l’idea ossessiva che ogni ribellione verso l’ordine costituito comporterebbe la rappresaglia atomica del capitalismo, la “fine del mondo”.
La borghesia non può raggiungere l’obiettivo di immobilizzare infinitamente il proletariato, le sue minacce non possono fermare la rivoluzione. «Anzi sono proprio l’orrore e il ribrezzo ispirati dalle infamie senza nome dello sfruttamento che rendono le masse rivoluzionarie sprezzanti del pericolo e le scagliano contro i meccanismi di potere della classe dominante».
E anche se volessero dar seguito alle loro minacce di sterminio, le classi dominanti si accorgerebbero di non poterlo fare, per la paura che si è infilata e ha scardinato la loro stessa macchina repressiva. «Al momento della resa dei conti, allo scatenarsi del terremoto sociale, che travolgerà le basi dello Stato borghese, la bomba H farà cilecca come, nel 1789, la parigina Bastiglia».
Caporetto
Alla disfatta del proprio paese non poté
rispondere il proletario disfattismo rivoluzionario
Il giorno 24 ottobre del 1917, sul fronte dell’Isonzo che separava l’esercito austro-ungarico da quello italiano, un attacco portato con criteri strategici del tutto nuovi per le concezioni militari dello stato maggiore cadorniano provocò un rovescio militare di amplissima portata, che arretrò il fronte bellico di quasi 150 chilometri, quando i guadagni territoriali di tre anni di offensive si misuravano, se andava bene, in qualche decina.
Questo è l’anno del “centenario”. Si rievocano le memorie di sopravvissuti e testimoni, più o meno veraci, riportate con alto senso di equilibrio storico, col distacco sobrio e scientifico ormai assodato ad un secolo di distanza. Come se a distanza temporale di quattro generazioni quei fatti, che infine dettero il via ad una ribellione dei “santi maledetti”, per dirla con Malaparte, allora il cronista più severo di una scelleratezza militare e di classe, fossero ormai relegati in un orizzonte non più attuale. Oggi non potrà più accadere, ce lo dicono tutti gli studiosi dei fatti di allora.
Il quadro viene semplificato con le ovvie considerazioni che la dimensione militare si apre e chiude in una patente dimostrazione di inconcludenza criminale sul piano strategico, sulla operatività tattica ed in generale sulla capacità di conduzione bellica da parte dell’intera catena di comando dell’esercito italiano; mentre l’aspetto sociale è ridotto ad un esercito provato e moralmente disfatto per essere stato mandato sempre al macello, trattato in modo infame, con una disciplina feroce, cieca e senza alcun diritto legale, ed infine crollato nella volontà di resistere all’offensiva austro-tedesca essenzialmente anche per l’abbandono della stessa catena di comando, preoccupata solamente della propria salvezza.
Noi comunisti la vediamo diversamente.
La “guerra rigeneratrice”, che avrebbe dovuto pareggiare tutti i “torti” tra gli Stati e ridare un nuovo e più giusto assetto alle nazioni di Europa tutta, voluta assolutamente da tutte le borghesie europee ed extraeuropee e dalle decrepite classi nobiliari, aveva messo le armi in mano ai proletari in divisa, che solo una feroce disciplina ed una martellante propaganda contro il “nemico” in altra divisa potevano tenere sotto controllo. Questa ferocia di classe degli stati maggiori degli eserciti, appoggiati dalla stampa dei regimi borghesi, dall’oppressivo apparato del consenso che nascondeva il terrore dei borghesi per la classe operaia e contadina in armi, era funzionale solo a tenere sottomesso l’avversario storico, e non a condurre in modo più efficiente lo sforzo bellico.
Ma ad ogni trauma bellico violento che allentasse la feroce disciplina, la coercizione bestiale e senza freno usata per scatenare proletari contro proletari, la realtà dello scontro di classe tornava prepotentemente alla luce. A rendere di nuovo piegate le masse una volta sbandate e liberate dalla disciplina militare, quando non bastassero plotoni di esecuzione “volanti” e mitragliatrici, intervenivano i pompieri socialdemocratici; quegli stessi partiti della Seconda Internazionale che avevano tradito spingendo i proletari sui fronti di guerra.
Quanto oggi è studiato e serenamente esposto, allora fu un disastro che nelle coscienze turbate dei borghesi democratici e degli sconvolti piccolo borghesi arrivò come un trauma fatale quanto incomprensibile.
Si scatenò poi la rabbia dei vari interventisti della prima ora a vedere come l’intero congegno dell’esercito di Cadorna e sodali avesse “tradito” lo spirito della “guerra di liberazione nazionale” maciullando nell’insipienza di concezioni sballate, di corruzione, di demenza disciplinare, di totale indifferenza alle condizioni di vita e combattimento dei soldati, centinaia di migliaia di combattenti: c’è tutto un filo continuo di borghesi illuminati e piccolo borghesi che si sentirono traditi. Tanta memorialistica dell’immediato dopoguerra lo evidenzia.
I soldati in prima linea portano il peso di questo orrore, gli imboscati del “trincerone” di Udine osservano da lontano, al sicuro, lo svilupparsi del macello, discutendo di donne, di strategia, di affari da realizzare nel dopoguerra. Poi arriva il crollo, tutti fuggono per salvare pelle ed onore.
I derelitti della trincea, quelli scampati al gas, ai bombardamenti, alla prigionia, se ne tornano indietro maledicendo la guerra, convinti di averla “fatta finita”.
L’esempio della Russia suonava a tremendo monito per le classi possidenti, e a indirizzo chiaro per i proletari in guerra. Di nuovo il terrore prende allora i capi dell’esercito ed i borghesi. Se prima dell’Ottobre Rosso del ’17 borghesi, nobili in divisa e classi possidenti avevano potuto usare una disciplina spietata e senza freni sui proletari che stavano portando le armi per combattere contro i loro fratelli di classe, ora che il terribile e caotico ripiegamento portato dalla rotta travolge ogni argine, la reazione è più violenta, isterica.
Nella Russia sconfitta militarmente il crollo sul fronte bellico si salda con il sommovimento sociale, con il partito bolscevico operante secondo una chiara e ferma teoria e pratica rivoluzionaria. Ma è il solo caso in tutti gli Stati che si sono precipitati nell’immane conflitto. Altrove il partito della rivoluzione comunista non c’era prima, non c’è ancora. Il sommovimento della truppa sconfitta e in caotica ritirata, disgustata da guerra, sacrifici, decimazioni, che non ha capito i motivi della guerra fratricida e non tollera più la disciplina, si fa man mano riportare nell’alveo della “legalità” militare, a suon di mitragliatrici e plotoni di esecuzione, piagnistei di preti e traditori del proletariato, richiami alla patria, all’onore ed ai sacri confini.
Il “salto di qualità” non può farlo, e non lo fa.
Lo stesso Stato Maggiore, Cadorna e tutta la gerarchia militare, con cinismo decide di sacrificare, nella ritirata da ed oltre il Tagliamento, la II Armata, stimata, e forse a ragione, la più infetta dal morbo del pacifismo e della ribellione; a tutto vantaggio della III, ritenuta più fedele, insieme alle divisioni dell’Agordino. Il socialtraditore Leonida Bissolati, esperto della cosa per i suoi trascorsi nel campo del proletariato, presenta quella tragedia proletaria e militare come uno “sciopero militare”, per dare a borghesi e nobiltà sabauda una spiegazione che non avesse l’infame stigma del tradimento, portato a giustificazione dal macellaio Cadorna. E non va molto lontano nella lettura del comportamento dei proletari in divisa.
Malaparte, nel suo “Viva Caporetto” va un passo oltre: la chiama “la rivoluzione sociale del popolo delle trincee”, ma Caporetto non è né una rivoluzione, né induce il proletariato in armi – Malaparte non a torto lo chiama “il popolo” – a portare in quel momento un attacco cosciente, organizzato ai suoi aguzzini.
Poi è il Piave, il monte Grappa, la battaglia “del Solstizio”, la farsa di Vittorio Veneto con i macelli del monte Asolone, dello Spinoncia. Sempre con la loro scia sanguinosa di morti sul campo e fucilati per indisciplina.
A terminare la tragedia bellica è l’ultima infamia dello sconfitto ed in via di dissoluzione Stato austro-ungarico che, per evitare la “Caporetto alla rovescia”, masse di soldati senza più capitani e comandanti che se ne tornano armati disillusi e gonfi di odio contro i loro capi nei rispettivi paesi, e per disinnescare la probabile resa dei conti sociale, preferisce farli massacrare senza speranza sulle cime davanti al Grappa, poi li mette intenzionalmente nelle mani dell’esercito italiano, che si incarica di farli morir di fame, dichiarando la fine delle ostilità prima della loro effettiva chiusura con la firma dell’armistizio a Villa Giusti; anche quello “reso effettivo” 24 ore dopo.
Ad Ostia sozza riedizione della farsa elettorale
Il 5 novembre, dopo due anni di commissariamento per mafia, il X Municipio di Roma è andato alle urne. Poi, passata la domenica elettorale, nulla è cambiato, da lunedì si è tornati alla galera del lavoro salariato e alla miseria di sempre!
Ad Ostia i fatiscenti ambienti che hanno ospitato il gran cerimoniale elettorale si sono mostrati ben adeguati a cotanta decadenza, subendo allagamenti e lunghi black-out, che hanno obbligato a procedere con le candele.
Non ci dispiace che questo possa avere appannato la sacralità del rito democratico, quanto perché quelle stesse stanze ospitano le scuole dei bambini di Ostia, per lo più di famiglie proletarie, e che non vi si recano certo per esprimere fedeltà alle Istituzioni. La condizione di miserabile abbandono di questi edifici collide con le promesse reiterate dai partiti borghesi di restauri all’edilizia scolastica, mai effettuati e solo facile argomento per i discorsi propagandistici che precedono le giornate delle elezioni.
L’astensionismo si è esteso, denunciato da tutte le forze borghesi. I media colgono l’occasione per offendere i proletari locali, che non sarebbero all’altezza della democrazia come ogni buon cittadino. Si rimprovera loro di essersi liberati del mito sulla possibilità di mediazione con gli interessi dei capitalisti, di essere indifferenti alle politiche di gestione e promozione dell’accumulazione dei profitti, in corrispondenza alle difficoltà attuali, a livello nazionale, regionale e locale. È vero, il disprezzo e la sfiducia crescenti nutriti dai lavoratori nelle politiche dell’intero spettro delle istituzioni e dei partiti borghesi, che prendono il nome di riforme, trovano naturale sbocco, per ora, solo nel rifiuto della menzogna democratica.
Al solito, anche ad Ostia gli schieramenti elettorali sono il prodotto di losche misture negli alambicchi della democrazia, alchimie molto molto al di sotto della politica, risultato del disorganico sforzo di mediazione tra gang borghesi in lotta per difendere i propri affari e spartirsi il frutto del lavoro dei proletari.
Fra “centrosinistra” e “centrodestra”, suo necessario completamento, la parte più cospicua del magro raccolto è andata a Fratelli d’Italia e alcune briciole all’ “esperimento” ultra-reazionario del Popolo della Famiglia. Nessun trionfo di Casa Pound. Ma tutti della stessa Famiglia sono, senza alcun dubbio, nulla li differenzia nella gara alla dedizione agli stessi dogmi reazionari di patria, identità e nazione.
Anche il M5S e le Liste Civiche, dietro le scemenze sulla “cittadinanza attiva”, sulla “industria 4.0”, sono mossi solo dal desiderio di un capitalismo efficiente, in spregio a qualsiasi volontà di miglioramento delle condizioni dei proletari. Con simulato stupore scoprono l’appoggio a Casa Pound Italia del capitalismo mafioso, pur continuando a pescare nelle stesse condizioni materiali di cui quel capitalismo mafioso è parte integrante e portante. Fra loro cambia solo il motto, qua “legalità”, là “identità”, ma non la sostanza: dietro la demagogia delle parole sulla cacciata degli immigrati e degli altri disperati dalla grande vetrina di Ostia, rimane la reale politica a guardia della proprietà privata e degli interessi borghesi.
L’astensione generale conferma la tendenza a non lasciarsi invischiare nel parlamentarismo, il che non impedisce al sotto-politicanti borghesi di scatenarsi nella spartizione delle residue briciole di potere. Nessuna delle vuote e stantie parole d’ordine che le varie liste hanno rilanciato a gran voce nelle due settimane di “silenzio elettorale” può uscire dall’ordito dei rapporti di classe su cui la borghesia si mantiene, seppur non compatta, unitaria.
Ai lavoratori che non si sono lasciati ammaliare dalle fumisterie della politica borghese il partito si rivolge con l’intransigente indirizzo di sempre: dedicate le vostre energie ai vostri organismi di lotta, fiduciosi soltanto nella forza della vostra classe! Impegnatevi per ricostruire un vero sindacato di classe, in grado di battersi contro gli interessi dei padroni!
PAGINA 2
Pienissima riunione generale a Genova
29 settembre - 1 ottobre 2017
[RG129]
Seduta del sabato |
Corso della crisi economica |
La questione militare - Nel Sinai e in Palestina [ Español ] |
La guerra in Siria |
La mancata rivoluzione in Germania |
La rivoluzione ungherese |
Economia e scioperi nell’Inghilterra dell’ottocento |
L’attività sindacale del partito [ Español ] |
Resoconto della sezione venezuelana [ Español ] |
Seduta della domenica |
Questione militare, La rotta di Caporetto [ Español ] |
La concezione del partito in Lenin [ Español ] |
Minacce si guerra in Corea |
Il concetto di dittatura - Babeuf [ Español ] |
Secondo un metodo e un ritmo di lavoro ormai sperimentatissimo, che ha consentito al vivente partito di scavalcare questi lunghi decenni di controrivoluzione, abbiamo tenuto la riunione generale che nei nostri dettagliati e sempre aggiornati Indici vanta il numero di 129ª dal 1974, in piena continuità di metodo e di accenti con le 62 precedenti dal 1951.
Alle generali sono chiamati tutti i militanti, individualmente, anche se di fatto, per opportunità espositiva, riferiscono a nome di sezioni o di gruppi di lavoro.
Abbiamo contato inviati dall’Inghilterra, la Francia e, dall’Italia, Torino, Genova, Friuli, Cortona, Bari, Roma, Firenze, Parma. Altri, impediti a venire, hanno inviato resoconto sul lavoro loro e delle sezioni e saluti per scritto.
Gli argomenti dei numerosi gruppi di studio e della nostra attività esterna, tutti assai impegnativi, sono affrontati con un approccio impersonale, che cioè sdegna ogni originalità e inventiva, e solo tende a rintracciare nel passato della nostra classe e del nostro partito e dottrina le chiavi interpretative dei fatti presenti.
Segue qui un primo riassunto dei temi trattati.
La
mancata rivoluzione
in Germania:
Insufficienza
dottrinaria dello spartachismo
Nei rapporti precedenti abbiamo ripercorso il drammatico ciclo storico attraverso il quale la Socialdemocrazia tedesca – non in quanto tedesca ma parte della Seconda Internazionale – esercitò, nell’epicentro europeo della lotta fra le classi, la funzione di aguzzino del proletariato rivoluzionario, sia nella sua ala maggioritaria (SPD) come esecutore diretto, sia in quella indipendente (USPD) come aiutante del boia, tanto più infame in quanto ammantata di ortodossia marxista.
Non facciamo storiografia ma per trarre dagli avvenimenti la conferma di una tesi che ha sempre guidato la Sinistra nella sua lotta contro i cedimenti al feticcio della ”unità”, e prima ancora contro le fallaci manovre e tattiche esperite nell’illusione di guadagnare alla causa del comunismo l’apporto numerico di forze meno esigue; nostra tesi che trovò la sua più lucida espressione in un articolo del febbraio 1921: “La funzione della socialdemocrazia”.
Ma ricordare questo bilancio e additarlo come definitivo per qualunque paese, significa compiere solo una metà dell’opera da noi giudicata necessaria perché il partito mondiale unico del proletariato non soltanto risorga ma possieda sin dall’inizio le armi teoriche e pratiche indispensabili per non trovarsi impreparato al suo gigantesco compito. Si deve infatti guardare anche dalla nostra parte della barricata, non solo dove dominano i grugni suini dei Noske e degli Scheidemann ma dove campeggiano le grandi e nobili figure dei nostri Liebknecht e Luxemburg per capire l’altra causa della mancata vittoria nel primo dopoguerra proletario in Germania: il ritardo in cui la guida politica del proletariato si trovò di fronte al maturare delle condizioni materiali di una poderosa convulsione sociale, dalla quale i bolscevichi per primi si attendevano la salvezza delle conquiste di Ottobre.
Da quella sconfitta solo la lettura della Sinistra italiana ha saputo trarre l’utile, preziosa, storicamente necessaria lezione, a cui potranno riallacciarsi le future generazioni di rivoluzionari di Germania, d’Europa e del Mondo. Si devono registrare le immaturità, le indecisioni, gli smarrimenti da cui purtroppo non andò esente alcuna delle pur generose forze politiche confluite nel Partito Comunista di Germania (Lega di Spartaco) negli ultimi giorni di dicembre 1918 e nei primi del 1919. Questo permise alla controrivoluzione, guidata dalla Socialdemocrazia, di scatenarsi, ancor prima che una rivoluzione fosse preparata e diretta, di stroncare dal nascere gli sforzi generosi di una classe operaia pronta a battersi per ben tre mesi, e di mettere la parola fine alle “pazzie” dei “ragazzacci Carlo e Rosa”, come diceva il rinnegato Kautsky, e dei milioni di proletari anonimi che in essi si riconoscevano.
La rivoluzione in Germania fu stroncata da una sanguinosa controrivoluzione preventiva, da parte di una classe dominante terrorizzata dalla sollevazione operaia in tuta da lavoro e in casacca militare, perché l’esercito proletario mancava della necessaria guida politica.
Con grande ritardo, malgrado il tradimento dell’agosto 1914 e l’esperienza dei mesi e degli anni successivi, i comunisti si separarono dal putrido corpo della Socialdemocrazia, giungendo a costituirsi in partito, quando la battaglia, almeno nell’immediato, era perduta: solo una ventina di giorni dopo gli eroici Carlo e Rosa vi lasciavano la vita.
Argomentando nell’ottobre 1916 con Junius, pseudonimo di Rosa Luxemburg, Lenin aveva additato proprio in questa ritrosia a rompere la tradizione “unitaria” del partito, il punto più debole della pur battagliera opposizione al socialpatriottismo imperante e rivendicazione dell’internazionalismo proletario. Resta ben chiaro che per noi la critica dello Spartachismo è nello spirito di quelle critiche di Lenin: da rivoluzionari a rivoluzionari.
Rosa era stata in prima fila nella lotta contro il bernsteinismo, il millerandismo, il revisionismo; era stata la prima, come riconosciuto da Lenin, a denunciare in Kautsky, nelle polemiche successive al 1905, il germe, poi il solido tronco delle deviazioni opportunistiche; fu la prima a denunziare in Germania il tradimento dell’agosto 1914.
Ma quell’abiura e quel tradimento, nella visione di Rosa Luxemburg, non avrebbero impedito alla classe operaia nel suo insieme di ritrovare la strada del marxismo e della rivoluzione: al termine di un tormentoso processo, nella lotta sociale, sarebbe giunta alla coscienza piena e totale dei suoi fini storici e della dottrina socialista. Protagonisti ne sarebbero stati non i singoli né il partito bensì le masse operaie stesse, non per educazione culturale o per graduale accumulazione di “conquiste” e riforme, ma attraverso la lotta spinta fino alla massima espressione, lo sciopero generale (Massenstreik).
Il grande stimolo alla purificazione dei partiti della Seconda Internazionale era stato, nel 1905-1906, il riaccendersi della lotta di classe, lo sciopero generale di Pietroburgo e di Varsavia che vi aveva portato una ventata di ossigeno. Per Rosa lo stesso sarebbe dovuto avvenire ora, nelle condizioni di guerra e delle sue leggi di emergenza. Ripreso nel vortice della lotta di classe il proletariato avrebbe riconquistato il suo programma, e con esso il vecchio partito, cacciati i dirigenti corrotti.
Fedeli a questa visione gli Spartachisti non accettarono di essere cacciati dal Partito: era la sua direzione che, tradendo nell’agosto e continuando poi, si era auto-espulsa, e la storia avrebbe provveduto a sancire la sua condanna.
Quando la Socialdemocrazia maggioritaria, dopo aver tollerato una opposizione che le permetteva di illudere i militanti, decise di espellere il gruppo Spartachista, questo accettò di convivere con gli Indipendenti, perché così voleva la sua visione di attesa del processo storico di emancipazione della classe e di redenzione del partito.
Solo così si spiega il ritardo nel costituirsi in partito, dopo tre mesi di scandalosa corresponsabilità con gli Indipendenti, al governo con i Maggioritari, nell’opera di garantire il passaggio indolore della Germania borghese dal regime kaiserista alla repubblica, e a riassorbire la gigantesca spinta di cui i Consigli degli operai e dei soldati erano espressione tangibile. Questi saranno così condannati a ricadere sotto l’influenza degli Indipendenti e degli stessi Maggioritari, non esistendo un partito rivoluzionario dal programma ben definito a dirigere l’avanguardia operaia, e che si opponesse agli altri non solo nelle proclamazioni ma nelle direttive di azioni pratiche.
Gli Spartachisti non seppero riconoscere per tempo che la politica del 4 agosto non era «destinata a svanire sotto la pressione accresciuta degli antagonismi di classe. Questa politica – aveva scritto Radek nel 1917 – non era soltanto quella dei dirigenti: alle sue spalle vi era tutta una categoria di lavoratori che non volevano nulla di diverso dai capi, e sarebbe un’illusione fatale ritenere che oggi, dietro quei capi, non ci siano delle masse o che sono al loro seguito solo perché non sono abbastanza illuminate. La scissione passa attraverso le stesse masse operaie».
In un brano di straordinaria lucidità, durante la guerra, Lenin ricordava la memorabile battaglia di cui era stata protagonista Rosa Luxemburg nel 1905-1906 in difesa dello sciopero generale come una delle armi fondamentali della lotta di classe. Ma aggiungeva subito che in tempo di guerra lo sciopero generale si deve convertire necessariamente in guerra civile, nell’insurrezione armata. Invece Rosa, al congresso di fondazione del KPD, il primo gennaio 1919, nonostante il vigoroso richiamo all’essenza rivoluzionaria del marxismo contro l’incancrenita prassi parlamentare e gradualista della Seconda Internazionale, ribadisce come nella prospettiva degli Spartachisti lo sciopero generale sia l’unica manifestazione e l’unico mezzo della rivoluzione proletaria, al punto da mettere in ombra la necessità dell’insurrezione armata e della funzione centrale e centralizzatrice del partito.
Per Rosa Luxemburg il passaggio del governo guglielmino alla repubblica è già una rivoluzione, sebbene incompleta e incosciente. La lotta per il socialismo sarebbe ora cominciata, divenendo “rivoluzione economica”, diretta al sovvertimento dei rapporti economici.
Il processo rivoluzionario così si configura: ritorno ai metodi di lotta di classe aperta e intransigente; estensione sempre più vasta degli scioperi; sotto la loro spinta, acquisizione progressiva del potere locale da parte dei Consigli degli operai e dei soldati. È una rappresentazione capovolta del processo rivoluzionario: non presa del potere politico centrale come precondizione della trasformazione economica; ma conquista del potere politico locale, che coincide col rivolgimento dei rapporti economici.
Il programma della Lega di Spartaco, poi divenuta Partito Comunista di Germania, tace completamente sia sulla guerra civile, prima e dopo la rivoluzione, sia sull’insurrezione armata; nega la necessità del terrore rivoluzionario. Vi manca il partito come forza dirigente, e la dittatura del proletariato si identifica con la “vera democrazia” e si rivendica un potere condiviso da tutti i partiti “operai”, o almeno la loro libertà di vivere e fare agitazione.
La conquista del potere politico centrale non è qui il necessario atto di inizio della trasformazione economica: coincide con la realizzazione del socialismo, non la precede in un ciclo necessariamente lungo e complesso. La classe operaia fa proprie le finalità del socialismo e il partito diviene il riflesso di questa coscienza globale e non è l’organo della preventiva conquista rivoluzionaria del potere politico e del suo dittatoriale esercizio sull’onda ed espressione dello slancio istintivo delle masse lavoratrici.
Questa concezione si allontana dal marxismo, ristabilito sulle basi della rivoluzione bolscevica e prima ancora dalla battaglia teorica del partito di Lenin, mentre vi confluiscono correnti estranee, tutte svalutatrici del ruolo del partito nella rivoluzione.
La rivoluzione ungherese del 1919
È proseguita l’esposizione dello studio con il capitolo riguardante il programma del PCU come formulato nella lettera che l’11 marzo del 1919 Bela Kun scrive dalla prigione, piattaforma sulla cui base unificare il movimento operaio ungherese.
Premesso che «finché ci troviamo in stato di arresto non siamo disposti a trattare», così prosegue.
«Per quanto riguarda la questione dell’unità del movimento operaio, il mio punto di vista è che solo un’unità reale, non apparente, possa giovare all’emancipazione del proletariato. Credo che non vi sia bisogno di dimostrare che l’unità proletaria la quale, come è stato scritto sulla “Nèpszava” del 9 marzo, conducesse il proletariato nella sua totalità nel terreno dei dirigenti alla Scheidemann (SPD), sarebbe soltanto rovinosa. Sarebbe vantaggiosa solo un’unità proletaria, un’organizzazione unitaria del movimento proletario, che risultasse fondata su un’autentica unità ideologica e di principi e che non servisse alla collaborazione di classe, bensì alla lotta di classe».
Scrive
ancora:
«Se i bolscevichi russi non avessero messo fine sino dal
1907 alle finezze diplomatiche in seno al partito, come disse Lenin;
se Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Mehring – e perfino i più
anemici socialisti indipendenti – non avessero rotto durante la
guerra con l’unità esteriore del movimento operaio tedesco; se i
socialisti italiani non avessero fatto la stessa cosa durante la
guerra in Tripolitania; se tutti costoro non si fossero assicurata
una libertà di movimento che permettesse loro di creare una propria
organizzazione e di assicurarsi delle possibilità di propaganda, io
penso che in tal caso la storia del movimento operaio sarebbe stata
più povera di avvenimenti rivoluzionari esaltanti e soprattutto di
risultati. Può darsi che la cosiddetta lotta fratricida, che oppone
una parte del proletariato contro l’altra, non sarebbe stata così
aperta; ma c’è da chiedersi se questa lotta non abbia risparmiato
al proletariato molti sacrifici inutili, considerando che ogni nuovo
anno di capitalismo richiede di tali sacrifici.
«E
vi chiedo, non è pure lotta fratricida quella che oppone i proletari
riuniti nei sindacati a quelli che ne sono fuori?
Vi
sono dei mali inevitabili, dei mali cosiddetti necessari. Le botte
che mi hanno assestato e quelle che eventualmente seguiranno, sono
dei mali necessari. Per me è un male, ma per il movimento operaio,
in fin dei conti, è un bene!
«L’unificazione
del movimento operaio è inevitabile. Ma, perché possa avvenire,
occorre che prima ci sia la scissione. Non si tratta di un gioco di
parole, ma di una legge dialettica».
Kun poi prosegue nella lettera con lo specificare i punti della piattaforma.
«1. Non accordare alcun appoggio al cosiddetto governo del popolo; astenersi da qualsiasi partecipazione a un governo dello Stato borghese. Rifiutare ogni collaborazione di classe; formare i Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini poveri, quali organismi del potere della classe operaia.
«2.
Rompere con la cosiddetta politica “territoriale” o, come si dice
ora, con la “politica di integrazione popolare”. Attaccare
energicamente ciò che si definisce “difesa nazionale
rivoluzionaria”, che è la conseguenza della collaborazione di
classe; impedire a ogni costo una nuova guerra contro i cechi, i
romeni o i serbi. Un partito proletario può acconsentire a una
guerra rivoluzionaria solo nel caso che:
«a)
Tutto il potere sia passato effettivamente ed espressamente nelle
mani del proletariato industriale e agricolo;
«b)
Sia cessata realmente ogni comunità di interessi con il capitalismo;
«c)
Si abbia ogni garanzia che la guerra non crei nuove oppressioni
nazionali.
«3.
Si può constatare che la rivoluzione ungherese si trova attualmente
in uno stato transitorio, tra la sua fase cosiddetta “generale” e
“nazionale” e quella di rivoluzione proletaria pura, cioè di
rivoluzione sociale. La rivoluzione ungherese è la manifestazione
delle energie rivoluzionarie del proletariato internazionale
sviluppatesi in seguito alla bancarotta generale del modo di
produzione capitalistico. Le conseguenze di questa costatazione si
possono trarre pertanto anche in Ungheria, per quanto concerne
l’azione politica da dispiegare nell’interesse del proletariato.
Eccole:
«a)
Niente repubblica parlamentare, ma repubblica transitoriamente
centralizzata, dei Consigli dei delegati degli operai e dei contadini
poveri;
«b)
Soppressione dell’esercito permanente e delle forze armate speciali
(polizia, gendarmeria, guardie di frontiera ecc.) e sostituzione di
essi con l’esercito di classe del proletariato armato; disarmo
della borghesia;
«c)
Soppressione completa della burocrazia. Autogoverno delle masse
proletarie per mezzo dei consigli dei delegati degli operai e dei
contadini poveri, che non siano solo investiti del potere
legislativo, ma anche di quello esecutivo e giudiziario. Tutte le
cariche devono essere elettive, di breve durata e revocabili in
qualsiasi momento. Il trattamento economico dei funzionari eletti non
deve superare quello dei lavoratori qualificati. Retribuzione più
elevata solo agli specialisti, secondo l’esperienza fatta nella
rivoluzione russa.
«Una
costituzione politica così concepita garantirebbe l’attuazione
delle misure transitorie necessarie per passare al socialismo e
assicurerebbe la repressione dei conati controrivoluzionari della
borghesia.
«4. Ancora prima dell’attuazione dei provvedimenti transitori e della presa del potere statale, sarebbe opportuno porre la produzione industriale e agricola e la distribuzione di questi prodotti sotto il controllo centralizzato dei Consigli operai e sotto quello decentrato delle Commissioni operaie di controllo (tale controllo in parte in luogo dei Comitati di fabbrica). Contemporaneamente i Consigli degli operai e dei contadini poveri dovrebbero procedere ad un esatto computo delle forze produttive esistenti, delle materie prime e dei mezzi di sussistenza.
«Le misure transitorie per il passaggio al socialismo dovrebbero essere, grosso modo le seguenti:
«5. Confisca della proprietà fondiaria a favore dello Stato proletario, proibizione del lavoro salariato nelle aziende private. Tutta la terra deve essere dichiarata di proprietà dello Stato e, quindi, ogni terra che non sia lavorata dal proprietario e dalla sua famiglia, deve essere espropriata dallo Stato per mezzo dei Consigli dei contadini poveri. Energica lotta contro la ripartizione delle terre. Un mezzo transitorio e breve può essere costituito, a questo riguardo, dalla formazione di cooperative agricole di produzione.
«6. Nazionalizzazione proletaria delle banche e blocco di tutti i conti in banca e di tutti i depositi.
«7. Nazionalizzazione proletaria delle industrie e dei trasporti, a partire naturalmente dalla grande industria che sarà concentrata nelle mani dello Stato proletario. Tutte le fabbriche, tutta la produzione e tutti i trasporti, devono essere posti sotto direzione operaia (le direzioni potrebbero essere, per esempio, così composte: per un terzo da coloro che sono occupati nell’azienda, per un sesto dalle organizzazioni del ramo industriale in questione, per un sesto dagli organismi di consumo e per un terzo dai rappresentanti degli organismi direttivi dell’economia popolare).
«8. Immediato monopolio del commercio con l’estero e del commercio all’ingrosso. Monopolio di tutti i generi alimentari di prima necessità. Distribuzione riservata ai lavoratori, su presentazione del certificato di lavoro, mediante le sezioni componenti dei Consigli degli operai e dei contadini poveri (come modello possono servire anche i gruppi di approvvigionamento delle aziende). Allo scopo di render reali le entrate del lavoro, passaggio alla “naturalizzazione” dei salari (assegnazioni in natura).
«9. Immediato soddisfacimento di tutte le rivendicazioni in materia di protezione del lavoro, secondo il programma di transizione del PSDU. Contemporaneamente, salvaguardia della disciplina del lavoro.
«10. Propaganda del socialismo da parte dello Stato. Immediata separazione della Chiesa dallo Stato. La scuola deve essere messa apertamente al servizio dell’educazione socialista.
«Questa è, a mio giudizio, la piattaforma sulla quale si potrà realizzare l’unità dell’ala rivoluzionaria del movimento operaio e, subito dopo, di tutto il movimento operaio (…)
«La dittatura proletaria dovrebbe essere collocata in prima linea o, con altre parole, dovrebbe maturare nel petto di coloro che desiderano seriamente l’eliminazione dello sfruttamento; in questo programma devono unirsi gli elementi rivoluzionari del movimento operaio, seguendo l’esempio dei partiti socialisti svizzero e italiano, dei socialisti indipendenti tedeschi e anche dei socialisti serbi, che hanno fatto loro questo programma.
«Non è gridando alla mancanza di carbone e al capitalismo in frantumi o lanciando la parola d’ordine “non si possono socializzare i ferrivecchi”, o ancora agitando come spauracchio la situazione internazionale che si può impedire ad un socialista, che pensi da rivoluzionario, di agire apertamente, secondo il programma indicato (…)
«Il mio punto di vista è che il proletariato ungherese non arriverà a liberarsi grazie all’invio, a usura, di viveri americani, né grazie alle consegne di carbone da parte dei controrivoluzionari polacchi e ucraini mercenari dell’Intesa, consegne fatte in cambio di munizioni. Tutto ciò non farebbe altro che condurre alla subordinazione all’imperialismo. La liberazione sta in primo luogo nell’alleanza con i proletariati rivoluzionari russi, tedeschi, lettoni e ucraini. Questo è il nostro compito di politica estera in questo momento, ed è così che si potrà pure parlare di azione comune immediata (…)
«La rivoluzione internazionale non è una ciarlataneria come la Società delle Nazioni (…)
«A
proposito dell’unificazione, i passi concreti da fare, a mio
avviso, sarebbero i seguenti:
«1.
Una conferenza generale che riunisca tutti gli elementi rivoluzionari
per discutere la piattaforma da me proposta.
«2.
Modifica del programma massimo del partito, in modo che vi si possano
incorporare i seguenti punti:
«a)
valutazione dell’imperialismo come particolare stadio del
capitalismo, costatazione del fallimento del capitalismo, presa di
posizione contro il socialismo di Stato e il capitalismo di Stato;
«b)
rapporto proletariato-Stato: naturalmente, la nostra rivendicazione è
la Repubblica dei Consigli;
«c)
modifica del programma di transizione nel senso delle tesi su
esposte.
«3
Adesione all’Internazionale rivoluzionaria.
«E
ancora una cosa.
«Un
cosiddetto governo permanente socialista non significherebbe affatto
che ci si è avvicinati alla dittatura del proletariato, alla
democrazia proletaria. In certe circostanze – che si verificano
immancabilmente – esso significa piuttosto un allontanamento da
quella direttiva. Il sistema parlamentare e la stessa organizzazione
dello Stato borghese sono degli ostacoli per l’autogoverno delle
masse proletarie e per il passaggio al socialismo. Non esiste un
governo puramente socialista che sia in grado di mettere in atto la
democrazia proletaria in una repubblica parlamentare; il potere di un
governo socialista non vuol dire democrazia proletaria e avvento
delle condizioni politiche che decretano la fine del capitalismo più
di quanto il capitalismo di Stato non voglia dire socializzazione. Un
esempio caratteristico di ciò è dato dalla nazionalizzazione degli
zuccherifici cui si è dato inizio in Ungheria (…)
Resoconto della nostra sezione venezuelana
È presente a tutti i compagni della sezione la necessità di partecipare e di sostenere il lavoro di diffusione dei principi del comunismo di sinistra in lingua spagnola, a contatto con le lotte dei lavoratori in America Latina.
Il lavoro della sezione si è concentrato principalmente sulla lettura e sullo studio di articoli provenienti dai testi e dagli organi del partito, nonché sul seguire la situazione locale dei conflitti di lavoro, della politica e dell’economia. Molto impegno ha riguardato la traduzione di testi e la preparazione del prossimo numero di “El Partido Comunista”.
Siamo riusciti a continuare il lavoro sindacale e, nonostante alcune difficoltà indipendenti dalla nostra volontà e capacità, siamo riusciti a mantenere i contatti con i lavoratori, a fornir loro la stampa del partito e ad invitarli alle riunioni.
L’aumento significativo dei costi di stampa, conseguenza della forte inflazione che colpisce l’economia locale, ci ha portato a ridurre la tiratura delle nostre pubblicazioni; la distribuzione avviene per altro tramite posta elettronica.
Circa la situazione in Venezuela abbiamo informato il Partito che continua lo scontro politico, prevalentemente elettorale, tra i sostenitori del governo e l’opposizione. Questo scontro, che ha grande rilevanza nazionale e internazionale sui media, rafforza la confusione e il disorientamento dei lavoratori, che non hanno una loro organizzazione per la lotta e per la protesta. Anche quando ci sono state iniziative di lotte operaie, queste sono state utilizzate da uno dei due fronti borghesi in lotta, ai fini delle elezioni governative e presidenziali del 2018.
Vi è ancora una forte inflazione nei prezzi dei prodotti alimentari e di base. Il governo ha approvato aumenti salariali, ma che non la compensano. L’ala filo-governativa, concentrata nella Assemblea Nazionale Costituente, è incerta tra il pagare il costo politico di un pacchetto di misure economiche anti-crisi o una tattica diversiva per guadagnare tempo fino alle elezioni, allo scopo di mantenere il potere nella maggior parte dei governatorati. L’opposizione cerca invece di approfittare del malcontento delle masse per assicurarsi il voto.
Non ci sono stati grandi conflitti salariali. Anche se c’è scontento i sindacati del regime si incaricano di mantenere la calma. I lavoratori si lasciano mobilitare solo per sostenere uno dei due fronti opposti borghesi. Quando alla base si riesce a liberarsi dal controllo dei sindacati, gli organi di repressione statali e il Ministero del Lavoro immediatamente si coordinano per reprimerli.
Il concetto e la pratica della dittatura - Prima di Marx: Blanqui
Louis-Auguste Blanqui nasce l’8 febbraio 1805 nella cittadina di Puget-Théniers, nel dipartimento delle Alpi Marittime. Il padre Jean-Dominique, nato a Nizza, professore di filosofia e astronomia, aveva aderito alle nuove idee ancor prima del 1789, ed era stato eletto alla Convenzione nel maggio 1793, dove faceva parte della Gironda. Era stato quindi arrestato nell’ottobre dello stesso anno insieme ad altri deputati girondini; sappiamo che nell’ottobre 1796 era fuori dal carcere, e che non partecipò alla reazione termidoriana. Vide con favore il 18 brumaio, e nel 1799 divenne sottoprefetto a Puget-Théniers. Con la caduta di Napoleone nel 1815 la famiglia abbandona la cittadina, ed il fratello maggiore dei nove figli, Adolphe, va ad insegnare a Parigi, facendosi presto seguire dal piccolo Louis-Auguste.
Questi unisce agli studi scolastici la lettura di Diderot, d’Holbach, Voltaire e Rousseau. Nel 1824 si iscrive alla Carboneria; nel 1826 è a Parigi, dove studia diritto e medicina e dà lezioni private. L’anno successivo partecipa a manifestazioni studentesche duramente represse dalla polizia, durante le quali viene ferito due volte a colpi di sciabola e una volta a colpi di pistola.
Partecipa quindi alla rivoluzione del 1830, la cui sconfitta è per lui una grande lezione: la sua posizione classista è netta fin dal 1830-1831, quando entra nella buonarrotiana “Società degli Amici del Popolo”. In un discorso presso tale Società del 1832, dice giustamente che la borghesia della Restaurazione aveva diviso il potere con l’aristocrazia, ma quando quest’ultima riapre le ostilità sentendosi abbastanza forte, la borghesia stessa è immobilizzata dalla paura, soprattutto per l’intervento del popolo nelle “trois glorieses”; la borghesia esce dai suoi nascondigli solo per impossessarsi dei frutti della vittoria. Dice Blanqui che il popolo «ha ritirato le proprie dimissioni; sarà ormai tra lui e la classe media che verrà ingaggiata una lotta accanita, non più tra le classi aristocratiche e i borghesi: costoro avranno bisogno di chiamare in aiuto persino i loro vecchi nemici per potergli resistere (…) i borghesi abdicheranno la loro parte di potere nelle mani della aristocrazia, barattando volentieri la tranquillità con la servitù».
Nello stesso anno Blanqui viene processato insieme ad altri per complotto contro la sicurezza dello Stato: tutti assolti per il reato a mezzo stampa, ma Blanqui viene condannato ad un anno a causa della requisitoria da lui pronunciata in tribunale. Quando esce di prigione suo padre è morto, il fratello Adolphe si è schierato con il regime, e la “Società degli Amici del Popolo” non esiste più; c’è invece la “Società dei diritti dell’uomo e del cittadino”, che ha un rapporto più stretto con la classe operaia rispetto alla Società precedente. Egli però non vi partecipa, probabilmente anche per le grandi divisioni al suo interno.
Nello stesso 1833 egli scrive in una nota: «Dire che vi è comunanza di interessi tra proletariato e borghesia, è uno strano ragionamento: da parte nostra, non vi scorgiamo che l’alleanza del leone con la pecora». In un articolo mai pubblicato del marzo 1834, leggiamo: «Non è libero chi, privato degli strumenti di lavoro, rimane alla mercé dei privilegiati che ne sono detentori. È tale accaparramento, e non questa o quella costituzione politica, che fa serve le masse».
Blanqui ovviamente conosceva Buonarroti e il suo famoso scritto, e ne condivideva le posizioni: era sicuramente un babuvista. Era però convinto che fosse necessario andare oltre quelle tradizioni e superare la mitologia robespierrista, presente fino all’ultimo nel grande Filippo. Se Blanqui usa temi e termini sansimoniani, come anche Buonarroti, è solo perché erano molto usati in quegli anni, ma non ha niente a che spartire con una fede in un progresso graduale e infinito, privo di rotture rivoluzionarie; anni dopo scrive che sansimoniani, fourieristi e positivisti sono le nuove religioni, nemiche della rivoluzione quanto la vecchia.
Tra il 1834 e il 1835 nasce la Società delle Famiglie. I repubblicani erano nuovamente costretti alla clandestinità, le Famiglie, e ancora di più la successiva Società delle Stagioni, erano qualcosa di diverso dalle precedenti società segrete: erano il tentativo, con limiti inevitabili, di creare il partito rivoluzionario del proletariato, riallacciandosi, in questo, alla “Cospirazione per l’Eguaglianza” di Babeuf. Nelle Famiglie è segreta la struttura dell’organizzazione ma, a differenza delle vecchie società segrete, tutti i componenti conoscono i metodi, gli scopi finali e la dottrina politica. Scrive lo storico Danvier: «Non più Bons Cousins, né diplomi, né triangoli massonici, ma segrete milizie pronte ad insorgere, laboratori per la fabbricazione di polvere da sparo, attivo rapporto con la classe operaia».
Nel 1835 la Società delle Famiglie aveva oltre mille aderenti, soprattutto operai e studenti, ma anche membri della guardia nazionale, artigiani e negozianti; ed anche propri uomini tra i reggimenti di stanza a Parigi, che procuravano munizioni e armi, anche se in quantità insufficiente. Il 10 marzo 1836 la polizia fece irruzione in un locale dove si produceva polvere da sparo, e i giorni seguenti in varie case: Barbès fu arrestato a casa sua, insieme a Blanqui. Anche in questo caso vi fu una delazione. I due, insieme ad altri, furono condannati a due anni di prigione, ma ne scontarono otto mesi grazie ad una amnistia.
Nelle Stagioni non ci sono verbali, liste o documenti, a differenza delle Famiglie; la struttura organizzativa è simile ma le maglie sono più strette. Nel 1839 anche le Stagioni arrivarono ad avere circa mille aderenti, in gran parte operai, a differenza delle Famiglie. Nei documenti della Società si parla della necessità di un governo dittatoriale provvisorio di durata imprevedibile e di una economia pianificata.
A Parigi nel 1839 ci sono 150.000 lavoratori disoccupati, e quelli che hanno la fortuna di avere un lavoro, che può arrivare a 15 ore al giorno, vedono il salario diminuire. Alla crisi economica segue una crisi politica tra il re e il parlamento. La Società delle Stagioni crede sia il momento di passare all’insurrezione, che prepara con accuratezza, ma sopravvaluta le proprie forze e influenza sul proletariato. Provocatori della polizia spingono verso l’insurrezione, per poi schiacciarla, in una sorta di guerra di classe preventiva da posizioni di preminenza. Si verificano gravi divisioni all’interno delle Stagioni, come quella tra componente politica e militare, quest’ultima legata in parte alle Falangi Democratiche, create da militari dopo l’arresto dei capi delle Famiglie. Blanqui cerca di ricucire i rapporti interni e di rimandare l’insurrezione, che però finisce per assecondare data l’impossibilità di fermare il corso degli eventi.
Danvier: «Blanqui, capo delle Stagioni, è anche l’artefice del piano insurrezionale. Si occupa dei minimi dettagli, individua le armerie, i ponti, le caserme, i ministeri con tutte le relative entrate secondarie, le carceri militari, i commissariati di polizia… Il piano insurrezionale può essere così riassunto: marciare sulla prefettura e occuparla; porre guardie e barricate ai ponti; trasformare la sede della prefettura in una specie di campo trincerato; fare della Cité il centro della resistenza organizzata e di là spedire colonne in tutte le direzioni».
Il 12 maggio 1839 inizia il tentativo insurrezionale e il 13 è già tutto finito. All’appello insurrezionale rispondono appena 500 uomini ai quali se ne uniscono poi non più di 300. La sconfitta fu dovuta, più che allo scontro impari con la truppa, al comportamento dei proletari, divisi tra l’indifferenza e la collaborazione con la repressione.
Con i membri delle Stagioni combatterono anche diversi rivoluzionari italiani, svizzeri e dalmati, e soprattutto i tedeschi membri della “Lega dei Giusti”, che nel 1847 prese il nome di “Lega dei Comunisti”. Tale Lega non era molto differente dalle Stagioni, anch’essa contava su un migliaio di uomini, e fu coinvolta nella comune disfatta.
Lo storico dell’Unione Sovietica Volgin negli anni ’50 critica Blanqui dicendo che aveva una fede insufficiente nella “ineluttabilità del comunismo”. Ineluttabilità e necessità non sono la stessa cosa; il secondo termine non era molto chiaro neanche a Blanqui, ma sicuramente il primo ha un forte odore di positivismo e di sorti magnifiche e progressive. Scrive Blanqui: «Noi non crediamo alla fatalità del progresso, questa dottrina dell’imbastardimento e dell’accovacciarsi». «La Francia piena di operai in armi, ecco l’avvento del socialismo. In presenza degli operai armati, ostacoli, resistenze, impossibilità, tutto sparirà. Ma per i proletari che si trastullano con ridicole manifestazioni nelle strade piantando alberi della libertà o con le sonore frasi avvocatesche, vi sarà prima l’acquasanta, poi le offese, infine la mitraglia, sempre la miseria».
Blanqui viene arrestato 5 mesi dopo la fallita insurrezione, grazie ad una spia, ed il 12 gennaio 1840 inizia il processo contro di lui ed altri 30, processo in cui la corte tenta di dividere gli accusati allargando la spaccatura già esistente tra Blanqui e Barbès, dovuta più a questioni personali che a divergenze politiche. Blanqui, Barbès e Martin-Bernard vengono condannati a morte, condanna poi commutata in ergastolo, e portati al Mont Saint-Michel, ex monastero trasformato in carcere speciale, vero inferno in terra. All’inizio del 1844 Blanqui fu trasferito al carcere di Tour per motivi di salute; sembrava che stesse per morire per cui arrivò la grazia da parte del Re nel dicembre, ma fu liberato solo nell’ottobre 1845 quando, sorprendentemente, si riprende dalla malattia. Viene mandato a Blois in libertà vigilata.
Qui nel novembre 1846, in seguito ad una sommossa, sono arrestati gli esponenti di una società segreta, la “Goguette des fils du diable”, società creata probabilmente da icariani dissidenti dal loro capo Cabet, e incoraggiati da Blanqui. Nell’aprile 1847 Blanqui viene processato con l’accusa di essere a capo di questa società segreta comunista, ma, non emergendo alcuna prova, viene assolto, ed il 1° giugno torna libero, anche se sempre sotto stretta sorveglianza. In occasione di questa vicenda Cabet, comunista utopista, si pronuncia contro i “comunisti rivoluzionari” che danneggiano il pacifico sviluppo e la pacifica conquista degli icariani.
(Fine del resoconto nel prossimo numero)
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
27 ottobre - 10 novembre
Per unificare le lotte della classe operaia
Per il fronte unico sindacale di classe
La crisi economica mondiale del capitalismo continua inesorabile la sua marcia a dispetto di tutti i proclami. Industriali, finanza, proprietari fondiari, i loro regimi e i loro governi d’ogni colore, in una parola la borghesia, non hanno la facoltà di risolverla con gli strumenti della politica economica – sia essa liberista o statalista.
Il principale strumento in mano alle classi dominanti per cercare di attenuare gli effetti negativi della crisi per i suoi profitti e le sue rendite è quello di aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice, per questo l’attacco alle condizioni di vita della classe salariata, dapprima graduale, si è fatto sempre più duro, con una ulteriore accelerazione dopo l’ultimo balzo in avanti della crisi, nel 2008.
Oggi
i lavoratori si trovano:
– a
dover vivere con salari sempre più bassi, cui si è giunti
attraverso decenni di rinnovi contrattuali a perdere di volta in
volta peggiori – il più emblematico fra i quali è stato forse
quello dei metalmeccanici, firmato il novembre 2016 anche dalla Fiom
Cgil – o, per il pubblico impiego, attraverso il blocco del rinnovo
contrattuale in atto da 9 anni;
– a
dover fronteggiare una pioggia incessante di licenziamenti per
fallimenti o ristrutturazioni aziendali che continuano a far crescere
l’esercito dei disoccupati ed aumentano il peso del ricatto della
disoccupazione sui lavoratori attivi;
– a
dover così fronteggiare in condizioni di maggiore debolezza attacchi
finalizzati ad aumentare i ritmi e i carichi di lavoro, ad estendere
la durata della giornata lavorativa e in ogni caso a rendere,
attraverso la flessibilità, la vita del lavoratore sempre più
subordinata alle esigenze dell’impresa, danneggiando e riducendo il
tempo di riposo dal lavoro;
– a
dover sopportare questa condizione di sempre più grave sfruttamento
e oppressione per un periodo di vita sempre più lungo, in ragione
dell’innalzamento dell’età pensionabile.
Di
fronte a questa situazione l’unica strada che hanno i lavoratori
per poter difendersi è quella della unificazione delle loro lotte.
Ciò deve essere fatto in primo luogo sul piano dell’azione,
facendo scioperare insieme i lavoratori coinvolti nelle centinaia di
singole vertenze aziendali e di categoria; in secondo luogo
completando questa unificazione e moltiplicandone la forza impugnando
e agitando rivendicazioni che accomunano tutta la classe salariata:
– forti
aumenti salariali per tutte le categorie, maggiori per quelle peggio
pagate;
– riduzione
generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario;
– salario
pieno ai lavoratori licenziati;
– drastico
abbassamento dell’età pensionabile.
Per far questo occorre un’organizzazione adeguata. Oggi non solo questa manca ma la situazione è ben più grave perché il campo di battaglia della classe proletaria è presidiato – nella sua rete di decine di migliaia di posti di lavoro – dalla cappa asfissiante delle organizzazioni sindacali di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) le quali controllano ancora, sia pur sottoposte a un lento logoramento, la larga maggioranza dei lavoratori sindacalizzati ed impediscono l’unificazione delle lotte.
Il sindacalismo di base, in quasi quarantanni di esistenza, si è dimostrato finora non all’altezza di questo vitale compito, in parte per oggettive condizioni sfavorevoli ma in modo determinante a causa di gravi errori d’indirizzo, il più importante dei quali è quello degli scioperi separati e in concorrenza, sia coi sindacati di regime sia persino all’interno del sindacalismo di base.
Lo sciopero generale di oggi, certo importante e positivo, ad esempio è stato proclamato solo da un parte del sindacalismo conflittuale – USB, Confederazione Cobas, Orsa, Unicobas, Usi – mentre un’altra parte – CUB, SI Cobas, ADL Cobas, Sgb, Slai Cobas, Usi-Ait – ne ha svolto un altro il 27 ottobre. Questo va ripetendosi da anni.
Questo politica settaria porta all’organizzazione di scioperi largamente minoritari, ridotti ad essere innocue manifestazioni d’opinione anziché dimostrazioni della forza della classe lavoratrice.
È una condotta invece di avvicinare la massa dei salariati al sindacalismo di classe la mantiene lontana e puntella il controllo dei sindacati concertativi su di essa. La maggioranza delle dirigenze del sindacalismo di base non capisce – o fa finta di non capire – che per i lavoratori abbracciare il sindacalismo di classe non è un problema di comprensione ma di forza: è quando uno sciopero è sufficientemente forte che i lavoratori sentono il senso di battersi per rivendicazioni più radicali.
È necessario battersi all’interno dei sindacati di base per un indirizzo d’azione opposto a quello attuale:
– Per scioperi unitari di tutto il sindacalismo conflittuale: il fatto che questo obiettivo, anche qualora fosse ottenuto, per l’attuale debolezza delle organizzazioni sindacali di base non garantirebbe di per sé il dispiegamento di scioperi sufficientemente robusti tali da attrarre la massa dei lavoratori, sottraendola al controllo dei sindacati di regime è una conferma della necessità di seguire questo indirizzo e dell’assurdità di dividere l’azione persino all’interno del campo del sindacalismo conflittuale; questo indirizzo è già stato seguito da minoranze e gruppi delle diverse organizzazioni sindacali di base in occasione di questi due scioperi generali separati ed in concorrenza: ad esempio in USB i gruppi sindacali nelle fabbriche FIAT di Melfi ed Atessa (Sevel) hanno scioperato sia il 27 ottobre che oggi e così pure hanno fatto i ferrovieri della CUB Trasporti.
– Per l’adesione agli scioperi promossi dal sindacalismo di regime quando questi, come nel caso delle mobilitazioni generali intercategoriali o ad esempio in quelle dei metalmeccanici, siano suscettibili di mobilitare la maggioranza dei lavoratori. Questo non significa scioperare insieme alle strutture di Cgil, Cisl e Uil ma insieme alla massa dei lavoratori che ancora li segue. Bisogna scendere in piazza in cortei comuni, con spezzoni definiti e agitando le proprie rivendicazioni. È con la partecipazione della parte più combattiva dei lavoratori, inquadrata nel sindacalismo di base, alle mobilitazioni promosse dal sindacalismo di regime che si creano le condizioni più favorevoli affinché queste sfuggano al loro controllo. Viceversa, privando tali mobilitazioni dell’apporto di forza, di critica, d’indirizzo classista proprio del sindacalismo di base si offre al sindacalismo di regime una maggiore garanzia di controllo su di esse e si indebolisce in generale il movimento di sciopero.
È evidente che la maggioranza delle attuali dirigenze del sindacalismo di base non applicherà mai questo indirizzo d’azione. La sola eccezione in questi anni è stata rappresentata dal SI Cobas che ha scioperato in passato sia con l’USB, sia con la CUB, sia con la Fiom e la Cgil. Una effettiva e completa messa in pratica dell’indirizzo dell’unità d’azione dei lavoratori sarà possibile solo a discapito della maggioranza delle attuali dirigenze, battendosi contro esse per un fronte unico sindacale di classe, necessario alla creazione di un polo del sindacalismo conflittuale di una massa adeguata a contrastare quello del sindacalismo di regime, e preambolo alla fusione organizzativa in un unico grande sindacato di classe.
Compagni, lavoratori,
il marxismo rivoluzionario come è stato la sola dottrina politica che ha previsto e denunciato l’inevitabilità della crisi economica mondiale del capitalismo, così ammonisce che essa è destinata ad aggravarsi sempre più, portando la classe proletaria ad una condizione di povertà da cui il riformismo l’aveva illusa di essersi definitivamente emancipata. Non esiste una soluzione sul piano della politica economica alla crisi economica del capitalismo, come la storia già insegna. Esistono due soluzioni opposte di carattere politico: la guerra imperialista o la rivoluzione del proletariato.
Mentre per l’azione difensiva, contro gli effetti del capitalismo e della sua crisi, è necessario un fronte unico delle organizzazioni sindacali classiste, sul piano politico il partito comunista rivoluzionario rigetta ogni fronte comune con partiti borghesi o falsamente proletari e indica risolutamente la strada della conquista rivoluzionaria del potere per l’abbattimento del capitalismo, senza alcun illusorio obiettivo intermedio che, come sempre propone l’opportunismo, dovrebbe favorire, ed invece serve sempre ad allontanare, questo obiettivo.
Le valutazioni e l’intervento della nostra frazione sindacale nella vicenda del doppio sciopero ’generale‘
Qui sopra il volantino che i nostri compagni hanno distribuito alle manifestazioni per gli scioperi del 27 ottobre – a Milano, Bologna, Firenze e Roma – e, con piccole modifiche, del 10 novembre – a Genova, Bologna e Firenze – nonché alla manifestazione di sabato 11 a Roma promossa dalla cosiddetta Piattaforma Eurostop a cui la dirigenza di Usb, che a quel cartello politico aderisce, ha cercato, con obliqui mezzucci, di portare i suoi iscritti.
Come spiegato nel numero scorso, vedi “Il percorso accidentato ma segnato verso un fronte unico sindacale di classe”, si è trattato di due scioperi generali proclamati separatamente ed in concorrenza l’uno all’altro, da due sponde del sindacalismo di base: da Cub, SI Cobas, Sgb, Slai Cobas ed Usi Ait il 27, da Usb, Confederazione Cobas ed Unicobas il 10.
Il piccolo Adl Cobas, fra tutti il più coerente, il 27 ottobre ha schierato i suoi iscritti nel settore privato ed il 10 quelli del pubblico impiego, dato che i sindacati promotori dello sciopero del 27 hanno un insediamento organizzativo maggiore nel privato, e quelli dello sciopero del 10 nel pubblico. Con ciò si è dimostrato consapevole dello scopo dello sciopero, dato elementare quanto misconosciuto dalla maggioranza dei sindacati di base: colpire nel modo più efficace l’attività produttiva di una data azienda o settore.
Nell’articolo sul numero scorso abbiamo reso conto dell’attività dei nostri compagni a sostengo dello sciopero unitario, attraverso la redazione e la diffusione di un Appello intitolato “Per un fronte unico sindacale di classe”. Nel descriverla eravamo giunti all’indomani dell’assemblea milanese del 23 settembre, organizzata dai sindacati promotori dello sciopero del 27 ottobre, e che, secondo le ipocrite affermazioni delle loro dirigenze, avrebbe dovuto decidere se accettare o meno le richieste di sciopero unitario. L’ipocrisia stava nel far credere che la decisione non l’avessero già presa e che l’assemblea – così come era stata convocata – potesse far qualcosa di diverso dal metterci sopra il crisma di una votazione.
Successivamente all’assemblea milanese i nostri compagni e gli altri promotori dell’Appello hanno redatto un “Bilancio della battaglia per il fronte unico sindacale di classe e per l’unità d’azione dei lavoratori e nostro indirizzo conseguente”, reso pubblico il 13 ottobre. Ne riportiamo dei passi.
«Per l’ennesima volta i lavoratori pagano il prezzo della strategia miope dei vertici del sindacalismo di base (…) Tutti noi lavoratori che crediamo nell’unità della lotta non possiamo che dare una lettura negativa a questo sciopero separato perché sappiamo benissimo che è un grande regalo fatto ai padroni, al loro governo, al loro regime. Siamo certi che si poteva convergere in un’unica data per tutto il sindacalismo di base e conflittuale, pur con piattaforme diverse. Usb, Cobas e Unicobas potevano tranquillamente anticipare la data al 27 ottobre, così come Cub, Si Cobas, Sgb, Slai Cobas e Usi Ait ritardarla di qualche giorno. Questo sarebbe stato il solo modo di dare continuità al successo dello sciopero nazionale dei Trasporti e della Logistica del 16 giugno (…) Ne prendiamo atto ma non vogliamo stare a piangere sul latte versato perché sarebbe deleterio. Siamo consapevoli del fatto che all’interno delle organizzazioni sindacali conflittuali ci sono tanti iscritti, militanti e delegati che chiedono l’unità e il superamento di barriere fittizie per la creazione di un fronte sindacale unico in difesa dei lavoratori».
Il documento dava poi l’indicazione ai lavoratori di aderire sia allo sciopero del 27 ottobre sia a quello del 10 novembre. Su questo vi è stata una discussione fra i promotori dell’Appello. Se, in linea generale, il sindacalismo di classe dovrà giungere alla forza di organizzare scioperi generali ad oltranza, è pure vero che allo stato attuale la chiamata a due scioperi nell’arco di due settimane, per altro su obiettivi troppo generici e variegati quali quelli delle due piattaforme, non poteva essere che velleitaria. D’altro lato v’era l’esigenza di non scegliere fra una delle due giornate, e quindi fra uno dei due campi attualmente opposti del sindacalismo di base, e di dare invece il senso della volontà e della necessità di aderire e sostenere gli scioperi a prescindere da quale sindacato conflittuale li proclami.
Si è deciso per la seconda opzione, privilegiando il valore di un indirizzo d’azione generale a discapito del suo effetto pratico, che d’altronde, in ogni caso, sarebbe stato minimo. Ai nostri compagni è parsa la scelta corretta, condivisa dalla maggioranza dei firmatari, di quelli aderenti all’Usb, alla Confederazione Cobas e alla Cub Trasporti, e non da una minoranza, quelli di SI Cobas e della sinistra Cgil, che tuttavia hanno continuato a partecipare alla discussione ed alle iniziative del gruppo. Altri invece, ritenendo di dover favorire una delle due mobilitazioni, è risultato che non avevano colto l’intenzione originaria dell’Appello. Insomma la vicenda è servita a fare chiarezza.
Sono effettivamente riusciti a proclamare ed organizzare lo sciopero in entrambe le date i gruppi sindacali di Usb alla FCA di Melfi (Potenza), alla Sevel di Atessa (Chieti), e alla ICS Maugeri di Tradate (Varese) e i ferrovieri della Cub Trasporti.
I due scioperi sono andati come previsto: solo nella logistica l’attività produttiva è stata effettivamente danneggiata, grazie alla mobilitazione organizzata dal SI Cobas (e dall’Adl Cobas) il quale si conferma l’unico sindacato di base ad oggi effettivamente in grado di inquadrare e mobilitare una parte della classe operaia, ancora purtroppo confinata al solo settore logistico, con sporadici insediamenti in altre categorie. Questa capacità del SI Cobas è confermata da altri due elementi: è l’unica organizzazione di base che prepara davvero gli scioperi generali con decine di assemblee, con un grado di partecipazione dei lavoratori anche molto elevato; da solo è riuscito a portare nei cortei tanti lavoratori quanto tutti gli altri sindacati di base assieme, se non di più, e sommando gli aderenti ad entrambi gli scioperi. In particolare il risultato ottenuto nei cortei di Milano, Bologna e Roma è stato superiore a tutte le precedenti mobilitazioni.
Nei trasporti il 27 ottobre lo sciopero è andato male, anche a causa della precettazione statale che lo ha ridotto da 24 a 4 ore. Il 10 novembre è andato un poco meglio sia fra i ferrovieri sia fra i tranvieri, ma al di sotto del 16 giugno.
Ugualmente male è andato fra gli aeroportuali, i quali, dopo i mesi caldi all’Alitalia, fra gennaio e giugno, sono in una fase di calma, anche inevitabile. All’Alitalia, dove la vertenza non è affatto conclusa, un altro fattore ha giocato a sfavore della mobilitazione del 10: il 30 ottobre la Rsa Usb di Alitalia ha aggiunto la sua alla firma di Cgil, Cisl, Uil, Anpac e Anpav ad un accordo. In questo, oltre ad accettare la cassa integrazione per un monte ore equivalente a 1.600 lavoratori, di cui circa 300 a zero ore, condizione che prelude un quasi certo licenziamento, viene riconosciuta nero su bianco la presenza di esuberi, la necessità di definirne ulteriori e di ridurre il costo di lavoro.
Questa firma è stata impugnata dalla Cub Trasporti, che l’ha definita un tradimento della lotta, la quale il 24 aprile aveva rifiutato con un referendum un accordo sostenuto da sindacati di regime ed autonomi. Si è così spezzata quell’unità d’azione che – non senza frizioni – era stata mantenuta fra le due organizzazioni sindacali e che aveva consentito il dispiegamento di riusciti scioperi e partecipate manifestazioni. La Cub Trasporti, il cui segretario nazionale, un lavoratore dell’Alitalia, aveva affermato all’assemblea milanese del 23 settembre che il suo sindacato avrebbe sostenuto entrambi gli scioperi generali, ha fatto fra gli aeroportuali retromarcia, mentre, come detto, quell’indirizzo è stato mantenuto dai ferrovieri della Cub.
Sulla vicenda della firma di Usb all’accordo Alitalia i nostri compagni hanno collaborato alla redazione di un documento del “Coordinamento iscritti Usb per il Sindacato di Classe” intitolato “Contro la firma dell’accordo sulla cassa integrazione in Alitalia - Contro le pratiche concertative nel nostro sindacato”, pubblicato l’11 novembre e che ha provocato una risposta scomposta e priva d’argomenti a firma della Rsa Usb Alitalia e di Usb Lavoro Privato.
Queste considerazioni, ed altre, sono state oggetto di una intervista richiesta dal Collettivo Redazionale di Roma del sito internet “Il pane e le rose” ai promotori dell’Appello “Per il fronte unico sindacale di classe”; è stata pubblicata il 21 novembre: “Perché, oggi più che mai, è necessaria l’unità d’azione del sindacalismo di base. Una conversazione con i promotori dell’appello Per un fronte unico sindacale di classe”).
Si legge nelle risposte:
«Nel pubblico impiego (...) hanno aderito 21.638 lavoratori, pari all’1,3% della categoria, una percentuale molto bassa (...) Nel settore privato lo sciopero del 27, fatta eccezione per la logistica, è passato senza che la maggioranza della classe lavoratrice nemmeno se ne avvedesse (...) Questo quadro conferma la correttezza dell’indirizzo proposto dal nostro appello (...) per uno sciopero unitario del sindacalismo di base. Ciò avrebbe permesso l’adesione anche delle correnti di opposizione di sinistra in Cgil.
«Non si tratta, come affermato da alcuni per criticare la nostra indicazione, di unire meramente le sigle, le “burocrazie sindacali”, ma di far scendere in sciopero insieme, lo stesso giorno e in manifestazioni comuni, i gruppi di lavoratori inquadrati nei vari posti di lavoro nelle diverse categorie, del pubblico e del privato, del completo arco del sindacalismo conflittuale.
«Solo in questo modo si sarebbe – forse – raggiunta la capacità di imbastire uno sciopero in grado di raggiungere quel livello minimo di energia necessario per essere percepito dalla classe lavoratrice come una vera lotta, cominciando a costruire in essa l’idea che esiste una forza sindacale alternativa ai sindacati tricolore in grado di dar vita a mobilitazioni generali, e di seminare qualcosa per le mobilitazioni future.
«I due scioperi generali separati invece, come per quelli passati del sindacalismo di base, sono passati come l’acqua fresca, senza lasciare traccia.
«Evidentemente lo scopo dichiarato dell’appello – lo sciopero unitario – non è stato raggiunto. D’altronde lo ritenevamo difficilmente realizzabile, per quanto naturalmente qualche speranza c’era. Il fine realisticamente raggiungibile era dar ossigeno, forza e voce a quei gruppi di iscritti e militanti che nelle varie organizzazioni e correnti sentono la necessità di seguire l’indirizzo dell’unità d’azione del sindacalismo di base, finendola con le divisioni nelle azione di lotta fra le varie sigle sindacali conflittuali.
«L’intenzione è continuare a sostenere la parola d’ordine dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale ogni qual volta questo problema si presenti, quindi non solo nei futuri scioperi generali ma anche in quelli di categoria ed aziendali».
Due parole infine sullo sciopero e le manifestazioni del 10 e dell’11 novembre. La dirigenza di Usb ha investito la maggior parte delle sue energie organizzative, comprese quelle finanziarie, sulla manifestazione nazionale politica dell’11 novembre a Roma, promossa dal cartello Eurostop, che si contraddistingue per le rivendicazioni di uscita dall’Euro e dalla Unione Europea e dalla Nato (si legga il nostro “Contro la parola d’ordine di uscita dall’Euro dall’Europa dalla Nato”).
Questa manifestazione però, convocata da un cartello di partiti, è stata presentata come una naturale prosecuzione dello sciopero generale del giorno prima, cioè come una manifestazione sindacale. Ciò nel disonesto quanto goffo tentativo di farvi partecipare quanti più iscritti possibile, anche se ignari del suo reale significato. Questo è andato a discapito della riuscita dello sciopero, al quale sono state dedicate meno energie.
Le manifestazioni del venerdì infatti sono state minime, ridotte a deboli presidi a Milano, Bologna, Venezia, Roma. Una modesta manifestazione si è avuta solo a Firenze, con partecipazione di iscritti della Confederazione Cobas, Usb e qualcuno della Cub. A Genova Usb e Confederazione Cobas sono riusciti a formare un piccolo corteo. Ben poco comprensibile la decisione di organizzare in Emilia Romagna manifestazioni provinciali, con presidi di poche decine di lavoratori, invece di una unica manifestazione regionale a Bologna, dove far convergere e unire i gruppi di iscritti nelle fabbriche metalmeccaniche in cui recentemente Usb è riuscita a insediarsi. Forse anche qui si volevano risparmiare le forze in vista della manifestazione romana del giorno dopo. La quale, nonostante tutto questo tramestare, gli è andata male.
Conferenze tenute dal partito a Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma
Per l’unificazione delle lotte della classe lavoratrice - Per il fronte unico sindacale di classe
L’organizzazione di un ciclo di conferenze del partito, a Bologna, Firenze, Roma, Genova e Torino, sul tema del Fronte Unico Sindacale di Classe è stata decisa in quanto negli ultimi mesi la questione è tornata ad essere un problema pratico per una parte minoritaria, ma non indifferente, del movimento sindacale in Italia, cioè per il campo del cosiddetto sindacalismo di base e, di riflesso, anche delle correnti di opposizioni di sinistra nella Cgil.
Fin dal luglio scorso infatti si era profilata la proclamazione da parte dei sindacati di base di due scioperi generali separati ed in concorrenza, come poi è effettivamente avvenuto con quelli del 27 ottobre e del 10 novembre. Contro questa divisione e a sostegno di uno sciopero generale unitario di tutto il sindacalismo di base e di classe i nostri compagni hanno collaborato con militanti di diverse organizzazioni sindacali – Usb, Cub, Confederazione Cobas, l’area di opposizione interna di sinistra della Cgil “Il sindacato è un’altra cosa” – alla redazione di un Appello intitolato “Per un fronte unico sindacale di classe, per un’azione generale di tutta la classe lavoratrice, in difesa della libertà di sciopero”.
Dell’attività legata alla redazione e alla diffusione di questo Appello abbiamo reso conto nel numero scorso di questo giornale (“Il percorso accidentato ma segnato verso un fronte unico sindacale di classe”) e continuiamo in questo numero introducendo il volantino distribuito ai due scioperi.
Il nostro partito è tornato ad agitare in seno alla classe ed al movimento sindacale in Italia la parola d’ordine del “fronte unico sindacale di classe”, e quella ad essa strettamente legata della “unità d’azione dei lavoratori”, e lo ha fatto – come suo metodo e sua tradizione – tramite la sua frazione sindacale, cioè i suoi compagni lavoratori e militanti nelle organizzazioni sindacali, che agiscono disciplinati secondo il comune ed unico indirizzo sindacale di partito.
Il “fronte unico sindacale di classe” e la “unità d’azione dei lavoratori” sono due pilastri della tattica del comunismo rivoluzionario, di quell’insieme di norme d’azione che il partito, attraverso tutta la sua esperienza storica e sulla base della sua teoria e del suo programma, ha selezionato considerandole adatte e necessarie a perseguire la sua finalità politica, il Comunismo.
La tattica è un ambito cruciale per il partito comunista, quanto lo sono la teoria e il programma politico, essendo il collegamento fra questi e l’azione pratica. Tesi caratteristica della nostra corrente è che ciò che il partito fa determina ciò che il partito è, la buona tattica fa il buon partito, e naturalmente vale anche l’opposto, nel caso della errata tattica. Quello della tattica non può essere un ambito in cui sia lecito dare sfogo alle più azzardate alchimie, inquadrabili secondo il motto il fine giustifica i mezzi, ma questi devono essere in armonia con quello. Il nostro partito quindi si distingue per cercare di definire in anticipo il complesso di norme tattiche che intende impiegare in una data situazione. Questa è stata una delle preziose lezioni della peggiore fra le sconfitte del movimento comunista, quella della degenerazione del partito russo e della Terza Internazionale.
La relazione ha voluto mostrare come i due indirizzi d’azione sopracitati siano corretti, sia sul piano sindacale sia su quello degli obiettivi politici del partito, e come il primo pienamente s’inquadri nel secondo.
La situazione attuale
Il compagno relatore ha fornito preliminarmente un breve quadro generale della situazione economica mondiale, e della classe lavoratrice e del movimento sindacale in Italia.
Qui solo ribadiamo come sul piano economico il capitalismo continui ad affondare nella sua crisi mondiale (si legga il rapporto sul “Corso del capitalismo mondiale” pubblicato nei numeri scorsi).
La condizione della classe lavoratrice in Occidente ha seguito un corso analogo a quello della crisi: il miglioramento nelle norme d’impiego e di vita, iniziato a partire dai primi anni sessanta, compiutosi attraverso dure lotte operaie, costate anche decine di vittime per opera della forza pubblica, nella seconda metà del decennio sucessivo si è invertito in un peggioramento, dapprima lento poi accelerato.
Il movimento sindacale in Italia è dominato dalle grandi confederazioni sindacali tradizionali, Cgil, Cisl e Uil, le quali da decenni hanno abbandonato e rinnegato, anche sul piano delle proclamazioni, i principi e i metodi della lotta di classe, per abbracciare un sindacalismo apertamente collaborazionista. Questi sindacati conservano ancora il controllo della maggior parte della classe salariata sindacalizzata, pur se sottoposti ad un lento logoramento. Ad essi si contrappone un insieme, più piccolo nonché variegato, di organizzazioni sindacali cosiddette “di base” che, con distinzioni non secondarie le une dalle altre, si dichiarano sostenitrici della lotta di classe, di un sindacalismo “conflittuale” e “anticoncertativo”.
La condotta del partito nei confronti dei sindacati in Italia in questo dopoguerra
Il nostro partito definì la Cgil un sindacato di regime fin dalla ricostituzione dall’alto di questo sindacato nel 1944 con il Patto di Roma, ad opera dei maggiori partiti costituenti il CLN (Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista). La nuova organizzazione sindacale rinasceva ponendo a suo cardine il principio secondo il quale gli interessi della classe operaia sono subordinati a quelli della Nazione. Per il marxismo rivoluzionario la Nazione e il suo Stato, li si chiamino Paese o Patria, non sono null’altro che la borghesia organizzata a difesa del capitalismo. Tale subordinazione era evidenziata anche nel suo nuovo nome, con l’aggiunta della “I” nazionale a quello della originaria CGdL dal 1906 al 1927, la quale era invece stata un sindacato “rosso” e di classe, pur a guida riformista.
Questa nuova sottomissione della Cgil al regime borghese era coerente alla ideologia del partito che la dominava, lo staliniano Partito Comunista Italiano, con la sua teoria della “democrazia progressiva” secondo la quale con la caduta del fascismo – che noi affermammo essere solo esteriore ed apparente – si era instaurato un nuovo regime, di “nuova democrazia”, aperto alla classe operaia e suscettibile di modificare e migliorare gradualmente il capitalismo, fino a farlo diventare socialismo senza traumi rivoluzionari.
È evidente che questa teoria nega i fondamenti del marxismo rivoluzionario secondo il quale il capitalismo non è riformabile e la democrazia è una forma di governo del regime borghese, la più consona alla sua conservazione (“Il migliore involucro del capitalismo”, come la definisce Lenin), complementare e non opposta al suo totalitario dominio. Di fatto non si trattava che della riproposizione dell’opportunismo socialdemocratico della Seconda Internazionale, contro cui Lenin e il Partito Comunista d’Italia delle origini si erano tanto fieramente battuti.
Il corso storico ha dimostrato il fallimento di quella teoria. Quattro decenni di avvitarsi della crisi economica, lenta ma inesorabile, hanno dimostrato che il capitalismo post-fascista non è affatto migliore di quello di prima e di sempre. I miglioramenti conquistati dalla classe operaia nel secondo dopoguerra non furono frutto di una diversa natura del capitalismo o di un suo preteso nuovo regime compiutamente democratico, ma delle lotte operaie, in una fase di potente crescita dell’accumulazione di rendite e profitti. Compiuta l’opera di inganno di due generazioni di proletari e sotto il peso di cotali smentite storiche si disfaceva infine quel falso partito comunista la cui larga maggioranza ha apertamente rinnegato tutto il suo armamentario teorico, già spacciato vergognosamente per marxismo.
Nell’immediato secondo dopoguerra, definita la nuova Cgil sindacato di regime, il nostro ricostituito partito ritenne tuttavia allora possibili due prospettive per la rinascita del sindacato di classe, considerata necessaria quanto ineluttabile: o attraverso la riconquista di quel sindacato ad una linea di classe o la sua rinascita al di fuori e contro di esso.
Dovendo sempre un vero partito comunista dare un immediato indirizzo pratico alla incessante lotta dei lavoratori, questo fu, in quel dopoguerra, di iscriversi alla Cgil e battersi per riportarla su posizioni classiste. Ciò in ragione del fatto che al suo interno militava la parte più combattiva della classe operaia. Questa, nei decenni di crescita economica, pur scontrandosi spesso con la struttura della Cgil, che fin da allora aveva iniziato l’opera di sradicamento dei principi e dei metodi della lotta di classe, riuscì ad utilizzare la Cgil per condurre dure battaglie e ottenere significative conquiste.
La situazione venne a cambiare con l’aprirsi del ciclo di crisi del capitalismo, nella prima metà degli anni settanta. In coerenza col principio di subordinazione degli interessi della classe lavoratrice a quelli del Paese, la Cgil si fece allora portatrice fra i lavoratori della necessità di sacrifici in nome del preteso superiore interesse nazionale. Ciò avvenne, in maniera quanto mai netta e chiara, con la svolta dell’EUR del febbraio 1978.
Fu così che, a partire da allora, minoritari ma consistenti gruppi di lavoratori si trovarono nella necessità, non per una scelta ideologica ma per la pratica della lotta, di organizzarsi fuori dalla Cgil, trovandosi a dover fronteggiare non solo il padrone ma lo stesso sindacato che, rispetto ai tre decenni precedenti, si stava rivelando sempre meno utilizzabile al fine della lotta difensiva della classe operaia.
Sulla base di questa direzione spontaneamente assunta dal movimento operaio, sulla base della analisi del partito del corso complessivo della degenerazione della Cgil verso posizioni di sempre più aperto collaborazionismo di classe, e sulla base infine di trent’anni di esperienza di lotta interna dei nostri gruppi operai, valutammo chiusa la possibilità di riconquista di quel sindacato ad una direzione classista, cioè lo considerammo da allora definitivamente di regime, irrecuperabile alla lotta di classe, e passammo quindi ad indicare ai lavoratori la strada della ricostruzione del sindacato di classe fuori e contro di esso (vedi Fuori e contro gli attuali sindacati).
La correttezza del nuovo indirizzo di tattica sindacale – non nuovo ma previsto scioglimento di una alternativa atteso fin dall’immediato secondo dopoguerra – è stata confermata dal successivo corso del movimento operaio che successivamente ha visto la formazione dei sindacati di base, in un processo caratterizzato da avanzate e arretramenti ma che non cessa di alimentarsi, confermando come sia il prodotto di una necessità materiale.
La necessaria unificazione delle lotte operaie
Nell’arco temporale ormai di quattro decenni, se la Cgil non ha ancora avuto occasione di tornare a sostenere tanto apertamente come nel 1978 la necessità che i lavoratori si sacrifichino per salvare il paese, ha però costantemente impedito la reale organizzazione della classe per la lotta difensiva contro la crisi capitalistica. Si è cioè comportata come lo stato maggiore di un esercito che lo mantenga immobile di fronte all’offensiva nemica.
Al nostro partito si pone quindi il problema di come i lavoratori possano difendersi di fronte alla crisi del capitalismo. A questo riguardo l’indirizzo di azione sindacale che consideriamo fondamentale è quello della unificazione delle lotte, del superamento dei confini aziendali e di categoria.
La lotta chiusa entro i confini dell’azienda o della fabbrica deve necessariamente fare i conti con le compatibilità aziendali. In una fase di crescita economica gli elevati profitti delle imprese offrono margini più ampi alle rivendicazioni operaie e anche battaglie condotte all’interno di un singolo posto di lavoro, di una singola azienda, di una singola categoria possono consentire dei miglioramenti.
Ma anche allora il partito indicava come più favorevole un’azione sindacale che unificasse le lotte al grado più alto onde evitare fra i lavoratori l’indifferenza per le sorti del resto della classe, lo spirito corporativo, l’aziendalismo. Tare che oggi li affliggono gravemente e che sono prodotto di decenni di sindacalismo di regime di Cgil, Cisl e Uil.
Ma è in una fase di crisi economica che l’indirizzo dell’unificazione delle lotte operaie diviene vitale. La concorrenza sempre più aspra fra le imprese, i fallimenti o le cosiddette ristrutturazioni limitano le disponibilità aziendali fino a ridurre a zero i margini rivendicativi di un’azione sindacale chiusa nella singola impresa. O quei margini il fanno divenire negativi: si possono far accettare ai lavoratori tagli salariali, licenziamenti e altri peggioramenti per impedire che l’impresa chiuda. Il sindacalismo chiuso entro i confini della fabbrica in crisi si capovolge dalla difesa dei lavoratori alla difesa dell’azienda. Nelle mille vertenze, che seguono inesorabilmente gli stessi binari e che nella quasi totalità dei casi portano alla sconfitta, si diffonde negli operai la convinzione che vi sia una certa comunanza d’interessi fra lavoratore e azienda, che la vita dello schiavo dipenda dal benessere del padrone. Si puntella il supremo dogma borghese: o capitalismo o morte.
Finché l’orizzonte non oltrepassa i confini della fabbrica i lavoratori sono condannati a restare privi della possibilità di unificare le loro lotte ed obiettivi, quando invece la soddisfazione dei bisogni operai può aversi non nel confronto col singolo padrone ma con l’intera classe capitalista – industriali, finanza, proprietari fondiari – e col suo regime politico. Questo permette all’azione sindacale di muoversi entro margini rivendicativi più ampi di quelli dettati dalle anguste compatibilità economiche della singola azienda e di svilupparsi sulla base di una forza enormemente superiore.
Il processo di unificazione delle lotte della classe lavoratrice deve avvenire su due piani. Il primo, più elementare, è quello di scioperare insieme, nel tempo e nello spazio: facendo coincidere la giornata di sciopero e unendo fisicamente i cortei, dove il numero dà e fa la forza. Il secondo piano, che può impiantarsi solo sul primo, è che il movimento operaio esprima rivendicazioni che accomunino tutta la classe e giustifichino e rendano necessaria l’unificazione delle lotte: aumenti salariali per tutte le categorie, maggiori i peggio pagati; riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario; salario pieno ai lavoratori licenziati; riduzione dell’età della pensione e ritorno al sistema retributivo; servizi sociali (scuola, sanità, trasporti) gratuiti per la classe lavoratrice.
Più cresce e si afferma un movimento generale di classe anche meno opprimente diviene la condizione del lavoratore nella singola fabbrica.
È importante sottolineare che una lotta generale della classe lavoratrice per questi obiettivi, pur conservando ancora la forma di un movimento sindacale, è già in sé, intrinsecamente, un grande fatto politico, che vede cioè schierate l’una di fronte all’altra le due classi nemiche di questa società.
Per arrivare a questa unificazione delle lotte operaie è evidentemente necessaria un’organizzazione. Anche laddove si verificasse un moto spontaneo di gruppi di lavoratori in questa direzione, fatto che certo ci auspichiamo e che sicuramente accadrà, questo movimento dovrà esprimere una sua adeguata organizzazione per difendersi, collegarsi e poter crescere.
Il sindacalismo di base
La situazione in cui si trova oggi ad agire la classe lavoratrice è ancora più grave di quella di una assenza di tale strumento in quanto il campo di battaglia, la rete di decine di migliaia di posti di lavoro sul territorio, risulta presidiato capillarmente dalla cappa asfissiante dei sindacati di regime la cui condotta in tutto il dopoguerra, e in particolare in questo arco quarantennale di lunga crisi, è stata volta precipuamente ad impedire questa unificazione.
Dall’altro lato, il sindacalismo di base si è fino ad oggi dimostrato inadeguato a questo compito, in parte certamente a causa di oggettive condizioni sfavorevoli ma, a nostro giudizio, anche per errori di politica sindacale, uno dei più importanti dei quali proprio riguardo l’unità d’azione.
Per esempio, la critica, in linea generale corretta, mossa dal sindacalismo di base alla condotta dei principi dei sindacati di regime, è stata seguita, nella larga maggioranza dei casi, dall’indicazione di non partecipare, se non di boicottare, le mobilitazioni da questi promosse. Questo atteggiamento ha certamente una sua ragion d’essere: nei posti di lavoro si consumano sovente da parte dei sindacati confederali svariate nefandezze; la reazione dei delegati dei sindacati di base è spesso quella di rifiutarsi di scendere in sciopero ed in piazza al fianco di cotali traditori, con cui si scontrano quotidianamente. Questo indirizzo quindi, se promana dalle dirigenze, è condiviso da una parte consistente dei militanti dei sindacati di base.
Tuttavia, se tale condotta è spiegabile, non ne va taciuta la superficialità: si tratta qui non di scendere in lotta al fianco della struttura dei delegati e dei funzionari dei sindacati collaborazionisti, ma con i lavoratori da essi mobilitati.
Non
partecipare agli scioperi indetti dai confederali è controproducente
per varie ragioni:
1.
Innanzitutto i sindacati di base con questa condotta appaiono alla
massa dei lavoratori, ancora controllati dal sindacalismo di regime,
come dei disertori sul campo di una battaglia: noi siamo qui e voi
non ci siete;
2.
La parte più combattiva dei lavoratori, che si suppone quella
inquadrata nelle organizzazioni sindacali di base, isolata nella sua
azione, negli scioperi e nelle manifestazioni, abbandona la restante
massa al controllo e all’influenza del sindacalismo di regime;
3.
Con una prassi affinata e consolidata da lunga esperienza il
sindacalismo di regime quando mobilita i lavoratori è sempre attento
a non ordinare azioni né troppo deboli, da apparire un suo
fallimento, né troppo forti, da rischiare di perderne il controllo.
Privando questi scioperi e questi cortei della presenza dei
lavoratori più combattivi, organizzati nei sindacati di base, con il
loro apporto di entusiasmo, energia, critica, indirizzo, si facilita
al sindacalismo di regime il controllo delle sue stesse
mobilitazioni.
Queste considerazioni hanno valore generale ma è necessario sempre considerare ogni singola mobilitazione con i suoi propri caratteri. Laddove, ad esempio, vi siano aziende o categorie in cui i sindacati di regime siano già stati svuotati e sconfitti da parte delle organizzazioni sindacali di base, evidentemente l’atteggiamento può essere diverso. È il caso ad esempio di importanti aziende della logistica dove il SI Cobas risulta essere forza egemone e i sindacati tricolore ridotti in condizioni di estrema minoranza se non addirittura assenti. Al contrario fra i metalmeccanici, ad esempio, il controllo della Fiom Cgil è ancora robusto e molto debole l’insediamento organizzativo del sindacalismo di base.
Né ci si deve illudere circa le capacità di recupero del sindacalismo di regime, che controlla ancora la maggioranza dei lavoratori: se gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una assenza di mobilitazioni da parte della Cgil, ciò non esclude che in futuro cambi registro, ostentando un nuovo attivismo, imbastendo false mobilitazioni, come certamente è in grado di fare, si pensi a quanto fece la Fiom di Landini all’indomani dell’accordo di Pomigliano nel giugno 2010 (si legga L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil), illusionismo in cui cadde anche parte non indifferente del sindacalismo di base.
Il nostro partito quindi indica di battersi all’interno dei sindacati di base per l’affermazione dell’indirizzo opposto, coerente con quello della unità d’azione dei lavoratori, della partecipazione agli scioperi promossi dal sindacalismo di regime, qualora siano suscettibili di mobilitare un parte consistente di quella determinata frazione della classe lavoratrice, e di intervenire ai cortei da essi organizzati con loro spezzoni, ben visibili e distinguibili, diffondendo ampiamente fra i lavoratori in sciopero le loro rivendicazioni e i loro metodi d’azione.
Opposte concezioni sulla natura degli scioperi
Alla base di questi due contrastanti indirizzi, quello dell’unità d’azione e quello della maggioranza delle dirigenze del sindacalismo di base, che punta su scioperi separati ed in concorrenza, vi sono due opposte concezioni della natura dello sciopero e del processo di crescita e sviluppo del movimento operaio: la prima si fonda sui reali bisogni delle classe operaia e sulla necessità di difenderli, la seconda pone al centro e a motore di questo processo il fattore della “coscienza”, della comprensione della reltà sociale da parte dei lavoratori. Nel movimento operaio e sindacale prima i lavoratori arriverebbero ad una graduale presa di coscienza, diffusa ed individuale, della realtà della loro condizione sociale, e solo dopo quelli avrebbero gli strumenti di giudizio, le motivazioni razionali e le convinzioni ideali per organizzarsi adeguatamente in sindacati combattivi e per scendere in lotta.
A nostro modo di vedere il processo avviene secondo un percorso ribaltato, in cui la coscienza è il risultato ultimo, e sempre parziale, non il punto di partenza. Prima, istintivamente, si scende in lotta, insieme, e il numero tutti subito capiscono che è il primo fattore di forza; dopo, nella massa, con una lunga esperienza si arriva a comprende qualcosa. E si possono valutare sull’esperienza gli indirizzi dei diversi partiti e gruppi politici.
Andrebbe qui notato come gli stessi sindacati di base non sono nati attraverso un processo di graduale presa di coscienza dei lavoratori, ma sotto la spinta di forti mobilitazioni di determinate categorie. La concezione realistica dello sciopero e dello sviluppo del movimento operaio pone a suo motore non la testa ma il cuore e la pancia dei lavoratori.
In secondo luogo, ci pare che ormai quattro decenni di pratica dell’indirizzo degli scioperi separati da parte del sindacalismo di base stia a dimostrare chiaramente la sua inefficacia. Queste mobilitazioni, soprattutto per ciò che riguarda quelli generali intercategoriali, ma non solo, sono sempre estremamente minoritarie, ridotte ad innocue manifestazioni d’opinione, mai vere prove di forza per piegare il padronato, di cui la maggioranza della classe lavoratrice nemmeno si avvede o, nel più benevolo dei casi, considera un vano agitarsi di una minoranza estremista.
È importante fare una distinzione fra i soggetti che agiscono nel movimento operaio. Alla base vi è la massa dei lavoratori. Di questa, una parte è inquadrata nell’organizzazione sindacale. In questa a sua volta si distingue la base degli iscritti, i militanti, i delegati, i dirigenti territoriali e infine quelli nazionali.
In linea generale, in un sindacato sano, col salire i livelli di questa piramide sale il grado di consapevolezza dei problemi legati alla lotta sindacale. Non fosse altro perché un lavoratore decide di impegnarsi maggiormente nell’attività del sindacato, diventando ad esempio delegato, perché ha davvero passione per questa lotta e, nel compiere questa attività, col tempo e con l’esperienza acquisisce una conoscenza crescente.
Giudicare la base degli iscritti di un sindacato con gli stessi criteri con cui si giudicano i suoi dirigenti, considerando gli uni e gli altri ugualmente traditori della classe lavoratrice, è quindi un grave errore, utile solo a giustificare il rifiuto a scioperare unitamente ad essi. Questo ovviamente non significa ignorare l’esistenza ovunque di singoli lavoratori opportunisti o peggio.
Lo sciopero è un fenomeno sociale vivo che ha caratteri preminentemente irrazionali. Tante volte è stato paragonato ad un fuoco: necessita di determinate condizioni affinché si accenda, combustibile, ossigeno, temperatura, innesco; una volta acceso quanto più si estende tanto più è arduo estinguerlo; per contro, una volta spento, avendo consumato parte del combustibile, per un certo periodo diviene più difficile riaccenderlo. Non a caso, in un tempo non lontano, quando i dirigenti dei sindacati di regime erano mandati nelle fabbriche a spaccare e sedare gli scioperi, erano chiamati pompieri. E significativamente tutta una serie di accordi fra padronato e sindacati di regime volti a impedire veri scioperi introducono procedure dette di raffreddamento che confessano già nel nome le loro intenzioni e mostrano come il padronato e i falsi sindacati ad esso venduti abbiano ben chiara quale sia la vera natura dello sciopero.
Lo sciopero è l’elemento primordiale ed elementare della lotta di classe. Elementare perché è il primo modo in cui un gruppo di proletari si oppone collettivamente, e quasi sempre all’inizio inconsapevolmente, all’oppressione del capitalismo. Primordiale perché in un vero sciopero, anche nel più piccolo, sono da riconoscere, in forma embrionale, tutti quei fattori – primariamente di natura emotiva e sentimentale – destinati a crescere e maturare nell’intero corso dello sviluppo della lotta di classe, fino al suo finale sbocco nel riconoscere il suo partito, comunista, e nel poter così proseguire la lotta verso la rivoluzionaria presa del potere politico. Dalla massa dei lavoratori, vista dal basso, la rivoluzione è vissuta come un grandissimo sciopero.
Viceversa un vero sciopero è una piccola rivoluzione. I lavoratori sono coinvolti in una situazione del tutto diversa e nuova. Sono liberati dall’oppressione del lavoro, con la disponibilità elementare e semplice di tempo per incontrarsi e per pensare. La nuova situazione collettiva libera energie che accendono il bisogno di approfondire i problemi di natura sindacale, che li appassionano, e della volontà di mettere alla prova la forza della loro classe. È nel fuoco della lotta che si creano nella classe le condizioni favorevoli a una comprensione di grado più generale dei problemi che la affliggono. E più il fuoco cresce e si estende, attraverso un processo di unificazione delle lotte operaie, più si creano le condizioni affinché si diffonda la convinzione che sia possibile ed utile affrontare anche la questione della condizione del salariato non solo sul piano sindacale ma anche su quello politico, guardando ai vari partiti e indirizzi sociali dei quali ciascuno propone una sua soluzione generale alla storia della lotta fra le classi.
Tutto questo difficilmente accade a freddo, in assenza di lotta, durante le due orette di assemblea nella quale i lavoratori si ritrovano ad ascoltare le campane di due, tre o quattro diversi sindacati, su problemi anche complessi, e spesso resi volutamente più complicati, stanchi dal lavoro e consapevoli di dover tornare a svolgerlo terminata la breve pausa. Quindi per la massa dei lavoratori, diversamente dalla ristretta minoranza dei militanti sindacali, davvero prima viene l’azione, dopo la comprensione. Confondere i ruoli e i soggetti, rivolgersi e guardare alla massa dei salariati come se avesse le stesse false convinzioni e gli stessi pregiudizi dei dirigenti del loro sindacato, non può che condurre a gravi errori e ad incapacità di intervenire nei loro confronti.
Si pone quindi il problema di quali siano le condizioni necessarie affinché un vero sciopero sia messo in moto. Queste, a nostro modo di vedere, trattandosi di un fenomeno appunto elementare, non sono di natura complessa, per quanto non sia affatto facile prevedere il momento giusto per tentare l’innesco. Le possiamo ridurre a due: la presenza di un effettivo malessere nei lavoratori, di un provvedimento padronale sentito come un morso nella viva carne della loro quotidiana esistenza; il fatto che i lavoratori vedano, sentano di avere al loro fianco un numero adeguato di compagni di lavoro disposti a lottare. Dato che sul primo fattore non è facoltà dei militanti sindacali poter intervenire, se non per comprendere l’umore e il morale dei lavoratori, è sul secondo che è necessario agire.
È in questa direzione che opera l’indirizzo dell’unità d’azione dei lavoratori. Battersi all’interno dei sindacati di base affinché partecipino, con le proprie rivendicazioni, agli scioperi promossi dal sindacalismo di regime, nell’intento di creare le condizioni più favorevoli affinché queste mobilitazioni raggiungano un grado di forza tale da travolgere il controllo dei sindacati concertativi sui loro iscritti. Scioperare insieme ai sindacati di regime non significa, come sostengono la maggior parte delle dirigenze del sindacalismo di base, confondersi con essi e favorirli: le differenze saranno spiegate dai militanti dei sindacati di base ai lavoratori nello sciopero. Si tratta al contrario della condotta più adeguata a logorare questi sindacati asserviti al capitale.
Perché, e qui chiudiamo questa parte della relazione, per la massa dei lavoratori l’abbracciare il sindacalismo di classe e le sue rivendicazioni non è una scelta, ma un problema di forza! È quando si sentono forti che capiscono di aver effettivamente la possibilità d di battersi per obiettivi più ambiziosi e con metodi più intransigenti. Fintantoché le rivendicazioni pur sacrosante e classiste si appoggiano su mobilitazioni estremamente minoritarie, la massa della classe salariata giocoforza si rivolge al sindacalismo che appare più forte, di comodo, clientelare. Un comportamento opportunista, certo, ma tale è quello di una classe oppressa, finché non troverà la forza per affrontare a viso aperto la forza sociale nemica che l’opprime.
Il fronte unico sindacale di classe
Quindi, da parte del sindacalismo di base, aderire agli scioperi promossi dal sindacalismo di regime non significa scioperare con le strutture di quei sindacati ma coi lavoratori da essi mobilitati. Si tratta di seguire l’indirizzo dell’unità d’azione dei lavoratori – condotta che riteniamo più adeguata a combattere quel sindacalismo – non di cercare un fronte comune fra sindacati di base e sindacati tricolore. Un simile fronte unico sindacale sarebbe in evidente contraddizione con la natura definitivamente di regime della Cgil ed il conseguente nostro indirizzo tattico, dalla fine degli anni settanta, di ricostruire il sindacato di classe fuori e contro di essa.
La parola d’ordine del Fronte Unico Sindacale è strettamente legata a quella della Unità d’Azione dei Lavoratori ma non coincide con essa, si muove parallelamente ed è in sua funzione. Per chiarire questo indirizzo è utile spiegare il carattere dell’Appello per uno sciopero unitario di tutto il sindacalismo di base e di classe cui abbiamo accennato introducendo questa relazione.
L’Appello è stato intitolato “Per un fronte unico sindacale di classe”: la specificazione “di classe” sta ad indicare, anche, che una intesa sul piano dell’azione era considerata possibile solo all’interno del sindacalismo di base e con i gruppi e le correnti di opposizione di sinistra dentro la Cgil, escludendo però quel sindacato.
L’Appello era rivolto, oltre che “a tutti i lavoratori” affinché aderissero e sostenessero lo sciopero, “agli iscritti ed ai militanti” di tutte le organizzazioni sindacali di base perché facessero pressione sulle proprie dirigenze per il superamento delle divisioni e per l’indizione di uno sciopero unitario, e “agli iscritti ed ai militanti delle correnti di opposizione di sinistra nella Cgil” affinché sostenessero un simile sciopero a prescindere da ciò che avrebbe fatto la dirigenza Cgil. Non era quindi un appello rivolto alle dirigenze delle organizzazioni sindacali, come erroneamente era stato inizialmente inteso dal alcuni, ma rivolto alla base di questi sindacati.
Questo nella consapevolezza del fatto che in un arco temporale di ormai quattro decenni queste dirigenze non solo non sono riuscite a giungere ad una unità organizzativa del sindacalismo di base ma nemmeno ad una unità sul piano dell’azione, anzi, le divisioni invece di ridursi sembrano farsi sempre più gravi, come dimostrato dalla ennesima proclamazione di due scioperi generali separati a distanza di 15 giorni l’uno dall’altro.
Nostra convinzione è che la completa ed organica unità d’azione del sindacalismo di base sarà possibile solo a detrimento per lo meno della maggioranza delle sue attuali dirigenze. Sicché l’appello, lungi dall’accreditarle, era un atto di scontro con esse.
L’unità d’azione del sindacalismo di base e conflittuale sarà la premessa della realizzazione di un Fronte Unico Sindacale che sarà “di classe” anche perché, potendo compiersi e realizzarsi solo attraverso una lotta contro le attuali dirigenze, permetterà di abbracciare un indirizzo sindacale che sia davvero tale.
Questo obiettivo permetterà la creazione di un polo sindacale – foriero di un unico grande Sindacato di Classe – con una massa tale da generare un’attrazione adeguata a contrastare quella, ancora oggi sovrastante, del sindacalismo di regime.
Ciò non significa dare per certo che la formazione del futuro Sindacato di Classe avverrà necessariamente attraverso la fusione organizzativa degli attuali sindacati di base. È possibile che alcune o anche tutte queste organizzazioni non si dimostrino all’altezza di questo compito, cedano al processo d’inquadramento nel regime politico borghese come già accaduto alla Cgil, o viceversa vengano da esso spazzate via, e che nuovi organismi di lotta operaia sorgano ed assolvano questa necessità storica.
Questa possibilità non contraddice gli indirizzi sindacali qui esposti e il lavoro che il partito compie per la loro affermazione nel movimento operaio e sindacale, giacché questo compito ovviamente non può essere assolto che nelle organizzazioni che al momento esistono, non in quelle che hanno ancora da venire.
È importante chiarire il rapporto che intercorre fra i due indirizzi tattici in campo sindacale che abbiamo fin qui esposto.
Quello del Fronte Unico Sindacale di Classe è un obiettivo che consideriamo indispensabile al fine di raggiungere la più completa realizzazione dell’unità d’azione dei lavoratori. Il nostro partito non esclude la necessità, e il suo compito, di rivolgersi direttamente alle masse proletarie indicando loro la necessità di unificare le lotte rivendicative e proponendo, oltre l’unità d’azione, anche obiettivi unificanti. Questo andrebbe a rafforzare la battaglia condotta al medesimo scopo entro le organizzazioni sindacali. Ma non ci si deve illudere che l’unificazione delle lotte della classe lavoratrice sia raggiungibile eludendo il compito della battaglia entro le organizzazioni sindacali per l’affermazione del giusto indirizzo d’azione.
I sindacati sono i soggetti fondamentali e viventi del movimento operaio. Ignorarne il ruolo ed abdicare alla battaglia al loro interno non può condurre che alla generale dispersione delle forze. Ciò vale non solo in una condizione storica come quella attuale, in cui è manifesta la condizione di debolezza e sbandamento ideale della classe operaia, ma avrà valore anche in situazioni in cui i lavoratori torneranno a lottare duramente, guadagnando un grado di consapevolezza della loro condizione di classe sfruttata molto superiore a quello attuale.
Questo il nostro partito lo può affermare sulla base di una grande esperienza di una lotta ormai più che secolare, giacché ci consideriamo fedeli continuatori di una corrente politica che ha avuto l’occasione storica e il merito di adempiere ad un ruolo di primissimo piano nell’epoca in cui massima è stata l’avanzata del proletariato rivoluzionario, negli anni dalla Rivoluzione d’Ottobre al 1923. Questa corrente è la Sinistra Comunista Italiana, che ebbe origine intorno al 1912 all’interno del PSI in reazione all’avanzata in esso del riformismo, si formalizzò nel 1919 come Frazione Comunista Astensionista e nel gennaio 1921 guidò la scissione che portò alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, di cui detenne la direzione fino al 1923 e la maggioranza dei consensi fino al 1926, quando, al Congresso di Lione, prevalse la corrente centrista espressione della controrivoluzione staliniana nel partito russo e nella Terza Internazionale, coi suoi epigoni nel partito italiano (Togliatti).
Fin dai mesi successivi alla sua fondazione, il Partito Comunista d’Italia si impegnò nella battaglia per il Fronte Unico Sindacale fra le organizzazioni di classe del tempo. Il Comitato sindacale comunista inviò una lettera indirizzata alla CGdL, al Sindacato Ferrovieri (SFI) e all’USI in cui proponeva «la costituzione del fronte unico proletario sul terreno sindacale e lo sciopero generale nazionale in difesa della classe lavoratrice» per fare fronte «allo sviluppo dell’offensiva capitalistica».
Anche in quegli anni in cui il proletariato italiano ed europeo espresse il massimo vigore, portando l’intera Europa sull’orlo della rivoluzione proletaria, le divisioni fra organizzazioni sindacali giocarono un ruolo di ostacolo e danneggiamento del movimento operaio, ed il partito ritenne suo compito ineludibile battersi al loro interno per la più larga unità d’azione. Al contempo non mancava di rivolgersi direttamente ai lavoratori.
I dirigenti riformisti della CGdL tacciarono “di demagogia e di incoscienza” la proposta comunista. Il Sindacato Ferrovieri e l’USI, pur dichiarandosi favorevoli al fronte unico, non presero in considerazione l’invito dei comunisti. La tattica del partito fu di aggirare tali posizioni disfattiste e imbelli con un appello rivolto direttamente al proletariato. Così si legge nella relazione del PCd’I al IV Congresso dell’Internazionale Comunista: «La questione fu portata dai comunisti direttamente fra la massa nella quale trovò le maggiori simpatie; contemporaneamente si chiedeva alla CGdL di discutere la nostra proposta in un Congresso nazionale».
Il 7 e 8 settembre 1921 si tenne a Milano un convegno nazionale indetto dai comunisti in cui confluirono un centinaio di delegati in rappresentanza di oltre 500 mila lavoratori inquadrati nella CGdL e nel Sindacato Ferrovieri, provenienti da ogni parte d’Italia. Nel documento conclusivo si affermava: «I comunisti si prefiggono come loro principale obiettivo sindacale il raggiungimento dell’unità di tutte le organizzazioni economiche del proletariato italiano».
La campagna per il fronte unico cominciò a dare i suoi primi frutti. Il Consiglio Direttivo della CGdL fu costretto a convocare il Consiglio nazionale che si tenne a Verona nei primi giorni del novembre 1921. All’ordine del giorno furono i temi del fronte unico e dello sciopero generale nazionale. Si legge ancora nel rapporto su citato. «Contro tale proposta si schierarono quasi tutti i burocrati sindacali della CGdL (...) Numerose organizzazioni sindacali, pur non essendo dirette da comunisti, accettarono la proposta comunista (...) Nonostante tutti gli ostacoli e tutti gli impedimenti, la pressione delle masse spinge inesorabilmente verso il fronte unico (...) La storia dell’accoglienza data alla nostra proposta nell’agosto del 1921 si riassume in poche parole: ostruzionismo dei capi sindacali, simpatia sempre crescente delle masse» » (“Rapporto del C.E. del PCd’I al Comintern sulla tattica del partito e sulla questione del fronte unico”).
Lotta sindacale e lotta politica
Non si tratta, riproponendo nella situazione attuale di ripiegamento della classe lavoratrice lo stesso indirizzo tattico proposto in quegli anni di massima avanzata del proletariato rivoluzionario, di compiere una meccanica e forzata trasposizione della condotta pratica del partito, tale da farla risultare una parodia.
Come noi comunisti rivoluzionari crediamo di
saper riconoscere nel più piccolo sciopero quegli elementi di
ribellione proletaria all’oppressione del capitalismo destinati a
crescere e maturare nell’intero corso di sviluppo della lotta di
classe, così la nostra dottrina ci permette di individuare i
processi anche nel loro embrionale formarsi. Nella limitata attività
sindacale che le condizioni attuali ci consentono ravvisiamo quei
caratteri fondamentali che sono apparsi chiari e netti
nell’esperienza delle grandi battaglie passate e che sappiamo si
riproporranno in quelle a venire:
- l’opposizione delle dirigenze sindacali
riformiste e opportuniste;
- l’apparentemente inspiegabile tentennare dei
gruppi politici, come gli anarchici, a parole favorevoli al fronte
unico sindacale;
- l’accoglienza entusiasta della massa
proletaria, anche dei lavoratori aderente a partiti avversi al
comunista;
- l’adesione di strutture sindacali,
territoriali e di categoria, seppure non dirette dalla frazione del
partito, all’indirizzo sindacale comunista.
Spiegata la funzione dei due indirizzi d’azione nel campo sindacale e le ragioni per le quali li consideriamo corretti in quell’ambito, si tratta di esporre come essi si inquadrino nella lotta politica per il comunismo.
Il rapporto fra partito e sindacato è un un problema sempre attuale nel movimento sindacale che solo il marxismo rivoluzionario inquadra correttamente.
La nostra scuola prevede la crescita del partito in un determinato rapporto col riaccendersi della lotta di classe, ma esclude di poter assurgere a guida della classe lavoratrice, indirizzata alla conquista rivoluzionaria del potere politico, sulla base di un numero di aderenti accresciuto attraverso la sola attività di propaganda e di proselitismo. Questi sono compiti fondamentali e necessari ma non sufficienti.
Se ci atteniamo alla tesi di Marx secondo cui in ogni epoca l’ideologia dominante è quella della classe dominante, il partito rimarrà una minoranza della classe, e per un periodo non breve anche dopo la conquista del potere. La forza che catapulterà questa minoranza rivoluzionaria alla testa dalla classe lavoratrice è quella della guerra sociale, della classe operaia contro le classi borghesi, in particolare della lotta sindacale. È in questo campo che le direttive pratiche del partito saranno seguite dai lavoratori, anche da quelli non comunisti, in quanto nel corso della lotta si saranno dimostrati i più adeguati alle loro necessità.
In questo il partito autenticamente comunista non ha bisogno di strumentalizzare il movimento operaio e sindacale perché il miglior sviluppo di questo crea la condizione più favorevole alla realizzazione delle sue finalità politiche. Esattamente come recita il Manifesto del Partito Comunista, «I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato».
Il partito quindi non cerca una forzata “politicizzazione” del sindacato. Traduce in termini di giusto indirizzo pratico d’azione le tesi teoriche che lo distinguono da tutti gli altri partiti. Ad esempio, in ambiente sindacale, non propone parole d’ordine del tipo “Il capitalismo non si riforma ma si abbatte” bensì “Lotta ad oltranza contro lo sfruttamento capitalista”, consapevole che nel corso dello sviluppo della lotta di classe la seconda formula andrà di fatto a coincidere con la prima. Oppure, non inserisce nei comunicati sindacali della propaganda antireligiosa, ma spiega la necessità della solidarietà operaia al di sopra di ogni credenza religiosa.
Ad esempio una delle tesi del documento congressuale del secondo congresso dell’Unione Sindacale di Base afferma che sarebbe necessario “Accettare la sfida della politicizzazione dello scontro” (vedi il nostro L’USB al suo secondo Congresso nazionale). Anche la dirigenza del SI Cobas ha spesso ripetuto che nell’assenza, a suo a dire, del partito comunista rivoluzionario, il sindacato dovrebbe svolgere un ruolo di sua “supplenza”.
Rispetto della funzione e della natura del sindacato non significa svalutazione della funzione del partito.
I compagni del partito che sono lavoratori e militanti nei sindacati non devono nascondere le proprie opinioni e svolgono attività di propaganda e proselitismo anche dentro il sindacato. Ma la funzione fondamentale della frazione sindacale comunista nel sindacato non è farlo diventare, piano piano, un mezzo partito, che si affianchi e spalleggi il primo: questo obiettivo, che si ritiene ovvio e necessario e perseguito da tutte le altre forze politiche, viene a negare il sindacato o danneggiare il suo sano sviluppo. Invece il lavoro primario della frazione sindacale comunista si svolge nel rispetto della natura e della funzione del sindacato, diverse da quelle del partito, nella loro difesa e nel battersi per l’affermazione degli indirizzi d’azione che favoriscano il suo massimo rafforzarsi.
L’affermazione di un indirizzo del tutto coerentemente classista nelle organizzazioni sindacali e nella classe è la risultante fra la lotta del proletariato contro la borghesia, di cui è un riflesso all’interno del movimento sindacale la lotta fra le sue varie correnti, e il continuo e coerente indirizzo sindacale emanante dalla corretta politica rivoluzionaria del partito comunista marxista. Quindi può avere esito favorevole solo in presenza del partito comunista. Senza questa il movimento sindacale, guidato da altri partiti e correnti politiche, solo occasionalmente e parzialmente può impugnare il giusto metodo di lotta, ma è destinato infine a tradire o a mostrare la sua insufficienza con l’approfondirsi della crisi sociale.
Nelle singole battaglie, l’indirizzo sindacale comunista, dimostrando la sua adeguatezza e rispondenza ai bisogni della lotta operaia nel suo crescere, troverà l’adesione di lavoratori che non fanno parte del partito ed anche di quelli di altre organizzazioni politiche. Ne abbiamo avuto una piccola conferma anche nella battaglia condotta in questi mesi a sostegno dello sciopero unitario del sindacalismo di base. Lo stesso appello è stato redatto non solo da compagni del partito, anche se rispondeva pienamente al nostro indirizzo.
I partiti politici agenti nel campo del movimento operaio avversi al comunista possono occasionalmente trovarsi a condividere alcune delle direttive sindacali comuniste ma, nella migliore delle ipotesi, oscillano intorno alla giusta linea d’azione e solo a momenti andando a coincidere con essa, e sono destinati presto o tardi a dover tentare di piegare, come si usa dire strumentalizzare, il movimento sindacale alle proprie finalità politiche, rivelandosi queste non in armonia con quelle.
L’opposizione di parte degli attuali gruppi dirigenti del sindacalismo di base allo sciopero unitario già ha mostrato la contraddizione fra le finalità politiche dei gruppi politici opportunisti che li dirigono e i bisogni del movimento dei lavoratori. Così pure il fatto che dei partiti che si definiscono proletari e rivoluzionari quelli che hanno dato effettivo sostegno all’Appello in favore dello sciopero unitario si contino sulle dita di una mano, nonostante a parole tutti affermino di condividere l’indirizzo dell’unità d’azione ed alcuni dei loro militanti lavoratori si fossero espressi in modo favorevole ad esso.
In questo movimento oscillatorio dei partiti attorno alla corretta linea di politica sindacale classista si va a palesare la contraddizione con la loro base operaia, con le loro frazioni sindacali, che sempre più tenderanno a non seguire l’indirizzo delle loro organizzazioni politiche bensì quello comunista.
È per questa via che il sindacato andrà a svolgere quella funzione di cinghia di trasmissione fra la minoranza di marxisti rivoluzionari organizzata nel partito e la massa della classe proletaria.
In questo processo gli indirizzi del fronte unico sindacale di classe e dell’unità d’azione dei lavoratori svolgono un ruolo fondamentale perché sono quelli suscettibili di portare l’intera classe lavoratrice a muoversi e a scontrarsi con l’intera classe borghese ed il suo regime. Come spiegato da Marx il movimento sindacale quando giunge a mobilitare l’intera classe lavoratrice per i suoi interessi è già movimento politico.
L’affermarsi dell’indirizzo sindacale classista, emanante dalla frazione comunista, e la sua condivisione da parte di una larga base proletaria, conduce al rafforzarsi a vicenda del movimento operaio e del partito comunista.
La mobilitazione generale del proletariato, determinata dall’avanzare della crisi economica mondiale, giunge sul terreno rivoluzionario in quanto il capitalismo diviene sempre meno in grado di sfamare i suoi schiavi salariati. Approfittando delle condizioni oggettive di fragilità del capitalismo e del suo regime a scala mondiale, lo sciopero generale, diretto infine dal solo partito comunista, deborda in azione insurrezionale per la presa del potere, primo passo verso l’emancipazione della classe operaia e il comunismo.
A questa tattica comunista sul terreno sindacale fa da contraltare, oltre alla rigorosa distinzione e definizione teorica e programmatica, il rifiuto di ogni fronte sul terreno politico. Il nostro partito non persegue obiettivi intermedi alla conquista rivoluzionaria del potere e rigetta tutte le alchimie politiche inevitabilmente connesse a questi intermedismi che l’opportunismo sempre propone nella fasulla prospettiva di avvicinare la rivoluzione.
È dal combinato di questi due atteggiamenti tattici di segno apparentemente opposto – massima unità d’azione del proletariato nel campo delle rivendicazioni immediate, massima indipendenza e definizione rispetto a tutti gli altri partiti – che riteniamo svilupparsi la più alta efficienza e potenza rivoluzionaria della nostra classe.
ILVA,
Genova, lunedì 9 ottobre
Unire ed estendere la lotta operaia
4 mila licenziamenti su 14 mila dipendenti (3.300 a Taranto, 600 a Genova e 54 a Novi Ligure); licenziamento dei circa 9.900 lavoratori restanti e riassunzione senza l’integrativo, con l’azzeramento dell’anzianità pregressa e con l’applicazione del Jobs Act, quindi senza l’art. 18.
Questo il colpo durissimo che i nuovi padroni dell’ILVA – Arceol Mittal (85%) e Marcegaglia (15%) – vogliono infliggere ai lavoratori del gruppo. Davvero una limpida conferma di quanto sia infame la borghesia.
Per la sua portata questa battaglia interessa tutta la classe lavoratrice. A seconda del suo esito essa finirà: o per aggiungere un nuovo anello alla lunga catena di sconfitte degli ultimi decenni, che opprime una classe operaia sempre più sfruttata e prostrata – materialmente, moralmente e politicamente – davanti dalla classe dei padroni. Oppure, al contrario, se saranno rigettati i licenziamenti, l’annullamento dell’integrativo e l’applicazione del Jobs Act, potrà diventare un punto di riferimento per iniziare finalmente a cambiare direzione e tornare la classe operaia a rialzare la testa.
È nella consapevolezza di questo legame degli operai dell’ILVA con tutta la classe lavoratrice che bisogna affrontare questa cruciale battaglia.
Va ricercata la più estesa unità operaia:
– Bisogna in primo luogo superare il localismo con il quale è stata fino ad oggi condotta la lotta, facendone una questione della città di Genova; il coinvolgimento nello sciopero del 4 giugno scorso dei lavoratori della fabbrica di Novi Ligure è certamente positivo ma non basta. Il vero problema è collegarsi coi 13 mila operai di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa. Per vincere gli operai di Genova e di Novi devono agire uniti con quelli di Taranto. Questa elementare necessità pratica della lotta non è mai stata soddisfatta dai sindacati confederali (Fim, Fiom, Uilm). Gli operai di Genova e Novi, e i delegati Fiom, a questo fondamentale scopo, devono rivolgersi anche ai sindacati di base, presenti in forze nella fabbrica di Taranto, alla Flmu CUB e all’USB, quest’ultima per numero di iscritti e di delegati pari alla stessa Fiom. La Fiom genovese dimostri la sua natura diversa da quella nazionale (Landini a novembre 2016 ha firmato forse il peggior contratto collettivo di categoria del secondo dopoguerra) e ricerchi l’unità d’azione col sindacalismo di base. Oggi una delegazione dell’USB genovese è in piazza con gli operai ILVA.
– Una seconda direzione lungo la quale cercare l’unità di classe necessaria per vincere questa lotta è quella territoriale. Non è sufficiente la presenza di delegazioni delle altre fabbriche ed aziende ai cortei. Bisogna prepararsi a far scendere in campo, al momento giusto, tutta la classe lavoratrice di Genova: bloccare il porto, i cantieri navali, tutte le attività produttive, la circolazione e i servizi in uno sciopero generale cittadino. E bisogna essere pronti a farlo più di una volta.
– Una terza direzione da seguire per allargare l’unità e la solidarietà operaia è quella della categoria. Bisogna pretendere la proclamazione dello sciopero nazionale di tutti gli operai siderurgici (Marcegaglia, Thyssen di Terni, Tenaris Dalmine, Piombino, ecc.) in solidarietà con gli operai dell’ILVA, come ad esempio ha fatto il sindacalismo di base (CUB Trasporti e SI Cobas) con lo sciopero nazionale dei Trasporti e della Logistica del 16 giugno scorso – molto ben riuscito, e che ha fatto infuriare il governo – proclamato a partire dalla lotta dei lavoratori Alitalia e in solidarietà con essa. Non deve ripetersi quanto accadde nel 2014 ai 2.600 operai delle acciaierie Thyssen Krupp di Terni, lasciati soli a scioperare, da Cgil, Cisl e Uil, per 35 giorni – il più lungo sciopero da quello alla FIAT di Torino del 1980 ! – sconfitti e beffati con un accordo firmato da Fim, Fiom e Uilm, spacciato come una vittoria. Anche la mobilitazione dell’intera categoria dei siderurgici va organizzata insieme ai sindacati di base, presenti alla Tenaris di Dalmine (Flmu CUB), alla Thyssen di Terni e alla Marcegaglia di Ravenna (USB).
Operai !
La classe lavoratrice ha la forza per vincere questa e più dure battaglie. Bisogna solo dedicare tutte le energie a ricostruire la sua unità d’azione, non riponendo invece alcuna fiducia o speranza nei partiti e nelle istituzioni della classe nemica.
Partiti e politicanti borghesi che si dichiarano dalla parte dei lavoratori lo fanno solo per accaparrarsi voti mentre in realtà sono ed agiscono pienamente a favore della classe capitalista, di cui sono i burattini, sempre, ed anche in questa singola vicenda.
È interesse di tutto il padronato e del suo regime politico sconfiggere gli operai dell’ILVA, ridurli in numero, aumentare lo sfruttamento di chi resterà in fabbrica, imporre anche a loro il Jobs Act, per dare un segnale ed una lezione a tutti i lavoratori.
Bisogna prepararsi moralmente e materialmente ad affrontare un lungo sciopero ad oltranza e a respingere ogni accordo a perdere che svenda la lotta, secondo la logica della “riduzione del danno”. A questo scopo va predisposta una cassa di resistenza. Si pretendano – mettendole alla prova dei fatti – azioni concrete in tal senso dalle organizzazioni sindacali di regime (Cgil, Cisl Uil) che dedicano ingentissime somme a tenere in piedi le loro elefantiache macchine burocratiche, o persino a premiare i loro dirigenti nazionali con stipendi che andrebbero benissimo agli squali industriali.
Si prenda esempio dalle dure battaglie condotte in questi anni nella logistica dagli operai organizzati dal SI Cobas, con scioperi a oltranza, casse di resistenza, picchetti per bloccare merci e crumiri, da ultima quella durissima, durata due settimane e non ancora conclusa, nei magazzini SDA, proprio contro l’applicazione del Jobs Act.
Per
l’unità dei lavoratori in lotta !
Contro
ogni peggioramento nelle condizioni di vita e di lavoro !
Per
la rinascita del sindacato di classe!
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Fascismo in atto sì, propagandarlo no!
La classe capitalista vive in una persistente ossessione e in un terrore: impedire che si rompa la pace sociale, nella consapevolezza dell’insolubilità delle contraddizioni in cui si dibatte il modo di produzione di cui è beneficiaria. Per attuare l’una ed esorcizzare l’altro, la borghesia ha bisogno di un continuo trasformismo ideologico, per sviare costantemente l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri problemi che affliggono il suo decrepito ordine sociale, per illudere se stessa e per ingannare i proletari.
Ecco allora che, fra le numerose trovate della campagna pubblicitaria permanente del politicantismo parlamentare, è tornata in discussione, nelle aule in cui viene officiato il rito democratico, una nuova legge che torna ad imbalsamare uno dei cadaveri che la classe dominante custodisce nell’armadio del suo percorso storico: quello del fascismo.
Non è un caso se ancora una volta, la terza se non andiamo errati nella storia repubblicana, viene presentata una legge che si propone di mettere “fuori legge” il fascismo. Nel settembre scorso la Camera dei Deputati ha approvato ad ampia maggioranza un disegno di legge, presentato dal deputato del PD Emanuele Fiano, il quale introduce nel codice penale il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista. Il testo di legge, che ora dovrà passare all’esame del Senato, prevede la reclusione da sei mesi a due anni per chi compia saluti romani o venda simboli che richiamino i passati “regimi totalitari”.
Eppure già la precedente Legge Mancino, introdotta nel 1993, aveva bandito gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista e che incitavano alla discriminazione per motivi razziali, religiosi o altri ancora. Ancora prima, nell’ormai lontano 1952, a firmare una legge per mettere “fuori legge” il fascismo, era stato quel famigerato ministro degli interni che tanto sangue proletariato aveva fatto versare nelle piazze e tanti lavoratori mandò in galera, Mario Scelba, incarnazione della versione postfascista della dittatura borghese, che affronta con il manganello e il piombo ogni malcontento della classe lavoratrice. La legge Scelba già puniva la “apologia di fascismo” e chiunque “promuova od organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”.
Tutti sanno che queste leggi in realtà non hanno avuto alcuna efficacia per scoraggiare o smantellare movimenti e partiti che non nascondevano e non nascondono la loro connotazione ideologica fascista e la loro prassi violentemente e ferocemente antiproletaria e anticomunista. Al contrario tali movimenti sono sempre stati allevati dalla stessa democratica classe dominante che li ha foraggiati e protetti, anche se sono stati spesso tenuti in disparte come riserva, in attesa dei periodi in cui sarebbero chiamati a giocare un ruolo di maggior rilievo per le finalità controrivoluzionarie di repressione delle istanze e dei movimenti proletari.
La nostra corrente politica, unica, ha ben definito i tratti peculiari del fascismo e rilevato quanto di questo regime sia rimasto vivo anche attraverso gli oltre 70 anni di storia repubblicana. Unica ha sempre considerato il fascismo non come un rigurgito di forze feudali e antimoderne, ma una necessità del capitalismo più avanzato economicamente e socialmente, giunto anzi a fetente cadavere.
Espressione dell’esigenza di governare le tendenze incoercibili, ad un tempo causa ed effetto della crisi cronica del capitalismo dominante a scala mondiale, il metodo fascista ha permesso alla borghesia di ritardare la sua lenta, ineluttabile e catastrofica agonia. La crisi ormai secolare che attanaglia il capitalismo continua a richiedere le misure dittatoriali post-democratiche per primo adottate dal fascismo, le quali hanno permeato ogni aspetto della successiva vita sociale e politica.
Questo non ha significato che fascisti dichiarati abbiano avuto sempre la personale direzione di un processo storico, che è impersonale. Anzi, per lo più abbiamo assistito al contrario: l’affermazione dell’essenza del fascismo, in termini di controllo sociale della piccola borghesia, di totalitarismo del regime del capitale e di assoggettamento della classe lavoratrice all’esigenza di aumentare la produzione del plusvalore, è coincisa proprio con il bisogno ideologico della borghesia di esorcizzare il fascismo stesso ed emarginare quanti di questo movimento ne sono stati ispiratori e partigiani.
Tale è il caso alla conclusione della Seconda Guerra mondiale, con la sconfitta militare dei regimi fascista in Italia e nazista in Germania. Ma questo non è coinciso con la fine del fascismo, il quale si è invece generalizzato, estendendosi progressivamente a sistema di governo planetario.
Un aspetto del fascismo è il suo atteggiamento rispetto al movimento operaio e ai sindacati. Per negare ogni liceità ed agibilità alla lotta di classe e agli scioperi il fascismo si è premurato, sin dal suo affermarsi come regime politico, di ottenere una sostanziale e organica subordinazione dei sindacati dei lavoratori all’apparato politico dello Stato capitalista. Da allora in poi la funzione precipua di ogni organismo statuale e di ogni formazione politica della classe borghese è di inquadrare e sottomettere ogni movimento della classe proletaria.
Nei principi che ispirarono la legislazione corporativa del fascismo troviamo gli stessi fondamenti che furono in seguito alla base della pratica seguita per lunghi decenni dai regimi democratici, al fine di depotenziare la minaccia dei conflitti sindacali all’ordine sociale vigente.
Lo scopo di tutta la legislazione corporativa fascista introdotta nell’ordinamento giuridico italiano era impedire ogni manifestazione indipendente del movimento proletario. I dispositivi che facevano parte di questa nuova articolazione istituzionale comprendevano il riconoscimento del sindacato come organo dello Stato e l’istituto del contratto nazionale di lavoro avente forza di legge.
La “Carta del lavoro” approvata dal Gran Consiglio del Fascismo nell’aprile del 1927 è un documento che eloquente attesta l’esigenza, sempre più avvertita dalla classe borghese, di sottoporre a uno stretto controllo le ormai insopprimibili organizzazioni economiche dei lavoratori, costringendole ad una esistenza all’interno delle istituzioni statuali, deprivandole di ogni indipendenza di vita propria, lasciando loro solo il compito di simulare una parvenza di difesa degli interessi della classe.
All’articolo III vi si legge: «L’organizzazione professionale o sindacale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori per cui è costituito, di tutelarne, di fronte allo Stato o alle altre associazioni professionali, gli interessi; di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria, di imporre loro contributi e di esercitare rispetto ad esso funzioni delegate di interesse pubblico».
Tre anni dopo il varo del più importante documento programmatico della concezione corporativa dello Stato, nel 1930, nel corso del “Primo convegno di studi sindacali e corporativi”, il giurista Carlo Costamagna, uno dei principali teorici dell’ordinamento corporativo e, insieme ad Alfredo Rocco, estensore della “Carta”, circostanziava: «Il sindacato legalmente riconosciuto è organo dello Stato nella sfera della sua competenza (...) In questo senso il sindacato è un organo specializzato dello Stato (...) sì è come i Comuni e le Provincie».
La visione del sindacato “responsabile” vi è parimenti anticipata nell’articolo VI: «Le associazioni professionali legalmente riconosciute assicurano la uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro e i lavoratori, mantengono la disciplina della produzione e del lavoro e ne promuovono il perfezionamento», accomunandosi questo testo monocorde e lugubre alle parole di oggi dei sindacalisti di mestiere e dei politicanti nella stanca filastrocca degli “interessi nazionali”, delle “esigenze della produzione”, la stessa rivoltante omiletica, l’arte predicatoria dei preti, propria dello “Stato etico” fascista e della sua bugiarda pretesa di perseguire il “bene comune” delle sempre antagoniste classi sociali.
Continuando troviamo infatti nell’articolo IV: «Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà fra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione».
Quanti lavoratori devono oggi fare i conti con delegati sindacali asserviti alla direzione aziendale? o con la finzione di “contribuire all’elaborazione del piano industriale”, al fine di moderare, se non cancellare, le vere richieste operaie? Come non ricordare che preoccupazione costante di ogni democratico governo borghese è stata ostacolare la possibilità che il proletariato eserciti la sua più efficace arma di difesa che è lo sciopero? Come dimenticare le leggi 146/1990 e la 83/2000, la seconda introdotta da un governo di centrosinistra, volte a limitare lo sciopero nei servizi pubblici, punendolo con pesantissime sanzioni tanto da renderlo del tutto impraticabile? Dove sarebbe la differenza rispetto alla repressione penale dello sciopero? se viene proclamato senza preavviso e senza limiti di tempo oggi, per ora, non si rischia la galera, ma già si mette in pericolo il posto di lavoro e si va comunque incontro a dure sanzioni.
Tirato il confronto con la situazione di 90 anni fa dobbiamo ammettere che il fascismo, lungi dal tramontare ed essere sconfitto, si è rafforzato, si è perfezionato e arricchito di nuovi strumenti di oppressione e di inganno nei confronti del proletariato.
Per questo ci appare come una stucchevole ed inutile manfrina, buona solo a incantare i gonzi, quella messa in scena dal governo per “proibire” la propaganda fascista: il fascismo non ha bisogno di essere propagandato.
Bilancio dell’Ottobre e prospettive sull’avvenire in un testo di Lenin
Questo scritto di Lenin del 2 marzo 1923, ed apparso sulla Pravda due giorni dopo, presentato come l’ultimo della sua vita, era motivato come un ulteriore contributo alla soluzione dei gravi problemi della rivoluzione in Russia. Secondo i pettegoli farebbe parte del suo “testamento politico”, insieme ad altre lettere e documenti tirati fuori solo al XX congresso del Pcus, nel 1956, allora al fine di rinnegare lo stalinismo, “da destra”, con argomenti peggiori, ancora più controrivoluzionari e reazionari tardo borghesi di quelli del vivo Stalin, e quindi ancora più lontani da quelli di Lenin, nostri e di tutti i veri comunisti di allora e di oggi.
Noi, dei nostri grandi maestri, non abbiamo bisogno di conoscere “l’ultima parola”, di “testamenti”, portato individual-proprietario. Tutto Lenin, tutta la trentennale opera da gigante dell’uomo e compagno di partito Lenin, che sempre si è informata a tutto Marx, è una unitaria coerente lettura della realtà sociale, alla luce della nostra monolitica e definitiva dottrina scientifica della storia. Non ha un inizio e non ha una fine, nella continuità della vita del partito. Se la malattia di Lenin non si fosse aggravata avrebbe continuato così a scrivere, o se forse non gli fosse stato impedito dalle note manovre interne al partito. La scelta di questo testo quindi è in parte casuale, tanto che a simili dimostrazioni ne avremmo potuto utilizzare uno fra molti altri. Qui è descritta la situazione in Russia al 1923 e un bilancio a cinque anni dall’Ottobre. Se ne riferisce anche nella nostra “Struttura”, capitolo 101, “Commiato da Lenin”, e precedenti.
Siamo in una condizione oggettiva complessa e difficile. Quella della Russia postrivoluzionaria è una società di fasi, il contrario che omogenea, vi si sovrappongono strati di geologia sociale che, insegna Lenin, vanno dal patriarcato, alla piccola agricoltura mercantile, al capitalismo privato, al capitalismo di Stato, a germi di economia comunista, tutti in opposizione, in divenire e in lotta fra loro. Politicamente abbiamo la dittatura dei soviet operai e contadini, diretti entrambi dal solo partito comunista; ma la rivoluzione è tutt’altro che compiuta, le potenti forze della controrivoluzione borghese, benché al momento respinte sul campo con le armi dell’esercito rosso, sorde resistono, all’interno e all’esterno, in collegamento fra quelle classi detronizzate e le diplomazie e le forze armate degli Stati capitalistici, che meditano e preparano il contrattacco.
Specialmente, in un paese arretrato, enorme è il peso di una tradizione in gran parte, peggio che borghese, feudale, che penetra “da ogni fessura” e non ancora soffocata, perfino nelle strutture dello Stato sovietico.
Il capitalismo, per necessità storica, sta spontaneamente e prepotentemente germogliando in Russia, e, per la disperata condizione economica del paese, è un progresso anche nel nostro senso, un trapasso inevitabile verso il socialismo, la sua premessa materiale. Sia economicamente, perché prepara le strutture e le infrastrutture moderne senza le quali il socialismo è impossibile, sia socialmente, per il riformarsi di una estesa evoluta e concentrata classe industriale di operai salariati, sola vera base, alimento e forza del potere comunista.
Quindi i comunisti in Russia, se vogliono sopravvivere al potere, debbono nello stesso tempo:
1. Mantenere buoni rapporti con i contadini, che hanno materialmente innescato e vinto la rivoluzione nelle campagne e coraggiosamente combattuto nell’esercito rivoluzionario, e sull’alleanza dei quali con la classe operaia si fonda il potere sovietico e del solo partito comunista ed operaio; i contadini, in enorme maggioranza piccoli e molto piccoli, prodotto della rivoluzione e dell’esproprio dei proprietari fondiari, sono minuta borghesia produttiva, di mentalità quanto mai conservatrice, ma indispensabile per l’alimentazione delle città e dell’esercito.
2. È quindi necessario acconsentire, favorire l’affermarsi del capitalismo; il che implica permettere il ristabilirsi dei liberi commerci interni; non esiste ancora una grande industria controllabile dallo Stato sovietico, che rifornirebbe i contadini, in cambio del grano, dei suoi prodotti, macchine, concimi, ecc.. Occorrono non ancora beni ma merci, prodotte da chi, come e dove si può e scambiate con denaro.
3. Spingere questo rinato capitalismo verso le forme più moderne della meccanizzazione e della grande industria fino al capitalismo di Stato; da qui la necessità di ricorrere ai prestiti di capitali dall’estero, dagli implacabili nemici borghesi di Inghilterra e di Francia, ma che, in quanto borghesi, non possono non correre ove è odore di buoni affari; e anche chiedere e pagare ai prezzi correnti le consulenze degli indispensabili esperti, tecnici, ecc.
4. Tutto questo mantenendo il potere comunista, della classe operaia tramite il suo partito, nella prospettiva non di “costruire il socialismo” nella Russia isolata, ma in attesa della rivoluzione in occidente, dicemmo “anche per cinquant’anni”. Si trattava di tenere imbrigliate, fintanto possibile, le anarchiche eversive forze infernali del rinascente capitalismo, che premevano da ogni lato, interno e internazionale; ci si poteva basare solo sulla forza della classe operaia al potere, che impugna le conquiste della rivoluzione, prime fra tutte la proprietà statale di tutta la terra e il monopolio del commercio estero. Altra via non v’era, se non cercare di tenere “in assedio” il capitalismo con la forza dello Stato comunista.
Questa era la difficilissima situazione che il partito si trovava davanti, che Lenin indaga e scompone e per la quale cerca di individuare non “nuove strade”, ma la giusta linea di condotta marxista.
Il testo che qui presentiamo è quindi arduo quanto la complessità del momento che si stava attraversando. Stupisce sempre come, con cristallina semplicità, Lenin ci presenta l’alta ed aspra dialettica storica, sempre in una ortodossa lezione del marxismo. Come una sonda attraversa tutti gli strati sovrapposti della società russa, pre-borghesi, mezzo-borghesi, grandi-borghesi, realtà che collega alla situazione dell’imperialismo mondiale, sulla quale avanza valide considerazioni e previsioni, un capitalismo in crisi mortale ma sempre in agguato contro il primo Stato comunista. Ma il suo pensiero, come sempre, è ad un’altra fase, quella della nostra rivoluzione mondiale.
Ai fini del rafforzamento dello Stato sovietico, “in condizioni deplorevoli”, Lenin quindi propone una riforma della Ispezione Operaia e Contadina nel senso del suo consolidamento e della sua maggiore autorità e prestigio all’interno degli organi dello Stato, ed anche del Partito. Dovrebbe essere, nelle sue parole, un alto istituto di tecnici, di operai esperti ed istruiti, che attinga i suoi membri sia dal Partito sia dai Soviet; che si imponga per il generale grande rispetto che dimostri di meritare.
Un’appello, diretto, ai proletari, quindi non solo ai comunisti, a difendere il loro Stato. Chiamata che stupì dei compagni di partito, ma che è invece nel pieno della ortodossia: del tutto analoga all’invito che facciamo oggi ai lavoratori a difendere il loro sindacato.
L’appello si estende ai contadini. Non che Lenin ignori il latente, ineluttabile, esplodere del conflitto di interessi fra le due classi rivoluzionarie, l’operaia e la contadina, ma ne vede la possibilità di contenerlo, o di procrastinarlo “per alcuni decenni”, in uno sviluppo “civile”, “culturale”, che nel linguaggio marxista significa di conoscenze tecniche, già proprie delle società borghesi occidentali e della capitalistica abilità ad impiegarle praticamente su vasta scala. Si riaprano le grandi fabbriche, almeno quelle dell’anteguerra, si porti l’elettricità alle fattorie dello sconfinato paese, insieme a strumenti, sementi, concimi ed agronomi; quelle, con incentivi dello Stato, saranno invogliate a raggrupparsi in cooperative, dove si eleverà la bassa produttività del lavoro agricolo, liberando ex contadini che, operai proletari, saranno accolti nelle nuove fabbriche.
Quindi, non ancora certamente uno strumento della comunistica pianificazione “delle cose”: solo una “ispezione”, contro principalmente, per ora, il malaffare e gli sprechi, per “resistere”. Anche se noi vogliamo intravvedervi qualcosa in quella direzione, qualcosa di più, di post-aziendale e di puramente “tecnico”; e di gioioso, com’è sempre la nostra battaglia per il comunismo, perfino scherzoso, arriva ad auspicare Lenin. Certo niente a che vedere con i “piani” staliniani, che semplificarono quella ferrea dialettica storica sì ad accumulazione del capitale, ma non per poterlo poi abbatterne il potere degli Stati e disperderne i rapporti sociali salariali e mercantili a scala mondiale.
La possibilità di procedere nella direzione del comunismo era affare internazionale e non russo; in Russia ne era condizione il mantenimento del potere da parte del partito comunista; e che il partito comunista restasse tale. Sappiamo invece che in breve volgere di anni la politica del partito russo svoltò di 180 gradi per dedicarsi alla “costruzione del socialismo” nella sola Russia, divenuto un partito votato come fine in sé all’accumulazione del capitale nazionale. L’alleanza operai-contadini così si capovolgeva nel prevalere socialmente degli interessi dei piccolo-contadini colcosizzati su quelli operai e politicamente, contro ogni prospettiva socialista ed internazionalista, nel potere anonimo del capitale, nazionale ed internazionale. Lo Stato “sovietico” diveniva una finzione come lo sono quelli “democratici” di Occidente a nascondere la dittatura del capitale.
Nell’ultima parte, che anche qui riportiamo per intero, Lenin si spinge a tracciare le prospettive future della rivoluzione internazionale, nell’ambiente della profonda crisi fra i capitalismi in Europa, in particolare della Germania, e del crescente scontro di interessi fra Stati Uniti e Giappone, che già gli facevano prevedere la nuova guerra.
Ma rileva come nuovo fattore gigante di progresso la messa in moto dei popolosi paesi dell’Oriente. Ben abbiamo poi avuto la conferma di come vi maturassero dei potenti processi rivoluzionari, e come deflagrarono. Anche in Asia però la mancanza di una fedele, sapiente e coerente direzione comunista marxista delle masse operaie e contadine insorte, nel volgere di pochi anni impedì che si ripetesse favorevolmente in Cina il fenomeno, eccezionale quanto inevitabile, dell’Ottobre in Russia.
Il ciclo storico delle doppie rivoluzioni, come Marx e Lenin nella dottrina avevano previsto, e nel quale la mondiale classe operaia giunse alla vittoria nell’Ottobre e la mantenne per alcuni anni, e aveva intravista prossima in Oriente, quel ciclo si è oggi compiuto con l’affermazione ovunque delle borghesie nazionali sui regimi e sulle classi antiche. Davanti a noi, a cento anni dall’Ottobre, e davanti alla rivoluzione futura della sola classe operaia e del solo suo partito, restano scolpiti, non ancora nelle menti dei proletari, ma nel granito della impersonale esperienza storica del partito di classe e anticipatori del futuro, i suoi grandi insegnamenti, che, con Lenin, elenchiamo:
1. Il marxismo originario ed autentico di sinistra ha avuto con l’Ottobre il definitivo suggello ad unica adeguata lettura scientifica della storia, base del programma di emancipazione della classe operaia e della sua conseguente azione sociale.
2. Confermata la necessità del partito alla testa del proletariato per la sua costituzione in classe ed in classe dominante, nelle fasi della preparazione e della presa del potere politico.
3. Ribadito il corso storico necessario di una presa del potere e di un impiantarsi di uno Stato rivoluzionario, esclusivamente diretto dal partito comunista, respinta ogni alleanza con altri partiti.
4. Necessità di tutta una non breve fase di dittatura statale del proletariato per la repressione dei tentativi controrivoluzionari delle classi spodestate ma non ancora disperse, all’interno e all’esterno.
5. Precedente demolizione in teoria della democrazia e successivo abbattimento di fatto dei suoi istituti.
6. Condanna della guerra imperialista su entrambi i fronti; disfattismo; denuncia di ogni alleanza di guerra; imposizione della fine della guerra imperialista fra gli Stati e suo capovolgimento in guerra rivoluzionaria fra le classi.
Noi, piccolo partito di oggi, pretendiamo di orientarci e di continuare a muoverci sulle linee segnate di questo immanente e potente campo magnetico di forze sociali, nella certezza che le verità di Ottobre, dopo la fallacia e inconsistenza di loro seguaci mentitori e falsi oppositori del secolo che ne è vergognosamente seguito, torneranno ad imporsi sulla scena della internazionale lotta rivoluzionaria fra le classi.
Лучше меньше, да лучше, Pravda, n. 49, 4 marzo 1923
Traduzione confrontata con l’edizione inglese.
Per poter migliorare il nostro apparato statale, l’Ispezione Operaia e Contadina, a parer mio, non deve correr dietro alla quantità e non deve aver fretta. Finora abbiamo avuto così poco tempo per riflettere sulla qualità del nostro apparato statale e preoccuparcene, che sarebbe giusto dedicarsi con particolare attenzione e serietà alla sua organizzazione e concentrare nell’Ispezione Operaia e Contadina materiale umano di qualità realmente moderna, cioè non inferiore ai migliori modelli dell’Europa occidentale. Certo, per una repubblica socialista questa condizione è troppo modesta, ma il primo lustro ci ha resi piuttosto diffidenti e scettici. E involontariamente siamo propensi a esserlo verso coloro che troppo, e troppo alla leggera, blaterano, per esempio, sulla “cultura proletaria”: per incominciare ci accontenteremmo della vera cultura borghese, ci basterebbe sbarazzarci dei tipi di cultura preborghese particolarmente odiosi, cioè della cultura burocratica, feudale, ecc. Riguardo la cultura è soprattutto dannoso aver fretta e voler fare le cose in grande. Molti nostri giovani scrittori e comunisti se lo dovrebbero ficcare bene in testa.
Così, riguardo all’apparato statale dobbiamo trarre dall’esperienza precedente la conclusione che sarebbe meglio andare più adagio.
Nell’apparato statale la situazione è a tal punto deplorevole, per non dire vergognosa, che dobbiamo innanzi tutto pensare seriamente al modo di combatterne i difetti, ricordando che questi difetti hanno le loro radici nel passato, che, sebbene abbattuto, non è stato superato, non ha ancora raggiunto la fase di una cultura rigettata in un passato lontano. Dico qui deliberatamente cultura, perché in questi problemi bisogna considerare come acquisito soltanto ciò che è entrato a far parte della cultura, della nostra vita sociale, delle nostre abitudini. E da noi si può dire che il buono del nostro sistema sociale non è stato sufficientemente studiato, compreso, sentito; è stato afferrato in fretta, non è stato messo alla prova e confermato dalla esperienza, non si è consolidato, ecc. E non poteva certo essere altrimenti in un’epoca rivoluzionaria, e con un ritmo di sviluppo così vertiginoso che ci ha condotti in cinque anni dallo zarismo al regime dei Soviet.
È tempo di affrontare la cosa. Bisogna mostrare una salutare diffidenza verso ogni progresso troppo rapido, verso ogni millanteria, ecc. Bisogna pensare a controllare quei passi in avanti che proclamiamo ogni ora, aspettare un minuto, e poi che ad ogni secondo si rivelano instabili, precari e non compresi. La cosa più nociva sarebbe qui la fretta. La cosa più nociva sarebbe partire dal presupposto che qualcosa sappiamo, o che disponiamo di sufficienti elementi per costruire un apparato di Stato veramente nuovo, il solo che meriti veramente il nome di socialista, di sovietico, ecc.
Questo apparato da noi non esiste, e anche gli elementi che abbiamo sono ridicolmente pochi, e non dobbiamo dimenticare che per costruire questo apparato non bisogna risparmiare il tempo e che occorreranno molti, moltissimi anni.
Di quali elementi noi disponiamo per costruire un tale apparato? Due soltanto. In primo luogo, gli operai impegnati nella lotta per il socialismo. Questi elementi non sono abbastanza istruiti. Essi vorrebbero darci un apparato migliore, ma non sanno come farlo. Non ci riescono. Non hanno ancora acquisito la cultura che è necessaria; ed è la cultura che occorre. L’irruenza, l’impeto, l’audacia o l’energia, o in generale qualità umane anche migliori non servono a nulla. In secondo luogo uomini di scienza, insegnanti ed istruttori, ma sono in un numero ridicolo, in confronto a tutti gli altri paesi.
E qui non bisogna dimenticare che siamo troppo propensi a compensare (o a immaginare di poter compensare) la nostra mancanza di cognizioni con lo zelo, con la fretta, ecc.
Per rinnovare il nostro apparato statale dobbiamo a ogni costo accingerci ad imparare, imparare ed ancora imparare, e poi di controllare che ciò che si è appreso non rimanga lettera morta, o una frase alla moda (come da noi, e non v’è nessuna ragione di nasconderlo, accade molto spesso), affinché questa conoscenza diventi realmente parte di noi, diventi veramente e pienamente elemento costitutivo della nostra vita sociale. In una parola, dobbiamo arrivare non alle condizioni proprie dell’Europa occidentale borghese, ma a quelle adatte e necessarie ad un paese che si propone di divenire un paese socialista.
Conclusione di quanto sopra è questo: noi dobbiamo fare dell’Ispezione Operaia e Contadina una istituzione esemplare, uno strumento per il miglioramento del nostro apparato statale.
[Qui, in alcuni accapo che non trovano spazio in queste pagine, il testo si diffonde in indicazioni su come reclutare i membri della Ispezione, su come dovrebbe lavorare e sui suoi rapporti con gli organismi superiori del Partito]
Come è possibile fondere organismi di partito con organismi sovietici? Non c’è qualcosa di inammissibile in questa proposta?
Pongo questa domanda non a nome mio, ma a nome di coloro a cui ho accennato sopra, quando ho detto che da noi esistono dei burocrati non solo negli organismi sovietici, ma anche in quelli di partito.
E perché mai non fonderli se è negli interessi del nostro lavoro? Non abbiamo visto tutti che questa fusione è stata estremamente utile nel caso del Commissariato del Popolo per gli Affari Esteri, dove è stata praticata sin dall’inizio? L’Ufficio Politico non discute forse da un punto di vista di Partito una quantità di problemi piccoli e grandi circa le “mosse” da noi compiute in risposta alle “mosse” delle potenze estere, allo scopo di prevenirne, diciamo, le astuzie, per non dir di peggio? Questa fusione elastica di un organismo sovietico con un organismo di partito non è forse la sorgente della forza eccezionale della nostra politica? Penso che ciò che si è dimostrato utile, che si è affermato ed è ormai entrato nell’uso comune tanto da non sollevare più alcun dubbio, sarà almeno altrettanto opportuno (anzi credo sarà molto più opportuno) per tutto il nostro apparato statale. Le funzioni dell’Ispezione Operaia e Contadina riguardano tutto il nostro apparato statale, e la sua attività dovrà toccare tutti, senza eccezione, gli organismi statali: locali, centrali, commerciali, puramente amministrativi, educativi, di archivio, teatrali, ecc. – in una parola, tutti, senza alcuna esclusione.
Perché dunque per un organismo con funzioni così ampie, il quale inoltre deve essere straordinariamente duttile nelle forme della sua attività, non ammettere di adottare questa particolare fusione di un organo di controllo del Partito con un organo di controllo sovietico?
Non vi vedo nessuno ostacolo. Credo che tale fusione sia la sola garanzia per la riuscita del nostro lavoro. Penso che tutti i dubbi in proposito spuntino fuori dagli angoli più polverosi dei nostri uffici governativi, e che meritano di esser trattati con nient’altro che con lo scherno.
* * *
Un altro dubbio: è opportuno unire attività di studio con l’esercizio delle proprie funzioni? Mi pare non solo opportuno, ma necessario. In generale, nonostante il nostro atteggiamento rivoluzionario verso i princìpi degli Stati europei occidentali, abbiamo consentito di lasciarci contagiare da tutta una serie dei loro più dannosi e ridicoli pregiudizi; e in parte il contagio ce l’hanno di proposito portato i nostri cari burocrati, i quali hanno intenzionalmente speculato sul fatto che sarebbero riusciti a far buona pesca nelle torbide acque di questi pregiudizi. E vi sono riusciti a tal punto che fra noi solo coloro che sono completamente ciechi non hanno visto come questa pesca era largamente praticata.
In tutti i campi delle relazioni sociali, economiche e politiche noi siamo “terribilmente” rivoluzionari. Ma quando si tratta di rispettare i gradi, di osservare le forme e i riti amministrativi, il nostro “rivoluzionarismo” spesso cede al più stantio tradizionalismo. In più di una occasione siamo stati testimoni di un fenomeno molto interessante, del grandioso balzo in avanti nella vita sociale accompagnato da una stupefacente timidezza ogni volta che sono proposti i più piccoli cambiamenti.
Questo è naturale, perché i più audaci passi in avanti sono stati fatti su un terreno da lungo tempo accampato dallo studio teorico, che era stato anticipato principalmente, e persino quasi esclusivamente, in modo teorico. Il russo, chiuso in casa, trovava consolazione dalla squallida realtà burocratica in costruzioni teoriche estremamente ardite, e questo è il perché nel nostro paese queste costruzioni teoriche estremamente ardite acquistavano un carattere particolarmente unilaterale. L’audacia teorica nelle costruzioni generali si accompagnava ad una sorprendente timidezza per la più insignificante delle riforme nella routine degli uffici. Una grandiosa generale rivoluzione agraria è stata attuata con un’audacia sconosciuta in ogni altro paese, e in pari tempo mancava la fantasia per una riforma nel lavoro degli uffici di infimo ordine; mancava la fantasia, o la pazienza, per applicare a questa riforma le proposizioni generali che producevano risultati così brillanti quando erano applicate a questioni di carattere generale.
Perciò la nostra vita odierna unisce in sé, in misura sorprendente, i tratti dell’audacia più temeraria e della timidezza mentale di fronte ai cambiamenti più insignificanti.
Penso che non sia stato altrimenti in nessuna delle rivoluzioni realmente grandi, in quanto le rivoluzioni realmente grandi nascono dall’antagonismo tra il vecchio, tra la tendenza a rielaborare il vecchio, e la più astratta aspirazione al nuovo, che deve essere talmente nuovo da non contenere in sé nemmeno un briciolo di antico.
E quanto più questa rivoluzione è repentina, tanto più a lungo dureranno tali contraddizioni.
* * *
Il tratto generale della nostra vita odierna è il seguente: noi abbiamo distrutto l’industria capitalistica, ci siamo impegnati a radere al suolo gli istituti medioevali e la proprietà fondiaria, e così creato un piccolo e piccolissimo contadiname, che sta seguendo la direzione del proletariato perché crede nei risultati della sua opera rivoluzionaria. È tuttavia difficile per noi mantenerci fino alla vittoria della rivoluzione socialista nei paesi più progrediti soltanto con l’aiuto di questa fiducia, perché la necessità economica, specialmente durante la Nep, mantiene a un livello estremamente basso la produttività del lavoro dei piccoli e dei piccolissimi contadini. Per di più, anche la situazione internazionale ha respinto la Russia indietro e, in generale, ha ridotto la produttività del lavoro del popolo ad un livello considerevolmente inferiore a quello dell’anteguerra.
Le potenze capitalistiche dell’Europa occidentale, in parte deliberatamente in parte inconsapevolmente, hanno fatto tutto ciò che potevano per respingerci indietro, per utilizzare gli eventi della guerra civile in Russia al fine di rovinare il più possibile il paese. Allora si presentava una situazione simile alla guerra imperialista, cosa che offriva loro considerevoli vantaggi; essi ragionarono più o meno così: “Se non siamo riusciti a rovesciare il regime rivoluzionario in Russia, in ogni modo ne ostacoleremo il progredire verso il socialismo”. E dal loro modo di vedere non potevano ragionare diversamente. Infine sono riusciti nel loro proposito a metà. Hanno fallito nel rovesciare il nuovo regime uscito dalla rivoluzione, ma non gli hanno permesso di fare subito il passo in avanti anticipato nelle previsioni dei socialisti, che avrebbe permesso a questi ultimi di sviluppare con grandissima rapidità le forze produttive, di dispiegare tutte le possibilità che, messe assieme, avrebbero dato il socialismo; i socialisti avrebbero così provato a tutti quanti che il socialismo contiene in sé forze gigantesche e che l’umanità è ora entrata in una nuova fase di sviluppo con straordinarie luminose prospettive.
Il sistema delle relazioni internazionali ha preso oggi una forma che uno degli Stati europei – la Germania – è asservito ai paesi vincitori. Inoltre, parecchi Stati, tra i più vecchi dell’Occidente, avendo vinto la guerra, hanno avuto la possibilità di fare alcune insignificanti concessioni alle loro classi oppresse – concessioni che, pur insignificanti, tuttavia ritardano il movimento rivoluzionario in questi paesi e creano una sembianza di “tregua sociale”.
Nello stesso tempo, a causa della scorsa guerra imperialista, una serie di paesi d’Oriente, India, Cina, ecc. sono stati del tutto scalzati dalle loro tradizioni. Il loro sviluppo si è adeguato definitivamente alle linee generali del capitalismo europeo. È incominciato in essi un fermento simile a quello che si ha in Europa ed è ormai chiaro a tutti che sono trascinati su una via di sviluppo che non può non portare a una crisi del capitalismo mondiale nel suo insieme.
Ci troviamo così, nel momento attuale, davanti alla domanda: saremo noi in grado di resistere con la nostra piccola e piccolissima produzione contadina, nelle nostre condizioni disastrose, fino a che i paesi capitalistici dell’Europa occidentale non avranno compiuto il loro sviluppo verso il socialismo? Ma essi lo stanno compiendo non come ci attendevamo. Essi lo compiono non tramite una “maturazione” uniforme del socialismo, ma attraverso lo sfruttamento di alcuni Stati da parte di altri, attraverso lo sfruttamento del primo Stato vinto nella guerra imperialistica, unito allo sfruttamento di tutto l’Oriente. L’Oriente, d’altra parte, appunto in seguito alla prima guerra imperialistica, è entrato appieno nel movimento rivoluzionario ed è stato trascinato definitivamente nel turbine del generale movimento rivoluzionario mondiale.
Quale tattica prescrive tale situazione per il nostro paese? Evidentemente la seguente. Dobbiamo mostrare estrema cautela per conservare il nostro potere degli operai e per mantenere sotto la sua direzione ed autorità i nostri piccoli e piccolissimi contadini. Abbiamo il vantaggio che il mondo intero sta ora passando a un movimento da cui dovrà scaturire una rivoluzione socialista mondiale. Ma sottostiamo allo svantaggio che gli imperialisti sono riusciti a scindere il mondo in due campi; e che questa divisione si complica per il fatto che la Germania, paese capitalistico effettivamente sviluppato e colto, incontra estreme difficoltà per rimettersi in piedi. Tutte le potenze capitalistiche del cosiddetto Occidente la beccano e non le permettono di rialzarsi. D’altra parte tutto l’Oriente, con le sue centinaia di milioni di lavoratori sfruttati e ridotti all’estremo limite della sopportazione umana, è messo in condizioni tali che le sue forze fisiche e materiali non possono essere messe a confronto con le forze fisiche materiali e militari di uno qualsiasi degli Stati più piccoli dell’Europa occidentale.
Possiamo noi salvarci dall’incombente conflitto con questi Stati imperialistici? Possiamo noi sperare che gli antagonismi e i conflitti interni fra i floridi Stati imperialistici dell’Occidente e i floridi Stati imperialistici dell’Oriente ci diano un secondo periodo di tregua come ce l’hanno dato la prima volta, allorché la campagna della controrivoluzione dell’Europa occidentale in appoggio alla controrivoluzione russa fallì a causa degli antagonismi nel campo dei controrivoluzionari d’Occidente e d’Oriente, nel campo degli sfruttatori orientali e occidentali, nel campo del Giappone e dell’America?
A questa domanda penso dobbiamo rispondere che la soluzione dipende da troppi fattori, e che l’esito generale della lotta può essere previsto solo considerando che a lunga scadenza il capitalismo stesso sta educando ed addestrando alla lotta l’enorme maggioranza della popolazione del globo.
In ultima analisi, l’esito della lotta sarà determinato dal fatto che la Russia, l’India, la Cina, ecc. assommano l’enorme maggioranza della popolazione del globo. E negli ultimi anni è questa maggioranza che è entrata in lotta per la propria liberazione con una rapidità straordinaria, sicché in questo senso non può sorgere ombra di dubbio su quale sarà il risultato finale della lotta mondiale. In questo senso, la vittoria completa del socialismo è senza dubbio pienamente assicurata.
Ma quel che ci interessa non è l’inevitabilità di questa completa vittoria del socialismo, ma la tattica alla quale noi, Partito Comunista Russo, noi, potere sovietico della Russia, dobbiamo attenerci per impedire agli Stati controrivoluzionari dell’Europa occidentale di schiacciarci. Per assicurare la nostra esistenza sino al prossimo conflitto militare tra il controrivoluzionario Occidente imperialistico e l’Oriente rivoluzionario e nazionalista, tra i paesi più civilizzati del mondo e gli Stati arretrati d’Oriente che, però, costituiscono la maggioranza, questa maggioranza deve diventare civile. Anche noi manchiamo di un grado sufficiente di civiltà per poter passare direttamente al socialismo, benché ne abbiamo le premesse politiche. Noi dovremmo attenerci a questa tattica, ovvero attuare la politica seguente, per salvarci.
Ci dobbiamo sforzare di costruire uno Stato nel quale gli operai mantengano la direzione dei contadini, nel quale godano della fiducia dei contadini, e con le più grandi economie eliminino ogni traccia di sperpero dai nostri rapporti sociali.
Dobbiamo ridurre il nostro apparato statale al massimo grado di economie. Dobbiamo eliminare ogni traccia di sperpero, del quale la Russia zarista ci ha lasciato in eredità in così larga misura, nel suo apparato statale burocratico capitalistico.
Non sarà questo il regno della grettezza contadina?
No. Se la classe operaia manterrà il suo controllo sul contadiname, avremo la possibilità, gestendo con la massima parsimonia la vita economica del nostro Stato, di destinare ogni più piccolo risparmio allo sviluppo della nostra grande industria meccanica, allo sviluppo dell’elettrificazione, dell’estrazione idraulica della torba, a completare la centrale elettrica del Volkhov, ecc.
In questo, e solo in questo, è la nostra speranza. Solo quando avremo fatto questo saremo, per dirla con una metafora, in grado di cambiare cavallo, dalla povera rozza contadina del mugik, dal ronzino dell’economia propria di un paese contadino rovinato, al cavallo che il proletariato cerca e deve cercare – il cavallo della grande industria meccanica, dell’elettrificazione, della centrale elettrica del Volkhov, ecc.
Ecco come nella mia mente lego il piano generale del nostro lavoro, della nostra politica, della nostra tattica, della nostra strategia con i compiti dell’Ispezione Operaia e Contadina riorganizzata. Ecco che cosa, secondo me, giustifica le cure eccezionali, l’attenzione eccezionale che noi dobbiamo dedicare all’Ispezione Operaia e Contadina, ponendola su un piano eccezionalmente elevato, dandole dei dirigenti che abbiano gli stessi diritti del Comitato Centrale, ecc., ecc.
Tale giustificazione consiste nel fatto che soltanto epurando completamente il nostro apparato di governo, riducendo al massimo tutto ciò che non vi è di assolutamente necessario, saremo veramente in grado di resistere. Inoltre, saremo in grado di resistere non già restando al livello di un paese a piccola economia contadina, al livello di una ristrettezza generale, ma a un livello che sicuramente procede verso la grande industria meccanica.
Ecco quali sono gli altri compiti che immagino per la nostra Ispezione Operaia e Contadina. Ecco perché sto prevedendo la fusione del più autorevole organismo del Partito con un “semplice” Commissariato del Popolo.
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Sull’indipendenza del Kurdistan irakeno, e sul petrolio, decidono gli eserciti non un referendum
Il referendum fra le forme di consultazione democratica è quella che maggiormente si presta a dare l’illusione di esprimere la cosiddetta volontà popolare. Quando non si tratta di eleggere rappresentati negli organi rappresentativi, la lusinga che il “cittadino” possa fare valere le proprie istanze infilando una scheda nell’urna, ha presa sui delusi dai partiti e dalla politica borghesi. Se questo è vero nei paesi di più antico capitalismo, dove lo spettacolo offerto dal ceto politico e dai suoi maneggi è oltre i limiti dell’oscenità, non stupisce se in un paese come l’Iraq, in cui storicamente l’involucro politico della democrazia non ha mai celato la dittatura statale, l’istituto del referendum possa sedurre i ceti medi e alcuni settori della classe lavoratrice, i quali ancora non hanno avuto il tempo di fare i conti con la dura realtà dell’inganno elettorale.
Nel caso del referendum per l’indipendenza che si è celebrato il 25 settembre nel Kurdistan iracheno si è giocata una partita che va al di là della semplice gestione del consenso politico interno.
Tale “regione autonoma” ha visto un allentamento dei suoi legami col potere centrale dello Stato iracheno da molti anni, a essere precisi sin dal 1991 quando, con la prima guerra del Golfo, l’intervento di una coalizione a guida statunitense aveva istituito una zona di interdizione al traffico aereo, la no fly zone, che aveva impedito agli aerei di Baghdad di intervenire nella regione, dando così l’occasione alle milizie dei peshmerga curdi di sottrarre al controllo del governo centrale iracheno tre provincie del Kurdistan (Erbil, Dahuk e Sulaymaniyya). Questo ha permesso da allora di impiantarvi un embrione di Stato, che si rafforzò ulteriormente dopo la seconda guerra del Golfo, che nel 2003 portò al rovesciamento del regime del partito Ba’ath.
Stando così le cose, quando il governo del Kurdistan iracheno, con sede a Erbil e guidato da Mas’ud Barzani, nei primi mesi del 2017 ha deciso di accelerare i tempi per celebrare il referendum indipendentista, la nascita di un nuovo Stato avrebbe potuto apparire solo una ratifica dello status quo.
Ma le cose non erano così semplici. In realtà l’obiettivo del principale partito curdo, il Partito Democratico del Kurdistan, guidato dallo stesso Barzani, era quello di includere nel nuovo Stato, oltre alle tre province che costituivano tradizionalmente la regione autonoma, anche quei territori che le milizie curde dei peshmerga di recente avevano sottratto con le armi al controllo del sedicente Stato Islamico, che però in precedenza, anche dopo la caduta del regime ba’athista, erano rimaste sotto il controllo del governo di Baghdad. Bisogna inoltre considerare che queste aree acquisite manu militari dai peshmerga non vedevano una preponderanza etnica dell’elemento curdo e una di queste, il governatorato di Kirkuk, rivestiva un’importanza particolare perché vi si trova il maggiore giacimento petrolifero dell’Iraq e da lì parte un importante oleodotto che convoglia il greggio attraverso la Turchia fino al porto di Ceyhan, sul Mediterraneo. A questo occorre aggiungere che tale area, la quale storicamente era per eccellenza multietnica dato che vi abitano arabi, curdi, turkmeni e assiri, in seguito alle politiche governative del regime ba’athista, aveva visto il rafforzamento dell’elemento etnico arabo a scapito delle componenti curda e turkmena, le quali avevano subito un forte ridimensionamento.
Dunque l’entità statuale di fatto del Kurdistan iracheno aveva tentato una politica espansionista per accaparrarsi una parte cospicua della rendita petrolifera, contesa allo Stato iracheno. Un tale proposito veniva confessato in qualche modo anche nel quesito referendario scritto in quattro lingue (curdo, arabo, turkmeno e neo-aramaico): «Volete che la regione del Kurdistan e le zone curde al di fuori dalla regione diventino uno Stato indipendente?».
Questo atteggiamento da parte del governo di Erbil ha precluso ogni possibilità di mediazione con quello di Baghdad e ha aperto la strada alla prova di forza militare. Così a metà di ottobre, poche settimane dopo il referendum, che, come prevedibile, aveva visto una schiacciante prevalenza dei voti a favore dell’indipendenza (92,73%), si è arrivati a uno scontro diretto fra le truppe di Baghdad, coadiuvate dalle milizie sciite e quelle turkmene, e i peshmerga, fedeli al governo del Kurdistan. Quest’ultimi hanno presto avuto la peggio subendo anche numerose perdite.
Ma c’è un altro elemento destinato a pesare negativamente sul governo di Erbil. Il successo dell’attacco lanciato dall’esercito iracheno è stato dovuto anche ad una defezione in campo curdo: le milizie dell’Unione Patriottica del Kurdistan, la seconda forza politica curda per importanza, si sono ritirate dal teatro delle operazioni, cedendo alle pressioni del governo di Baghdad.
Questa dura sconfitta del Partito Democratico del Kurdistan ha costretto il suo capo indiscusso Mas’ud Barzani alle dimissioni dalla carica di presidente del Kurdistan Iracheno, aprendo una crisi politica di difficile soluzione, la quale si inserisce in un quadro di marasma economico e sociale. Infatti, se per molti anni il Kurdistan iracheno, grazie alla ricca industria estrattiva, era riuscito ad attrarre capitali e forza lavoro, negli ultimi anni questa prosperità è diventata un ricordo, sia a causa del ribasso del prezzo del petrolio sia delle conseguenze della guerra contro lo Stato Islamico.
Come sempre gli Stati capitalistici, siano essi riconosciuti internazionalmente o entità di fatto, tentano in ogni modo di scaricare le conseguenze della crisi di accumulazione del capitale sugli Stati rivali più deboli. Nel caso iracheno una disputa sulla quota dei proventi del petrolio che Baghdad avrebbe dovuto versare nelle casse del governo del Kurdistan, il quale a più riprese ha dovuto per questo ritardare i pagamenti ai dipendenti pubblici. Questo ha fatto sì che in varie ondate nel 2015 e nel 2016 si è assistito a scioperi che hanno coinvolto molte categorie di lavoratori, prevalentemente, ma non esclusivamente, nel settore statale dell’economia.
Ora la borghesia curdo-irachena dovrà fronteggiare la propria crisi politica cercando di riannodare quelle alleanze internazionali che si erano sospese nel momento del referendum, osteggiato da tutte le potenze coinvolte nella contesa mediorientale, con la sola eccezione di Israele. Una volta sfumata la prospettiva di uno Stato indipendente riconosciuto internazionalmente, il governo del Kurdistan, ridotto a un piccolo vaso di coccio fra i vasi di ferro delle potenze globali e regionali, sarà condannato a spremere ancora di più il proletariato locale, il quale comunque non avrebbe avuto nulla da guadagnare da una eventuale indipendenza.
Come abbiamo ribadito più volte la nostra corrente politica considera ormai chiusa, anche nell’area del Medio oriente, la fase in cui le nazioni possono rivendicare la loro autodeterminazione. Questo vale oggi in particolare per il Kurdistan iracheno, aborto di Stato petrolifero borghese, che già in embrione porta tutte le magagne di un capitalismo ovunque decrepito e prossimo alla decomposizione finale.