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Da anni le condizioni di vita e di impiego dei lavoratori sono in continuo peggioramento, sottoposte all’attacco della classe capitalista – nazionale ed internazionale – che nasconde la sua dittatura sulla classe lavoratrice attraverso il falso ed ingannevole teatrino democratico che serve solo a far girare i burattini che si avvicendano al governo.
Il cosiddetto Decreto “sicurezza”, recentemente varato dal Governo giallo-verde, svela il vero volto della classe dominante costretta a ridurre i cosiddetti “spazi democratici” per dividere la classe lavoratrice e reprimerne le lotte. Esso va infatti contro le lotte dei lavoratori, trasformando i blocchi stradali in reati penali, punibili con la reclusione fino a 6 anni (12 per gli organizzatori); inasprendo le pene contro gli occupanti di case, estendendo l’applicazione del “DASpo urbano”. Allo stesso tempo attacca l’unità tra operai autoctoni e immigrati, costringendo questi ultimi alla illegalità, eliminando il permesso per protezione umanitaria, il principale canale di regolarizzazione dei richiedenti asilo; inoltre raddoppia da 3 a 6 mesi il periodo massimo di detenzione nei CPR per l’identificazione ed espulsione e prevede la revoca del permesso di soggiorno e anche della cittadinanza agli immigrati accusati o condannati per alcuni reati.
Questo decreto non serve a respingere gli immigrati ma solo a rendere la loro condizione più dura e precaria, a rendere i lavoratori più ricattabili e quindi più sfruttabili, col lavoro a nero, senza contratto, senza regole, per salari da fame.
La questione infatti non è se accogliere o respingere gli immigrati. L’immigrazione dai paesi devastati dallo sfruttamento economico degli Stati imperialisti che produce guerre, carestie, fame, è un processo inarrestabile che riguarda decine di milioni di persone in ogni parte del mondo e non esistono muri o barriere che possano fermarla.
La questione centrale per il proletariato è quella di trovare l’unità nella lotta, sindacalizzare i lavoratori immigrati, lottare insieme per superare ogni divisione che possa fomentare la concorrenza al ribasso fra proletari, esigere per loro la possibilità di avere il permesso di soggiorno e la cittadinanza per sfuggire ai ricatti padronali.
Combattere la propaganda razzista opponendole una propaganda antirazzista sul piano umanitario, come fa la Chiesa, è insufficiente e non può che condurre al fallimento perché significa non saper riconoscere il vero obiettivo della classe dominante, che non è l’affermazione dell’infame ideologia razzista in sé, ma il suo utilizzo per dividere la classe lavoratrice, mantenerla oppressa e sfruttarla di più.
I lavoratori immigrati sono una “risorsa” per ogni borghesia nazionale fintantoché essa riesce a sfruttarli di più di quanto già non faccia con quelli autoctoni. Ma essi sono una “risorsa” anche per il movimento operaio in generale quando lavoratori autoctoni e immigrati lottano insieme per gli stessi obbiettivi di classe.
Il terreno vincente su cui rispondere all’attacco del padronato e delloStato è quello della lotta e dell’unità dei lavoratori, al di sopra di ogni divisione, per i loro obiettivi generali, di classe:
– forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate;
– riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per tutta la classe lavoratrice;
– salario pieno ai lavoratori licenziati (non “reddito di
cittadinanza” vincolato alla accettazione di lavori a basso salario ed utile quindi anche questo ad abbassare il salario medio);
– abbassamento dell’età pensionabile.
Queste rivendicazioni, per il loro carattere generale, hanno un intrinseco valore politico, che non è quello di essere contro un governo di questo o quel colore ma contro l’intero regime borghese. Esse però possono essere portate avanti solo da un forte movimento sindacale in grado di dispiegare lotte generali e ad oltranza.
Per questo è sempre più urgente e necessario superare la divisione che passa all’interno del sindacalismo di base e di cui anche questa manifestazione è un risultato essendo stata indetta dalla sola USB! L’unità nelle lotte del sindacalismo conflittuale (dei sindacati di base e delle correnti di classe dentro la Cgil) inferirebbe infatti un duro colpo al muro che i padroni vogliono erigere per dividere i lavoratori italiani da quelli immigrati; sarebbe il miglior modo per dare forza all’autentico sindacalismo di classe all’interno del sindacalismo di base e per sconfiggerne le dirigenze opportuniste.
L’economia capitalistica va verso il suo crollo per la inevitabile crisi di sovrapproduzione di merci e capitali e per il calo inesorabile del saggio del profitto. L’unica soluzione che hanno a disposizione le borghesie di tutti i paesi contro il catastrofico blocco dei mercati globali è scatenare una nuova guerra, un nuovo macello mondiale per distruggere le merci in eccesso, mettendo il proletariato dei diversi Stati
una volta l’uno contro l’altro. A questo scopo per esse è fondamentale tornare alla propaganda nazionalista, populista, "sovranista" che non a caso inizia a prendere piede in ogni paese e che ha fra i suoi pilastri la paura e l’odio verso gli stranieri e verso gli immigrati.
L’importanza dell’unità internazionale del movimento operaio è dimostrata anche dal movimento dei “Gilet gialli” che in queste ultime settimane ha scosso la Francia e che per tanti falsi sinistri rappresenterebbe addirittura l’anticamera della rivoluzione. In quel movimento i proletari sono presenti solo individualmente, non sono inquadrati nelle loro organizzazioni economiche, non sono guidati dal loro partito politico. È vero che la ripresa della lotta di classe, dopo tanti anni di controrivoluzione e tradimenti, non può che passare forzatamente attraverso movimenti spontanei al di fuori di ogni organizzazione, ma se il movimento di lotta non si dà un’organizzazione sindacale di classe, rivendicando la sua natura proletaria, e non si ricollega al partito, non potrà che cadere preda della reazione borghese e i lavoratori subiranno una dolorosa sconfitta.
Anche per questo l’unità fra lavoratori in ogni paese e al di sopra dei confini nazionali è vitale, perché oppone in concreto alla propaganda nazionalista e patriottica la pratica dell’internazionalismo proletario, della lotta rivoluzionaria e internazionale, al di sopra di ogni frontiera, per abbattere il regime del capitale.
I proletari non hanno patria!
L’accordo sulla separazione stipulato tra il governo conservatore di Teresa May e l’Unione Europea non sembra offrire alcuna soluzione al groviglio di questioni che la Brexit comporta.
È significativo che sia il Partito Conservatore sia il Laburista non siano riusciti a prendere una posizione interna univoca sulla rilevante questione! Ma non perderemo qui tempo sulla volgare aritmetica parlamentare, che rende apparentemente impossibile qualsiasi soluzione, né ci perderemo nei dibattiti su un possibile ulteriore referendum, sulle dispute legali e costituzionali, ecc.
Di maggior interesse sono i fattori economici che hanno portato a questa impasse. Una parte significativa della classe dominante britannica credeva che uscire dall’Unione fosse facile come passare da una porta aperta lasciandosi dietro quelle regolamentazioni che ritenevano frenassero la competitività della loro economia. Questo punto di vista, benché falso, è un riflesso del crescente contrasto e rivalità fra il Regno Unito e la gran parte dell’Europa continentale, a guida tedesca, e il disallineamento delle economie provocato dal permanere della Gran Bretagna fuori dall’eurozona.
Di fatto però il Regno Unito non ha varcato una porta verso un futuro migliore ma si è infilato in un intricato labirinto di difficoltà privo di alcuna facile via di uscita.
Da quando negli anni Ottanta la Gran Bretagna ha smantellato il grosso della sua poco profittevole industria pesante, mantenuta dagli aiuti statali, gli investimenti sono passati al settore dei servizi, largamente dipendente dalle esportazioni. Trasformazione questa che è stata resa possibile soltanto infliggendo una dura sconfitta alla classe operaia, notoriamente ai siderurgici nel 1980 e ai minatori nel 1984-1985.
Questa evoluzione ha facilitato il capitalismo inglese nell’attrarre investimenti esteri, specialmente grandi aziende globali interessate a vendere all’interno dell’Unione Europea. Ma proprio per questo diventa difficile assai l’operazione di uscita della Gran Bretagna dall’UE, in presenza di una forte resistenza delle grandi aziende ad una qualunque Brexit che restringa l’accesso al mercato unico europeo o agli altri mercati stranieri che si rendano accessibili attraverso accordi di libero scambio stretti con l’Unione.
Ironicamente fu Margaret Thatcher a premere risolutamente per il mercato unico, anche se oggi la sua retorica nazionalista viene spesso evocata dai sostenitori della Brexit per lamentare che dal mercato unico trarrebbe più vantaggi la Germania che la Gran Bretagna.
Gran parte dell’economia inglese è intrinsecamente legata all’Unione Europea. Prendiamo un esempio spesso riportato dalla stampa britannica: l’albero motore montato sulla Mini, l’iconico marchio “britannico”, oggi di proprietà della tedesca BMW, attraversa la Manica ben tre volte percorrendo 2.000 miglia prima che l’automobile finita possa uscire dalla linea di produzione. Lo stesso è per altri componenti della Mini e per altri impianti di produzione di componenti automobilistici in Gran Bretagna.
Il Regno Unito è il secondo paese in quanto a investimenti diretti giapponesi all’estero, costituendo un importante partner economico per il Giappone. Nel settore dell’auto produttori giapponesi come Nissan e Toyota costituiscono più del 40% della produzione britannica e danno occupazione a 140.000 lavoratori. Ma tutto ciò dipende dalla possibilità di effettuare consegne secondo il just-in-time, con scambi liberi in un mercato unico e senza impicci doganali.
Altri settori come l’aerospaziale, la ricerca scientifica e il settore farmaceutico hanno un’altrettanto forte dimensione pan-europea. Se la Gran Bretagna dovesse lasciare l’Unione Europa senza un accordo, affidandosi all’Organizzazione Mondiale del Commercio (quindi alle regole dell’OMC), come vorrebbero i sostenitori della Brexit, le aziende di questi settori potrebbero scegliere di dirottare gli investimenti verso altri paesi europei.
Nel frattempo il capitale francese e tedesco, al fine di proteggere “l’integrità del mercato unico” (cioè gli interessi delle rispettive borghesie nazionali) hanno minacciato misure di ritorsione qualora il Regno Unito provasse ad opporsi o a danneggiare il capitalismo dell’Unione. Per esempio la Francia ha ripetutamente minacciato di dispiegare un sistema di controlli di frontiera al fine di turbare i traffici commerciali, il che, potenzialmente, potrebbe trasformare le autostrade del Kent e del Sud-Est dell’Inghilterra in immensi parcheggi. Il Presidente Macron ha anche detto che la Francia potrebbe ignorare qualsiasi regolamento sull’accesso alle acque costiere: il settore della pesca, benché quota insignificante del PIL britannico, ha assunto un grande peso fra le emozioni suscitate dai più combattivi sostenitori della Brexit. Nel frattempo Irlanda e Francia hanno progettato l’apertura di nuove linee marittime per evitare di utilizzare il Regno Unito come ponte per il continente.
E questa è la situazione solo per l’industria manifatturiera e lo scambio di
merci materiali. Ma si pongono interrogativi anche sul futuro del settore dei
servizi, in particolare quello finanziario. Benché costituisca solo il 6,5%
della produzione totale, interessa 1,1 milioni di posti di lavoro. Il 44% dei
servizi finanziari esportati e il 39% di quelli importati sono legati all’Unione
Europea. Questo business inoltre dipende dall’osservanza del pacchetto normativo
dell’Unione Europea.
Immigrazione capro espiatorio
Queste sono le considerazioni che stanno dietro alla proposta della May, che di fatto lega il Regno Unito al mercato unico dell’Unione Europea e alle regole doganali per il futuro prossimo, pur concedendo qualcosa alle rivendicazioni dei sostenitori della Brexit, in particolare in merito alla libera circolazione dei lavoratori.
L’immigrazione è stato un elemento chiave nella campagna politica per la Brexit, condotta da populisti quali Nigel Farage e sostenuta dai capitalisti poco o per nulla interessati all’Unione Europea.
Effettivamente pare che ci sia stato un “effetto Brexit” sull’immigrazione. I numeri pubblicati a fine novembre dall’Office for National Statistics mostrano che l’immigrazione netta dall’Unione Europea è tornata al minimo degli ultimi 6 anni, mentre l’immigrazione non europea è al massimo da più di un decennio. Vi sono stati 74.000 cittadini europei immigrati dall’UE più di quanti siano partiti dal Regno Unito verso altri paesi dell’UE, il valore questo più basso dal 2012. Per contro l’immigrazione non europea netta è ai livelli massimi dal 2004, contando 248.000 cittadini non europei in più di quanti ne siano partiti.
La verità ovviamente è che l’immigrazione è guidata soprattutto dal mercato del
lavoro. Il fare degli immigrati un capro espiatorio, con le annesse
argomentazioni populiste, è solo espressione dell’incapacità del modo di
produzione capitalistico di offrire soluzioni al suo disfacimento economico.
Il confine con l’Irlanda
L’attuale bozza di accordo di uscita è quindi un confuso compromesso atto a far guadagnare tempo al Regno Unito, un periodo di transizione durante il quale negoziare un trattato di libero scambio con l’Unione Europea, dandole nel frattempo mano libera per stringere patti commerciali con altri paesi e blocchi economici, come gli Stati Uniti (benché il presidente Trump abbia già chiarito di non voler concedere al Regno Unito trattamenti di favore se accetta la bozza di accordo con l’UE).
Dunque il meglio che possono sperare i borghesi del Regno Unito al momento è di aggrapparsi agli esistenti accordi di libero scambio con l’Unione Europea.
Anche il cosiddetto backstop del confine irlandese potrebbe tenere il Regno Unito legato al mercato unico e ai regolamenti doganali dell’Unione per il prossimo futuro. Il che costituisce un anatema per gli unionisti dell’Ulster e per i sostenitori della Brexit.
Secondo l’accordo, l’Unione Europea e il Regno Unito stabiliscono di “adoperarsi al meglio” per siglare un trattato di libero scambio nei sei mesi che precedono il termine del periodo di transizione nel dicembre del 2020; ma se non sarà così l’Unione Europea e il Regno Unito potrebbero di comune accordo estendere lo scadere del periodo di transizione a data non specificata. Altrimenti entrerebbe in azione la soluzione del backstop per il confine fra Irlanda e Irlanda del Nord, atta a prevenire squilibri nella zona di confine. Il backstop costituirebbe «un territorio a regime doganale unico fra l’Unione e il Regno Unito», con applicazione a partire dalla fine del periodo di transizione, «a meno che e fintantoché (...) un ulteriore accordo diventi applicabile».
Il territorio a regime unico doganale riguarderebbe tutti i tipi di merci, esclusi i prodotti ittici, con «adeguata osservanza degli accordi e degli appropriati meccanismi di esecuzione al fine di assicurare una equa competizione fra il Regno Unito e il mercato della comunità allargata (UE27)».
Ci saranno necessariamente dei controlli in più di tipo non doganale su alcuni tipi di merci in transito fra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito, il che non sarà gradito al Partito Unionista Democratico che si è recentemente opposto a qualsiasi tipo di trattamento differenziato per l’Irlanda del Nord.
Quanto alla possibilità di recedere dal backstop, l’accordo afferma che «quando una parte considerasse il backstop non più necessario, lo può notificare all’altra» esponendo le proprie ragioni. A quel punto una commissione mista dovrà essere convocata entro sei mesi ed entrambe le parti dovranno sottoscrivere un accordo di recessione.
I sostenitori della Brexit hanno coerentemente argomentato che la Gran Bretagna
dovrebbe poter uscire quando e come vuole da qualsiasi regolamento doganale che
interessi i territori del Regno Unito, se e quando volesse stipulare accordi di
libero commercio nel restante mondo.
La necessaria risposta di classe
Dunque al momento nessuna delle opzioni può soddisfare la borghesia inglese.
L’accordo della May ha ricevuto un tiepido sostegno dalla City di Londra e dall’organizzazione padronale, la CBI, come soluzione “la meno peggio”. Pochi desiderano uscire dall’Unione Europea senza aver raggiunto un accordo.
Un altro referendum creerebbe ulteriore scompiglio politico, mentre una drastica inversione di rotta sulla Brexit consegnerebbe la Gran Bretagna in mano ai rivali economici: i termini per ritornare nell’Unione Europea potrebbero essere peggiori degli attuali.
Tutte queste “scelte” devono ovviamente essere viste nel contesto della crisi globale del capitalismo e delle sue crescenti rivalità nazionali.
Quel che è certo è che nessuno dei partiti borghesi (siano essi dell’establishment tradizionale o populisti) può offrire una soluzione in qualche modo minimamente vantaggiosa per la classe operaia. Qualsiasi tesi volta a sostenere che l’integrazione economica o l’unificazione dell’Europa attraverso la costruzione di istituzioni statali europee possa essere una base per il socialismo, o in alternativa, che possa esserci una “Brexit socialista”, altro non è che opportunismo di basso rango.
Ora più che mai la classe operaia britannica deve perseguire una propria prospettiva di classe, solidale alla classe lavoratrice di Europa e oltre il continente europeo. Soltanto allora potrà trarre beneficio dalla confusione e discordia fra i suoi nostri nemici.
L’unica via di uscita dal labirinto della Brexit è gettare a mare europeisti ed anti-europeisti, assieme al resto del capitalismo!
La fine dell’anno per il mondo capitalistico è sempre un tempo di bilanci: si chiude un esercizio, commerciale, finanziario, di produzione, si valuta quanto guadagnato o perso, le partite non chiuse si “portano a rateo” per l’anno a venire e si fanno previsioni per il futuro.
Per l’anno passato il Fondo Monetario Internazionale ci ha fornito un’anticipazione dei suoi consuntivi, e la solita previsione – outlook – per quel che si aspetta nel futuro prossimo.
Bene, la crescita dell’economia mondiale, dopo una decisa salita nel 2017, ha marcato nel 2018 un certo rallentamento, portandosi ad un valore non alto ma stabile, +3,7%, almeno fino ad inizio estate; per il 2019 si prevede un tasso similare.
Dettaglio di poco conto: questo è un tasso medio, non per tutto il mondo è andata così. Ma quel che veramente conta è lo stato generale delle grandi economie mondiali, le altre dovranno adeguarsi, e la cosa non si presenta per niente semplice, perché il rialzo dei tassi dei titoli di Stato americani li costringeranno ad aumentare i rendimenti delle loro obbligazioni, con conseguente aumento del loro debito. Per ora queste sono considerazioni che stanno in secondo piano e le dinamiche economiche e finanziarie di Stati come Argentina, Turchia, o Brasile saranno da gestire se e quando se ne presenti la necessità e la possibilità.
Il dato che appare significativo è che l’economia americana abbia continuato a crescere, senza una recessione, segnando un lungo periodo di espansione.
La diminuzione delle imposte societarie e l’aumento della spesa pubblica, forzando la domanda di beni e servizi con il continuo gigantesco aumento del volume del debito federale, avrebbe favorito una crescita che ha segnato il miglior risultato da un decennio. Secondo le proiezioni FMI “almeno fino al 2020” l’economia americana continuerà a crescere.
Per la verità i grafici presentati dal FMI non sembrano dar troppo credito a queste previsioni, e all’ottimismo che ne deriva.
Ci sono appunto, oggettivamente, alla scala mondiale tre principali criticità, anche in una prospettiva a breve, che agitano le dinamiche economiche, politiche e finanziarie di questi tempi e sono tutti dati noti e certificati. Stati Uniti, Cina e Germania, che è il pilastro dell’Europa comunitaria, mostrano contemporaneamente, questo è il punto focale, segnali di rallentamento più o meno accentuato, che per la Germania sono più vicini ad una situazione recessiva.
Se queste previsioni si concretizzeranno in senso negativo, o se accordi, minacce, trattati, misure straordinarie di finanza riusciranno a mantenere lo status quo almeno per l’anno a venire, non è al momento ben definibile.
Ci limitiamo ad osservare che le recenti oscillazioni della politica monetaria della FED, con la minacciata continuazione alla stretta dell’espansione del credito, indicano una situazione interna conflittuale, che si accorda con le minacce di inasprimento del commercio con l’estero e con i tentativi di accordi commerciali con la Cina, penalizzata nel suo export dalle barriere doganali.
Lo stesso effetto critico vale per la Germania, già in difficoltà per le restrizioni dei suoi commerci con la Russia. L’esportazione di prodotti energetici dalla Russia è ostacolata da meccanismi di feroce concorrenza.
Quel che appare chiaro è che i “mercati interni” sono ormai incapaci di assorbire i prodotti e realizzarne il valore, e che l’unica possibilità è l’espansione del commercio estero. Questo è il dato centrale delle crisi, siano esse più o meno ampie. Questa evidenza nasconde nella forma della sovrapproduzione l’incapacità per il capitalismo di valicare i limiti del suo produrre, valorizzare ed infine realizzare profitto ad un tasso, se non crescente, almeno stabile.
Su tutto domina un fattore di peso immane, la massa del debito, debito “reale”, ammesso che questa definizione abbia senso, debito cioè prodotto da richiesta di capitali da parte degli Stati, delle industrie, piccole, grandi e “conglomerate”; infine dei privati.
In questa massa non si dovrebbe calcolare, anche se appare quasi impossibile, il “capitale fittizio”, cioè il valore facciale di tutta la montagna virtuale di titoli, che sale e scende con movimenti apparentemente imprevedibili e brucia o genera utili di natura altrettanto virtuale, nel senso che non sono prodotti in un processo di generazione e realizzazione di valore, ma sono quote che solo “cambiano di mano”. È una fornace nella quale alla fine converge tutto ciò che non si può più realizzare come profitto.
Ivi compresi i cosiddetti “derivati”, in tutte le loro forme che non hanno limite se non nella fantasia di chi li confeziona e nella forsennata logica speculatoria di chi li usa, contratti-scommessa sul verificarsi o meno di eventi finanziari, usati nella roulette delle borse per aumentare la posta in gioco, o per mettersi parzialmente al riparo da situazioni negative, “scommettendo contro se stessi”.
Strumenti virtuali che hanno, se possibile, ancor meno sostanza dei meccanismi finanziari su cui si fondano; ma che costituiscono, e qui sta la follia anche contabile della fase finale del capitalismo, parte significativa ma perfettamente ragionevole dei bilanci del sistema bancario e finanziario, il cui surplus contabile viene così ingigantito.
Meccanismi omologhi si presentano anche per le grandi “conglomerate”, che riacquistano le loro azioni ed obbligazioni (buy back), cioè il debito che hanno emesso, con l’immane liquidità che hanno “in cassa”, perché è un “debito” il cui “valore” è cresciuto nel tempo: e questo senza alcuna trasformazione reale nel processo produttivo. Si scambiano cioè contanti contro debito, ed i bilanci crescono.
È un processo fondato sugli specchi, che va avanti sintantoché le condizioni generali del sistema finanziario lo permettono, crescita costante, o brevi-medi periodi di “piatta”, o brevi periodi di cadute dei listini.
I cosiddetti “mercati”, cioè nell’accezione ormai comune di “sistema mondiale di speculazione finanziaria”, sono, nel loro oscillare alle volte contenuto, alle volte spropositato, l’indice immediato dello stato febbrile del capitalismo; le loro fasi euforiche, crescita dei listini e del valore nominale di tutta la massa di carta che li costituisce, o quelle depressive fino ai crolli subitanei, spesso rappresentano gli eventi guida di anticipazioni della situazione di crisi.
Anche ampie oscillazioni di breve periodo sono spesso meccanismi operati dai grandi investitori per indurre condizioni più favorevoli alla speculazione; le vendite allo scoperto, e tutte le manovre per “scommettere” ai danni di una controparte, fanno parte della normale prassi delle borse. I cosiddetti sistemi di vigilanza sono apparati messi per dare una vernice di “moralità” ad un meccanismo fuori da ogni ragionevolezza. Allora si dice, anche in perfetta buona fede, che le “crisi sistemiche” del capitalismo hanno origine e fondamento in questa dinamica di irrazionalità del profitto, in una sorta di mancanza di etica.
Poi vengono i fatti politici, e le decisioni degli Stati. Una stretta monetaria che riduce il “denaro facile” (gran parte usato, è ben chiaro, nella speculazione di quel genere), una stretta dei volumi delle esportazioni, uno scontro per l’approvvigionamento di materie prime, un cambio di personale politico che pare cambi regime, un collasso anche limitato di un ristretto settore del credito; la crisi che aleggia è pronta a scoppiare. È il “debito”! Il grido da tutte le parti, il debito è il primo pericolo.
Il 2019 si apre quindi con queste oscure premonizioni in un quadro che generalmente viene presentato in modo ottimistico; “tiene” lo stato generale economico dei Grandi, il commercio estero va “così così”, ma alla fine “si metteranno d’accordo”, le frizioni tra gli Stati saranno più o meno ricomposte, l’area monetaria del dollaro riuscirà a contenere l’attacco dello yuan come moneta di riserva, tutto sarà gestito. Ma il debito rimane la vera terribile minaccia a questo mondo, sta scritto in ogni documento, in ogni studio teorico, in ogni previsione di andamento della scommessa finanziaria.
È il concetto distorto e parziale che ha di sé il mondo borghese e dei sui teorici, che vedono il pericolo non ovviamente nel modo di produzione medesimo, ma nel suo eccesso, che la caduta del saggio di interesse rende, per un certo aspetto, necessario.
Da marxisti non dubitiamo che questa forma esteriore del procedere capitalistico rappresenti un detonatore, un innesco della crisi generale. Ma il debito è un dato di fatto, ma sappiamo che continuerà tranquillamente a crescere finché “qualcos’altro” lo renderà intollerabile, ed allora questa massa immane darà il suo contributo determinante al crollo.
Nel 2018 l’apparato di controllo del sistema delle Banche Centrali ha lavorato a che l’impalcatura rimanesse in piedi. Alla fine dell’anno il perdurare di questi mezzi e provvedimenti avrebbe prodotto danni altrettanto gravi di quelli che si volevano scongiurare. Il progressivo “rientro” dal denaro facile ha indotto gravi turbamenti sul mercato finanziario, che ha giustamente previsto la stretta al suo evolvere: il dilemma delle autorità monetarie ha nuovamente allentato i vincoli che stavano ponendo, in una alternanza di ferma-vai che un perplesso 2019 capitalistico si trova in eredità; insieme ovviamente a tutti i problemi e contraddizioni che il 2018 aveva ricevuto dal 2017, e che nessun provvedimento è stato capace di risolvere.
Quanto possa durare questa giostra demente non è dato calcolarlo; solo si possono fare previsioni di massima, confrontando dati ed indici della produzione reale; che è il criterio principe con cui analizzare il processo del capitalismo, attività che il Partito prosegue sin dal suo sorgere.
Una cosa è certa. Seppur con andamento altalenante di cicli brevi di ripresa-recessione, è con il 2007 che si è aperta la fase più generale della grande crisi capitalistica, alla fine del quale ciclo si porrà l’alternativa: o guerra o rivoluzione. Rivoluzione, se il proletariato internazionale avrà saputo ritrovare il suo partito, avrà saputo ricostituire i suoi organi immediati di difesa, che il Partito avrà fatti propri come direzione.
Non ci sono alternative.
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Fin dalla sua prima affermazione la dottrina marxista aveva stabilito il ruolo delle diverse classi sociali nella rivoluzione democratico-borghese e i compiti del proletariato in quelle che definiamo rivoluzioni doppie: nel corso delle rivoluzioni anti-feudali il proletariato lotta contro i nemici dei suoi nemici, insieme a quelle classi sociali che hanno interesse a distruggere le sopravvivenze dell’antico regime, eliminando gli ostacoli allo sviluppo delle forze produttive e così favorendo il dispiegarsi delle condizioni oggettive necessarie per la trasformazione rivoluzionaria della società borghese. Nello stesso tempo aveva previsto e messo in guardia la classe operaia che la grande borghesia in un primo tempo, la piccola borghesia radicale poi, sarebbero arretrate di fronte al compito di spingere la loro rivoluzione fino in fondo, per paura di perdere i propri privilegi di classe, e avrebbero tradito e represso gli operai in nome della difesa del modo di produzione capitalistico e dell’ordine borghese.
Nell’Indirizzo del Comitato centrale alla Lega dei comunisti, del marzo del 1850, Marx ed Engels mettono in guardia gli operai sostenendo che «dal primo momento della vittoria la diffidenza non deve più rivolgersi contro il vinto partito reazionario, ma contro i propri alleati di ieri», perché «non appena i nuovi governi si saranno in un certo modo consolidati, incomincerà immediatamente la loro lotta contro gli operai», «il tradimento verso gli operai incomincerà con la prima ora della vittoria». La strada indicata al proletariato è quella della “rivoluzione in permanenza”: non fermarsi alla vittoria contro le forze e le istituzioni precapitalistiche ma andare oltre, abbattendo il potere di quelli che erano stati i vecchi alleati nella lotta contro le classi autocratiche, portando fino in fondo le rivendicazioni democratiche e le misure radicali, soprattutto in campo agrario, e addirittura saltando la fase borghese nel caso venga in soccorso la rivoluzione proletaria pura nei paesi capitalisticamente avanzati.
Il Partito del proletariato sa quindi fin da Marx ed Engels cosa attende la classe operaia, e Lenin ne restaura la validità per la situazione russa. Anche se la rivoluzione in Russia aveva un carattere democratico-borghese, Lenin non traeva, come i menscevichi, la conclusione che la classe operaia e il suo partito dovessero tenersene in disparte, lasciando alla borghesia il compito di fare la sua rivoluzione, o di mettersi al suo rimorchio, ma che era necessario mantenere la propria autonomia politica e mettersi alla testa della lotta rivoluzionaria.
Nella arretrata Russia zarista si erano formate isole concentratissime e ultramoderne di pieno capitalismo ed era sorto uno strato proletario che, sebbene in forte minoranza rispetto ad una estesissima popolazione contadina, era posto, date le condizioni di capitalismo avanzato in cui si trovava, sul terreno di una lotta di classe antiborghese e anticapitalista. La minacciosa presenza di questo proletariato era vista con terrore dalla borghesia russa, da qui il suo ruolo esitante a portare a termine la sua stessa rivoluzione, a spazzare via le vecchie istituzioni precapitalistiche.
Solo il proletariato poteva farlo, soltanto il proletariato era in grado di portare a termine la rivoluzione democratica, alla condizione che, come unica classe coerentemente rivoluzionaria dell’odierna società, trascinasse dietro di sé le masse contadine, dando alla loro lotta spontanea contro la grande proprietà fondiaria e lo Stato feudale una direzione politica.
Per Lenin tre sono gli imperativi per la tattica proletaria nella rivoluzione democratico-borghese: «1) riconoscere la funzione dirigente del proletariato, la sua funzione di guida della rivoluzione; 2) riconoscere come fine della lotta la conquista del potere da parte del proletariato, con l’aiuto delle altre classi rivoluzionarie; 3) sostenere che il primo, e forse unico, posto fra questi aiutanti spetta ai contadini» (“Il fine della lotta del proletariato nella nostra rivoluzione”).
Ma questi imperativi ne presuppongono un altro, cioè che il partito del
proletariato conservi la sua indipendenza programmatica, politica ed
organizzativa.
- Natura e prospettiva della rivoluzione in Cina e in Oriente
La questione si poneva in Cina come in Russia. Il ritardo più grande delle campagne cinesi era bilanciato da un enorme afflusso di capitale straniero in città come Shanghai, Hong Kong e Canton, che vi aveva permesso la nascita di un proletariato altamente concentrato. Come per la Russia, la situazione cinese, e in generale quella nei paesi coloniali, esaltava
più il ruolo di avanguardia del proletariato, dal momento che la borghesia nazionale dei paesi coloniali e semicoloniali, nel periodo storico in cui il proletariato agisce come forza autonoma, non è più come la vecchia classe borghese europea che ha lottato contro il passato feudale. Essa è strettamente legata al capitalismo internazionale sia nel campo economico sia in quello politico e, anche se aspira a darsi una struttura moderna, più rispondente ai propri interessi di classe, e quindi all’indipendenza e all’unificazione nazionale, è sempre assalita dalla paura di mettere in moto forze sociali non più controllabili.
In Cina era la stessa borghesia, che accumulando capitali nei traffici con gli stranieri, li aveva investiti nella terra e schiacciava i contadini con pesanti affitti e prestiti usurai. In Cina la borghesia non si era sviluppata, come la borghesia europea, in opposizione alle altre classi della vecchia società, ma come semplice appendice di quest’ultima, poiché si era innestata sulla casta dei mandarini attraverso il commercio della terra. La terra non era posseduta dal nobile feudale ma principalmente da una borghesia mercantile ed usuraia. L’oppressione esercitata sui contadini veniva da rapporti nettamente mercantili, in quanto la sproporzione tra l’enorme popolazione contadina e la terra disponibile permetteva di esigere affitti esorbitanti; inoltre la miserevole condizione del fittavolo lo metteva in condizione di dover chiedere in prestito il capitale d’esercizio, finendo nelle mani dell’usuraio.
Per questo in Cina non si poneva la questione di una rivoluzione agraria condotta dalla borghesia contro i feudatari. La borghesia non poteva liberare i contadini dalla loro servitù, poiché così facendo, disponendo essa delle terre e del capitale mercantile e usuraio, sarebbe andata contro i propri interessi. Se in Russia, come constatava Lenin, «la rivoluzione borghese è impossibile come rivoluzione della borghesia», a maggior ragione ciò valeva per la Cina.
Neanche la pressione dell’imperialismo rendeva la borghesia cinese più rivoluzionaria, in senso anti-coloniale, della borghesia anti-zarista russa, essendo la borghesia cinese legata all’imperialismo da vincoli più forti di qualunque aspirazione all’indipendenza.
Ma se alla borghesia non poteva essere affidata la realizzazione dei suoi stessi
obiettivi politici e nazionali, neanche si poteva attenderla dai contadini.
Nonostante l’enorme importanza della questione contadina la rivoluzione cinese
non poteva risolversi in una rivoluzione essenzialmente contadina. Dalle nostre
“Tesi sulla rivoluzione cinese”: «In passato tutte le rivoluzioni hanno messo in
moto il contadiname, in forme diverse, compresa l’organizzazione armata; tutte
hanno realizzato in gradi diversi profonde trasformazioni nell’agricoltura. Ma
il marxismo ha sempre sottolineato l’incapacità della classe contadina di avere
una politica propria. Esso ha dimostrato che le insurrezioni agrarie, parti
integranti delle rivoluzioni borghesi, sono riuscite unicamente muovendosi sotto
la direzione delle città e cedendo loro il potere (...) A tutti i campioni del “socialismo
contadino” che, in Russia come in Cina, ci rimproveravano di “sottovalutare” il
contadiname, noi abbiamo contrapposto questi insegnamenti del marxismo,
rispondendo che l’originalità delle rivoluzioni d’Oriente non risiede
nell’intervento armato delle masse rurali, ma nella prospettiva di una direzione
proletaria verso scopi che non fossero inevitabilmente borghesi».
- Le Tesi al Secondo Congresso
L’Internazionale Comunista, prima che cadesse sotto il controllo dello stalinismo, aveva delineato con chiarezza i compiti e le prospettive per la rivoluzione in Cina e negli altri paesi coloniali e semicoloniali. Secondo la visione del movimento comunista mondiale, l’attacco internazionale alle grandi centrali imperialistiche, prima fra tutte l’Inghilterra, doveva essere condotto integrando la rivoluzione unica, a finalità puramente proletarie, dell’Occidente con le incipienti rivoluzioni doppie dell’Oriente.
Era una visione grandiosa che estendeva la dottrina marxista delle rivoluzioni doppie oltre quelli che erano stati i tradizionali confini dell’Europa, proiettando sull’immensa arena mondiale quella lotta, annunziata da Marx ed Engels nel 1850, per la “rivoluzione in permanenza”, la cui direzione politica centrale è affidata al proletariato e al suo partito, anche se, nelle aree a capitalismo appena nascente, nel quadro di rapporti economici in prevalenza precapitalistici, questo si muove alla testa di forze non proletarie. In queste aree l’esile ma battagliero proletariato locale si trova a combattere insieme alla piccola borghesia urbana e soprattutto rurale, i cui obiettivi non possono non essere democratico-borghesi, ma con una situazione esplosiva dal punto di vista rivoluzionario per la presenza di masse contadine affamate di terra.
In questo contesto l’Internazionale Comunista basava la lotta rivoluzionaria nei paesi arretrati non su generici blocchi popolari e nazionali, ma sulle masse contadine, povere e semiproletarie e, prendendone la testa, ne indirizzava le rivolte armate non solo contro l’imperialismo ma contro le classi possidenti locali, la loro borghesia e i grandi proprietari terrieri. Altrimenti questi sarebbero stati pronti a servirsi dell’impeto rivoluzionario delle masse per strappare alla potenza coloniale una limitata libertà, per poi volgersi subito dopo contro quei loro stessi alleati, proletari e contadini, per schiacciarli e salvaguardare il proprio dominio di classe, non esitando a tal fine ad allearsi con l’imperialismo stesso nella disperata difesa del comune privilegio di classe.
Pertanto l’Internazionale Comunista estendeva all’Oriente, che si stava levando in lotta, quelle lezioni che in Europa erano state apprese nel sangue e che ai giovani partiti comunisti richiedevano di preservare la più rigorosa indipendenza politica ed organizzativa, mantenendo una netta delimitazione programmatica dai partiti nazionali borghesi, soprattutto se questi vestono panni demagogicamente “socialisti”.
Per quanto riguarda la rivoluzione cinese, lo stalinismo distrusse la prospettiva comunista concedendo alla borghesia cinese un ruolo di guida rivoluzionaria e subordinando il proletariato cinese e il Partito Comunista alla direzione del Kuomintang. E questo non fu un errore: era la controrivoluzione borghese che stava abbattendo il potere proletario in Russia e nello stesso tempo distruggeva la visione proletaria e comunista della rivoluzione mondiale, facendo dell’Internazionale Comunista non il Partito Mondiale del proletariato ma uno strumento da utilizzare per gli interessi dello Stato russo. La vittoria della controrivoluzione a Mosca trascinò dietro di sé la sconfitta della rivoluzione cinese.
Materiali per lo studio della rivoluzione ungherese
L’esposizione del lavoro è proseguita commentando la lettera scritta da Kun a Lenin il 22 aprile 1919 per informarlo dei fatti accaduti e delle difficoltà a cui andavano incontro.
«Gli ideologi borghesi arrivano difficilmente a capire come una rivoluzione si sia potuta realizzare in Ungheria in una maniera apparentemente così pacifica. E’ interessante vedere come sia proprio questo fatto ad influenzare di più i vari Scheidemann. Essi hanno considerato la nostra rivoluzione come un bluff nazionalista. Ma la nostra rottura radicale con il capitalismo ha fatto vedere chiaramente il carattere della nostra rivoluzione. D’altra parte, essi si renderanno conto dei suoi frutti. Senza dubbio, scorrerà del sangue nel corso della rivoluzione ungherese. La controrivoluzione comincia infatti a risollevare la testa.
«Noi siamo in una situazione critica. Ma, qualunque cosa accada, tutte le nostre azioni saranno dettate dagli interessi della rivoluzione mondiale. Neppure per un momento pensiamo di sacrificare gli interessi della rivoluzione mondiale a quelli di una sua parte. Anche se ci dovesse attendere una pace alla Brest-Litovsk, noi la concluderemo con lo stesso spirito che ha animato voi al momento della conclusione di quella pace.
«Non ha senso storico la concezione di coloro che giudicano la nostra rivoluzione esclusivamente in base alle circostanze particolari della sua realizzazione. Vi ho inviato i decreti che avevamo adottato, ma avrei desiderato che voi aveste visto, come in un film, gli avvenimenti di questi ultimi giorni: avreste potuto vedere che noi non solo proclamiamo la dittatura, ma anche che la esercitiamo effettivamente. Ciò che avete scritto nel vostro libro contro Kautsky sulla necessità della dittatura ci fornisce la linea direttiva nell’esercizio della dittatura. Non credo che trovereste da ridire su qualche nostro passo o provvedimento.
«Siamo alle prese con difficoltà più grandi di quelle che la Russia conobbe a suo tempo; la nostra situazione in politica estera è più critica. Credo tuttavia che, anche dal punto di vista dei princìpi più puri, nulla si potrebbe rimproverare alle nostre azioni».
Kun viene quindi ad accennare alle giustificazioni, che allora ritenevano valide, del blocco con il socialdemocratici, che poi sia lui sia Lenin ammetteranno essere stato un grave errore:
«L’accordo che abbiamo concluso, sulla base di un programma, è stato indubbiamente un accordo sui principi e sulla tattica e ha creato dunque un’unità vera. Gli elementi di destra sono stati allontanati dal partito e passiamo al setaccio, a poco a poco, la vecchia burocrazia sindacale».
Abbiamo proseguito illustrando l’intervento di Kun al Congresso nazionale del Partito il 12 e 13 giugno.
«Sul piano politico esigiamo un esercizio conseguente della dittatura. Spogliamo la borghesia dei mezzi per ristabilire la sua oppressione sul proletariato, la priviamo dei mezzi per ricrearsi un apparato di coercizione fisica e morale posto a suo servizio che le permetterebbe di restaurare il capitalismo e di ostacolare il corso dello sviluppo socialista. Questa è l’essenza della dittatura del proletariato. Ed è quindi, come era lo Stato borghese, un apparato d’oppressione. Ne differisce per i suoi obiettivi, poiché questo strumento d’oppressione non è destinato alla conservazione del potere, ma ha il compito di fare sparire qualsiasi oppressione e ogni potere. Questa è l’essenza che si è finora espressa nelle rivendicazioni politiche che il programma contiene (...)
«Come Marx ci ha insegnato nella sua critica al programma di Gotha, la dittatura costituisce il passaggio dal capitalismo al socialismo, primo stadio del comunismo. Durante questo periodo transitorio lo svolgimento coerente e risoluto della dittatura, e il compito di promuoverla con tutti i mezzi, competono al partito operaio rivoluzionario. La dittatura si fonda su un principio d’autorità. Come la democrazia in seno ai sindacati o in seno al Partito ha sempre bisogno di una certa autorità, così anche la dittatura ha bisogno d’autorità. La necessità di questa autorità si manifesta soprattutto e imperiosamente non nei confronti della massa appartenente alla nostra classe, ma nei confronti della massa borghese nemica, i cui interessi sono contrari ai nostri.
«Ogni esitazione significa un ammorbidimento dell’autorità della dittatura, e comporta per il proletariato uno spargimento di sangue superfluo. Una ammorbidita autorità della dittatura esercita meno terrore sulla borghesia, e così la controrivoluzione può con più facilità ergersi contro di noi. Se vogliamo che la rivoluzione non sia sanguinosa, che costi il minimo di sacrifici, e che – sebbene non conosciamo di sedicenti “umanità” poste sopra le classi – questa rivoluzione sia la più umana possibile, allora bisogna assicurare che l’esercizio della dittatura sia il più forte e il più energico possibile. Questo è il solo mezzo per evitare spargimenti di sangue proletario».
Fa seguito allo stesso Congresso una polemica con Kunfi che rivendicava un’attitudine più conciliante riguardo alla borghesia, per rimarcare l’imprescindibile programma d’azione rivoluzionario che il Partito deve attuare senza esitazione.
«Contrariamente al compagno Kunfi, non conosco morale comune a tutte le classi, di umanità comune a tutte le classi. Il capitalismo possiede la sua propria morale di classe, a cui dobbiamo opporre la morale di classe propria del proletariato. Anche se il compagno Kunfi chiama questa considerazione machiavellismo, non conosco che quella morale che corrisponde agli interessi di classe del proletariato.
«Il compagno Kunfi ha detto che abbiamo scimmiottato la rivoluzione proletaria russa. Protesto contro questa accusa che è una delle più gravi perché vuol dire che abbiamo seguito degli schemi, che non ne capiamo nulla nell’applicazione dei metodi. Prima di procedere alla fusione dei due partiti, quest’argomento era stato spesso sollevato e, anche allora, avevo sempre sottolineato che non dovevamo prendere lo stesso punto di partenza della Rivoluzione proletaria russa, ma che occorreva mettere a profitto tutti i risultati ideologici e pratici dei metodi della Rivoluzione proletaria russa: e, grosso modo, li abbiamo effettivamente messi a profitto.
«Questa è la ragione per la quale, nello spazio di due mesi e mezzo, abbiamo, dal punto di vista dell’organizzazione, ottenuto maggiori risultati che la Rivoluzione russa in un anno. Sottolineo nuovamente che non si può saltare nessun grado dello sviluppo, si può solamente abbreviarne le fasi. I mali di cui hanno parlato molti compagni, la disorganizzazione per esempio, la mancanza di organizzazione, sono inevitabili nella fase di sviluppo attuale. Ma giustamente proprio perché conosciamo le esperienze della Rivoluzione proletaria russa, possiamo fare coraggiosamente fronte a questi errori. Possiamo noi stessi muovere delle critiche alla Rivoluzione proletaria, e anche, questi difetti li estirperemo in breve tempo.
«Non è alla dittatura, e neanche all’impiego dei metodi fin qui applicati e alle forme stesse della dittatura, che si può imputare il sonno della vita intellettuale, il fatto è che in questo paese, la intellettualità non produce nulla».
Sempre Kun riguardo al programma aggiunge:
«Occorre vedere sottolineati gli obiettivi dell’attività rivoluzionaria che ci diamo per contribuire allo scoppio della rivoluzione mondiale. I suoi fini il Partito degli operai comunisti d’Ungheria può aspettarli solamente se non lotta nell’isolamento ma spalla a spalla con il proletariato degli altri paesi, se costituisce un fronte unico con tutti i partiti proletari che si sono dati l’obiettivo la preparazione della rivoluzione mondiale. Il compito principale del nostro Partito consiste nel favorire la rivoluzione internazionale con la propaganda dell’esempio.
«Mi allineo anche volentieri all’altra proposta, di natura economica: non toccare le piccole imprese, non espropriarle, né dittatorialmente né tramite istituti pubblici; faccio mia anche la proposta d’emendamento concernente i piccoli coltivatori proprietari».
Il rapporto concludeva esaminando il ruolo dei socialdemocratici di destra e di centro, che sempre tentavano di svigorire le ordinanze contro le attività controrivoluzionarie, usando come alibi un sedicente “umanesimo proletario”. Per raggiungere questo scopo si scontravano con i comunisti e con i pochi socialdemocratici di sinistra. Questi “begli ingegni ma corrotti” tentennavano ma finivano sempre dalla parte della classe sfruttatrice.
Infine abbiamo esaminato il ruolo dei sindacati. Avevano una forza notevole ma erano saldamente
ti al socialdemocratico PSDU, tanto che chi era iscritto ad un sindacato risultava automaticamente iscritto anche al PSDU, e viceversa. C’era però nel PSDU una cosiddetta “organizzazione libera” per gli iscritti non appartenenti ad alcun sindacato, comprendente il 10% dei membri del Partito. Sul ruolo dei sindacati e del partito abbiamo esposto quanto scritto in maniera ampia ed esaustiva sia da Kun che da Száto, pertanto rimandiamo il lettore alla pubblicazione definitiva di questo lavoro.
La successione dei modi di produzione
Il feudalesimo
Nel pomeriggio di sabato il compagno incaricato del lavoro sulla dottrina marxista dei modi di produzione ha esposto il capitolo riguardante la forma terziaria.
Dopo aver brevemente riassunto la fase di transizione dalla variante germanica al feudalismo, periodo storico caratterizzato inizialmente da un brusco crollo demografico, da un peggioramento e deterioramento delle vie di comunicazione con conseguente isolamento dei vari centri produttivi e ritorno ad un’economia “naturale” in cui agricoltura e artigianato tornarono ad essere intimamente associati, si assistette, intorno alla svolta dell’anno Mille, ad una ripresa economico-demografica che consentì di accumulare un plusprodotto da destinare allo sviluppo di nuovi settori produttivi.
La base economica divenne il lavoro agricolo a mezzo non più di schiavi ma di servi della gleba, non più oggetto di alienazione da padrone a padrone ma in generale legati al feudo su cui lavoravano con la loro famiglia. I prodotti del lavoro erano appropriati in parte dal lavoratore servo, in generale dandogli un piccolo appezzamento i cui frutti gli dovevano bastare per alimentarsi coi suoi, mentre era tenuto a lavorare solo o con gli altri nelle più vaste terre del signore, e tali maggiori prodotti erano a questo consegnati.
Lo sviluppo sociale medievale non poteva effettuarsi unitariamente e questo modo di produzione sarà caratterizzato da un processo contraddittorio che darà origine a due rapporti: da una parte signori e servi, dall’altra artigiani e mercanti, la cui evoluzione procederà in sfere distinte. L’antagonismo tra città e campagna si acutizzerà e si assisterà al processo di ruralizzazione delle città, in decadenza perché il motore dello sviluppo delle forze di produzione era la campagna, con la corrispondente proprietà della terra.
Sarà tuttavia proprio nella città che si instaurerà il germe del capitalismo con la sua tendenza all’universalizzazione dei rapporti sociali. Al feudalesimo nelle campagne corrispondeva l’organizzazione corporativa nelle città. L’industria comincia a staccarsi dall’agricoltura, i prodotti diventano per necessità merci, con la creazione di un ceto sociale, i mercanti, che si inserisce come anello di collegamento tra le varie isole produttive.
Ma, nonostante la produzione dell’artigiano dipenda sin dall’inizio dal mercato, essa ha come scopo primario il valore d’uso, non la produzione per la produzione tipica del capitalismo.
Col denaro non si possono comprare liberamente mezzi di produzione e forza lavoro salariata: la corporazione prescrive la quantità di mezzi di produzione che l’artigiano può utilizzare.
La varietà di merci uscenti dalle manifatture accresce la circolazione monetaria; presto la nobiltà s’indebita; i servizi in natura (corvées) sono progressivamente sostituiti da pagamenti in denaro, primo passo per l’abolizione della servitù della gleba.
La differenza tra lo schiavismo ed il feudalesimo si coglie appieno nell’artigianato dove la proprietà individuale si estende dal fondo (la terra) al mezzo di lavoro. Tale processo si compie di pari passo con una maggiore divisione del lavoro, cioè con una maggiore divisione della società in classi ed un corrispondente sviluppo delle forze produttive.
Le città sono paragonabili ad associazioni provocate dal bisogno di proteggere la proprietà. Al fondo della scala sociale si trova un ammasso informe e disorganizzato di individui contrapposto ad una forza organizzata nelle istituzioni comunali che li sorvegliano. Ad un gradino superiore si trovavano i garzoni e gli apprendisti, organizzati nel modo che meglio risponde all’interesse dei maestri; il ruolo patriarcale in cui si trovavano i maestri permette loro d’influenzare direttamente la vita dei garzoni; dall’altra parte i garzoni si contrappongono ai garzoni che lavorano per un altro maestro. A causa di questo legame, mentre la plebe arriva a delle sommosse contro l’intero ordine cittadino, che però restano inefficaci a causa della sua impotenza, i garzoni giungono soltanto a piccole ribellioni ma all’interno delle singole corporazioni.
Sarà il potere dissolutore del denaro a minare questo sistema di ordini chiusi, demone giallo che manderà in frantumi l’antico guscio. Lentamente prenderà avvio il processo di accumulazione. Questo avrà un carattere duplice: da un lato sarà accumulazione di una massa crescente di merci, dall’altra si accompagnerà ad una concentrazione di ricchezza in un numero decrescente di proprietari. Si avrà accumulazione di patrimonio monetario derivante principalmente dall’usura e dai profitti commerciali.
Questo denaro potrà trasformarsi in capitale industriale solo quando questa ricchezza sotto forma monetaria potrà scambiarsi con le condizioni oggettive del lavoro, e questo potrà accadere solo quando queste si saranno staccate dal lavoro nel processo storico di espropriazione dei produttori.
In conclusione il compagno ha letto una lunga citazione tratta dal primo libro del Capitale che testimonia del processo sanguinario di dissoluzione della forma terziaria e delle ribellioni dei produttori: molti preferirono la forca invece d’essere imprigionati nelle officine.
Per lasciare il tempo necessario agli altri relatori il rapporto ha tralasciato la parte relativa all’analisi degli aspetti sovrastrutturali della forma terziaria, la cui esposizione troverà posto nella nostra rivista.
Montare e sconfitta della rivoluzione in Germania
A questa nostra generale abbiamo esposto una rilettura del rapporto “La tragedia del primo dopoguerra proletario tedesco” (“Programma Comunista”, 1972, n.13-14-15-16-17-20).
Uno degli aspetti caratteristici della Germania era l’assenza di un unico centro politico ed economico. Questo fattore si rispecchiò anche in una frammentazione del movimento operaio in nuclei urbani concentrati ma relativamente chiusi. Questo, già nel corso della guerra, e ancor prima, aveva trovato riflesso in una miriade di gruppi relativamente autonomi in seno all’SPD, e il peggio fu che questa dispersione tendeva ad essere teorizzata dalle forze che avrebbero dovuto esprimere, nel momento decisivo, lo slancio e la combattività di masse proletarie scagliate dal turbine della guerra e dell’ancor più vorticoso dopoguerra sugli obiettivi politici centrali della lotta rivoluzionaria. Nel 1919 si accesero quindi un po’ dappertutto violenti focolai rivoluzionari e nacquero, purtroppo con breve vita, di embrionali Comuni.
L’immediatismo di sinistra nel 1919-1920 fu anche specchio di un localismo incapace di superarsi in una visione globale dei problemi della rivoluzione proletaria. Il così detto radicalismo di sinistra, confluito nel KAPD nell’aprile del 1920, aveva i suoi centri ad Amburgo, Brema, Berlino, Dresda e, nel quadro di una comune visione generale di tipo sindacalista, presentava sfumature notevoli, foriere di contrasti e scissioni potenziali o prossime a verificarsi.
Diffusa in questi gruppi era la tendenza a cercare la chiave per la dispersione dell’opportunismo e per l’allineamento del movimento operaio sul fronte della rivoluzione in forme di organizzazione economica immediate in cui si esprimesse direttamente, senza diaframmi intermedi e deformanti, la volontà della classe genericamente intesa. Per alcuni erano i consigli di azienda, spesso confusi con i Soviet, per altri i sindacati di industria, in quanto opposti ai sindacati tradizionali di mestiere, per altri le Unionen quali organizzazioni superanti la dicotomia tra lotta economica e lotta politica, qualcosa di simile all’”One Big Union” degli IWW, gli Industrial Workers of the World americani, sempre però costruite su basi federali per evitare la temuta dittatura dei capi e il conculcamento delle masse ad opera di una dirigenza legiferante dall’alto.
La questione della rivoluzione veniva così ridotta ad una questione di forme di organizzazione, forme economiche per giunta, rivoluzionarie in sé appunto perché immediate, calco fedele della volontà di lotta e della coscienza classista del proletariato, non diviso, per così dire, da sé stesso dalla mediazione del partito, la cui funzione veniva, a seconda dei gruppi locali, o negata o ridotta a mero ruolo di illuminazione teorica e di propaganda intellettuale.
Ne derivava la parola d’ordine di diserzione dai sindacati tradizionali, organismi burocratici e quindi considerati per natura controrivoluzionari, e dal parlamento come massimo tempio, non tanto dell’inganno democratico, quanto del predominio dei dirigenti sui diretti e della negazione della “democrazia operaia”.
Si sopravvalutava la lotta economica a scapito della lotta politica, e si vedeva la prima come un processo graduale, sia pure di volta in volta violento, di presa di possesso del meccanismo produttivo alla sua scaturigine, cioè la fabbrica. Si scordava la fondamentale tesi marxista secondo cui «la rivoluzione proletaria è, nella sua fase acuta, prima che un processo di trasformazione, una lotta per il potere tra borghesia e proletariato che culmina nella costituzione di una nuova forma di Stato le cui condizioni sono l’esistenza dei Consigli proletari come organi politici e la prevalenza in essi del partito comunista». Questo passo storico decisivo presuppone, per essere compiuto, «un’azione centralizzata e collettiva diretta dal Partito sul terreno politico», dal «partito marxista, forte, centralizzato, come diceva Lenin» (da un articolo di Il Soviet del 1920).
Dunque, riflesso di una frammentazione oggettiva del movimento operaio, l’immediatismo la aggravava teorizzandola come punto di forza anziché di debolezza.
I comunisti “di sinistra” di Brema e Berlino non avevano riconosciuto come irrevocabile l’esclusione dal partito, alle cui tesi avevano anzi proposto delle modifiche che permettessero loro di rimanere nell’organizzazione. Il terzo congresso del KPD, del febbraio 1920, però, nel riconfermare il programma votato a Heidelberg, aveva sancito l’esclusione dei dissidenti. La sezione di Berlino, subito dopo i fatti di marzo, convocò dunque per il 4-5 aprile gli esponenti di tutte le correnti della “opposizione comunista” e fu allora che nacque quello che doveva essere un nuovo partito, il Kommunistische Arbeiter-Partei Deutschlands (KAPD), con le sue roccaforti organizzative numericamente più robuste a Berlino, Amburgo, Brema, Essen e in Sassonia.
Noi della frazione astensionista definimmo allettati dalla “eterodossia sindacalista” i dissidenti del KPD, nel duplice senso che svalutavano il ruolo del partito e anteponevano la lotta economica a quella politica, e che condividevano la «concezione anarchico-piccolo borghese della nuova economia come risultato del sorgere di aziende amministrate direttamente dagli operai che ci lavorano».
Il processo rivoluzionario si configura come scontro fisico tra due classi, in cui la classe soggetta è spinta sul terreno dell’assalto al potere della classe avversa da determinazioni materiali e agisce senza sapere, o prima di sapere, in quale direzione ultima si muove, incontrandosi lungo questo cammino con il partito, cioè con il programma o la coscienza dell’obbiettivo finale e delle tappe obbligate del percorso per raggiungerlo, e con l’organizzazione, necessariamente minoritaria, di un’avanguardia comunista cristallizzata intorno a quel programma.
Invece questa corrente dirà nel 1920 che, perché la rivoluzione si compia «è necessario che il proletariato, le masse immense discernano con chiarezza la via e la meta». È appunto per il mancato completamento di questo processo di emancipazione intellettuale, non per ragioni di cui il marxista deve cercare le radici materiali, che l’opportunismo si sarebbe impadronito della maggioranza della classe operaia.
Il partito avrebbe solo la funzione di consigliare, educare, illuminare, aiutare le masse a prendere coscienza di se medesime, a riscoprire quella scienza che è il marxismo, e non di guidarle come organo di combattimento, di esercitare in loro nome il potere, di unificare l’istintiva rivolta proletaria nella direzione di un movimento reale di cui solo il partito ha la nozione.
L’antitesi masse-capi viene così a sostituirsi all’antagonismo tra le classi. Si respinge il parlamento, non in quanto organo specifico della dominazione di classe della borghesia ma, in quanto «tipico mezzo di una lotta condotta dai capi». Analogamente per quanto riguarda i sindacati; mentre negli organismi di fabbrica «gli operai hanno in mano i dirigenti e quindi la linea politica, ogni operaio ha in mano un potere».
Per i comunisti “di sinistra” di Brema e Berlino il partito di tipo bolscevico, cioè marxista e nostro, corrisponderebbe solo alla situazione storica della Russia impegnata in una rivoluzione duplice, per metà proletaria e per metà borghese e lo stesso strumento non troverebbe invece applicazione in Occidente dove il proletariato è la sola classe rivoluzionaria.
L’ideologia del KAPD risulta, e noi lo dicemmo sin da allora, sul piano della teoria e dei principi non meno che della tattica, agli antipodi della posizione costantemente difesa dai comunisti astensionisti italiani.
Storia della lotta delle classi in India
Il compagno continuava la serie di rapporti sulla storia del subcontinente descrivendo gli avvenimenti dal 1937, con le elezioni vinte dal partito del Congresso, alla fine della seconda guerra mondiale, alle soglie della indipendenza. Provocò un bagno di sangue, alimentato sia dalla Corona britannica sia dalle classi dominanti indiane.
Dopo la vittoria delle elezioni del 1935, sotto la guida di J. Nehru il partito di Gandhi decise di partecipare a quelle provinciali del 1937, dove ottenne il 70% dei voti. Il Congresso, che era
l’unico partito a disporre di una struttura organizzata pan-indiana, fatta la scelta elettorale, la sua macchina organizzativa vi si dispiegò al massimo. La dirigenza scelse i candidati in base ad alcuni principi che, nel loro insieme, favorirono la scelta di notabili influenti a livello locale. Venivano selezionati quei candidati in grado di autofinanziare la propria campagna elettorale e quelli che avevano concrete possibilità di vincere, favorendo quindi non tanto i decantati da Gandhi “eroi non violenti”, o i contadini più combattivi, quanto quei notabili che, attraverso la propria ricchezza personale e di casta, erano già ben posizionati per vincere. Classi sociali, sulla cui alleanza si era basato il Raj della Corona, e che ora si schieravano con il Congresso (ma anche con la Lega musulmana).
I rapporti tra il Congresso ed i musulmani, in particolare con la Lega, si erano deteriorati in molte parti dell’India a partire dalla fine della campagna di non cooperazione. Il Congresso, nonostante i successi riportati nell’elettorato indù, aveva ottenuto risultati modesti nei collegi riservati ai musulmani. Le tensioni intercomunitarie aumentarono notevolmente in particolare nel Nord del paese. Le elezioni del 1937 avevano dimostrato che la Lega, pur ottenendo risultati non brillanti, era l’unico partito islamico presente in tutte le province dove vi fosse una presenza musulmana.
In occasione di una sessione della Lega, nel marzo 1940, Muhammad Ali Jinnah enunciò per la prima volta la teoria delle due nazioni. I musulmani avevano il compito di formare in India una nazione diversa rispetto a quella indiana/indù, in modo da formare “stati indipendenti”. Se nel 1916 si era formalizzato il patto di unità d’azione fra Congresso e Lega musulmana, ventuno anni dopo si definì il cammino che porterà alla creazione e separazione del Pakistan.
Quando il viceré annunciò l’entrata in guerra, senza alcuna consultazione con i rappresentanti dei maggiori partiti indiani, la dirigenza del Congresso ordinò ai membri del partito di ritirarsi da tutti i governi provinciali, lasciando il campo aperto alla Lega musulmana, che nel periodo bellico, con l’appoggio inglese, governò in molte delle province precedentemente amministrate dal Congresso.
Gandhi annunciò l’inizio di un nuovo movimento denominato di disubbidienza civile individuale, che durò per qualche mese. Una sterile ed innocua protesta in forma individuale perché la borghesia indiana, memore delle incontrollabili rivolte collettive, aveva più timore della rabbia delle masse sfruttate che del governo coloniale.
L’aggravarsi della situazione militare e il coinvolgimento degli Usa nella guerra spinsero il governo Churchill ad aprire un nuovo round di trattative con il Congresso. In questo scenario venne inviato nel subcontinente, Sir Stafford Cripps, un uomo politico legato all’area laburista, un “progressista”, simpatizzante del Congresso ed amico personale di Nehru. Cripps offrì una serie di concessioni che culminavano con lo status di dominion per l’India, ma solo a guerra finita: fino a quel giorno l’esistente assetto istituzionale sarebbe rimasto inalterato. La missione fallì.
Con la diffusa opinione di una invasione giapponese imminente, Gandhi offrì agli inglesi la soluzione “Quit India” chiedendo la fine immediata del potere politico britannico ma concedendo alle potenze alleate l’uso dell’India come base militare contro il Giappone. La reazione inglese non si fece attendere: tra la notte del 8 ed il 9 agosto 1942 il Congresso venne decapitato con l’ennesimo arresto del Mahatma e di centinaia di figure di rilievo del partito. Durante quella che viene chiamata la Rivoluzione d’Agosto, la base del Congresso, praticamente priva della dirigenza, effettuò numerose azioni di sabotaggio, assaltando le stazioni di polizia. Scioperi e dimostrazioni si tennero in diverse città per poi estendersi alle campagne. Queste fasi della rivolta ebbero un carattere di massa e furono represse con il dispiegamento di un impressionante apparato militare.
Quando il 15 agosto 1945 l’imperatore giapponese Hirohito dichiarò la fine dei combattimenti e la resa incondizionata alle potenze Alleate, per il regime coloniale i soldati dell’INA (Indian National Army), arruolati dal presidente del governo filonipponico Bose per sostenere lo sforzo bellico del Giappone, molti dei quali disertori dall’esercito imperiale, furono ritenuti dei traditori e come tali avrebbero dovuto essere puniti. Molti ufficiali e soldati furono condannati all’ergastolo, ma le sentenze, in un clima di continue agitazioni, vennero presto sospese. L’intera vicenda fu una chiara dimostrazione del fatto che il regime coloniale non era più in grado di punire una ribellione, neppure nel cruciale settore delle forze armate.
Il 18 febbraio 1946 nel porto di Bombay i marinai della marina militare indiana si ammutinarono, si impadronirono della maggior parte delle navi da guerra e, dopo aver cacciato i loro ufficiali inglesi, scesero a terra e attaccarono i soldati della guarnigione, anch’essi inglesi. La rivolta coinvolse più di ventimila marinai che vennero sostenuti dagli operai di Bombay scesi in sciopero al loro fianco, organizzati in comitati di cui facevano parte indù, mussulmani e sikh.
In Gran Bretagna nel frattempo era andato al governo il Partito Laburista e il primo ministro, Clement Attlee, ordinò di reprimere la rivolta e ai ribelli fu dato l’ultimatum di arrendersi. Il Comitato centrale di sciopero contattò i dirigenti del Partito del Congresso e quelli della Lega musulmana che, al di là delle parole di circostanza, rifiutarono di sostenerli. Furono chiamate le truppe Gurkha, soldati arruolati tra la popolazione Gurkha del Nepal e dell’India settentrionale, che si erano da tempo distinti per disciplina e fedeltà anche durante la grande rivolta dei Sepoy del 1857. I soldati però, rischiando la pena di morte, si rifiutarono di sparare ai marinai. Gli ammutinati si arresero solo dopo l’arrivo di nuove truppe britanniche e rinforzi navali. Durante queste giornate marinai, soldati ed operai avevano mostrato l’unità nella lotta, incuranti delle loro divisioni religiose e di casta.
Gli scioperi operai e l’ammutinamento dei marinai evocavano quel 1917 che, con la rivoluzione russa, rimaneva il vero incubo della classe dominante. Ma la differenza era che in quella settimana in India non vi era alcuna direzione rivoluzionaria. Il partito di Lenin, in Russia, era da tempo degenerato e il Partito Comunista Indiano, seppure sosteneva gli scioperanti, era allineato allo stalinismo ed aveva collaborato con il regime coloniale in nome della santa alleanza contro i fascismi.
Il partito del Congresso svolse il ruolo di pompiere, insieme alla Lega musulmana, disinnescando la protesta. Il comitato di sciopero dei marinai decise di arrendersi il 23 febbraio, non alle autorità inglesi ma a Vallabhbhai Patel, un dirigente del Congresso, influente nel Gujarat, che trattò anche a nome della Lega musulmana. Gandhi durante i giorni della rivolta, dichiarò “alleanza impura” questa fraterna unione, che sfidava il dogma della non violenza.
La guerra era finita e l’impero britannico in India aveva i giorni contati. L’indipendenza era alle porte. L’intensificazione della lotta di classe e la rabbia delle masse sfruttate determinò il tragico destino del continente indiano. Il regime coloniale doveva trasferire in fretta il potere alla borghesia indiana ed ai proprietari fondiari assicurandosi che gli interessi britannici fossero preservati, ma anche che le ineluttabili leggi economiche del capitale non fossero messe più in discussione.
Il rapporto sulla concezione del Partito per Lenin e per la Sinistra è continuato, con l’inevitabile commento di lunghe citazioni dalla tradizione delle due fonti. Il risultato ha confermato la loro concordanza, dovuta al riferimento che entrambe le scuole di pensiero hanno sempre fatto in modo testardo e rigoroso alla comune fonte marxista rivoluzionaria.
Molti i punti vitali sollevati: una prima enunciazione è che «la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni».
Il partito deve essere composto di “rivoluzionari di professione”, militanti veri, disciplinati, non “chiacchieroni”, avanguardia radicata nella classe e capace di dirigerla: questi sono i membri del partito secondo Lenin. In ogni situazione anche contingente Lenin lotta contro l’opportunismo nelle questioni organizzative: i membri del partito non devono essere degli intellettuali borghesi, cioè rivoluzionari per estetica e pieni di sé, che partecipano al movimento quando ne hanno voglia, “ad andare alle riunioni nelle serate libere”, ma per una scelta di vita.
Il partito non solo elabora un programma e una tattica per portarlo a compimento, ma rivolge la sua attenzione al suo metodo di funzionamento.
Un importante punto affrontato alla riunione è il significato per Lenin della “democrazia interna”: «Solo all’estero, ove spesso si raccoglie gente che non ha la possibilità di svolgere un vero lavoro attivo, s’è potuto manifestare qua e là, e soprattutto nei diversi piccoli gruppi, questo “gioco alla democrazia”. Per i militanti del nostro movimento, il solo principio organizzativo serio dev’essere: rigorosa clandestinità, scelta minuziosa degli iscritti, preparazione di rivoluzionari di professione. Con queste qualità avremo anche qualcosa di più della “democrazia”: avremo una fiducia completa e fraterna fra rivoluzionari. Si tenga conto di tutto questo e si comprenderà come i discorsi e le risoluzioni sulle “tendenze antidemocratiche” puzzino di chiuso e rivelino la burlesca tendenza degli emigrati a fare i generali!».
Pur se Lenin opera in un’epoca e in un ambiente in cui il meccanismo democratico doveva essere utilizzato nel partito per la insufficiente definizione del suo indirizzo tattico, quanto abbiamo esposto dimostra, a chi vuol capire, che Lenin, anche in base alla sua osservazione critica dei meccanismi di funzionamento dei partiti socialisti, si schiera per il medesimo modo di essere del partito che noi oggi definiamo “organico” e “centralistico”.
Ma se centralismo e disciplina organizzativa sono la condizione per l’esistenza del partito comunista, siffatta condizione non può essere ottenuta con i meccanismi propri dei partiti borghesi. Anche nel suo funzionamento il partito della classe operaia è costretto ad essere rivoluzionario. Il nuovo modo di essere del partito sarà pienamente applicato dai compagni della Sinistra al Partito Comunista d’Italia, Sezione della III Internazionale sin dalla sua nascita.
Ma è già evidente in Lenin il disprezzo per il metodo democratico quando diviene un “balocco” degli opportunisti per mettere i bastoni tra le ruote all’attività del partito. Perché il funzionamento del partito è presentato da Lenin come quello di un organismo, nel quale il compagno si trova nella funzione a lui più adatta; è palese l’accostamento, se non l’identificazione dell’avverbio “organicamente” con quello che agli albori della Sinistra chiamammo “centralismo organico”, e che il nostro partito tuttora pratica.
Noi, forti dell’esperienza di altri decenni di controrivoluzione e tradimenti da parte di sedicenti “leninisti”, abbiamo nel partito fatto gettito totale della democrazia, in tutte le sue forme e della parola stessa. Nel partito è tradizione enunciare il paradosso che la democrazia potrebbe avere un senso se potessero votare contemporaneamente i vivi, i morti e i nascituri, concetto questo esplicitamente anticipato da Lenin.
Alla richiesta degli scettici su quali siano le “garanzie” che il partito così condotto non deborderà dai suoi principi abbiamo risposto più volte: per esempio in “Dialogato coi morti”, 1956: «Ricorderemo appena le garanzie da noi tante volte proposte. Dottrina: il Centro non ha facoltà di mutarla da quella stabilita, fin dalle origini, nei testi classici del movimento. Organizzazione: unica internazionalmente, non varia per aggregazioni o fusioni ma solo per ammissioni individuali; gli organizzati non possono stare in altri movimenti. Tattica: le possibilità di manovra e di azione devono essere previste da decisioni dei congressi internazionali con un sistema chiuso. Alla base non si possono iniziare azioni non disposte dal centro: il centro non può inventare nuove tattiche e mosse, sotto pretesto di fatti nuovi. Il legame tra la base del partito ed il centro diviene una forma dialettica. Se il partito esercita la dittatura della classe nello Stato, e contro le classi contro cui lo Stato agisce, non vi è dittatura del centro del partito sulla base. La dittatura non si nega con una democrazia meccanica interna formale, ma col rispetto di quei legami dialettici».
Infine il rapporto ha affrontato l’importanza di un organo centrale. È apparso evidente che per Lenin un giornale per tutta la Russia viene a coincidere con l’idea che abbiamo oggi noi del centro del partito; parla del giornale, ma dalle sue parole appare presto che nella struttura dell’organo di stampa vede il centro dirigente del partito; perché il bisogno fondamentale e impellente è quello di un partito marxista e rivoluzionario, con una salda base teorica, condivisa da tutta l’organizzazione, attraverso un organo che tutti i militanti leggono, se ne convincono e dal quale traggono il materiale per la propaganda.
Sull’importanza di una organizzazione disciplinata e centralizzata, così conclude in “Un passo avanti, due passi indietro”: «Il proletariato non ha altra arma che l’organizzazione nella lotta per il potere. Scompaginato dal dominio della concorrenza anarchica nel mondo borghese, schiacciato dal lavoro forzato per il capitale, sospinto continuamente “nell’abisso” della più nera miseria, dell’abbrutimento e della degradazione, il proletariato può diventare, e inevitabilmente diventerà, una forza invincibile solo se la sua unità ideale, fondata sui principi del marxismo, sarà consolidata dall’unità materiale di un’organizzazione che riunisca saldamente assieme milioni e milioni di lavoratori nell’esercito della classe operaia. Davanti a questo esercito non reggerà né il potere già decrepito dell’autocrazia russa, né il potere del capitale internazionale, che decrepito sta diventando. Quest’esercito serrerà sempre più strettamente le sue file, nonostante tutti i possibili zigzag e passi indietro, nonostante le frasi opportunistiche dei girondini dell’odierna socialdemocrazia, nonostante la fatua glorificazione dell’arretrato sistema dei circoli, nonostante gli orpelli e lo stamburamento dell’anarchia da intellettuali».
Il rapporto sindacale si è concentrato sull’attività dei nostri compagni a sostegno dell’indirizzo del fronte unico sindacale di classe e dell’unità d’azione dei lavoratori. Questo orientamento nel campo della lotta operaia contraddistingue in modo invariante la genuina tattica sindacale comunista, come ben evidenzia un articolo a firma di Umberto Terracini scritto nell’ottobre del 1922.
Questo è stata quindi la posizione del partito – come ricorderà chi legge la nostra stampa – dall’estate del 2017, quando fu promosso un Appello a sostegno di uno sciopero generale unitario del sindacalismo conflittuale da parte di un gruppo di militanti dei sindacati di base e della opposizione di sinistra in Cgil, alla cui redazione e diffusione collaborarono i nostri compagni ed il cui contenuto era pienamente condiviso dal partito.
Quell’Appello trovava ragion d’essere per il fatto che, come negli anni precedenti, il campo del sindacalismo di base si era diviso proclamando due scioperi generali separati ed in concorrenza, uno il 27 ottobre 2017 da parte di SI Cobas, Cub, Sgb, Adl Cobas, Slai Cobas, Usi Ait, l’altro il 10 novembre da parte dell’Usb e della Confederazione Cobas.
L’Appello trovò un numero di adesioni apprezzabile e costrinse le dirigenze dei sindacati di base ad adottare ciascuna contromisura finalizzata a impedire lo sciopero unitario. Il successo dell’iniziativa fu proprio nel mettere in evidenza il timore delle varie dirigenze per la dispiegata lotta operaia e la loro debolezza, smentendo la percezione che queste detengano un controllo assoluto sulle organizzazioni. Giusto quindi l’indirizzo del partito di condurre una battaglia dentro questi sindacati per portarli sulla corretta linea sindacale di classe.
Che questo risultato fosse stato estremamente positivo ne ebbero coscienza molti fra i promotori dell’Appello, mentre altri si demoralizzarono per non essere riusciti ad impedire i due scioperi separati.
Fra i primi maturò l’idea – sostenuta dai nostri compagni – di costituire un gruppo intersindacale permanente a sostegno dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale e dei lavoratori tutti. Ma questa proposta non trovò immediata risposta: v’era da attendere che maturasse l’esigenza materiale e la possibilità di dare battaglia in quella direzione.
Infatti l’estate scorsa lo scenario sindacale ha presentato una situazione simile, anche se non del tutto analoga, alla precedente.
Il 17 luglio il medesimo cartello sindacale dell’anno scorso – SI Cobas, Cub, Sgb, Usi Ait, Slai Cobas – ha proclamato uno sciopero generale di tutte le categorie della classe lavoratrice per il 26 ottobre. Si sono successivamente aggregati l’Adl Cobas e l’Usi, mentre quel che resta dello Slai Cobas si è gravemente spaccato fra il gruppo milanese (che ha aderito) e quello del Sud Italia (FCA Pomigliano e Sevel di Atessa) che ne ha disconosciuto l’operato.
La differenza rispetto al 2017 è consistita nel fatto che né l’Usb né la Confederazione Cobas hanno proclamato per l’autunno lo sciopero generale, avvalorando così nell’azione la propaganda del borghese “governo del cambiamento”.
A seguito del profilarsi a luglio di questo scenario, i primi di agosto alcuni dei militanti sindacali promotori dell’Appello dell’anno precedente hanno proposto un incontro per decidere il da farsi. Questo si è tenuto a Firenze il 2 settembre, alla presenza di una trentina di militanti sindacali delle seguenti organizzazioni: Cub, SI Cobas, Cobas Sanità Università Ricerca (separatasi dalla Confederazione Cobas dal novembre 2017), Cobas Poste (aderente alla Confederazione Cobas), Usb, Orsa, opposizione di sinistra in Cgil.
La riunione dava due indicazioni pratiche: la redazione di un nuovo Appello per uno sciopero unitario del sindacalismo conflittuale (intendendo includere in questo anche l’opposizione di sinistra in Cgil) e, successivamente allo sciopero, l’organizzazione di una assemblea nazionale detta “autoconvocata” – cioè organizzata da militanti di base dei vari sindacati e non dalle loro dirigenze – a sostegno dell’unità d’azione del sindacalismo di classe e dei lavoratori.
Si trattava quindi di un primo passo pratico nella direzione auspicata dai nostri compagni l’anno precedente, quella cioè della costituzione di un organismo permanente che si battesse fra i lavoratori e dentro le organizzazioni sindacali per l’affermazione di quell’indirizzo.
Col contributo dei nostri compagni è stato redatto il nuovo Appello, datato 1° ottobre, del cui esito e delle successive attività del gruppo si è riferito nei numeri passati e si riferirà in quelli a venire del nostro giornale.
Oltre a quanto sopra esposto è stato evidenziato nel rapporto del compagno il lavoro compiuto per dare alla nostra attività sindacale un indirizzo unitario ed organico sul piano internazionale. Ciò trova evidenza negli organi di stampa del partito nelle diverse lingue, in cui sono condivisi e tradotti gli articoli di maggior rilievo. Sono stati tradotti e pubblicati i seguenti:
Sul giornale italiano
– “Insegnamenti da una lotta operaia in Venezuela”, sulla dura lotta nella fabbrica Ferralca che ha messo in evidenza la natura borghese, e non “socialista”, del regime di quel paese, il quale ha largamente impiegato il suo apparato repressivo contro gli operai e i militanti sindacali;
– “La lotta dei portuali in Israele”, sullo sciopero ad oltranza dei portuali israeliani, anch’essi colpiti dalla repressione dello Stato borghese e dal disfattismo del sindacato di regime;
– “Un incontro in Usa fra comitati di base della ristorazione”, un resoconto di una riunione fra militanti del sindacalismo di base tenutasi a New York;
– “Il duro sciopero dei camionisti in Brasile e la difesa social-democratica dell’interesse nazionale”.
Su “El Partido Comunista”, in lingua spagnola:
– “Por la unificación de las luchas de la clase trabajadora - Por el frente único sindical de clase ”, il testo della conferenza pubblica tenuta a Torino, Genova, Bologna, Firenze e Roma sull’indirizzo del partito per il Fronte unico sindacale di classe, nel periodo a cavallo fra i due scioperi generali del sindacalismo di base – separati e in concorrenza – del 27 ottobre e del 10 novembre 2017;
– “La lucha de los trabajadores portuarios: una pequeña muestra de la democracia burguesa israeli”, sullo sciopero dei portuali israeliani;
Su “The Communist Party”:
– “Class Struggles in Israeli Ports”, lo sciopero dei portuali israeliani;
– “Strikes and the Situation in Brazil”, sullo sciopero dei camionisti brasiliani;
– “Report from the Second Congress of the USB”, il nostro commento del secondo congresso dell’Unione Sindacale di Base in Italia.
Fine del resoconto della riunione di settembre
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Con sentenza dell’8 gennaio il Tribunale di Milano ha condannato, in primo grado di giudizio, il coordinatore nazionale del SI Cobas, due delegati presso il magazzino logistico DHL di Settala (Milano), altri militanti del SI Cobas e alcuni rappresentanti di centri sociali per aver partecipato, od organizzato, un picchetto dinanzi lo stabilimento durante uno sciopero generale della categoria, nel marzo 2015. Le pene variano da 1 anno ed 8 mesi – per il coordinatore nazionale – a 2 anni e sei mesi.
È la prima volta da anni, per lo meno da quando il movimento operaio nella logistica organizzato dal SI Cobas ha mosso i suoi primi passi, che militanti sindacali ricevono simili condanne per la partecipazione ad un picchetto, per altro svoltosi del tutto pacificamente.
Il fatto che ad essere condannati siano il capo nazionale del SI Cobas ed i delegati dell’azienda dove lo sciopero e il picchetto si sono svolti, denota la gravità dell’attacco al sindacato ed al movimento dei lavoratori e la contraddistingue come una autentica rappresaglia padronale, attraverso il suo regime politico.
Ormai a centinaia si contano le ritorsioni aziendali contro lavoratori iscritti al SI Cobas, e non solo, fatte di lettere di contestazione, trasferimenti, sospensioni, in un crescendo che spesso porta al licenziamento. Ed ugualmente a centinaia si contano gli assalti delle forze di polizia ai picchetti. Con questa sentenza la rappresaglia padronale si arricchisce di un ulteriore strumento, la magistratura.
Non è certo un fatto nuovo, inedito. Tutta la internazionale storia della lotta di classe insegna che quando la classe dei lavoratori lotta a viso aperto, i suoi combattenti finiscono in galera. Ma è un dato che segna l’incrudirsi dello scontro, la volontà del regime borghese di colpire più a fondo per distruggere questo movimento operaio della logistica ed il sindacato che lo ha organizzato, che sta cercando di estenderlo ad altre categorie. Un rischio questo inaccettabile per la classe dominante.
La grande paura della borghesia nei riguardi del movimento dei cosiddetti Gilet Gialli è che esso inneschi la lotta della classe lavoratrice, scrivevamo nel numero scorso, e, aggiungiamo, che il movimento travalichi i confini nazionali, contagiando l’Europa intera. Questa paura è aggravata dal fatto che i recenti dati negativi della produzione industriale in tutti i maggiori capitalismi nazionali del vecchio continente annunciano il nuovo balzo in avanti della crisi economica mondiale del capitalismo.
Nelle intenzioni della borghesia, il nuovo avvitarsi della crisi deve vedere una classe operaia piegata, prona, cui far pagare effetti sociali ancor peggiori di quelli del 2008. Giammai un classe in piedi, combattiva, pronta a lottare.
Questo spiega la durezza della repressione poliziesca in Francia. E spiega una misura quale il Decreto Sicurezza in Italia, che prevede per il reato di blocco stradale pene fino a 6 anni per i partecipanti e a 12 per gli organizzatori. È un atto preventivo contro la lotta di classe che inevitabilmente si metterà in moto all’avanzare della crisi.
Si deve notare, però, che le condanne emesse dal Tribunale di Milano non hanno applicato le pene previste dal Decreto Sicurezza, ma quelle “democratiche” già operanti e vigenti. Il Decreto Sicurezza solo proclama a gran voce e ribadisce la dittatura “legale” sulla classe operaia. Da un lato colpisce l’arma operaia del blocco stradale, mettendo di fatto fuori legge i picchetti, fondamentale strumento per dare forza allo sciopero; dall’altra tende ad intimorire i lavoratori immigrati, ricattati penalmente, dividendo la classe operaia da questa sua porzione che, non a caso, è stata quella che ha portato avanti i più importanti scioperi negli ultimi anni. In entrambi questi aspetti appare un provvedimento legislativo volto a colpire, in particolare, il movimento operaio della logistica e un combattivo sindacato di base in Italia, il SI Cobas, e, in generale, colpire tutta la classe lavoratrice per impedire che si rialzi in piedi e dia battaglia.
Affinché la lotta operaia non sia sconfitta, abbisogna di organizzazioni sindacali combattive, fedeli ai suoi interessi. La strada da percorrere per impedire che la borghesia pieghi le lotte dei lavoratori, troppo minoritarie, è quella di ricercare la massima unità d’azione di tutte le organizzazioni e correnti del sindacalismo di classe. A questo scopo è necessario scontrarsi con le attuali dirigenze del sindacalismo di base, se non in tutte nella maggioranza delle organizzazioni.
A questo scopo il “Coordinamento iscritti Usb per il Sindacato di Classe” ha redatto un comunicato di solidarietà, in data 10 gennaio, intitolato “Solidarietà ai compagni del SI Cobas condannati per aver partecipato a un picchetto operaio! Per una mobilitazione unitaria del sindacalismo di classe contro il decreto sicurezza!”. Una dichiarazione di solidarietà questa proveniente dall’interno di un sindacato la cui dirigenza non ha pronunciato una parola sulle condanne ai militanti e dirigenti del SI Cobas, data la gretta e meschina guerra in corso fra le dirigenze dei due sindacati.
Altri attestati di solidarietà sono provenuti dalla Cub Trasporti, dai Cobas Sanità Università Ricerca, dall’Usi Ait e dal “Coordinamento lavoratori e lavoratrici autoconvocato per l’unità della classe”, nome che si è dato il gruppo intersindacale che aveva organizzato l’assemblea per l’unità d’azione del sindacalismo di classe del 2 dicembre a Firenze – di cui abbiamo riferito nel numero scorso (“Mobilitazioni e convegni per il sindacato di classe”) – e che è tornato a riunirsi, formalizzando la sua esistenza e organizzando il suo lavoro, il 12 gennaio scorso.
Rendiamo qui brevemente conto di quattro vertenze organizzate dal SI Cobas, giunte a esiti importanti. Le dure lotte operaie dirette da questo sindacato ne hanno riverberato la fama a livello internazionale.
Leroy Merlin di Piacenza
Il 18 dicembre i rappresentanti del SI Cobas e tre delegati RSA hanno siglato un accordo con il Consorzio UCSA e la Cooperativa aderente al Consorzio operante presso il magazzino Leroy Merlin di Castel S. Giovanni (Piacenza).
Questo magazzino si trova di fronte a quello, enorme, di Amazon, dove il 24 novembre 2017 si svolse il primo sciopero dei lavoratori di quello stabilimento, che ebbe ampia risonanza e che commentammo sul numero 387 di questo giornale (“I sindacati di regime alla prova dello sciopero alla Amazon”).
L’accordo firmato presso Leroy Merlin ha stabilito la conversione di tutti i contratti a tempo determinato – 62 lavoratori – in contratti a tempo indeterminato, a partire dal 9 gennaio.
Questo accordo è la coda di quello raggiunto il 10 ottobre dello scorso anno al termine di 10 giorni di sciopero ad oltranza contro il licenziamento di 118 lavoratori a tempo determinato. La conclusione di quella dura lotta fu stabilire una buonuscita per circa metà di quei lavoratori e un reingresso in produzione per la restante metà a partire dai primi di novembre.
L’accordo fu giudicato positivamente dal SI Cobas, che mise in evidenza che per la prima volta una buonuscita veniva assegnata a lavoratori con contratto a tempo determinato, solitamente lasciati a casa senza alcun indennizzo una volta terminato il periodo di vigenza del contratto. La restante metà – 62 appunto – non solo è rientrata al lavoro ma ha ottenuto l’assunzione a tempo indeterminato.
Oltre a ciò questo accordo è importante in quanto il magazzino piacentino di Leroy Merlin è stato uno dei teatri dello scontro, iniziato a gennaio 2016, fra il SI Cobas e l’Usb. Le due organizzazioni sono giunte a scambiarsi gravi accuse, che a noi paiono affermazioni largamente fuori misura, da entrambe le parti. Ma questo scontro ha carattere locale e categoriale, infatti ha avuto luogo solo in tre magazzini della logistica nella provincia piacentina: GLS, TNT e Leroy Merlin. Nel magazzino GLS di Roma, per fare un esempio, Usb e SI Cobas hanno convissuto per anni, almeno fino ad oggi, senza scontrarsi, anche se non si può parlare di una sana collaborazione.
Per altro, le dirigenze nazionali e locali dei due sindacati, invece di contenere lo scontro nelle sue reali dimensioni, lo hanno esasperato, ciascuna traendo e diffondendo forzate conclusioni generali. Ne hanno cioè approfittato per avvantaggiarsi nella guerra che conducono l’una contro l’altra, a colpi di scioperi separati e manifestazioni di carattere politico opposto.
Sappiamo che la lotta fra diversi indirizzi all’interno del movimento sindacale, figli delle diverse correnti politiche presenti, è un fatto naturale e inevitabile. Ma i lavoratori debbono vigilare a che questa lotta non venga a danneggiare le urgenti necessità del movimento, una delle quali, fondamentali, è l’unità d’azione, cioè lo scioperare insieme. Dall’unità d’azione trarrà giovamento chi persegue la crescita dell’autentico sindacalismo di classe e da temere chi solo finge di farlo, finendo per dimostrarsi un ostacolo che la classe dovrà superare nel suo cammino.
È vero che l’impostazione politica della dirigenza della Usb la spinge verso il sindacalismo concertativo. Ma è controproducente la via dello scontro condotto con scioperi generali separati e soffiando su meschinerie e maldicenze che nulla chiariscono. Occorre che sia l’esperienza concreta nelle lotte ad indicare alla classe la giusta via e modalità di organizzarsi e di lottare. Questa esperienza può farsi solo nella pratica comune dello scontro con il padronato. Ogni menzogna vacillerà posta alla prova di mobilitazioni unitarie, in cui i lavoratori di diverse ed anche opposte organizzazioni entrerebbero in contatto, mostrando forze e debolezze dei presupposti generali dell’una e dell’altra.
L’accordo dell’8 gennaio presso il magazzino Leroy Merlin è importante, sotto questo riguardo, perché fornisce finalmente elementi di natura puramente sindacale coi quali valutare l’operato sindacale. Trattandosi, insieme a quello del 10 ottobre 2018, di un risultato positivo, mostra la bontà dell’azione svolta dal SI Cobas. Il che è confermato da un altro elemento fondamentale, l’adesione degli operai, quasi totale nel magazzino e notevole nella provincia. La stessa Usb ha riconosciuto la bontà dell’accordo: «L’assemblea ha accolto positivamente la stabilizzazione dei precari che si concretizzerà nei prossimi giorni grazie alle lotte dure messi in atto nei mesi precedenti», si legge in un comunicato di Usb Logistica del 9 gennaio, negando implicitamente in tal modo quanto affermato precedentemente contro l’azione del SI Cobas in quel magazzino.
Italpizza di Modena
Lo stabilimento Italpizza di S. Donnino, in provincia di Modena è una delle più grandi fabbriche del genere in Italia, dove lavorano fra i 500 e i 600 operai. Ma i dipendenti diretti sono meno di un centinaio, gli altri sono alle dipendenze di varie cooperative, cui Italpizza ha dato in appalto parti delle attività produttive. Questi lavoratori sono assunti non con il contratto degli alimentaristi bensì con quello multiservizi, usato ad esempio per le pulizie. La ragione sta ovviamente nel costo del lavoro più basso.
Il SI Cobas vi organizza una minoranza dei dipendenti.
Il 28 novembre – lo stesso giorno in cui il cosiddetto Decreto Sicurezza veniva convertito in legge dal parlamento – il SI Cobas indiceva uno sciopero contro la rappresaglia aziendale che colpiva 13 iscritti, prevalentemente operaie immigrate, con licenziamenti, sospensioni e trasferimenti. Agli altri lavoratori, iscritti ad altre sigle sindacali o senza tessera, è impedito con minacce di unirsi alla lotta. Lo sciopero si interrompe ma riprende il 6 dicembre. Questa volta alle minacce aziendali si aggiunge l’intervento delle forze di polizia che attaccano e sgomberano per ben cinque volte il picchetto, facendo ricorso anche ai gas lacrimogeni contro lavoratori e lavoratrici.
Un vile attacco che si ripete nei giorni successivi, perché lo sciopero, per volontà dei lavoratori, prosegue ad oltranza. Le operaie in particolare si dimostrano determinatissime. Il 12 l’azienda cede e firma un accordo in cui annulla licenziamenti, sospensioni e trasferimenti e prevede il reintegro sul posto di lavoro entro il 20 gennaio.
La durezza della lotta, con l’impiego ripetuto delle forze di polizia contro gli operai, il fatto che un ruolo centrale in essa lo abbiano avuto lavoratrici, ha richiamato l’attenzione su questa battaglia operaia, ricevendo la solidarietà di vari sindacati ed anche la partecipazione al picchetto di loro delegazioni. Inoltre, trattandosi di lavoratori immigrati, che col picchetto bloccavano l’uscita e l’ingresso della merce, è saltato agli occhi come andassero a negare nei fatti il Decreto Sicurezza, il cui vero obiettivo è precisamente impedire le lotte. La strada è quella maestra: l’arma dello sciopero, e dei picchetti che ne sono strumento essenziale, si difende impiegandola.
Scaffalisti a Genova
A Genova si sono organizzati nel SI Cobas un buon numero di scaffalisti, cioè gli addetti a sistemare le merci negli scaffali dei supermercati. Si tratta di un nuovo sviluppo organizzativo di questo sindacato, in una città in cui non vi sono grandi magazzini della logistica, come in Emilia e in Lombardia. Sotto la Lanterna il SI Cobas ha la maggior parte degli organizzati nella sanità pubblica, nel magazzino logistico della TNT, e gruppi minori alla Bartolini, fra alcuni alberghieri e nell’azienda municipale dei netturbini.
Il settore dei cosiddetti appalti, attraverso cooperative o società di vario tipo, è molto vasto e riguarda una porzione notevole della classe operaia in Italia, quella più sfruttata. È quindi un vitale ambito di sviluppo per un sindacato di classe e il SI Cobas, che è nato nella logistica ed è in buona parte limitato a questo settore, muove i primi passi in questa direzione.
Questi scaffalisti sono dipendenti di una cooperativa – la Log12, del Consorzio ELPE – operante nelle catene Carrefour, Basko, Ekom e Pull&Bear. Ad essi, invece del contratto nazionale del commercio, è applicato quello multiservizi, e nemmeno questo è rispettato, non venendo pagate correttamente le ore di straordinario e le maggiorazioni notturne e festive. I turni di lavoro sono comunicati in giornata, poche ora prima del loro inizio, non consentendo ai lavoratori di organizzare il tempo libero.
Il 22 dicembre è iniziato lo sciopero che è proseguito ad oltranza per ben 5 giorni. Sono stati organizzati presidi dinanzi ai maggiori supermercati, ogni giorno uno diverso, cui hanno partecipato anche i nostri compagni. L’aspetto di maggior rilievo è che si tratta di lavoratori tutti giovanissimi, alla loro prima esperienza di lotta sindacale, e che si sono dimostrati in modo spontaneo combattivi ed uniti, nonostante le immancabili minacce aziendali.
Si è visto come sia falsa l’idea secondo cui ai giovani non interessi la lotta sindacale. Ciò che sicuramente rifiutano è il sindacalismo concertativo. Ma se incontrano un sindacato genuino, sono pronti a spendere tutto il loro entusiasmo nella lotta di classe.
Al quinto giorno di sciopero l’azienda ha ceduto accettando di trattare. L’incontro si è tenuto il 9 gennaio portando ad un accordo in cui la cooperativa si è impegnata alla piena applicazione del contratto nazionale multiservizi a partire dal 1° gennaio 2019: corretto pagamento delle maggiorazioni per il lavoro notturno, supplementare, festivo, nonché il pagamento al 100% della di malattia e infortunio.
Toncar di Muggiò, Monza
Un’altra difficile battaglia si è consumata alla Toncar di Muggiò, una legatoria, che occupa una ottantina di lavoratori – tutti immigrati da Marocco, Romania, Egitto e Filippine – con contratto a tempo indeterminato, attraverso una cooperativa. Nei periodi di picco produttivo però i lavoratori sono arrivati ad essere 270, attraverso assunzioni a tempo determinato.
Il SI Cobas ha circa 60 iscritti, tutti operai con contratto a tempo indeterminato ed anzianità fra i 5 e i 15 anni. In questa azienda ha condotto già alcuni scioperi, uno il 15 febbraio 2017, un altro il 7 luglio 2018.
Il padrone allarga e diminuisce il numero degli addetti a fisarmonica e lo stesso fa con l’orario di lavoro, e non paga le ore di straordinario grazie ad un uso particolarmente spregiudicato della banca ore. Ad oggi vi sono lavoratori che hanno accumulato 400 ore.
Il SI Cobas ha scritto ripetutamente alla Direzione Territoriale del Lavoro e alla Prefettura, a fronte delle evidenti irregolarità, senza ottenere alcuna risposta. Ma quando in passato ha scioperato, come il 15 febbraio 2017, già contro il tentativo di licenziare i lavoratori, le istituzioni dello Stato borghese si sono presentate prontamente, coi carabinieri, che hanno attaccato il picchetto degli operai.
La Toncar produce figurine per il marchio Panini, che è quasi il suo unico cliente. Il SI Cobas ha così provato a scrivere per coinvolgere nella trattativa questo unico committente. Il risultato è stato che la Toncar dopo pochi giorni ha comunicato che la Panini avrebbe reagito rivolgendosi ad un’altra azienda, lasciando senza lavoro lo stabilimento di Muggiò. In una successiva riunione, in teoria finalizzata a venire a capo del problema, la Toncar ha comunicato il cambio di appalto, e con esso il licenziamento degli ottanta lavoratori a contratto indeterminato. L’azienda ha quindi proceduto a selezionare ed assumere circa quaranta lavoratori, tutti non iscritti al SI Cobas.
La nuova azienda cui è stato dato l’appalto – non più una cooperativa bensì una Srl – appare creata ad hoc per sostituire la precedente, rimanendo però i medesimi padroni, tant’è che sarebbe stato il responsabile del personale della cooperativa precedente a selezionare il personale subentrante. Insomma, questi borghesi – i dirigenti della Toncar e delle cooperative – fanno bellamente quello che gli pare, in barba a contratti e leggi, o meglio, con la tutela e copertura delle istituzioni borghesi. A dare copertura sindacale all’operazione si è prestato un sindacalista della UIL.
Così il 7 gennaio, il primo lunedì dopo le feste, i lavoratori del SI Cobas sono entrati in fabbrica anche loro, insieme ai nuovi assunti. Hanno occupato la fabbrica e così pure i due giorni seguenti, fino al 9. I nuovi assunti non si sono opposti ai vecchi e quando lunedì 14 «si sono trovati all’ingresso il picchetto di sciopero non hanno ceduto alle pressioni dei capi e dei carabinieri che li volevano far entrare sotto la protezione dei loro manganelli» (comunicato del SI Cobas del 18 gennaio).
Il picchetto è stato attaccato a manganellate ed un lavoratore è finito all’ospedale con la testa rotta ma questo non ha spezzato la determinazione di operai ed operaie.
Il giorno dopo era previsto un incontro in prefettura. Il picchetto è iniziato nuovamente alle 6 del mattino ed ha tenuto fino al termine della trattativa, a mezzanotte. Il padrone della Toncar e della nuova società cui è data in appalto l’attività hanno ceduto, accettando di assumere i lavoratori sindacalizzati.
Apprendiamo dalla stampa che in Ungheria è stata approvata una legge soprannominata “Legge sulla schiavitù”: aumenta da 250 a 400 le ore annuali di straordinario che i capitalisti possono imporre ai lavoratori, un’ora di straordinario in più al giorno. Inoltre queste ore potranno essere pagate dopo tre anni e non più entro un anno come attualmente. Se un lavoratore perde il lavoro prima è quindi possibile che non riceva il compenso degli straordinari.
Oltre che una legge schiavista è anche contro i sindacati: le trattative sullo straordinario potranno essere condotte direttamente tra dipendenti e aziende.
Il salario minimo in Ungheria e di 296 euro al mese, per i lavoratori qualificati di 388.
Il governo sostiene che la “flessibilità” verrebbe a favorire le imprese che investono in Ungheria, in particolare quelle automobilistiche tedesche, le quali hanno numerose fabbriche nel paese. Ma naturalmente il partito di Orbán sostiene che tale legge è a favore anche dei lavoratori: chi vuole guadagnare di più, lavorando di più, potrà farlo “liberamente”.
La classe operaia però ha iniziato ad opporsi a tale legge scendendo numerosa in piazza a Budapest fin dall’8 dicembre, dove hanno manifestato migliaia di lavoratori, per chiedere aumento dei salari e non delle ore di lavoro.
Alcuni manifestanti ungheresi hanno indossato il gilet giallo, simbolo delle manifestazioni francesi, e si sono aggiunti anche alcuni studenti dell’Università di G. Soros, colpiti da una legge dell’aprile scorso che le impedisce di accettare nuovi iscritti.
A distanza di un secolo da quando in Ungheria il proletariato cacciò la borghesia, proclamò la Repubblica dei Soviet ed instaurò la sua dittatura di classe, oggi è la borghesia, in tutti i paesi, per nome dei vari Orbán, di destra o di “sinistra”, ad imporre la sua dittatura spietata contro la classe lavoratrice, che potrà risollevarsi solamente organizzandosi in forti sindacati di classe guidati dal suo partito comunista.
Il recente sciopero dei lavoratori postali in Canada ha ancora una volta messo in luce la fragilità del capitalismo contemporaneo. La logistica – trasporto, magazzinaggio, distribuzione e relativi sistemi informatici – è di vitale importanza in un’economia dominata dalla produzione ripartita a scala globale e gli ordinativi con tempi sempre più ristretti, secondo il metodo del cosiddetto just in time.
Lo sciopero dei lavoratori delle poste canadesi, durato un mese, ha avuto un effetto così incisivo sulla circolazione delle merci che è dovuto intervenire lo Stato per fermarlo. Questo riconoscimento della forza operaia da parte dello Stato borghese dovrebbe ricevere l’attenzione dei lavoratori di tutti i paesi.
Il Sindacato Canadese dei Lavoratori Postali (Canadian Union of Postal Workers - CUPW), con 50.000 iscritti, è stato in trattativa dallo scorso inverno per il rinnovo del contratto con la Canada Post, la società di servizi postali dello Stato. I negoziati si sono incentrati sul significativo aumento dei pacchi spediti negli ultimi anni (solo tra il 2016 e il 2017 del 20%), che ha drasticamente aumentato il carico di lavoro per i dipendenti. Ciò ha portato la Canada Post ad assumere più lavoratori temporanei (il 23,98% dei dipendenti e il 29,97% delle ore nel 2017) e ad imporre straordinari obbligatori al personale a tempo indeterminato.
L’aumento del lavoro ha portato ad un aumento degli infortuni. Secondo la CUPW «un lavoratore su 12 delle Canada Post ha subito un infortunio sul lavoro nel 2017».
Senza un contratto e dopo dieci mesi di negoziati, il CUPW il 22 ottobre ha iniziato gli scioperi. I lavoratori hanno aderito in diverse grandi città in giorni diversi nel corso del mese successivo. Anche se non si è riusciti ad arrivare allo sciopero generale, gli effetti di questa agitazione sono stati pesanti per l’azienda. A metà novembre c’erano 260 semirimorchi di posta non consegnata presso l’impianto di lavorazione di Toronto e oltre 100 a Vancouver. Canada Post è stata costretta a rifiutare le spedizioni internazionali e la posta destinata al Canada si è ammucchiata negli aeroporti stranieri.
Le ipocrita grida di dolore degli uomini del capitale e del suo governo sono iniziate subito e alla metà di novembre hanno raggiunto un picco di febbrile intensità. Al primo giorno di sciopero, la Federazione Canadese delle Imprese Indipendenti (Canadian Federation of Independent Business) ha dichiarato: «ogni volta che [i lavoratori delle poste] anche solo minacciano uno sciopero, i clienti delle piccole imprese cercano alternative, e molte non tornano alla Canada Post». La morale del messaggio è cruciale: il sindacato deve essere alleato all’impresa nella sua lotta nel mercato e i bisogni dei lavoratori vanno subordinati a questa necessità.
EBay, intermediario per venditori indipendenti che si appoggia primariamente al servizio postale canadese, si è pubblicamente appellato al governo affinché dichiarasse illegale lo sciopero. Canada Post, nel comunicato ufficiale emesso con la sua ultima offerta del 14 novembre, ha ammonito circa «i gravi effetti sull’economia canadese» e che «anche gli enti di carità e le cosiddette organizzazioni no-profit fanno uso del servizio postale» e sono quindi danneggiate dallo sciopero. Dipingere lo sciopero come sconveniente per il capitale non era abbastanza, hanno voluto presentarlo come nemico dello spirito umanitario, per dipingere gli scioperanti come gretti, egoisti e privi di scrupoli. In realtà è esattamente ciò che sono i borghesi!
Il tempismo dello sciopero ha avuto un ruolo importante. La CUPW lo ha annunciato il 16 ottobre, il giorno prima che la cannabis diventasse legale nel paese. I venditori di questa droga, inclusa la partecipata statale Ontario Cannabis Store, avevano ricevuto decine di migliaia di ordinativi che non sono riusciti ad evadere. Un ben danno a quello che era atteso essere un notevole mercato recante un gran beneficio all’economia nazionale! Inoltre lo sciopero si è rafforzato quando il settore del commercio stava preparandosi alla cruciale stagione delle vendite natalizie. Canada Post ha dichiarato di «consegnare i 2/3 delle vendite on-line del Canada» e che «il 25% di queste spedizioni avviene nei mesi di novembre e dicembre».
Alle richieste di aiuto del Capitale il governo è prontamente venuto in soccorso. Dopo che l’offerta aziendale del 14 novembre è stata rifiutata dal sindacato, il parlamento ha iniziato a discutere un decreto – il C-89 – che è stato approvato il 26 novembre e che ha posto fuori legge lo sciopero dal giorno successivo, comminando pesanti sanzioni in caso di prosecuzione dell’azione: mille dollari canadesi per ogni giorno di sciopero per gli iscritti, 5 mila per i delegati, 100 mila per l’organizzazione.
La CUPW ha interrotto lo sciopero ed ha lanciato un appello all’opinione pubblica e agli altri sindacati per una protesta contro l’atto legislativo. Mobilitazioni sono state organizzate davanti ai centri postali sparsi nel paese ed in alcuni casi hanno interferito col processo produttivo. Alcuni sindacati hanno raccolto fondi a favore della CUPW a sostegno della sua lotta contro il C-89.
Lo sciopero dei postali canadesi ha dimostrato l’impatto che una lotta relativamente moderata ha avuto sull’economia capitalistica colpendo una sua industria vitale. Si può solo immaginare l’effetto che potrebbe avere uno sciopero generale di tutto il settore, che coinvolgesse anche i lavoratori del settore privato, e che fosse ad oltranza. Le borghesie d’ogni paese lo sanno e lo temono.
La lezione in negativo dello sciopero è che l’appoggio dall’esterno, cioè dal resto della classe lavoratrice organizzata negli altri sindacati, è stato troppo debole ed è arrivato troppo tardi per essere utile. La solidarietà dei militanti delle altre organizzazioni sindacali non ha portato a diffuse manifestazioni di sostegno se non dopo la messa fuori legge dello sciopero. La stessa CUPW avrebbe dovuto appellarsi prima agli altri sindacati, e al fine di promuovere scioperi invece che generiche proteste.
Uno dei punti deboli della classe operaia è che questi sindacati la organizzano divisi per azienda laddove, invece, il Capitale si appoggia, di fronte a uno sciopero in una singola fabbrica o impresa, alle altre, come ad esempio è accaduto in questo caso con Amazon. Solo l’unità d’azione dei lavoratori al di sopra delle divisioni fra fabbriche e aziende può permettere loro di fronteggiare e piegare il Capitale giunto all’attuale livello di gigantismo.
Diventano sempre più insopportabili in Venezuela le condizioni di vita non solo per i disoccupati, i lavoratori precari e per quelli a salario minimo, ma anche per i qualificati e gli specializzati. Perfino i capi reparto, i dirigenti e i piccolo borghesi debbono ogni giorno di più spendere tutto il loro reddito in alimentari, mezzi di trasporto, medicine.
Il governo borghese annuncia aumenti del salario minimo e distribuisce buoni pasto e pacchi alimentari, si dichiara addirittura “operaista” e “anti-imperialista”. Ma la realtà è che le monetine che il governo borghese mette nelle mani dei lavoratori i capitalisti se le portano via subito con l’aumento dei prezzi dei prodotti e dei servizi di prima necessità. Al contrario di ciò che il governo e i suoi difensori dichiarano, il salario non è aumentato ma è rapidamente diminuito e i lavoratori e le loro famiglie sono spinti nella povertà. La disoccupazione aumenta sia perché le aziende chiudono, sia perché i lavoratori si licenziano perché il salario non copre nemmeno il costo dell’autobus per andare al lavoro.
Le illusioni democratiche sono finite. Da un lato il governo promette che anche nella crisi si prenderà cura dei lavoratori e delle famiglie impoverite; dall’altro gli oppositori spacciano l’illusione che, abbandonato il governo dei chavisti, con un governo “di salvezza nazionale” i lavoratori potrebbero ottenere un migliore tenore di vita. La verità è che governo e opposizione sono alternative solo apparenti, entrambe borghesi e imperialiste.
Ciò è aggravato dallo strato schifoso della burocrazia sindacale che smobilita i lavoratori delle città e delle campagne e li tiene isolati e separati nelle lotte che uniti dovrebbero intraprendere.
Anche in Venezuela i lavoratori devono reagire a questa situazione riprendendo la pratica dello sciopero e la mobilitazione, loro unica vera forza. Per questo è necessario promuovere l’unità alla base, rompendo con le divisioni di affiliazione sindacale. Indipendentemente dal sindacato di appartenenza, o non iscritti ad alcun sindacato, i lavoratori devono unirsi alla base intorno a rivendicazioni comuni, scendere nelle strade e bloccare la produzione.
I lavoratori devono protestare contro le misure anti-crisi messe in atto dal governo, sostenuto dalle imprese, dal Parlamento e dai partiti filo-governativi, ed anche dell’opposizione, indipendentemente da quello che dichiarano ai media. L’unità di azione per ottenere le rivendicazioni dei lavoratori, a livello locale, nazionale e internazionale, passa attraverso l’organizzazione alla base.
Occorre:
1. Riprendere lo sciopero come la principale forma di lotta, senza limiti di tempo, senza servizi minimi, unendo lavoratori di diversi mestieri e rami di attività. Organizzare casse di sciopero per sostenere la propaganda e la resistenza durante le lotte. Aggregare nella lotta lavoratori attivi della città e della campagna, licenziati, pensionati e disoccupati.
2. Organizzare veri sindacati di classe, capaci di unire e mobilitare tutti i lavoratori al di fuori dei loro sindacati attuali. Non dividere gli iscritti secondo le loro preferenze politiche, la nazionalità, la professione, la razza o la fede religiosa. Questi sindacati di classe devono organizzare i lavoratori salariati localmente al di sopra dei confini delle aziende e includere lavoratori attivi, pensionati, licenziati e disoccupati. Occorre organizzarsi alla base all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro, facendo pressione sui sindacati e sulle federazioni di regime perché tengano assemblee, chiedendo che non vengano firmati contratti con i datori di lavoro senza l’approvazione delle assemblee, richiedendo che i piani di mobilitazione, di agitazione e di propaganda siano approvati nelle assemblee, in modo che nessuna richiesta o discussione di contratto avvenga senza la pressione dello sciopero e della mobilitazione dei lavoratori. In assenza di sindacati di classe, formare comitati di base di lavoratori per raggruppare i lavoratori e i pensionati non solo nei loro luoghi di lavoro, ma per località.
3. Per una piattaforma unitaria di rivendicazioni operaie: aumento generale dei salari e delle pensioni, riduzione dell’orario di lavoro, uno stipendio ai disoccupati, eliminazione del lavoro precario, del sistema dei subappalti e delle esternalizzazioni, riduzione dell’età pensionabile, eliminazione degli straordinari, contro i licenziamenti e per condizioni migliori dell’ambiente di lavoro; liberazione dei lavoratori imprigionati.
4. Per la firma immediata dei contratti collettivi a difesa del salario. Per la riduzione della durata dei contratti collettivi. Per un adeguamento dei salari in base all’inflazione. Contro l’imposizione di penali per la violazione dei contratti o per ritardi nella loro sottoscrizione. Che i datori di lavoro paghino con effetto retroattivo i contratti stipulati in ritardo o non soddisfatti. La firma dei contratti non deve costituire un patto di pace del lavoro.
5. Respingere le intimidazioni e le repressioni governative e padronali fondate
sul pretesto che le lotte per le rivendicazioni operaie facciano parte di
presunte cospirazioni “anti-nazionali”, “pro-imperialiste” o “terroristiche”.
Respingere il licenziamento dei lavoratori impegnati nelle lotte o nella loro
organizzazione. Respingere la persecuzione giudiziaria dei lavoratori in lotta,
definendo delinquenti coloro che affrontano i padroni per le richieste operaie.
Per la libertà dei lavoratori arrestati per la loro partecipazione alle lotte
sindacali.
– Sciopero generale per aumenti salariali e contro i licenziamenti !
– Immediata liberazione dei lavoratori detenuti!
– Unità d’azione contro lo sfruttamento capitalista in tutto il mondo!
– Per l’abolizione del lavoro salariato!
Marriott International è la più grande società nel settore alberghiero al mondo, diffusa su tutto il globo, proprietaria di catene come Sheraton, Ritz-Carlton, Gaylord e Renaissance, per citare le più note. Nel 2017 la rivista Fortune l’ha posizionata al 35° posto nella classifica delle migliori 100 aziende per cui lavorare, dicendo che i suoi dipendenti si sentono “in una famiglia”.
Non sembra però essere questo il caso per circa 8.000 lavoratori statunitensi del gruppo che dall’inizio di ottobre sono scesi in sciopero in diverse città. La lotta è stata organizzata dal sindacato Unite Here Union che in Marriott rappresenta circa 20.000 lavoratori e che è presente anche nell’industria con circa 250.000 iscritti.
Il sindacato ha scritto che i profitti della Marriott dalla recessione del 2008 hanno avuto un incremento di circa il 280% mentre i salari dei lavoratori sono cresciuti solo di un 7% nominale e le ore di lavoro si sono ridotte.
Lo sciopero si è concentrato in alcuni alberghi dove le retribuzioni sono particolarmente basse. Le rivendicazioni comuni sono: difesa del posto contro l’automazione, aumento dei salari e migliori condizioni di lavoro. Lo slogan della lotta è stato: “Un solo lavoro dovrebbe bastare”, cioè si chiede di non dover lavorare in due o tre posti per sopravvivere, come molti fanno.
Gli scioperi sono iniziati a Boston all’inizio di ottobre, con 1.500 lavoratori che si sono assentati dal lavoro senza preavviso. Qualche giorno dopo si sono aggregati 4.000 lavoratori di San Francisco.
La Marriott, che si è dichiarata “dispiaciuta” che Unite Here sia ricorsa allo sciopero, una portavoce del sindacato ha risposto “vogliamo riportare lo sciopero nel movimento operaio”, una cattiva notizia per la borghesia, che deve tenere soggiogato il proletariato aumentandone lo sfruttamento per garantire il suo privilegio di classe.
Infatti, a differenza dagli anni passati, si è tornati a lottare negli Stati Uniti, dopo il coraggioso sciopero nazionale degli insegnanti all’inizio di quest’anno ed
in corso in alcuni distretti. In tutto il paese i lavoratori si stanno rendendo conto della forza della lotta comune e delle preziose lezioni da imparare dai compagni di battaglia.
Alcuni scioperanti sono riusciti ad ottenere dai proprietari di casa di ritardare il pagamento dell’affitto fintantoché continuava lo sciopero, giunto alla quarta settimana. Oltre all’aiuto dei familiari e a varie donazioni, i lavoratori si sono scambiati assistenza fra loro. Il tesoriere del sindacato ha affermato: “quelli che sono ai picchetti si conoscono perché lavorano insieme tutti i giorni, sono amici e vogliono davvero prendersi cura l’uno l’altro”, una comunità di classe in cui si sviluppano sentimenti fraterni fra lavoratori in lotta.
Questa è la loro “famiglia” e la loro “comunità”, e non quella in Marriott né in alcun’altra azienda, qualunque siano le melensaggini padronali o la sua pubblicità sulle riviste patinate. Non esiste un legame tra i lavoratori ed il padrone che possa esulare dallo sfruttamento.
L’unica comunità per il proletariato è il proletariato internazionale stesso. L’unità di classe è la sua unica forza!
La lotta di classe è un processo destinato a riprodursi ovunque si impiantino e si diffondono i rapporti borghesi di produzione. Da quando le “officine del mondo”, e in primo luogo la Cina, avanzando sulla strada della maturità capitalistica, spostano gli investimenti in settori a maggiore intensità di capitale costante, dismettendo quelli in cui la componente del lavoro è
prevalente, i capitali migrano dove la forza lavoro è venduta al prezzo più basso. Ma invariabilmente insieme al capitale si sposta la guerra fra le classi.
Il settore del tessile è di primaria importanza per l’economia del Bangladesh. Da esso proviene l’80% delle esportazioni per un volume di 30 miliardi di dollari l’anno, facendo del paese il secondo produttore di tessuti e di abbigliamento al mondo dopo la Cina. Se il Bangladesh l’anno scorso ha avuto una crescita del Pil del 7,8% lo deve in gran parte al settore tessile. Si stimano in 4,5 milioni gli occupati nel settore, i quali, a causa dei bassi salari, dei contratti disattesi o addirittura inesistenti, vivono con le loro famiglie nella più nera povertà.
Ma una nuova ondata di lotte del proletariato industriale è esplosa in Bangladesh dove, dopo oltre un mese di mobilitazioni che hanno coinvolto molte fabbriche, a partire dai primi di gennaio è dilagato uno sciopero a oltranza nel settore tessile per chiedere aumenti del salario minimo e migliori condizioni di lavoro.
Le strade della capitale Dhaka si sono riempite di scioperanti, in grande maggioranza donne. Hanno dovuto affrontare la polizia che ha fatto largo uso di cannoni ad acqua, proiettili di gomma e lacrimogeni. Nei furiosi attacchi c’è stato anche almeno un morto e decine di feriti, mentre le riprese hanno mostrato i corpi e le teste sanguinanti delle scioperanti prese a bastonate dalla sbirraglia. Gli scontri hanno raggiunto momenti di particolare acutezza quando i lavoratori hanno bloccato la strada che collega la capitale all’aeroporto.
A scatenare la determinazione operaia sono i bassi salari, la precarietà, le condizioni di lavoro disumane in edifici fatiscenti e privi dei minimi requisiti di sicurezza.
Dopo otto giorni di astensione generalizzata dal lavoro i padroni del tessile hanno ceduto accordando aumenti per sei livelli salariali su sette. I lavoratori del livello più alto e con maggiore anzianità avranno un salario minimo di 18.257 taka, circa 190 euro, mentre non ha avuto alcun aumento il livello più basso per il quale è rimasto invariato il salario minimo.
Il distretto industriale di Savar, nell’area di Dhaka, fra i più importanti del tessile bengalese, è stato uno di quelli maggiormente interessati dallo sciopero. Nel paese è
viva la memoria della tragedia provocata nel 2013 dal crollo del Rana Plaza, un edificio fatiscente di otto piani, situato proprio a Savar, al cui interno si trovavano numerosi opifici tessili nei quali lavoravano migliaia di lavoratori, in prevalenza donne. In quell’occasione le operazioni di soccorso richiesero venti giorni e una volta concluse si contarono 1.129 morti, mentre 2.515 feriti erano stati estratti vivi dalle macerie.
Negli ultimi tempi il crescente malcontento dei lavoratori, sfociato spesso in scioperi e manifestazioni, aveva costretto il governo ad adottare misure volte a placare il malumore sociale. Recentemente il governo guidato dalla premier Sheikh Hasina – rieletta nel dicembre scorso con un successo elettorale schiacciante, ottenuto anche con brogli, violenze ed intimidazioni nei confronti delle opposizioni, che le ha permesso di conquistare 288 seggi in parlamento su 300 – aveva approvato l’aumento del salario nazionale minimo per il settore tessile, rimasto fermo negli ultimi cinque anni. Tale aumento era stato deciso dopo la convocazione di una commissione tripartita composta da governo, imprenditori e sindacati, segno che il giovane capitalismo assume presto i caratteri tipici di quelli più maturi nei quali la collaborazione di classe vede il ruolo attivo dei sindacati asserviti allo Stato borghese. Con un incremento del 51% era già stato portato a 8.000 taka, equivalenti a 84 euro, a decorrere dal 1 dicembre 2018. Ma i lavoratori lamentano che molto spesso le paghe restano inferiori al salario minimo e che molti operai lavorano in nero, senza contratto.
A un certo punto però, nella seconda decade di gennaio, le processioni religiose hanno strappato per qualche giorno le piazze agli operai in lotta. Lo sciopero è passato in secondo piano nei grandi media, tutti controllati dalla borghesia, che si sono dati a mostrare lo sventolio delle opposte bandiere del fanatismo religioso e della secolarizzazione dello Stato, cui tenderebbe il governo: una contrapposizione fittizia fra fazioni borghesi, laiche e religiose, che ha agito una volta come diversivo delle lotte operaie dai loro obiettivi: il salario, l’orario e le condizioni di lavoro.
Intanto la classe nemica tenta di riprendersi quello che ha concesso. Nei giorni dello sciopero numerosi sono stati gli atti di violenza e di intimidazione da parte dei vigilanti della sicurezza interna alle aziende, a sciopero finito molti operai, tornati al lavoro, hanno trovato la brutta sorpresa del licenziamento.
Quindi anche dopo l’aumento salariale permangono segni di forte malcontento. Questa stagione dei lotte operaie non sarà certo l’ultima.
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L’esistenza dei vecchi partiti figli dell’opportunismo staliniano, che abusivamente si insigniscono del nome di “comunisti”, viene descritta spesso dalla stampa borghese come un fatto del tutto residuale, oltre i limiti del folkloristico, se non del grottesco.
Il punto di vista della nostra corrente, anche su questo tema è diverso da quello che può avere qualsiasi scribacchino impiegato nei mass-media al servizio del capitale. Tali partiti infatti, anche se nella maggior parte dei paesi hanno perso un seguito di massa, continuano ad assolvere a un compito importante dal punto di vista della borghesia: quello di rendere il comunismo poco attraente ai lavoratori, oltre che irriconoscibile, presentando come tale un guazzabuglio di luoghi comuni e di pregiudizi del tutto interni ai motivi e agli stilemi dell’ideologia dominante. Sia che permangano al potere, come è il caso di quelli di Cina, Vietnam, Cuba e Corea del Nord, sia che si trovino all’opposizione con un seguito esiguo, ma talora non del tutto trascurabile come in Grecia, Francia o in Portogallo, essi offrono l’estremo tributo alla controrivoluzione demoralizzando e disorientando il proletariato.
Nel novembre scorso, presso la sede di Atene del Partito Comunista di Grecia (KKE), si è tenuto il “20° Incontro internazionale dei Partiti Comunisti e Operai”. Vi hanno partecipato 90 partiti di 72 diversi paesi, assai diversi fra loro per linea politica, storia e consistenza, i quali hanno tuttavia in comune, insieme a una fraseologia opportunista, l’appartenenza al campo del politicantismo borghese.
Nella convocazione dell’incontro si leggono passaggi assai significativi e rivelatori di quanto, dietro al preteso carattere internazionalista dell’evento, vi si nasconda il più vieto sciovinismo, caratteristica secolare dell’opportunismo. «I partiti comunisti e operai salutano le lotte degli operai e dei popoli di tutto il mondo contro l’attacco dell’imperialismo, contro l’occupazione, la minaccia ai diritti alla sovranità e all’indipendenza, per la pace, la difesa e l’ampliamento dei diritti sociali e democratici. L’esperienza accumulata in molti paesi contro i piani imperialisti e la politica degli Stati Uniti, della Nato e dei suoi alleati è preziosa». I sedicenti partiti comunisti qualificano quindi di “imperialista” una sola potenza, gli Stati Uniti d’America. D’altronde un insieme così eterogeneo di formazioni politiche come avrebbe potuto trovare un comune denominatore se vi fa parte il partito al potere di una potenza imperialista di prima grandezza come la Cina?
Ecco allora che per questi pretesi “comunisti” diventa agevole fare appello, a fini non soltanto di propaganda, a concetti alla moda. Rivendicare “sovranità” e “indipendenza”, cercando il “consenso popolare” con le destre populiste e fasciste, ha senz’altro un “valore politico”, benché ben lontano da quello proclamato. Sovranità e indipendenza nazionali nel mondo d’oggi non significano la reale possibilità per un paese di compiere una politica autonoma sulla scena internazionale. In un pianeta così interconnesso la nazione è solo l’estrema trincea dietro la quale la borghesia, classe quanto mai internazionale esattamente quanto l’opposta proletaria, si schiera per difendere il proprio dominio. Dunque nulla sarà ad essa più gradito dello sventolio della logora bandiera della “sovranità nazionale” da parte di false sinistre e di pretesi comunisti, mentre in realtà spacciano per “antimperialismo” l’appoggio ad un fronte imperialista contro l’altro.
Come sugli stalli lignei del coro di un’antica cattedrale, abbiamo sui due lati schiere di sguaiati cantori che intonano la stessa berciante melodia: a destra i “rossobruni”, figli della cosiddetta “destra sociale”, del sansepolcrismo italico e del nazionalsocialismo germanico, a sinistra i campioni della controrivoluzione staliniana russa e internazionale, da quasi un secolo capofila del falso comunismo. Alla borghesia oggi fa assai comodo che accanto a quello delle destre xenofobe e fasciste si faccia strada anche un “sovranismo di sinistra” e falso operaio.
Ma torniamo alla convocazione dell’incontro di Atene dove troviamo altri concetti privi di qualsiasi coerenza logica, purtuttavia assai efficaci a confondere le acque: «La lotta per la pace, il rispetto della sovranità popolare, per la soluzione dei problemi popolari e il soddisfacimento delle necessità popolari è indubbiamente vincolata alla lotta per il rovesciamento della barbarie capitalista, per il socialismo».
Se è vero che la pace è possibile a patto di “rovesciare la barbarie capitalista”, questo implicherà necessariamente la negazione di ogni “rispetto della sovranità popolare”, dacché la sussistenza di quest’ultima implicherebbe la sopravvivenza del popolo, congerie di classi distinte e antagoniste, e dello Stato “popolare”, cioè non proletario, cioè borghese. E in tale caso la “lotta per la pace” sarebbe in ogni caso impossibile: all’esterno contro gli altri Stati “sovrani”, e all’interno per la guerra contro il proletariato, se non sottomesso altrimenti alla violenta dominazione borghese. In realtà la “pace” cui alludono costoro non è altro che la pace sociale, che impera anche in quei paesi in cui partiti pretesi comunisti sono al potere, garanti della feroce dittatura del capitale.
Quanto poi alla ignobile pretesa di conciliare l’internazionalismo proletario con la menzogna della “sovranità nazionale”, possiamo ribattere con le parole che il nostro partito ebbe a scrivere a commento della Conferenza dei Partiti Comunisti e Operai tenutasi a Mosca nel novembre del 1960 e di cui l’evento di Atene 58 anni dopo non è che una puntuale fotocopia, a riprova, se ce ne fosse bisogno, della capacità dell’opportunismo di restare uguale a sé stesso attraverso i decenni e i secoli. «La pretesa reazionaria dell’opportunismo di unificare “l’internazionalismo e il patriottismo”, due caratteristiche contraddittorie pertinenti l’una al proletariato e l’altra alla borghesia, testimonia a quale grado di corruzione borghese esso sia giunto. Si vorrebbero conciliare due classi irriducibilmente nemiche della società. Il socialismo sarà la conseguenza non di un pateracchio fra classi quali che siano, ma della vittoria del proletariato internazionale» (“Replica all’ignobile manifesto degli 81 partiti cosiddetti operai e comunisti”, “Il Programma Comunista”, n° 5-6 del 1961).
A introdurre i lavori dell’”Incontro internazionale” è stato il segretario generale del Partito Comunista di Grecia, Dimitrios Koutsoumpas il quale, dietro accenni apparentemente marxisti e ad appelli all’internazionalismo e alla lotta della classe operaia, ha nascosto il totale tradimento della nostra teoria richiamandosi agli errori di sempre dei partiti stalinisti, fra cui il da tempo trapassato PCI togliattiano. Dalla “lotta dei ceti medi popolari” a quella “contro i monopoli” lo stesso deviare dal comunismo, la stessa demagogia di Palmiro Togliatti che già nell’aprile del 1944, all’epoca della “Svolta di Salerno”, inneggiò alla «libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi del capitale monopolistico».
Il nesso fra la cosiddetta “lotta contro i monopoli” e il costante vezzeggiamento delle mezze classi per favorire una pretesa “alleanza” con la classe operaia è ribadito nella risoluzione politica conclusiva del XX congresso del Partito Comunista di Grecia, tenutosi fra marzo e aprile del 2017. Vi si nega che, secondo Marx, nella società borghese ciascuna classe si distingue dal tipo di reddito: salario per i proletari, profitto per i capitalisti, rendita per i proprietari terrieri. Anche la maggioranza numerica dei capitalisti e dei fondiari “lotta contro i monopoli”, ma non è anti-capitalista. Solo un proletariato realmente rivoluzionario, che non si limiti a “lottare contro i monopoli” ma tenda alla sua dittatura di classe, si può tirare dietro le mezze classi.
Ma la “teoria” per gli stalinisti è solo l’alibi per giustificare i loro pateracchi interclassisti. Il Partito Comunista di Grecia nel 1989, in linea con il machiavellismo più ripugnante del politicantismo borghese, ha partecipato a un governo di coalizione governativa con il partito di destra di Nea Dimokratia, pur di escludere dall’esecutivo il Partito Socialista Panellenico.
Occorre però ribadire un punto di ben maggiore momento: l’accentrata organizzazione economica espressa dai monopoli, per quanto sia un fatto acquisito da oltre un secolo, è il prodotto più avanzato dello sviluppo del capitalismo moderno. Come spiegava Lenin esso rappresenta il punto di arrivo di un processo che porta il regime del capitale “alle soglie del socialismo”. Il monopolio infatti, esaltando il carattere associato della produzione, pone le basi materiali della società futura, che potrà nascere una volta che la borghesia verrà espropriata. Se essa sarà antimercantile, antimonetaria e antiaziendale, è perché, oltre alla grande proprietà, avrà soppresso anche quella piccola proprietà che l’opportunismo si propone di perpetuare, proteggere e fare prosperare, a beneficio di quelle mezze classi che svolgono un ruolo di primo piano nella difesa della pace sociale e dell’ordine borghese.
Con la difesa della piccola proprietà e delle mezze classi e con la “lotta contro i monopoli”, i sedicenti partiti comunisti vogliono portare indietro la storia: che il capitalismo decrepito dei nostri tempi torni bambino attraverso un vaporoso bagno di giovinezza tra i fumi di una nebulosa ideologia interclassista.
Ma questo evidentemente non è possibile e il lavoro sporco dell’opportunismo consiste nell’indicare ai lavoratori obiettivi politici incongrui, impossibili e, soprattutto, non di classe.
La rivolta del pane in Sudan è incominciata il 19 dicembre del 2018 nella città di Atbara, un centro posto sulla confluenza dell’omonimo fiume col Nilo. Posta sulla strada che congiunge la capitale Khartum (400 chilometri a sud-ovest) con Porto Sudan (660 ad est), il più importante porto del paese che si affaccia sul Mar Rosso, Atbara è stata la capitale dell’industria ferroviaria sudanese e vanta un’antica tradizione di lotte operaie le quali hanno dato vita anche a formazioni sindacali e politiche di una certa consistenza numerica. Fra queste anche il Partito Comunista Sudanese, di orientamento staliniano, che nel corso della storia del paese ha avuto un certo peso politico e che in Atbara ha avuto la sua roccaforte.
Negli ultimi anni, dopo che il governo sudanese ha puntato sopratutto sul trasporto su gomma, l’industria ferroviaria ha conosciuto una fase di declino tanto che attualmente la produzione è scesa a un livello poco più che simbolico.
I semi della rivolta, che dura da più di 20 giorni e che è in corso nel momento in cui andiamo in stampa, sono stati gettati dal governo nel 2017 con l’annuncio che avrebbe posto fine al sussidio sul prezzo del pane. L’obiettivo era di comprimere un deficit di bilancio che minacciava di raggiungere il 5% del PIL.
Già un anno fa le proteste aveva indotto il governo a fare marcia indietro, reintroducendo una parte del sussidio. Ma in seguito l’inasprimento della crisi economica, dovuta in parte anche alla secessione del Sudan del Sud, che ha tolto al paese il 75% delle riserve di petrolio, ha determinato una diminuzione del PIL del 2,3%, facendo salire di nuovo il peso del deficit in rapporto al reddito nazionale. La misura adottata del governo è stata quella di stampare carta moneta facendo impennare l’inflazione fino a un tasso del 69% nello scorso novembre, attualmente il secondo più alto del mondo dopo quello del Venezuela.
A questo si aggiunge la penuria di pane, carburante e farmaci di base, che raggiunge livelli di particolare gravità nella capitale Khartum.
La difficoltà per i proletari sudanesi di procacciarsi di che vivere ha scatenato una rivolta che già nei primi giorni si è estesa da Atbara a Porto Sudan e a Nhoud.
Il 20 dicembre ad Atbara i manifestanti hanno assaltato e dato alle fiamme la sede del governativo Partito del Congresso Nazionale, espressione della destra religiosa di orientamento islamista sunnita, guidato dall’attuale presidente Omar al-Bashir, che si trova al potere dal 1989 dopo avere guidato un colpo di Stato. In seguito all’episodio, subito imitato in altre città, è stato dichiarato lo stato d’emergenza e schierato l’esercito. Ma queste misure non hanno fermato le proteste che si sono invece estese in molte altre città, compresa la capitale Khartum, nonostante una repressione feroce. I manifestati uccisi negli scontri secondo i dati ufficili sarebbero stati 24, secondo altre fonti almeno 50, mentre si stimano migliaia di arresti, anche se il governo ne ammette poco più di 800. Si contano alcune vittime anche tra le forze di polizia.
Una giornata particolarmente cruenta è stata il 17 gennaio, giorno in cui il movimento ha dato prova di essere molto esteso. Manifestazioni e scontri si sono avuti in tutte le principali città del paese mentre a Khartum un corteo ha cercato di marciare sul palazzo presidenziale. La polizia ha sparato provocando altri tre morti. Violenti incidenti si sono verificati anche ai funerali delle vittime. Al momento in cui andiamo in stampa il movimento continua e non è detto che anche a breve non possa riservare sorprese.
L’ondata di proteste, in seguito all’adesione di gruppi dell’opposizione, si sta dando sempre più obiettivi politici, primo fra tutti costringere Omar al-Bashir alle dimissioni. La rivolta ha dato vita anche a un “Coordinamento dell’Intifada”, di cui fanno parte i rappresentati dei principali gruppi dell’opposizione, che ha assunto la direzione delle lotte. Evidentemente, se al proletariato non si può garantire il pane, l’esigenza primaria per la borghesia diventa quella di deviare la lotta verso obiettivi non di classe e di preparare il cambio della guardia ai vertici della nazione.
L’avvenimento riguardante il Medio Oriente che nelle ultime settimane ha trovato maggiore eco sui media, è stato l’annuncio del presidente statunitense Donald Trump di volere ritirare le truppe dagli scenari bellici della Siria e dell’Afghanistan. Come sempre accade in questi casi, l’annuncio ha suscitato una ridda di reazioni e di commenti, il più delle volte confusi e inconcludenti, in cui molti hanno parlato di una grande svolta strategica che farebbe tornare gli Stati Uniti in una di quelle fasi di politica isolazionistica che più volte nella loro storia si sono alternate a periodi di ruggente interventismo bellico.
Dopo il “terremoto” al vertice della difesa americana, per una scelta che certo non può essere gradita alle gerarchie militari, e le dimissioni del segretario alla difesa Jim Mattis a dicembre, l’apice dell’isteria mediatica si è raggiunto quando “fonti riservate” hanno rivelato che Trump a un certo punto avrebbe manifestato addirittura l’intenzione di lasciare la Nato, suffragando così la veridicità dell’ipotesi che lo vede in intelligenza col nemico, lo “zar” Vladimir Putin, indiscusso padrone della Santa Russia.
Da marxisti siamo poco proclivi a trangugiare simili sbobbe sui machiavellismi e le levate d’ingegno delle cancellerie imperiali, e sappiamo bene che tali “grandi svolte” possono essere paragonate alle virate di un velivolo per adattarsi ai colpi di vento, lasciando sempre immutata la destinazione del viaggio. Una potenza mondiale di prima grandezza non può ritirarsi dalla contesa mondiale per i mercati, le rotte dei traffici e le regioni di approvvigionamento delle fonti energetiche e delle materie prime.
Se nel caso dell’Afghanistan 17 anni di presenza militare statunitense non l’hanno ripulito dei talebani, che pure l’intervento voluto da George W. Bush nel 2001 si proponeva di sradicare, questo è un segno che i rapporti di forza sul campo, riflesso in qualche misura dei rapporti di forza fra le maggiori potenze, non consentono una vittoria decisiva delle forze leali a un governo amico degli Usa. Se oggi soltanto poco più di un terzo dei distretti dell’Afghanistan sono sotto il controllo del governo, un ottavo è nelle mani dei talebani e oltre la metà è contesa fra bande armate ed esercito regolare, questo vuol dire che non ci sono le condizioni per pacificare un paese che, oltre agli interessi statunitensi, vede in gioco quelli di potenze globali e regionali come Russia, Cina, India, Pakistan, Iran, Arabia Saudita e altre.
Il ritiro di 7.000 uomini sui 14.000 complessivi del contingente americano in Afghanistan non significa affatto che il governo degli Stati Uniti abbia intenzione di adottare una politica rinunciataria o addirittura “pacifista”, poiché non sembra esserci allo studio nessun progetto di smantellamento sia pure parziale delle oltre settecento basi militari statunitensi disseminate sull’orbe terraqueo, al di fuori del territorio degli Usa.
L’isolazionismo americano è stato in genere un modo per prendere la rincorsa verso il riarmo e la guerra, e in questo senso gli Stati Uniti non accennano affatto a rinunciare alla loro supremazia bellica.
Se Trump vuole rinunciare a giocare il ruolo di gendarme del Medio Oriente è anche perché le risorse petrolifere non sono più così vitali per l’economia americana dopo che gli Stati Uniti, grazie allo sfruttamento degli scisti bituminosi e alla tecnica del fracking, sono diventati i principali produttori di petrolio a livello globale.
Nel caso della Siria l’annuncio del ritiro da parte di Trump riguarderebbe invece la totalità dei 2.000 uomini dislocati nel Nord del paese a sostegno delle milizie curde del Rojava. La ragione di questa decisione ha a che fare in questo caso con la strategia delle alleanze. Il sostegno alle milizie curde delle truppe statunitensi aveva come scopo di contrastare la riconquista del settentrione siriano da parte delle truppe fedeli al governo di Damasco e delle milizie dei pasdaran iraniani sue alleate.
D’altra parte il governo turco vedeva questa alleanza curdo-americana come un ostacolo alla sua politica espansiva nel Nord della Siria, volta ad impedire la continuità territoriale fra il Kurdistan siriano e quello turco, con conseguente sconfinamento della milizie del PKK curdo-turche ed eventualmente delle YPG curdo-siriane. Smarcandosi dallo scenario di guerra siriano gli Stati Uniti lasciano che sia il governo di Damasco a vedersela direttamente con i curdi, mentre permette a Washington di rinverdire la traballante alleanza con Ankara, piuttosto in crisi dopo il tentato colpo di Stato del 2015 e il successivo riavvicinamento della Turchia alla Russia.
Uno dei primi effetti dell’annunciato ritiro statunitense è stata la consegna avvenuta a fine dicembre della città di Manbij alle truppe dell’esercito regolare siriano da parte dell’entità politica curda del Rojava, per evitare che la zona cadesse nelle mani delle truppe di Ankara e delle milizie jihadiste a lei alleate.
Nonostante l’attentato rivendicato dallo Stato Islamico nella stessa città di Manbij, che a metà gennaio ha preso di mira un gruppo di militari americani uccidendone 4 insieme a 20 civili siriani, il processo del ritiro statunitense dovrebbe andare avanti. L’egemonia statunitense sulla regione lascerebbe uno spazio alla rinnovata smania di protagonismo dei suoi alleati tradizionali Israele e Arabia Saudita. Ma anche alla candidatura di Vladimir Putin al ruolo di grande mediatore della regione, aspetto questo già presente negli ultimi mesi se si pensa agli accordi diretti fra Mosca e Riad per regolare la produzione petrolifera e determinare il prezzo del greggio.
Resta sullo sfondo l’indebolimento economico e militare dell’Iran dovuto alle sanzioni economiche successive al ritiro americano dall’accordo sul nucleare, ma anche dagli scricchiolii di un fronte interno segnato dalla ripresa della lotta economica di un proletariato sempre meno disposto a sostenere il prezzo delle guerre per le velleità espansioniste degli ayatollah.
Il disegno egemonico della borghesia iraniana ha segnato il passo anche in Iraq, dove una parte dei partiti sciiti, in primo luogo la fazione guidata da Moqtada al Sadr, tenta di giocare un ruolo più autonomo dall’Iran, reggendosi in un precario equilibrio di equidistanza fra Teheran e Riad.
Un fattore questo che pesa nell’indebolimento della dipendenza di Damasco dal sostegno di Teheran e dall’alleanza fra Russia e Iran, nonostante a un certo punto questa sembrasse avere raggiunto un solido carattere strategico. Oggi si vede come la Russia tratti con grande disinvoltura con Gerusalemme e con Riad, ma anche con Il Cairo, mantenendo rapporti interlocutori e relegando sullo sfondo la rivalità fra Arabia Saudita e Iran, allontanando, almeno per ora, i rischi dell’esplosione di un conflitto regionale di grande ampiezza.
In questo senso vanno visti anche gli accordi raggiunti in Svezia per imporre una tregua nella guerra in Yemen, una guerra per procura che vede schierati da una parte il governo filosaudita e dall’altra le milizie filoiraniane degli Houthi. L’effettività della tregua lascia a desiderare, così come si sta dimostrando inefficace il “corridoio umanitario” per alleviare le sofferenze della popolazione locale flagellata dalla carestia e dalle epidemie, fra cui il colera, che, a causa della condizione disastrosa della sanità, ha mietuto migliaia di vittime.
Un altro timido segnale di riappacificazione nella regione nel segno della supervisione russa è arrivato con la riapertura dell’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti in Siria. Un segno che potrebbe preludere al tentativo di altri paesi arabi, che pure si erano impegnati nel tentativo di rovesciare Assad, di rientrare nella spartizione della ricostruzione della Siria devastata dalla guerra. Come al solito, finita la devastatrice guerra borghese, arriva il momento in cui i vecchi nemici, detentori dei capitali, trovano l’occasione per stringersi la mano e spartire i dividenti della ricostruzione, sulla pelle dei proletari morti e sulle spalle di quelli vivi, ai quali succhieranno sudore, sangue e plusvalore.
Anche in Egitto prolifera la febbre immobiliare con la costruzione della Nuova Capitale Amministrativa, una città di cui non è stato deciso il nome, ma che ospiterà 6,5 milioni di abitanti in un futuro prossimo, dato che per giugno ne è prevista l’inaugurazione. Auspici della faraonica impresa, è il caso di dirlo nella terra delle piramidi, sono i capitali di Cina e degli Emirati Arabi Uniti. Sullo sfondo si rinnova la collaborazione militare con Israele, al quale il governo di Al-Sisi ha permesso di effettuare oltre 100 raid aerei per colpire le postazioni jihadiste nel Sinai, cioè sul proprio territorio nazionale.
Alternando pace e guerra i borghesi assassini fanno ottimi affari e quando la torta dell’accumulazione cresce sulle rovine di città e paesi, trovano l’occasione per ridiventare i buoni amici di un tempo. Chissà se domani anche Recep Tayyip Erdoğan e Bashar al-Assad, oggi acerrimi nemici, torneranno a frequentarsi e con le famiglie ad andare in vacanza insieme.
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Con entusiasmo rivoluzionario si è tenuto l’incontro regionale del partito in Venezuela. Abbiamo affrontato i seguenti argomenti.
Dapprima abbiamo affrontato la grave situazione dei lavoratori e nei sindacati.
Ad agosto il governo ha annunciato il cambio della moneta (il “bolivar sovrano”), cui faceva corrispondere un salario minimo di 1.800 bolivar, circa 16 dollari al mese! Nello stesso tempo toglieva dal “carnet della patria” molti prodotti. A novembre il salario minimo è stato portato a 4.500 bolivar, ma che ormai, a causa della svalutazione della moneta, equivalgono a solo 12 dollari. Parallelamente sono aumentati i prezzi degli alimentari e ha accelerato l’inflazione.
Nel primo semestre del 2018 si sono avuti conflitti salariali nella sanità e fra i lavoratori del servizio elettrico. La paga operaia è ormai composta da 4/10 di salario e da 6/10 di gratifiche statali: le infermiere hanno rifiutato il metodo delle gratifiche e chiesto che il salario copra il costo del paniere alimentare.
Nel secondo semestre il malcontento è cresciuto a causa dei bassi salari e a novembre si è formata una sedicente “Intersectorial de Trabajadores”, che non sembra essere controllata né dai movimenti filo-governativi né di opposizione, ma essere un movimento di sindacati d’azienda e sindacalisti di base, focalizzato sulla richiesta di salari e condizioni lavorative migliori.
Questo movimento aveva indetto una prima manifestazione il 28 novembre a Caracas, ma il governo l’ha impedita bloccando le strade. Lo stesso giorno è stato arrestato il segretario generale della Unione della Ferrominera Orinoco ed è tradotto davanti ad un tribunale militare, che ha ordinato la sua detenzione nel carcere di Pica. Già il giorno prima nove lavoratori della Ferrominera erano stati arrestati e rinchiusi nella prigione di El Dorado, nel sud dello Stato di Bolivar. Questo ha fermato le proteste e il governo non è stato costretto a ricorrere più ampiamente alla repressione.
Abbiamo deciso che la nostra sezione distribuirà un volantino alla prossima riunione della Intersectorial. Cercheremo anche di farvi penetrare posizioni di classe attraverso i sindacati che la compongono e nei quali abbiamo contatti ed influenza. Lavoreremo anche ad un rapporto per il partito sulla situazione dei lavoratori venezuelani, i loro meccanismi di sopravvivenza e i fattori che spiegano perché non riescono a mobilitarsi contro le politiche antioperaie del governo.
Le altre nostre attività comprendono le traduzioni, in particolare dei rapporti esposti alle scorse riunioni generali, che troveranno posto nel nostro periodico El Partido Comunista n.14 del quale è previsto il completamento entro il 15 gennaio.
Si è deciso poi di dedicare parte dei fondi disponibili per la riproduzione di alcune ulteriori copie di El Partido Comunista n.13 e di un volantino.
Infine è stato fissato il calendario delle riunioni regionali del partito e stabilito come partecipare alle riunioni generali e come mantenere un collegamento stretto e regolare con i compagni europei.
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Una nuova esplosione di malcontento proletario ha interessato la Tunisia a fine dicembre. La scintilla è stato il suicidio, dandosi fuoco, il 24 dicembre di Abdelrazak Zergui, un giornalista freelance di 32 anni. Nel suo messaggio denunciava le dure condizioni di vita delle aree interne del paese, quelle a ridosso del confine con l’Algeria, martoriate dalla povertà e dalla disoccupazione, che supera il 30% fra i giovani, e, rivolgendosi agli abitanti di Kasserine, “privi di mezzi di sussistenza”, annunciava la necessità di una rivoluzione. Intendeva suscitare una reazione simile a quella seguita all’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante di Sidi Bouzid che col suo suicidio, nel gennaio del 2011, dette vita all’ondata di proteste sfociata nel rovesciamento del regime di Ben Ali e nella propagazione nel Medio Oriente e nel Nordafrica di movimenti popolari, denominati “primavere arabe”.
Nuove proteste di piazza sono partite da Kasserine a partire dal 25 dicembre, successive ai funerali di Zergui. Le manifestazioni e gli scontri si sono propagati presto a molte città del paese per tre settimane. Tumulti hanno interessato Sidi Bouzid, Meknassy, Kasserine, Thala, Gafsa, Tebourba e Tunisi. L’8 gennaio, nella città di Tebourba, a trenta chilometri dalla capitale, un manifestante è morto durante gli scontri, soffocato dai lacrimogeni sparati dalla polizia. Il 14 gennaio, anniversario della cosiddetta “Rivoluzione dei gelsomini”, il sindacato UGTT ha indetto uno sciopero per il 17 dello stesso mese per ottenere aumenti salariali. La partecipazione allo sciopero è stata molto forte e altre iniziative di lotta sono annunciate per i prossimi giorni, segno del malcontento della classe operaia.
Questa nuova rivolta è dovuta alla depressione economica di vaste regioni e ad elementi di debolezza dell’economia tunisina; la disoccupazione si aggira sul 15% della popolazione attiva mentre si stima che l’economia “informale” pesi per il 50% del Pil occupando, senza alcuna assicurazione sociale, circa 2 milioni di lavoratori. A questi aspetti strutturali dell’economia vanno aggiunte le misure economiche approvate dal governo ed imposte dal Fondo Monetario Internazionale, che includono il deprezzamento del dinaro, l’aumento dell’Iva e i tagli alla spesa pubblica.
Il FMI può esercitare una forte pressione nei confronti del governo di Tunisi perché nel 2016 aveva aperto linee di credito al paese nordafricano per 2,6 miliardi di dollari. Dal 1 gennaio del 2019, con l’entrata in vigore della legge finanziaria e dunque con gli aumenti dell’IVA che va dal 2% fino al 300% a seconda dei prodotti, si è introdotto un incremento forzoso e generalizzato dei prezzi che secondo le stime costerà per ciascuna famiglia 300 dinar al mese: una cifra insostenibile per i lavoratori di un paese in cui il salario minimo intercategoriale è di 357 dinar. Fra i generi di prima necessità sui quali si sono registrati aumenti consistenti ci sono il pane, la pasta, il cuscus, il latte, l’olio vegetale e lo zucchero. La speculazione sui prezzi intanto prolifera. Lo zucchero sfuso è diventato introvabile al prezzo calmierato di 0,97 dinar.
Il peggioramento delle condizioni di molti settori del proletariato tunisino, dovuto all’erosione dei salari causata da un tasso d’inflazione del 7,5%, negli ultimi mesi dell’anno scorso si era tradotto in agitazioni dei lavoratori spesso smorzate dai sindacati collaborazionisti. Lo scorso ottobre il sindacato UGTT aveva indetto uno sciopero generale per chiedere aumenti salariali. Per placare la rabbia dei proletari e scongiurare lo sciopero il governo aveva concesso aumenti salariali da 205 a 250 dinari (rispettivamente 62 e 73 euro) per i lavoratori delle aziende del settore pubblico, riflettendo gli aumenti già ottenuti nel settore privato, si era impegnato nello stesso tempo a non privatizzare le stesse aziende pubbliche e aveva promesso aumenti salariali anche per i lavoratori della funzione pubblica.
Troppo presto il segretario generale dell’UGTT Noureddine Taboubi aveva esultato parlando di “una vittoria per la Tunisia e per la pace sociale”, come se quest’ultima non fosse da sempre la somma fregatura che i capitalisti e il loro Stato rifilano ai proletari. Per lo Stato gli aumenti dei salari sarebbero costati 8 miliardi di dinar, una somma non prevista dalla legge finanziaria, elemento che suscitava l’inquietudine degli investitori stranieri e del FMI, dato che i salari dei lavoratori pubblici incidono per 14,4% del PIL tunisino e per i 2/3 del gettito fiscale. Secondo le previsioni gli eventuali aumenti ai lavoratori dello Stato avrebbero fatto salire ulteriormente la quota dei salari dei dipendenti pubblici oltre il 17% del PIL.
Così, di fronte all’indisponibilità del governo a concedere aumenti non irrisori ai dipendenti statali, l’UGTT si è vista costretta convocare di nuovo lo sciopero dei dipendenti pubblici, che si è svolto nel novembre scorso. Un corteo al quale hanno partecipato molte migliaia di lavoratori ha sfilato per le vie di Tunisi raggiungendo la piazza antistante il parlamento dove i manifestanti hanno scandito slogan che chiedevano le dimissioni del governo.
Ora, con le nuove proteste di piazza, l’anno si apre all’insegna del fallimento dei sogni di pace sociale covati da borghesia e bonzi sindacali. Ma questo aspetto rischia di fare incrinare la stabilità di un paese la cui tenuta sarebbe un fondamentale successo di immagine per l’ordine borghese.
La Tunisia è stata descritta dai media come l’unico successo delle cosiddette “primavere arabe”, un paese che ha compiuto una “riuscita transizione democratica”, con tanto di pacifica alternanza di partiti al potere. Eppure, come è lecito aspettarsi in tempi di crisi cronica del modo di produzione capitalistico, le masse proletarie e semiproletarie non si fanno abbindolare dalla “democrazia”, che in paesi come la Tunisia viene presentata come “una novità” rispetto ai regimi apertamente dittatoriali del recente passato. Basti pensare che alle elezioni amministrative svoltesi nel maggio del 2018 soltanto il 33% degli aventi diritto è andato a votare.
La democrazia nell’attuale fase storica non può non essere “blindata”, al punto da dovere convivere con uno stato d’emergenza in vigore ininterrottamente dal novembre del 2015 e che rischia di diventare permanente, anche se il presidente Béji Caïd Essebsi, il 5 gennaio scorso, nell’annunciarne l’ennesima proroga fino al 4 febbraio, ha promesso che questa volta sarà l’ultima e che la situazione tornerà “alla normalità”. Una normalità anche questa blindata: in una situazione di perenne incandescenza sociale, anche in Tunisia il regime borghese non può rinunciare ai poteri speciali e allo stato d’eccezione, per proibire gli scioperi e le riunioni “che possono provocare disordini”.
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Robespierre nasce il 6 maggio 1758 ad Arras nell’Artois in una famiglia della piccola borghesia: il padre e il nonno erano avvocati. Studia presso gli oratoriani che in Francia, nell’istruzione, avevano preso il posto dei gesuiti, espulsi dal paese nel 1762. Si nutre di Plutarco e di storia antica, subendo l’influenza dell’illuminismo e in particolare di Rousseau. A 23 anni vive ad Arras del proprio lavoro di avvocato, definendosi “povero”, con questo termine intendendo una vita dignitosa ma sobria e austera, lontano dal lusso, visto come sinonimo di corruzione ed assenza di virtù, sulle orme di Rousseau e di gran parte degli illuministi.
Nel 1786, svolgendo il suo lavoro di avvocato dice: «L’autorità divina che ordina ai re di essere giusti, vieta ai popoli di farsi schiavi». «Il mezzo di prevenire i crimini, consiste nel riformare i costumi; il mezzo di riformare i costumi consiste nel riformare le leggi».
Il 23 marzo 1789 viene eletto dagli abitanti “non raccolti in corporazioni” di Arras tra i dodici deputati della città all’assemblea locale del Terzo Stato, ed il 26 aprile è eletto tra gli otto deputati del Terzo Stato che l’Artois manda agli Stati Generali di Parigi.
Dal un suo discorso letto alle Assemblee Popolari, poi pubblicato nell’aprile 1791, dal titolo “Sulla necessità di revocare il decreto sul marco d’argento”, a riguardo dei diritti elettorali attivi e passivi diversi per censo, leggiamo:
«Che cosa sarebbe la vostra Costituzione? Una aristocrazia vera e propria. Poiché l’aristocrazia è lo Stato in cui una porzione di cittadini è sovrana ed il resto è costituito da sudditi. E poi, quale aristocrazia! Quella più insopportabile di tutte: quella dei ricchi.
«Il popolo chiede solo il necessario, vuole solo giustizia e tranquillità; i ricchi, invece, pretendono tutto, vogliono invadere tutto, e dominare tutto. Gli abusi sono l’opera ed il dominio dei ricchi, e sono il flagello dei popoli: l’interesse del popolo è l’interesse generale, quello dei ricchi è l’interesse particolare; e voi volete rendere il popolo nullo ed i ricchi onnipotenti».
È chiara la sua collocazione a fianco della piccola borghesia rivoluzionaria.
Dopo la tentata fuga del re, nel giugno 1791, Robespierre e la grandissima parte dei rivoluzionari, fino ad allora sostenitori di una monarchia costituzionale, divengono apertamente repubblicani.
La guerra contro la rivoluzione
L’essere seguace di Rousseau e della Legge di Natura non fa di Robespierre un utopista staccato dalla realtà: quando la corte, i monarchici costituzionali di La Fayette e i repubblicani di Brissot si pronunciano per la guerra contro i nemici della Francia, egli sostiene, con scarsa fortuna, che la guerra è solo un mezzo per riportare il re sul trono, data la situazione del momento e in particolare il fatto che l’esercito della nuova Francia fosse ancora guidato da generali monarchici e traditori. Sostiene quindi la necessità della pace, riconoscendo che una parte dei repubblicani favorevoli alla guerra era in buona fede, ma si lasciava trascinare dall’entusiasmo facendo così il gioco della contro-rivoluzione.
Nel suo discorso contro la guerra, pronunciato all’Assemblea Nazionale il 18 dicembre 1791, afferma:
«Sono disposto anche a volere la guerra, ma solo come la vuole l’interesse della nazione: cercheremo prima di domare i nostri nemici interni, e solo dopo marceremo contro i nostri nemici stranieri, se allora ne esisteranno ancora. Ed i più numerosi tra questi nemici, i più pericolosi, sono forse quelli riuniti a Coblenza? No certo, essi sono in mezzo a noi.
«La guerra è sempre il principale desiderio di un governo potente, che vuole divenire ancor più potente. Non ho affatto bisogno di dirvi che è proprio durante la guerra che il governo sfinisce completamente il popolo dissipando le sue finanze, è proprio durante la guerra che copre con un velo impenetrabile i suoi ladrocini e i suoi errori. È proprio durante la guerra che il potere esecutivo spiega la sua più temibile energia, e che esercita una specie di dittatura, la quale atterrisce la libertà nascente. È durante la guerra che il popolo dimentica le deliberazioni che riguardano essenzialmente i suoi diritti civili e politici, per non occuparsi di altro che degli avvenimenti esterni. È durante la guerra che l’abitudine ad una obbedienza passiva e l’entusiasmo tanto naturale verso i capi fortunati fanno dei soldati della patria altrettanti soldati del monarca o dei suoi generali.
«A Roma, quando il popolo – stanco della tirannia e della superbia dei patrizi – reclamava i suoi diritti attraverso la voce dei suoi tribuni, il senato dichiarava la guerra; ed il popolo, così, dimenticava i suoi diritti e gli oltraggi ricevuti per accorrere sotto gli stendardi dei patrizi e preparare pompe trionfali ai suoi tiranni.
«Non bisogna assolutamente dichiarare la guerra, nel momento attuale. Bisogna innanzitutto far fabbricare armi dappertutto, e senza tregua. Bisogna armare le guardie nazionali. Bisogna armare il popolo, non foss’altro che di sole picche. Bisogna prendere misure severe e differenti da quelle che sono state finora adottate, poiché ai ministri non è dato trascurare tutto ciò che la sicurezza dello Stato esige. Bisogna sostenere la dignità del popolo e difendere i suoi diritti troppo spesso trascurati. Bisogna vegliare sul fedele impiego delle finanze, coperte ancora dalle tenebre, invece di finire di rovinarle con una guerra imprudente, a cui il solo sistema dei nostri assegnati sarebbe di ostacolo, se la si portasse presso i popoli stranieri. E bisogna punire i ministri colpevoli, e persistere nelle risoluzioni di reprimere i preti sediziosi. Se, a dispetto della ragione e del pubblico interesse, fosse già stata presa la risoluzione della guerra, bisognerebbe quanto meno risparmiarci il disonore di farla seguendo l’impulso ed il piano della corte».
La posizione di Robespierre sulla guerra voluta da monarchici e futuri girondini ci ricorda un po’ quella di Lenin sulla pace di Brest-Litovsk del 1918, pace voluta e ottenuta dal nostro Vladimiro con notevoli difficoltà, anche all’interno del partito comunista. Ciò che accomuna i due grandi rivoluzionari è la consapevolezza che prima di tutto viene la salvezza della rivoluzione, per quanto dure, difficili e umilianti siano le condizioni della pace: non c’è posto per entusiasmi rivoluzionari esaltati né per orgogli feriti.
Quel che vi aggiunge e distingue la nostra di rivoluzione è la premura per lo sviluppo delle condizioni per il suo progresso e la sua vittoria internazionale.
Monarchia o repubblica
In un interessante articolo apparso nel primo numero de “Le Défenseur de la Constitution” del maggio 1792, titolato “Esposizione dei miei principi” leggiamo:
«Sono repubblicano, e lo dichiaro: voglio difendere i principi di uguaglianza e lo sviluppo dei sacri diritti che la Costituzione garantisce al popolo contro i pericolosi sistemi degli intriganti che la vedono solamente come uno strumento della loro ambizione. E preferisco di gran lunga vedere un’assemblea rappresentativa popolare e dei cittadini liberi e rispettati con un re, piuttosto che un popolo schiavo e avvilito sotto la verga di un senato aristocratico e di un dittatore. Non preferisco certo un Cromwell ad un Carlo I, né il giogo dei decemviri mi sembra più sopportabile di quello dei Tarquini. È forse nelle parole “repubblica” o “monarchia” che si trova la soluzione del grande problema sociale?”».
Per Robespierre, a differenza dei girondini e di una parte degli stessi giacobini, esiste dunque un “problema sociale”, per quanto subordinato all’esistenza di una repubblica basata sulla virtù. Leggiamo ancora:
«Noi avremo dunque il coraggio di difendere la Costituzione anche a rischio di essere chiamati “monarchici” o “repubblicani”, “tribuni del popolo” o “membri del comitato austriaco”. Nel difenderla, certamente non dimenticheremo che un periodo di rivoluzione non rassomiglia ad un periodo di calma, e che la politica dei nostri nemici fu invece sempre di confondere l’uno con l’altro per assassinare legalmente il popolo e la libertà».
Non per giustizia, ma per necessità rivoluzionaria
Nel discorso alla Convenzione del 3 dicembre 1792 sul processo al re dice chiaramente che non c’è nessun processo e nessun giudizio possibile per i rivoluzionari, ma solo una decisione necessaria da prendere: si può solo decidere se deve perire il re oppure la rivoluzione assieme a milioni di repubblicani.
«Qui non si tratta affatto di fare un processo. Luigi non è affatto un accusato. Voi non siete affatto dei giudici. Voi non siete altro, e non potete essere altro, che uomini di Stato e rappresentanti della nazione. Non dovete emettere alcuna sentenza a favore o contro un uomo, ma soltanto una misura di salute pubblica, esercitare soltanto un atto di provvidenza nazionale.
«Il diritto di punire il tiranno e quello di detronizzarlo sono giusto la stessa cosa: l’uno comporta le stesse formalità dell’altro. Il processo al tiranno è l’insurrezione; il suo giudizio è la caduta del suo potere; la sua pena è quella che esige la libertà del popolo. I popoli non giudicano già come le corti di giustizia; non emettono già delle sentenze, essi lanciano il fulmine; non condannano i re, bensì li respingono nel nulla.
«Si, certo, la pena di morte in generale è un crimine, ed è per questa sola ragione che, per i principi indistruttibili della natura, essa non può essere giustificata che nel caso in cui essa si renda necessaria per la sicurezza degli individui o dell’organismo sociale. Pronuncio a malincuore questa fatale verità... ma Luigi deve morire, perché occorre che la patria viva».
L’assalto degli opportunisti
Nel discorso contro la Gironda, pronunciato alla Convenzione il 10 aprile 1793, leggiamo:
«Tutti gli ambiziosi che sono comparsi finora sul teatro della rivoluzione hanno avuto questo in comune, che hanno difeso i diritti del popolo solo finché hanno ritenuto di averne bisogno. Tutti lo hanno considerato come uno stupido branco, destinato ad essere condotto dal più abile o dal più forte. Tutti hanno considerato le assemblee popolari quali corpi composti d’uomini avidi o creduli, che conveniva corrompere o ingannare per farli servire ai loro criminosi progetti. Tutti si sono serviti delle società popolari contro la corte e, dal momento in cui ebbero fatto alleanza con essa o che l’ebbero rimpiazzata, hanno lavorato per distruggerle. Tutti hanno poi di volta in volta combattuto a favore o contro i giacobini secondo i tempi e le circostanze.
«Hanno chiamato agitatori e anarchici tutti gli amici della patria, e talvolta ne hanno suscitato perfino di veri per realizzare questa calunnia.
«Hanno ben presto spaventato i cittadini con il fantasma di una legge agraria: hanno separato gli interessi dei ricchi da quelli dei poveri; si sono presentati ai primi come i loro protettori contro i sanculotti; hanno attirato dalla loro parte tutti i nemici dell’uguaglianza.
«Inventarono e ripeterono quella ridicola favola della dittatura che imputavano ad un cittadino senza potere e senza ambizione, per fare dimenticare sia la crudele oligarchia che essi stessi esercitavano, sia il progetto della nuova tirannia che essi volevano risuscitare».
Utopia sulla piccola proprietà
Nel discorso “Sulla proprietà”, pronunciato alla Convenzione il 24 aprile 1793, leggiamo:
«Anime vili, che stimate soltanto l’oro, non intendo affatto intaccare i vostri tesori, anche se la loro fonte è impura! Voi dovete ben sapere che questa legge agraria, di cui avete tanto parlato, è solo un fantasma creato dai briganti per spaventare gli imbecilli. Senza dubbio non c’era bisogno di una rivoluzione per insegnare al mondo che l’estrema sproporzione delle fortune è la fonte di molti mali e di molti crimini; tuttavia siamo convinti che l’uguaglianza dei beni è una chimera. Per me, la ritengo ancor meno necessaria al benessere privato di quanto lo è al benessere pubblico. Si tratta ben più di rendere onorevole la povertà che non di proscrivere l’opulenza. La capanna di Fabrizio non ha nulla da invidiare al palazzo di Crasso.
«Chiedete ad un mercante di carne umana che cos’è la proprietà; vi dirà, mostrandovi quella lunga bara che egli chiama nave, in cui ha incassato e posto ai ferri uomini che sembrano esseri viventi: “Ecco le mie proprietà, le ho acquistate ad un tanto a testa”. Interrogate un gentiluomo, che ha terre e vassalli, o che ritiene sia crollato il mondo da quando non ne ha più; vi darà della proprietà idee press’a poco simili. Interrogate gli augusti membri della dinastia capetingia: vi diranno che la più sacra di tutte le proprietà è, senza dubbio alcuno, il diritto ereditario – del quale hanno goduto in tutta l’antichità – di opprimere, avvilire e dissanguare legalmente e monarchicamente i venticinque milioni di persone che abitavano il territorio della Francia con il loro consenso.
«Nel definire la libertà il primo dei beni dell’uomo, il più sacro fra i diritti che derivano dalla natura, avete detto con ragione che essa aveva per limite i diritti degli altri. E perché mai, allora, non avete applicato questo principio alla proprietà, che è un’istituzione sociale?».
Il diritto di proprietà per i robespierristi è un “diritto di natura”, ma che deve tener conto anche degli altri “diritti naturali”, a cominciare dal diritto all’esistenza. Se la proprietà contrasta la libertà e l’esistenza dei cittadini, la legge può e deve regolarla e limitarla. Una concezione piccolo-borghese, sicuramente distante dalla piena e incontrastata proprietà borghese che, come un monarca assoluto, si siede sul trono del Codice napoleonico.
Con ceppi alle mani
In un discorso “Sul governo rappresentativo” tenuto all’Assemblea nazionale il 10 maggio 1793 leggiamo: «Ho sentito parlar molto di anarchia dopo la rivoluzione del 14 luglio 1789, e soprattutto dopo la rivoluzione del 10 agosto 1792; ma io sostengo che la malattia degli organismi politici non è affatto l’anarchia, bensì il dispotismo e l’aristocrazia».
Sui nemici della rivoluzione vittoriosa leggiamo:
«Nell’uscire da una corruzione così profonda, come potevano mai, essi, rispettare l’umanità, amare l’uguaglianza, credere nella virtù? Sventurati noi! Noi innalziamo il tempio della libertà con mani ancora marchiate dai ferri della schiavitù! E dobbiamo dunque meravigliarci se tanti mercanti stupidi, se tanti borghesi egoisti conservano ancora nei riguardi degli artigiani quel disprezzo insolente che i nobili prodigavano ai borghesi e agli stessi mercanti?»
«(...) Quanto all’equilibrio dei poteri, noi abbiamo potuto essere le vittime di questa illusione, in un tempo in cui la moda sembrava esigere da noi questo omaggio ai nostri vicini, in un tempo in cui l’eccesso della nostra degradazione ci poteva permettere di ammirare tutte le istituzioni straniere che ci offrivano qualche debole parvenza di libertà. Ma, per poco che riflettessimo, ci accorgeremmo agevolmente che quell’equilibrio può essere solo una chimera od un flagello; che esso presupporrebbe l’impotenza assoluta del governo, se non conducesse necessariamente ad una lega dei poteri rivali contro il popolo; poiché si avverte agevolmente che essi preferiscono assai di più accordarsi che non chiamare il sovrano [qui significa il popolo] a giudicare delle proprie contese.
«Ne è testimone l’Inghilterra, nella quale l’oro e il potere del monarca fanno costantemente pendere la bilancia dalla stessa parte; dove lo stesso partito dell’opposizione si limita a sollecitare, di tanto in tanto, la riforma della rappresentanza nazionale, ma solo per allontanarla, in pieno accordo con quella maggioranza che essa fa mostra di combattere. È una sorta di governo mostruoso, nel quale le virtù pubbliche sono solo una scandalosa parata, dove il fantasma della libertà annienta la libertà stessa, dove la legge consacra il dispotismo, dove i diritti del popolo sono oggetto di un traffico riconosciuto, dove la corruzione si è liberata perfino del freno del pudore. E che cosa ci importano mai le combinazioni che equilibrano l’autorità dei tiranni? È la tirannia stessa che occorre estirpare: e non è certo nelle contese tra i loro padroni che i popoli devono cercare il vantaggio di poter respirare un qualche istante; la garanzia dei loro diritti dev’essere posta nella propria forza».
Ancora:
«Per la medesima ragione non propendo nemmeno per l’istituzione del tribunato (...) E non mi piace affatto che il popolo romano si ritiri sul Monte sacro per chiedere protettori ad un senato dispotico e a patrizi insolenti (...) Vi è un solo tribuno del popolo in cui io possa confidare: il popolo stesso».
Qui vediamo che Robespierre non è ancora arrivato alla necessità del “governo rivoluzionario”. Montesquieu de “L’Esprit des lois” era ammirato anche dai giacobini, in quanto visto come sostenitore della repubblica e delle virtù repubblicane, ma la sua concezione centrale di divisione dei poteri non era accettata. Quanto al modello inglese, le parole appena lette si commentano da sole.
(Continua al prossimo numero)