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La favoletta che ti raccontano è che, approfittando della dabbenaggine e delle divisioni delle sinistre e dell’inerzia degli uomini di ragione, alcuni spregiudicati demagoghi, appellandosi agli istinti profondi dell’elettorato e raccolto il favore della volontà popolare, riuscivano, in forza delle regole del parlamentarismo, ad assurgere al potere dello Stato. Insediatosi nei palazzi romani, con pose scamiciate, dopo le picconate di trascorsi Presidenti e le rottamazioni di recenti, i giovanotti, davano presto piglio al “cambiamento”, a forza di quotidiane dichiarazioni politicamente scorrette, ma dimostrando una impreparazione economica e un disprezzo per le regole della diplomazia tali da far temere per la salvezza delle finanze patrie, dei risparmi dei concittadini, degli equilibri internazionali, oltre che del mantenimento delle sacre regole democratiche.
Occorre dipanare la malevolmente imbrogliata matassa.
Il potere dello Stato è un fatto prevalentemente materiale, di armi e di una gerarchia disciplinata di uomini armati. Questa complessa secolare struttura è diretta da un vertice, costituito dal governo. Ma questo è organico alla natura e alle funzioni dello Stato: la difesa degli interessi della classe sociale da cui emana. Modernamente è il grande capitale finanziario a monopolizzare ovunque il maneggio dello Stato, quello solo sceglie il personale di governo, che governa sì, ma secondo le sue direttive.
Che a scegliere siano gli elettori è solo una bufala: tutti i media di massa, che facilmente plasmano la cosiddetta opinione pubblica, sono di proprietà o controllati dal grande capitale, ne diffondono le menzogne, e se fra loro bisticciano o è per la scena o per conflitti interni ai suoi colossali gruppi di interesse. Le campagne elettorali ormai costano miliardi.
Chi realmente detiene il potere in Italia – costituito da un sistema di consolidate relazioni personali coi capi di quegli uomini armati, e non certo in forza di una volontà popolare, che come una banderuola è rivoltata di qua e di là – si è perfino inventato l’istituto della bicefala vice-presidenza, destra e sinistra assieme (un capolavoro italico), per traslocare Stanlio ed Ollio a Palazzo Chigi, a far confusione e provocare-solleticare i borghesucci con le loro zuffe.
Ma dietro ad ogni sceneggiata – fra commedia e tragedia – c’è una dura realtà: incombe il fatto materiale della crisi, che preme, in Italia più che altrove, a far saltare tutti i già consolidati equilibri interni ed internazionali. La schizofrenia e la confusione sono nelle cose. Si sta avvicinando il momento del si-salvi-chi-può, e l’annaspare di chi sta affogando non sempre assume atteggiamenti razionali, eleganti e dignitosi.
È anche vero che, se nell’avvicendamento non solo nel teatrino parlamentare ma anche nei personaggi rappresentativi del governo, la classe dominante viene a presentare individuali nullità e sempre più indecenti, è perché la guerra fra le sue frazioni è così aspra e senza sbocco da rendere impossibile alcuna stabile soluzione di compromesso. L’elezione di tipi folcloristici alla Donald è indice non della forza e della volontà di riscossa del capitalismo americano ma della profondità della sua crisi e i ridicoli clown ostentati nel circo mediatico sono lì perché la classe dominante non trova ormai di meglio. Sono quindi un segno di una oggettiva debolezza interna alla classe borghese, della quale la proletaria non ha da lamentarsi né da temere ma da far festa e rallegrarsi, senza curarsi troppo delle stravaganti o minacciose sparate del “duro”.
Contro la classe borghese, si presenti essa “dura” o “morbida”, l’unica via è la riorganizzazione e la lotta proletaria di classe.
La borghesia italica infatti, nel suo ormai tradizionale trasformismo, trova utile cambiare spesso i suoi piazzisti. Nei rapporti fra gli Stati cosa di meglio che avvicendare il personale di governo per manovrare, saggiare nuove alleanze, e poter domani, semmai, tornare alle vecchie. O far la voce grossa con l’Unione Europea, come si usa in una trattativa tra mercanti, per arrivare poi ad un miglior compromesso.
La guerra dispiegata si avvicina, intanto quella commerciale; la mutata proporzione fra le dimensioni dei giganti imperiali, con la Cina che tende a grandeggiare su tutti, viene sempre più a mettere in tensione i vecchi equilibri. Non ci sono più porti sicuri e la burrasca può rompere gli ormeggi alle varie navi nazionali, spinte al largo e alla ricerca disperata di nuovi approdi. E la schifosa borghesia italica non sarà certo l’ultima a vendersi ad un nuovo padrone; e se possibile a più di uno insieme, mentre sbraita al “sovranismo”.
All’interno invece cosa di meglio che sollevare un gran chiasso, un carosello permanente per frastornare e distogliere la classe operaia, fingendo di volerla proteggere dagli “immigrati”, dai “burocrati di Bruxelles”, dalla “casta dei politicanti disonesti”, ecc. ecc. Se potranno elargire qualche elemosina il merito andrà al governo “di destra”. Se non lo faranno sarà rinverdito il frontismo antifascista che, con il mitico “spettro del fascismo” devia la lotta della classe operaia dai suoi obbiettivi immediati e storici a quelli del mantenimento di una particolare finzione, quella democratica, del dominio borghese.
Perché la democrazia è morta. Tanto che ne sono sicuri perfino i professori delle università borghesi, i quali, quando sono sinceri, danno per esclusa anche la possibilità di rianimarla.
In realtà questo non è preciso: se per democrazia si intende un potere condiviso fra la classe dominante e la dominata, questa democrazia non può morire perché non è mai esistita: anche la più perfetta democrazia è una forma atta a nascondere il dominio sulla classe operaia. Se invece si intende la democrazia fra borghesi, fondiari, e le numerose e multiformi sotto-classi piccolo borghesi, si deve rilevare che il certificato di morte è vecchio ormai di un secolo, dall’avvento della internazionale maturazione imperialistica e monopolistica del capitalismo.
Da allora, seppure con percorsi e tempi diversi, le classi lavoratrici borghesi, urbane e contadine, mercantili, intellettuali, professionali, ecc. sono state progressivamente escluse dalla condivisione del potere statale, e i loro partiti politici o si sono dispersi o trasformati in agenzie per il consenso sociale alle dipendenze dallo Stato e con personale appositamente stipendiato.
I ceti piccolo borghesi, ridotti sempre più dalle loro funzioni di produttori a puri micro-rentier, non hanno più alcuna energia di pensiero e di azione, nemmeno per difendersi. Incapaci di darsi una propria espressione politica o di corporazione, ridotti all’impotenza e all’infamia, come clienti mendicano dallo Stato “più sicurezza” contro la “invasione” dei senza riserve, ma ben vitali, proletari del Sud del mondo. Il patriottismo, il nazionalismo sono ormai in negativo: non loro affermazione nel mondo ma vile e rancorosa chiusura. Trionfa l’individualismo dei piccolo borghesi, loro primo fondamento ideale. Dall’alto il Grande Capo, adorato-odiato, su Twitter fa piovere su di loro le sue frequenti cacchette.
Arriva, a volte, la disperazione dei piccolo borghesi ad un ribellismo spontaneo, disorganizzato, senza un programma né storico né immediato, ma deve finire sempre per sottomettersi ad una delle due uniche soluzioni che la storia ormai consente: o dittatura anti-proletaria del grande capitale, e ai suoi partiti, o dittatura anti-capitalista della classe operaia, e al suo partito.
La democrazia dei piccolo-borghesi finisce oggi così per votare contro se stessa, si suicida concedendosi volentieri ai Salvini, agli Orbán, ai Bolsonaro, ai Trump, ai Kaczynski, ai Putin... I quali, per contro, non a torto si proclamano super-democratici, ed accusano di non esserlo i “tecnici”, i “ricchi” e i “potenti del mondo” che li criticano, in patria e fuori, in quanto non votati da alcuno.
Nemmeno si può dimostrare, per esempio in Italia, che una Lega sia “più fascista” degli altri, nel senso di più anticomunista ed antioperaia. Perché fascismo e democrazia sfumano l’uno nell’altra, sono solo forme diverse, fra loro compatibili, del governo dello Stato borghese.
Tanto che solo le forme della democrazia coprono la dittatura incontrastata del capitale su tutta la società. Benché quelle della democrazia siano così consunte che anche solo come maschera non funzionano più: il richiamo ai “valori della Resistenza”, dei quali è stata fatta fare indigestione ai proletari per settant’anni, sa ormai di stantio, un’offesa all’intelligenza e all’evidenza di fronte all’incarognimento ed estrema degenerazione dei falsi partiti già socialisti, stalinisti, operai, in tutto identici, nella loro inconsistenza, alle destre deprecate.
Patiamo oggi del contrappasso dell’inganno antifascista: per la debolezza del nostro movimento, i sentimenti nel proletariato di disprezzo e rigetto della democrazia sono raccolti non ancora dal comunismo ma dai partiti “antisistema”, in realtà ugualmente capitalistici ed ugualmente schierati contro gli operai e contro i comunisti.
Si profila quindi una dittatura, un regime a partito unico, si paventa? Ma quel regime, dietro il pollaio parlamentare starnazzante a vuoto, evidentemente c’è già. Solo accade che la classe grande borghese, come licenzia una sua agenzia pubblicitaria se costa troppo e rende poco, così viene a fare talvolta con gli pseudo-partiti che la circondano, limitando la spesa per uno solo. Il “pericolo fascista” quindi non sussiste, perché il fascismo già impera ovunque, subito sotto il velo e i sempre più stanchi e drogati riti elettorali.
Con l’alibi della spietata dittatura della maggioranza il capitale, che avrà sempre la maggioranza, già riesce democraticamente a far passare tutti i suoi abomini, spesso imponendo alla società superstizioni infami e orribili vessazioni, di per sé spesso perfidamente oblique rispetto all’attacco diretto alla classe operaia: la persecuzione delle donne, o delle minoranze nazionali, razziali, religiose. In un parossismo agonico si perde ogni orientamento ideale e materiale: democrazia/fascismo, realtà/spettacolo, vero/”fake”, uomo/donna, razzismo/globalismo, nazionalismo/imperialismo, agnosticismo/ossequio alla chiesa... Unico riferimento restano gli dèi Mercato e Profitto. Nella sua catastrofica rovina esce in piena luce la disumanità del Capitale, fra gli eccessi osceni dei suoi sacerdoti.
E la nostra liberatrice Rivoluzione, condannata alla minoranza, è quindi rimandata sine die? L’ABC del nostro materialismo storico ci ha insegnato che c’è un tempo per tutte le cose: l’acuirsi della crisi del mondo borghese in svolti storici determinati consente e impone al proletariato di inquadrarsi e di ribellarsi. Ma la massa dei proletari non saprà di farla la sua rivoluzione né perché la sta facendo; nessuno avrà votato per il comunismo. Solo che una loro significativa minoranza avrà saputo stringersi attorno al partito di classe. Questo viene da lontano, ha una sua propria dottrina, confermata ed affinata dalla storia, unico veramente libero da tutti gli errori, le credenze e i pregiudizi imposti dalle millenarie società di classe, fra i quali il peggiore è quello democratico, un partito che solo per la classe può sapere, vedere e prevedere.
Il fallimento dei partiti ex socialdemocratici ed ex stalinisti e la loro resa ai partiti dichiaratamente borghesi, sciovinisti, razzisti, guerrafondai, oltre che una rivincita sulle antiche menzogne ed ipocrisie, segna un passo avanti verso la crisi mondiale del capitale e quindi, per necessità storica, un passo avanti verso la sua distruzione per le armi della rivoluzione comunista. Sarà certamente un governo antidemocratico a provare a sbarrare la strada alla nostra rivoluzione, dopo che quello democratico avrà fallito ad irretirla e a fermarla. Quello “di destra” è l’unico, vero volto del Capitale, ultima società di classe, ed è contro di esso, e contro coloro che vorrebbero nasconderlo ed imbellettarlo, che la classe operaia dovrà battersi e dovrà vincere.
Il movimento dei “Gilet Gialli” è iniziato in Francia alla fine di ottobre. La protesta si è innescata per l’aumento dei prezzi del carburante, in parte dovuti all’aumento della tassa sui prodotti petroliferi, ma esprime tutto il malcontento di una parte della popolazione contro le misure sociali ed economiche attuate dal governo Macron e dai suoi precedenti. Un buon numero di manifestanti vive dove l’uso dell’automobile è una necessità, e quindi il continuo aumento del prezzo della benzina li priva di parte del loro reddito, a volte drammaticamente per i più poveri. Di fatto in un anno il prezzo alla pompa è aumentato del 23% per il gasolio e del 15% per la benzina.
Ma la crisi economica con il rallentamento della crescita sta colpendo il mondo capitalista nel suo complesso. Le borghesie nazionali si scontrano sempre più. Trump, tipico uomo d’affari, fa il buffone del re, proclama ad alta voce quello che tutti i capi di Stato del mondo pensano in silenzio: guerra economica, concorrenza sempre più esacerbata, isolazionismo, scandaloso per alcuni: l’unica etica che conta è fare affari e impadronirsi di settori sempre più ampi di mercati globali sempre più suddivisi.
In Francia il governo spiega che la sua politica economica e i regali a chi già detiene della ricchezza hanno il solo scopo di “rilanciare” le imprese e la produzione nazionale, in un contesto di crisi economica in cui la borghesia è riluttante ad investire. E per quanto riguarda l’aumento del prezzo della benzina, l’ha giustificato con la necessità di finanziare una politica di “transizione energetica” iniziata nel 2015. In effetti non passa giorno che i media non tornino a deplorare il triste peggioramento della salute del pianeta, con effetti irreversibili, catastrofici per la sopravvivenza dell’umanità, fin dal decennio a venire...
Ma è vero che le classi dominanti si preoccupano del futuro della Terra e che cercano di prevenire il degrado disastroso e persino irreversibile provocato dal modo di produzione capitalistico? O non si tratta piuttosto di prelevare denaro dalla parte più numerosa della popolazione, anche se in difficoltà, per riempire le casse dello Stato e specialmente quelle delle imprese e di quella parte sempre più ristretta ove si concentra la ricchezza?
Lo Stato borghese è al servizio delle classi dominanti. Ma le decisioni del governo non dipendono dal volere o dalle capacità della classe che tiene in mano i mezzi di produzione, bensì dal meccanismo economico spietato del modo di produzione capitalistico: per sopravvivere deve accumulare sempre più profitto, la caduta storica del saggio del profitto è incontrollabile e sfugge alla volontà degli individui, anche i più potenti, come ha affermato il marxismo da oltre un secolo.
L’attuale movimento in Francia è spontaneo, è nato fuori dai partiti politici e dai sindacati ufficiali, considerati “inefficaci” dai rivoltosi. In confronto il movimento “dei Berretti Rossi”, apparso in Bretagna nell’ottobre 2013 in risposta all’imposta ambientale riguardante l’inquinamento causato dai veicoli, fu scatenato dai proprietari delle imprese agro-alimentari in difficoltà, sostenuti dai loro dipendenti.
Il movimento dei Gilet Gialli, al contrario, è partito dall’iniziativa di una “automobilista” che ha chiamato alla mobilitazione attraverso il web e i social media, chiedendo un calo dei prezzi del carburante. Il suo testo è apparso il 12 ottobre sul popolare quotidiano “Le Parisien” con un grande successo e raccogliendo sempre più firme (oltre un milione a fine novembre). Gruppi locali sono nati su Facebook in tutte le regioni della Francia.
In risposta il governo Macron ha lanciato una campagna “contro l’inquinamento atmosferico” pochi giorni prima dell’annunciato blocco sulla rete stradale nazionale sabato 17 novembre. A Parigi i blocchi si sono avuti intorno alla città ma la repressione delle forze di polizia ha limitato l’ingresso dei manifestanti. Il ministero degli interni ha riferito la cifra di 288.000 dimostranti per l’intera Francia.
I blocchi sono continuati per il resto della settimana con alcuni episodi di violenza. Il movimento si è esteso fino all’Isola della Réunion. I giorni seguenti la mobilitazione è continuata con numerosi concentramenti in tutta la Francia.
Per sabato 24 novembre è stata indetta una nuova mobilitazione nazionale; vietata dalla prefettura sugli Champs Elysées ha avuto luogo ugualmente con scontri con la polizia. Il Ministero degli Interni ha fornito infine la cifra di 166.000 dimostranti per tutta la Francia, dei quali 5.000 sugli Champs Elysées.
Manifestazioni e scontri hanno luogo nei giorni seguenti e in numerose regioni. Sabato 1 dicembre, si hanno blocchi stradali, dando luogo talvolta e degli scontri violenti con le forze dell’ordine. A Parigi la manifestazione torna e con violenze negli Champs Elysées e imbrattando l’Arco di Trionfo (sulla tomba del milite ignoto!!), con vetture incendiate, saccheggi di negozi. Il ministero dell’interno conta 136.000 manifestanti per tutta la Francia. Altri scontri scoppiano in altre città.
Il 3 dicembre gli studenti di un centinaio di licei protestano contro la prevista riforma della maturità, l’aumento delle tasse scolastiche per gli stranieri, e si uniscono ai Gilet Gialli.
Ma chi sono questi Gilet Gialli? Provengono per la maggior parte dalle città periferiche intorno a Parigi, e dalle zone rurali, abbandonate dai poteri pubblici (revoca dei servizi, stato di abbandono delle amministrazioni). Comprendono operai, lavoratori peggio trattati ed indipendenti, pensionati, piccoli padroni, tutti accomunati dal generale malcontento per il contrarsi delle loro entrate, e, per i proletari, per la sofferenza provocata dalla precarietà e dal degradarsi delle loro condizioni di lavoro e di vita.
La crisi economica del capitalismo che infuria da alcuni decenni e la politica liberale condotta dai vari governi, di destra come di sinistra, che tutti difendono gli interessi e i privilegi di classe della grande borghesia, hanno condotto all’impoverimento e al precariato di tutta una parte anche della popolazione francese: secondo i dati, già vecchi, forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica il 14,5% della popolazione vive al di sotto della soglia della povertà, cioè con meno di 850 € al mese. Nel 2018 il reddito medio per famiglia in Francia è diminuito dell’1,2% rispetto al 2008, in particolare per il 67% delle classi medie, ma anche gli strati più modesti hanno subito un calo delle entrate. Almeno il 20% dei lavoratori dipendenti è precario e povero, numerosi pensionati vivono con una pensione miserabile. Almeno un terzo della popolazione si trova in sofferenza. Il che spiega questa rabbia e questa collera.
Finora queste condizioni e la sfiducia verso i partiti ufficiali si sono tradotti solo in un astensionismo di massa: l’astensionismo è divenuto oggi il primo partito politico della classe operaia: “perché andare a votare se le riforme economiche e sociali saranno comunque contro di noi?”. Anche i sindacati, dopo i loro ripetuti tradimenti sono messi da parte.
Dei gruppi di estrema destra, di anarchici “autonomi”, di giovani delle periferie certo si sono infiltrati, trovando un terreno propizio per riversare la loro furia dovuta a motivi diversi; ma non sono serviti, come al solito, che a giustificare la repressione della polizia.
Ma la violenza è anche da parte del “popolo”, disperato ed evidentemente abbandonato dal potere. Questo “popolo” ha ben compreso che le discussioni non servono più a farsi intendere e che alla violenta oppressione borghese bisogna rispondere con la violenza. Cosa risponde il governo quando il “popolo” si ribella? La sola giustificazione all’aumento delle tasse è finanziare, la “transizione ecologica”! E chi ci crede ancora!
E che fanno i sindacati? I principali sindacati dei lavoratori hanno dapprima rifiutato di aderire al movimento accusandolo di essere lo strumento dei partiti di estrema destra (povera Marine Le Pen! Solo lei fa ancora sventolare la bandiera dell’antifascismo!). In FO solo la Federazione dei trasporti ha chiamato alla solidarietà con i Gilet Gialli. Infine la CFDT nei giorni scorsi si è decisa a proporsi come interlocutrice del governo: se fino ad ora esso ha voluto dimostrare di poter fare a meno dei sindacati, adesso è giunto il momento che riconosca di averne invece bisogno. Per il ruolo di pompieri della lotta di classe, infatti, non c’è niente di meglio delle grandi centrali sindacali attuali!
In conclusione, anche noi possiamo definire questo movimento come “popolare”. Questo termine deriva dalla parola “popolo” che abbiamo definito nel nostro testo del 1953 Dialogato con Stalin: «Ma il popolo, che diavolo è questo? Una ibridazione tra classi, un integrale di succhioni e di schiavi, di professionisti dell’affare e del potere con le masse di affamati e oppressi. Il popolo lo consegnammo, fin da prima del 1848, alle leghe per la libertà e la democrazia, il pacifismo e il progressismo umanitario. Il popolo non è soggetto di gestione economica, ma solo oggetto di sfruttamento e di inganno, nelle sue pietosamente famigerate “maggioranze”».
La ripresa della lotta di classe, dopo tanti anni di contro-rivoluzione, di tradimento e di disorganizzazione, passa forzatamente per dei movimenti spontanei al di fuori di qualsiasi organizzazione, poiché tutto è da ricostruire. È solamente dalla generalizzazione delle lotte spontanee, ma radicali del proletariato, che rinasceranno degli organismi di classe e che si separerà un’avanguardia proletaria che entrerà nelle file del partito.
Nelle condizioni attuali non occorre sicuramente molto perché venga a scoppiare uno sciopero generale. I sindacati, da bravi cani da guardia, fanno la guardia. Finché la crisi di sovrapproduzione si aggraverà tanto che saranno travolti.
In questo “movimento” dei Gilet Gialli, infatti, il proletariato è presente non come classe per sé; esso non è inquadrato in un’organizzazione economica e in un partito politico che lo rappresenti in questa società, inchiodata al capitalismo e allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. La lotta di classe non si esprime in modo diretto e il proletariato non ha da aspettarsi che disillusioni, tradimenti e bastonate. Senza organizzazione economica e politica non c’è salvezza! Che rinascano le organizzazioni economiche, al di fuori dalle attuali centrali sindacali, e siano conquistate dal Partito Comunista Internazionale, quando la lotta delle classi sarà di nuovo apparsa potente alla luce del sole!
Davanti alla sede dell’Usb di Viterbo nella notte fra il 3 e il 4 novembre il gruppo fascista Casa Pound ha steso uno striscione sul quale si leggeva: “Il vero arditismo è solo fascista”. Voleva essere una risposta all’iniziativa della federazione provinciale di quel sindacato di convocare, nella ricorrenza del 4 Novembre, insieme al gruppo “Patria Socialista”, un “dibattito pubblico” perfidamente intitolato “Dalle trincee ai campi e alle officine”.
La sporca operazione tendeva a far dimenticare il patrimonio delle lotte della classe operaia e dei socialisti di sinistra italiani contro l’intervento nel macello della Prima Guerra imperialista, per confonderlo con la retorica oscena del patriottismo di quella “epopea” militarista e solo borghese.
Non possiamo dire che ci sorprenda più di tanto il constatare che i dirigenti di quella federazione dell’Usb condividono ed offrono sostegno ad un gruppo guerrafondaio, che si dichiara “antifascista” ma che si rifà ad un inesistente “interventismo socialista”, tentato solo da Benito Mussolini, ragion per cui l’ex rivoluzionario e traditore della causa proletaria fu cacciato dal Partito Socialista, senza tirarsi dietro nessun compagno.
Quanto poi all’arditismo in quella guerra imperialista, al pari di tutte le tendenze politiche che si fecero paladine dell’entrata in guerra dell’Italia, svolse una parte non secondaria nel contenere la rivolta al fronte deviando il malcontento delle truppe contro i propri superiori nell’odio dello “straniero”, per costringere i fanti a massacrare i proletari di altre nazioni, spinti a forza fuori dalle trincee negli assalti sotto il fuoco della mitraglia nemica. Non fu eroismo l’arditismo ma esaltazione isterica e servilismo per il capitale.
Non a torto i fascisti dicono che l’arditismo è loro, non a torto ne rivendicano l’opera criminale, volta a decimare i proletari in divisa sugli apocalittici fronti della guerra, una guerra di sterminio di forza lavoro in esubero e di potenziali rivoluzionari.
Ma è anche vero che l’arditismo non è solo loro, dei fascisti. Tutti i partiti borghesi, dalla destra alla estrema sua sinistra abbracciarono la causa della Patria e della santità della guerra nazionale, “irredentista”. Se la Seconda Guerra mondiale, da parte italiana, si combatté sotto le insegne del fascismo, sicuro è che la Prima fu in tutti i sensi democratica.
Ricordiamo infatti che il sostegno all’interventismo nell’agosto del 1914 da parte della gran maggioranza dei partiti socialdemocratici d’Europa – ad eccezione del Partito Bolscevico, di quello Serbo e del Partito Socialista Italiano (sia pure quest’ultimo nel segno dell’ambigua formula “né aderire, né sabotare”) – fu la ragione per cui Lenin parlò con termine non equivoco di tradimento della Seconda Internazionale. Allora la consegna del partito di Lenin e della Sinistra del PSI ai proletari di ogni nazione fu di segno del tutto opposto rispetto a quello degli interventisti: trasformare la guerra imperialista in guerra civile!
Fu applicando questa parola d’ordine di disfattismo rivoluzionario che quella guerra in Russia poté trasformarsi in rivoluzione, e fu questo rovesciamento politico che scatenò un’ondata rivoluzionaria in Europa che costrinse la borghesia, timorosa della rivolta proletaria, a fermare la guerra stessa prima ancora che gli eserciti delle potenze uscite sconfitte venissero battute in maniera definitiva sul campo di battaglia. Fu infatti la caduta del “fronte interno” negli Imperi Centrali, prussiano e asburgico, a determinare la fine della carneficina sui fronti di guerra e ad inaugurare la straordinaria stagione di ascesa delle lotte operaie dell’immediato dopoguerra.
Fu la rottura dei rivoluzionari con i socialtraditori e la condanna della guerra come imperialista, dopo avere aperto la strada all’Ottobre Rosso in Russia, a sostanziare la fondazione nel 1919 della Terza Internazionale. Da quella nostra parte la denuncia e l’opposizione alla guerra borghese, dall’altra parte tutti quanti.
Non fu quindi la Prima Guerra il “preludio del fascismo”, ma la necessità borghese di contenere la crisi sociale e rivoluzionaria in tutta Europa.
Nei confronti della Seconda Guerra imperialista lo stalinismo farà di peggio. Sarà l’Unione ex-Sovietica a chiamarla Grande Guerra Patriottica e a benedire quel nuovo massacro fra proletari a favore del fronte imperialista atlantico, capovolgendo l’indirizzo comunista dell’antimilitarismo di classe e del disfattismo rivoluzionario su tutti i fronti. Lo stalinismo, sciolta nel 1943 la Terza Internazionale, ridotta ormai a strumento dello Stato capitalista russo, rivendicherà in un sol blocco l’adesione dei proletari ad entrambi i massacri planetari.
Coerentemente quindi la direzione stalinista dell’Usb si ricollega oggi alla sua tradizione, che non solo non ha nulla a che fare col comunismo, ma che alla guida di quel sindacato ne ostacola la crescita sana di strumento difensivo della classe operaia. Quanto avvenuto a Viterbo è un civettare e un approccio politico fra “bruni” e “rosso-bruni”, entrambi nazionalisti e proni davanti l’orripilante feticcio della Patria, pronti ad avviare i proletari sul fronte della prossima guerra imperialista offrendo alla sua propaganda la peggiore paccottiglia ideologica.
Lascino i proletari ai “bruni” e ai “rosso-bruni” l’ignobile idolo della unità nazionale, espressione del dominio del capitale e strumento di divisione dei lavoratori di tutti i paesi, quella classe che, come già affermato da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, non ha patria.
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Seduta del sabato |
La guerra civile in Italia, dallo scioglimento dell’Alleanza del Lavoro alla Marcia Roma |
La successione dei modi di produzione, Il Feudalesimo [resoconto esteso] |
Montare e sconfitta della rivoluzione in Germania |
Storia delle classi in India |
Il partito organico in Lenin |
Corso dell’economia |
Il concetto e la pratica della dittatura - Con Marx ed Engels |
Seduta della domenica |
La questione militare: Le guerre del proletariato |
Attività sindacale |
Cina, la doppia rivoluzione nel marxismo e nelle tesi della 3ª I.C. |
Materiali per lo studio della rivoluzione ungherese del 1919 |
Una gran mole di lavoro si rovescia sui tavoli delle nostre riunioni generali. I comunisti, rappresentanti in tutti i sensi della classe laboriosa, si riconoscono anche per quanto sono in grado di lavorare, più e meglio degli altri. E questo non perché siano individui di capacità o volontà eccezionali o di una tempra diversa da quella del normale operaio, ma per il semplice motivo che utilizzano il metodo giusto, che consente loro di non perdere tempo, non disperdere energie nei personalismi, le contrapposizioni e le ripicche senili che appestano tutto il morente mondo borghese.
Una rete ed un allenamento al lavoro comune e concorde questo che, collettivamente aduso al maneggio della storia e della saldissima dottrina del partito, anche qualora si venissero ad ascoltare formulazioni che sembrino eterodosse o innovative, queste non generano scandalo o personale reprimenda ma sono accolte come utilissimo stimolo ad approfondire tutti gli infiniti risvolti dialettici della nostra definitiva e compiuta scienza sociale.
Questa mole di lavoro, organico, coerente e continuo, si protende a cercare un legame con l’incessante lotta della classe e non potrà mancare di stabilirlo, saldo e nei due sensi, quando la storia verrà a dissipare i fumogeni della coesistenza fra le classi.
In questa serena fretta di fare si è svolta anche la scorsa riunione generale di settembre, iniziata dal venerdì pomeriggio, alla presenza di compagni da Parma, Roma, Firenze, Bari, Bologna, Cortona, Venezia Giulia, Lodi, Genova, Torino, Parigi, Gran Bretagna. Gli assenti avevano inviato per tempo adeguata relazione scritta sul lavoro delle rispettive sezioni.
Col resoconto del Centro sull’attività svolta dalla riunione precedente si dava inizio alla parte organizzativa, dedicata prevalentemente alla pianificazione dei lavori futuri. Nella tarda mattinata del sabato iniziava l’esposizione dei rapporti. Qui ne presentiamo una prima sintesi.
PCd’I e la guerra civile in Italia
Dallo scioglimento dell’Alleanza del Lavoro alla Marcia su Roma
Il rapporto, riprendendo quanto trattato nel corso dell’ultima esposizione, iniziava tattando degli avvenimenti dal sabotaggio da parte dei dirigenti sindacali dello sciopero generale dell’agosto 1922, indetto dall’Alleanza del Lavoro, fino alla fine di quell’anno.
Lo sciopero generale, che aveva manifestato un considerevole grado di combattività, era stato fermato nel momento di maggiore espansione lasciando il proletariato disarmato di fronte alla controffensiva borghese, legale ed illegale. Per contro una seria preparazione dello sciopero avrebbe dovuto comportare una adeguata organizzazione militare di difesa. Di questa era dotato solo il partito comunista, mentre tutti gli altri si erano distinti o per aperto sabotaggio o per chiacchiere inutili. Questo mentre la mobilitazione mostrata dalla classe avrebbe potuto assicurare una vittoria. Stupefacenti furono le azioni difensive delle masse operaie: Milano, Bari, Ancona, Genova, Parma, etc. furono teatro di vere battaglie, riportando talvolta la vittoria. I comunisti parteciparono validamente a queste battaglie, suscitando entusiasmo da parte delle masse proletarie che comprendevano come il PCd’I fosse l’unico autentico partito rivoluzionario.
Ma, se la tattica comunista faceva sempre maggiore breccia all’interno della classe lavoratrice allo stesso tempo, e con sempre maggiore accanimento, veniva contrastata dalle riluttanti dirigenze sindacali, tuttora in grado di spezzare il fronte unico, riuscendo a salvare le loro posizioni di comando e la politica interclassista da loro imposta ai sindacati. Così i dirigenti sindacali, riformisti e sedicenti rivoluzionari, trascinarono nella sconfitta dei loro metodi e dottrine tutto il proletariato, rendendogli impossibile lottare contro le bande fasciste. E, quando ancora non si erano spenti gli echi degli ultimi spari, si misero a studiare una nuova strategia sindacale, basata su un piano di intesa proprio con il fascismo e sulla fusione dei sindacati rossi con i sindacati cosiddetti “nazionali”.
Il primo atto di questo ulteriore tradimento fu consumato dal Sindacato ferrovieri, seguito dall’Unione Italiana del Lavoro e dai confederati, che ruppero il fronte unico proletario proclamando lo scioglimento dell’Alleanza del Lavoro.
Il rapporto si è poi soffermato sull’Appello lanciato dai Comitati sindacali comunisti per la ricostituzione dei sindacati di classe, tramite l’azione comune di tutte le sinistre sindacali. Da parte comunista era precisato che l’iniziativa non aveva lo scopo di costituire un “fronte unico di sinistra”, tanto meno di creare le basi di una secessione delle sinistre dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori: lo scopo era una leale intesa tra tutti quelli che erano per l’unità degli organi sindacali rossi, per l’integrità del fronte unico come sorto nella Alleanza del Lavoro, riorganizzato in una costituzione meglio conforme ai suoi compiti.
Fu indetto un convegno delle sinistre sindacali, ad inizio ottobre. Nel corso della discussione tutti quanti i delegati si trovarono concordi sulla necessità di difendere il carattere classista dei sindacati e di ricostituire l’Alleanza del lavoro. All’unanimità venivano approvati sia una mozione nettamente classista sia un ordine del giorno (proposto dai compagni comunisti) che i lavoratori appartenenti alle sinistre sindacali avrebbero dovuto presentare e sostenere, come piattaforma comune, in tutte le assemblee sindacali.
Il 28 ottobre i fascisti avevano iniziato la mobilitazione per la Marcia su Roma. Il giorno successivo il partito comunista, tramite il suo comitato sindacale, per fronteggiare le conseguenze del compromesso col quale era da prevedere sarebbe finita la “marcia” fascista, lanciava la proposta della ricostituzione dell’Alleanza del Lavoro e l’immediata proclamazione dello sciopero generale nazionale.
I comunisti chiedevano che la Confederazione del Lavoro e gli altri organi operai organizzassero una difesa delle posizioni proletarie e si preparassero a fronteggiare le conseguenze del compromesso borghese. L’appello era stato indirizzato alla Confederazione Generale del Lavoro, alla Unione Sindacale Italiana, al Sindacato Ferrovieri, alla Unione Italiana del Lavoro, alla Federazione Lavoratori dei Porti.
Lo stesso Mussolini, conversando con Cesare Rossi, aveva ammesso che «anche uno scioperetto generale purchessia, gettato fra le nostre gambe, ci avrebbe assai entravés».
Ma Mussolini aveva degli alleati sicuri, che non lo avrebbero tradito: i socialriformisti ed i bonzi sindacali. Infatti la direzione della CGL tacciò la proposta comunista come “bluffistica, incosciente, speculativa e provocatoria” e metteva “in guardia i lavoratori dalle speculazioni e dalle sobillazioni di partiti o di aggruppamenti politici intenzionati di coinvolgere il proletariato in una contesa dalla quale deve assolutamente rimanere appartato per non compromettere la sua indipendenza”.
“Battaglie Sindacali”, organo ufficiale della CGL, aveva il coraggio di scrivere che «soltanto gli scriteriati fanfaroni comunisti hanno potuto pensare alla partecipazione delle forze proletarie ad un conflitto che non le interessava direttamente».
Il commento del nostro partito fu, come doveva essere, feroce: «I socialdemocratici alla loro vigliaccheria aggiungono l’azione nefasta di sabotaggio a qualunque proposta che tenda a valorizzare la forza del proletariato. Tutte le volte che una di queste proposte è stata lanciata i confederalisti han gridato al bluffismo comunista [...] Si gridò al bluffismo quando noi a Venezia proponemmo lo sciopero generale di tutte le categorie [...] Si gridò al bluffismo quando noi proponemmo l’armamento del proletariato. La esperienza ha dimostrato che là dove i lavoratori avevano delle armi (pur con un armamento inferiore a quello delle camicie nere) la resistenza operaia ha avuto ragione della reazione [...] Ed anche per questa ultima nostra proposta hanno ripetuto la solita idiota cantilena» (“Il Sindacato Rosso”, 4 novembre 1922).
Se l’azione dei socialdemocratici confederali era chiaramente ed apertamente dichiarata, i massimalisti, gli anarchici, i repubblicani non furono da meno: non insultarono i comunisti per il semplice fatto che nemmeno risposero all’appello. Anche loro nutrivano delle speranze, chi tramite accordi diretti con il fascismo e chi tramite il “Comandante”.
Dopo la farsa della Marcia su Roma e col sostanziale sostegno di tutte le forze politiche ed economiche il reuccio chiamava Mussolini a formare il nuovo governo.
Anche se solo di passaggio il rapporto ha dovuto accennare agli ignobili intrighi di quei giorni, tra strette di mano e pugnalate alla schiena, fra Giolitti, Nitti, Salandra, D’Annunzio, Mussolini, Turati, Giardino e compagnia, in vista della partecipazione al nuovo governo che avrebbe sostituito quello di Facta, prossimo alle dimissioni.
Appena più estesamente è stata descritta la pagliacciata della cosiddetta Marcia delle milizie fasciste, che, affamate e sbandate per le campagne, sotto la pioggia battente marcivano e non marciavano, rifocillate dal rancio dei militari inviati a raccoglierle per trasportarle a Roma in treni speciali. Ma solo dopo la nomina di Mussolini a presidente del nuovo governo. Non a caso fin dal primo momento noi affermammo che non si trattava né di una rivoluzione, né di un colpo di Stato: usammo il termine di “commedia”.
E che si trattasse di commedia lo dimostrò il fatto che il 17 novembre il parlamento espresse la fiducia al governo fascista di Mussolini con 306 voti su 422 votanti. I deputati fascisti erano in tutto 37, gli alleati nazionalisti 20, tutti gli altri voti vennero da gruppi e partiti democratici di varia sfumatura tra i quali possiamo ricordare illustri campioni della legalità: Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Alcide De Gasperi, Giovanni Gronchi, Ivanoe Bonomi, etc., etc. Ma non c’è niente da scandalizzarsi, erano borghesi che davano la fiducia ad un governo borghese.
I veri infami furono invece i socialriformisti, a cominciare dal super-bonzo dirigente della CGL e deputato Gino Baldesi, che si dichiarò disponibile ad entrare a far parte del ministero Mussolini.
L’attitudine filofascista dei dirigenti confederali non si limitò all’immediato avvento del fascismo al governo, ma continuò negli anni successivi, prima ed anche dopo l’uccisione di Matteotti, quando la CGL invitava «alla calma le organizzazioni confederate, i dirigenti, la massa lavoratrice, per non compromettere con iniziative particolari e inconsulte lo svilupparsi degli avvenimenti».
Passarono altri anni, entrarono in vigore le cosiddette “leggi fascistissime”, ma non passò la vocazione dei socialdemocratici al tradimento. Il 25 marzo 1927 gli ex segretari generali della CGL, Rigola e D’Aragona, non si vergognavano ad affermare che «il regime fascista è una realtà e la realtà va tenuta in considerazione. Questa realtà è scaturita anche da principi nostri, i quali si sono imposti. La politica sindacale del fascismo, per esempio, si identifica, sotto certi riguardi, con la nostra. Il fascismo ha fatto una legge altamente ardita sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro. In questa legge vediamo accolti dei principi che sono pure i nostri».
Naturalmente nella pubblicazione per esteso del rapporto di queste perle ne verranno esibite molte ancora.
Tornando a parlare dei primi atti del governo Mussolini, il rapporto si soffermava sulla feroce campagna repressiva, legale ed illegale, che immediatamente si scatenò con arresti in massa di proletari, nella maggior parte comunisti, accusati di complotto contro lo Stato, e con programmate stragi, basti ricordare quella di Torino del dicembre con l’assassinio di 11 proletari ed una trentina di feriti. «I fascisti volevano colpire quegli uomini, solo per il fatto che essi erano organizzatori di operai in grande maggioranza comunisti» (“Il Lavoratore”, 20 dicembre 1922).
Era quella del partito comunista l’organizzazione alla quale la borghesia voleva dare il colpo finale. La situazione per il partito si fece certamente critica, sarebbe illusorio volerlo negare, ma non per questo i comunisti italiani si davano per sconfitti.
Il fascismo al governo, con tutto quello che ne seguì, non sorprese il partito comunista, che fin dalla sua costituzione aveva svolto gran parte della sua attività illegalmente e si era preparato da tempo al passaggio alla totale clandestinità. Il rapporto portava una serie di esempi dell’attività illegale e clandestina del partito e di come fosse in grado di eludere la sorveglianza poliziesca; la pubblicazione illegale dei suoi giornali, l’attività delle sue squadre, la realizzazione di comizi nell’anniversario della Rivoluzione Russa, etc. All’opposto, tutti gli altri partiti cosiddetti proletari, o davano prova evidentissima di viltà e di tradimento (i socialdemocratici), o della loro assoluta impotenza sul terreno di ogni attività rivoluzionaria (anarchici, sindacalisti e massimalisti).
Mentre la repressione statale non era riuscita ad intaccare la struttura organizzativa del partito, allo stesso tempo, essendo la sola organizzazione proletaria rivoluzionaria in grado di funzionare, diveniva l’unico polo di riferimento per il proletariato italiano; tutta la classe operaia italiana, compresi repubblicani e cattolici, tendeva ad orientarsi verso il Partito Comunista.
Il rapporto si chiudeva con l’amara constatazione di come la politica imposta dall’Internazionale Comunista, ostinandosi cocciutamente a tentare la realizzazione di un impossibile partito social-comunista, frutto della fusione con i massimalisti, screditando agli occhi del proletariato italiano la vecchia direzione, di fatto contribuì non poco a sabotarne l’opera.
Il concetto e la pratica della dittatura
Con Marx-Engels
Con Engels, Marx e Lenin il concetto di dittatura rivoluzionaria, che abbiamo visto svolgersi da Babeuf, Buonarroti e Blanqui, evolve e si specifica in quello di dittatura del proletariato, che entra a far parte di un socialismo finalmente basato sul materialismo scientifico, dialettico e storico; entra a far parte di una teoria che nasce tutta intera come Minerva dalla testa di Giove; ma, non essendo frutto della rivelazione di una qualche divinità, è frutto della storia dell’uomo, “dalla clava al missile”, e dallo studio e dall’analisi di tale storia con il metodo materialistico.
La nostra teoria, il nostro programma, il nostro Partito, nascono nel 1848 con il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. Gli stessi Marx e Engels, e più tardi Lenin, con i loro scritti, studi ed azioni, continueranno poi negli anni l’opera di scolpimento del programma. Anche “Il Capitale” di Marx, formidabile arma di combattimento oltre che analisi del capitalismo in quanto tale, e non del capitalismo ottocentesco come gli opportunisti di varia risma non si stancano di ripetere, anch’esso non è che una gigantesca verifica empirica di tesi già anticipate in sintesi estrema nel Manifesto del 1848.
Il programma del Partito è un unico blocco, che si può solo accettare o rifiutare: chi dicesse di non accettare l’1% del programma si porrebbe al di fuori del Partito.
Ovviamente gli opportunisti, “destri” e “sinistri”, che si definiscono marxisti e talvolta anche comunisti, hanno spesso proclamato la loro fedeltà al marxismo, rifiutando però, guarda caso, la dittatura del proletariato.
Nel Manifesto leggiamo: «Formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato». «Abbiamo già visto come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l’elevarsi del proletariato a classe dominante». Formazione del proletariato in classe significa che il proletariato è una classe, lo è “per se” e non solo “in se”, solo quando riesce ad esprimersi nel proprio partito, il partito comunista, rivoluzionario e internazionale. In caso contrario è una classe solo come categoria economica.
Nel Manifesto troviamo quindi l’idea di dittatura del proletariato, anche se non formulata con tali parole. Ma già ne “Le lotte di classe in Francia” del 1850 Marx parla di “dittatura della classe operaia” e di “dittatura di classe del proletariato”. Sempre Marx ne “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte” del 1852, scrive: «Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina (lo Stato) invece di spezzarla». Ancora Marx, in una lettera a Weydemeyer del 1852, scrive di non aver scoperto l’esistenza delle classi né la lotta tra di esse, ma di avere dimostrato: «1. Che l’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2. Che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. Che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi».
Engels ne “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, del 1884, scrive che lo Stato è il prodotto di una società divisa in classi: «Perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’”ordine”; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato».
Nell’Anti-Dühring del 1877-78 Engels definisce lo Stato “una forza repressiva particolare” di una classe contro le altre: «Il proletariato si impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma così sopprime sé stesso come proletario, sopprime ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato (...) Lo Stato non viene “abolito”: esso si estingue».
Da un lato Engels polemizza con i lassalliani e con tutti coloro che, anche dentro il suo partito, coltivavano l’utopia piccolo-borghese di uno Stato hegelianamente al di sopra delle parti; dall’altro lato polemizza con gli anarchici. Successivamente ci si è impadroniti delle parole di Engels per capovolgerne il significato. I riformisti traducono l’”estinzione” in gradualismo e rinuncia ad abbattere lo Stato, con le riforme e l’azione parlamentare che in regime democratico ci porterebbero al socialismo senza scossoni: un bel giorno ci sveglieremo nel socialismo, quasi a nostra insaputa. Partendo da queste premesse i rinnegati della Seconda Internazionale hanno portato il proletariato mondiale non al socialismo ma alla guerra fratricida, alla Prima Guerra mondiale imperialistica. Quanto agli anarchici essi parlano di “abolizione” dello Stato, di quello della borghesia, e fin qui siamo d’accordo, ma anche di quello che sorge con e nella rivoluzione ad opera del proletariato, del quale è lo strumento per l’esercizio della propria dittatura.
Scrive Lenin in Stato e rivoluzione, nell’agosto e nel settembre 1917: «In realtà Engels parla qui di “soppressione” dello Stato della borghesia per opera della rivoluzione proletaria, mentre ciò che egli dice sull’estinzione dello Stato riguarda i resti dello Stato proletario che sussisteranno dopo la rivoluzione socialista. Lo Stato borghese, secondo Engels, non “si estingue”; esso viene “soppresso” dal proletariato nel corso della rivoluzione. Ciò che si estingue dopo questa rivoluzione, è lo Stato proletario, o semi-Stato».
Gli anarchici invertono i tempi, mettono all’inizio ciò che è alla fine. Essi pensano che una dichiarazione, un decreto, un tratto di penna possano sostituire un processo storico lungo e complesso. Ingenui o servi coscienti della borghesia che siano fa poca differenza: di questa fanno sicuramente il gioco.
Ancora Lenin: «La dottrina della lotta di classe, applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, porta necessariamente a riconoscere il dominio politico del proletariato, la sua dittatura, il potere cioè ch’esso non divide con nessuno e che si appoggia direttamente sulla forza armata delle masse. L’abbattimento della borghesia non è realizzabile se non attraverso la trasformazione del proletariato in classe dominante, capace di reprimere la resistenza inevitabile, disperata della borghesia, di organizzare per un nuovo regime economico tutte le masse lavoratrici e sfruttate». «Tutte le rivoluzioni precedenti non fecero che perfezionare la macchina dello Stato, mentre bisogna spezzarla, demolirla (...) Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato». «La necessità di educare le masse in questa – e precisamente in questa – idea della rivoluzione violenta, è alla base di tutta la dottrina di Marx e di Engels (...) L’essenza della dottrina dello Stato di Marx può essere compresa fino in fondo da colui che comprende che la dittatura di una sola classe è necessaria non solo per ogni società classista in generale, non solo per il proletariato dopo aver abbattuto la borghesia, ma per un intero periodo storico che separa il capitalismo dalla “società senza classi”, dal comunismo».
La Comune di Parigi occupa una posizione centrale nella nostra teoria dello Stato e della rivoluzione. Marx, che nel settembre 1870 aveva definito la possibile insurrezione “una disperata follia”, nel marzo 1871, allo scoppio della rivoluzione, la saluta con entusiasmo. Scrive Lenin: «Nel movimento rivoluzionario delle masse, benché esso non avesse raggiunto il suo scopo, Marx vide una esperienza storica di enorme importanza, un sicuro passo in avanti della rivoluzione proletaria mondiale, un tentativo pratico più importante di centinaia di programmi e di ragionamenti».
«Spezzare la macchina burocratica e militare (...) Con che cosa sostituire la macchina statale spezzata?». Dice Lenin che Marx nel Manifesto a questa domanda dà ancora una risposta astratta, ma nell’attenta analisi della Comune che troviamo nella “Guerra civile in Francia” leggiamo: «La Comune fu l’antitesi diretta dell’Impero. Fu la forma positiva di una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso dominio di classe».
Continua Lenin, citando Marx: «In che cosa consisteva questa forma “positiva” di repubblica proletaria, socialista? Quale era lo Stato ch’essa aveva cominciato a creare? (...) Il primo decreto della Comune fu la soppressione dell’esercito permanente e la sostituzione ad esso del popolo armato (...) Questa rivendicazione figura oggi nel programma di tutti i partiti che desiderano chiamarsi socialisti (...) Eleggibilità assoluta, revocabilità in qualsiasi momento di tutti i funzionari senza alcuna eccezione, riduzione dei loro stipendi al livello abituale del “salario da operaio”: questi semplici e “naturali” provvedimenti democratici, mentre stringono pienamente in una comunità di interessi gli operai e la maggioranza dei contadini, servono in pari tempo da passerella tra il capitalismo e il socialismo».
Quanto al parlamentarismo Marx scrive: «La Comune non doveva essere un organo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo».
Il Partito comunista una volta preso il potere non lo divide con nessuno, per cui la concezione di divisione dei poteri ci è estranea: Montesquieu è definitivamente liquidato. Scrive Lenin che i rinnegati «hanno qualificato di anarchismo qualsiasi critica del parlamentarismo! Nulla di strano quindi che il proletariato dei paesi parlamentari “progrediti” (...) abbia riversato sempre più spesso le sue simpatie sull’anarco-sindacalismo, per quanto questo sia fratello dell’opportunismo».
«Non è possibile distruggere di punto in bianco (...) la burocrazia. Ma spezzare subito la vecchia macchina amministrativa per (...) costruirne una nuova (...) è l’esperienza della Comune (...) Noi non siamo degli utopisti. Non “sogniamo” di fare a meno, dall’oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni subordinazione; questi sono sogni anarchici, fondati sull’incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato, sogni che nulla hanno in comune con il marxismo e che di fatto servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista fino al giorno in cui gli uomini saranno cambiati. No, noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né di “sorveglianti”, né di “contabili”. Ma bisogna subordinarsi all’avanguardia armata di tutti gli sfruttati e di tutti i lavoratori: al proletariato».
La questione militare - Le guerre del proletariato - La situazione economica in Russia
Il rapporto ha esposto le diverse condizioni militari politiche e sociali che furono alla base della rivoluzione in Russia nel ‘17.
La situazione militare sui vari fronti non era particolarmente compromessa poiché, nonostante le evidenti perdite territoriali sul fronte orientale e gli scarsi risultati delle controffensive organizzate dal generale Brusilov, vi erano però i successi sul versante austroungarico, sul quale i russi dovettero arrestarsi per la difficoltà di far giungere i necessari rifornimenti in un territorio vasto e senza efficienti collegamenti ferroviari.
Sul fronte caucasico il generale Judeni? teneva saldamente importanti roccaforti in vasti territori ottomani occupati. La tardiva entrata in guerra della Romania, nel 1916, per liberare la Transilvania, aveva costretto la Russia a trasferirvi truppe da altri fronti, aumentando le loro criticità.
L’esercito russo al tempo era il più grande al mondo con ben 15 milioni di uomini. Nel 1917 ne aveva persi complessivamente ben 5. Aveva iniziato il conflitto con un pesante deficit negli armamenti e nel munizionamento, per i quali dipendeva fortemente dalla Francia e dall’Inghilterra, pagate in lingotti d’oro e col trasferimento di truppe sul fronte occidentale.
All’interno dell’esercito però nel corso dell’ultimo anno del conflitto erano vistosamente aumentati gli ammutinamenti e le diserzioni al fronte.
Per contrastare nelle fabbriche le agitazioni e la diffusione delle idee socialiste contro la guerra le autorità governative decisero di inviare per punizione al fronte gli operai e i sindacalisti più combattivi, già esentati per le loro qualifiche professionali necessarie alle produzioni belliche; scelta inopportuna perché questi diffusero le idee socialiste tra i militari, molto spesso giovani provenienti da posti remoti dove quella propaganda non era arrivata.
La situazione interna, invece, per la struttura economica della Russia del tempo, era fortemente legata all’agricoltura, la quale forniva il 51% del reddito nazionale mentre la giovane industria appena il 21%. Alla riunione sono stati esposti i dati sullo sviluppo industriale del paese, basato su grandi impianti in poche aree, in particolare a Mosca per il tessile e a Pietrogrado per il metalmeccanico e il cantieristico navale.
Pietrogrado era la città più grande dell’impero con una popolazione stimata in 2,6 milioni di abitanti di cui 400.000 operai, dei quali un terzo donne. Le officine Putilov erano la più grande concentrazione operaia di Russia con i suoi 15.000 operai, saliti a 36.000 nel 1916-17 per la produzione di guerra. La città era sede del governo, difeso da una abnorme guarnigione di 300.000 soldati più i 30.000 fanti e marinai della base navale di Kronštadt.
Nonostante gli aumenti dei salari, il loro potere d’acquisto durante la guerra era diminuito del 30% e già dal tardo 1916 in città giornalmente arrivavano soltanto 49 dei precedenti 89 vagoni ferroviari di derrate necessarie alla popolazione, essendo prioritario rifornire l’esercito. Inoltre, avendo distolto dalle campagne per il fronte 12 milioni di contadini e gran quantità di cavalli, per la mancanza di fertilizzanti e di macchine agricole e per avversità climatiche era crollata la produzione agricola obbligando il governo a pesanti razionamenti.
Sono state descritte le mosse finali dello zarismo partendo dall’insediamento sul trono di tutte le Russie del giovane Nicola II Romanov, impreparato alla carica di autocrate: di carattere debole ed influenzabile continuò la politica conservatrice del padre confermando alla guida del governo S.J. Vitte a cui era stato da tempo affidato il compito di accompagnare la Russia al ruolo di grande potenza industriale ed imperialista. Sarebbero stati però necessari profondi rivolgimenti per liberarsi della resistenza delle forti e consistenti classi conservatrici dell’aristocrazia e dei latifondisti.
La fallimentare guerra russo-giapponese del 1904-1905 segna un punto di svolta nel conflitto interno tra la classe operaia russa e tutti i sostenitori del sistema zarista. In risposta al licenziamento di 4 operai della Putilov aderenti all’Assemblea degli Operai Russi si organizzarono manifestazioni e scioperi, anche allo scopo di ottenere miglioramenti salariali e maggiori libertà civili e sindacali. Non ottenendo sufficienti risposte si giunse alla pacifica manifestazione organizzata dal pope Gapon, presidente dell’Assemblea Operaia, per presentare una petizione allo zar. Dalle 11 sedi cittadine dell’Assemblea il 22 gennaio 1905 partirono altrettanti cortei verso il Palazzo d’Inverno, che furono fermati dalla mitraglia e dalle cariche dei cosacchi provocando almeno 1.200 morti ed oltre 5.000 feriti.
In seguito a ciò lo zar convocò una Commissione con lo scopo di analizzare le cause del malcontento operaio e come prevenirlo: avrebbe dovuto essere composta da membri e funzionari governativi e da una rappresentanza di 50 operai, scelti con un complicato meccanismo elettivo. Sotto l’influenza bolscevica furono presentate delle richieste preventive quali la liberazione degli arrestati, che furono respinte. Lo zar, indispettito, sciolse la Commissione. Questa fu la scintilla dello scoppio della rivoluzione del 1905 che si estese a tutta la Russia coinvolgendo soprattutto le campagne in cui la condizione dei contadini era fortemente peggiorata dopo l’abolizione della servitù della gleba ed il riscatto delle terre, molto spesso le peggiori, con indennizzo.
Lenin definì la rivoluzione del 1905 la prova generale di quella del 1917. Nel tentativo di conservare il potere lo zar si convinse a concedere delle strutture elettive parlamentari a debole somiglianza di quelle del resto dell’Europa concedendo l’elezione di una Prima Duma, inizialmente solo consultiva e successivamente con limitati poteri legislativi, da far scaturire da un complesso sistema elettorale dove il voto di un proprietario terriero valeva 3 voti di un membro della borghesia cittadina, 15 voti di un contadino e ben 45 di un operaio. Eletta nel 1906 durò solo 72 giorni perché sciolta dallo zar intimorito per le sue richieste di maggior potere. Anche la Seconda, nel 1907, visse solo tre mesi, sciolta anche questa d’autorità, mentre la Terza Duma durò dal 1907 al 1912, conformandosi ai voleri del potere zarista perché i nuovi meccanismi elettorali avevano rafforzato la componente aristocratica e latifondista. La Quarta Duma eletta nel 1912 si auto-sciolse nel 1914 all’inizio del conflitto.
Il potere zarista poteva contare per la sua conservazione anche sull’efficienza dell’Ochrana, la temuta polizia politica, dotata di mezzi e poteri anche detentivi e di esilio senza che i suoi provvedimenti potessero essere verificati da un qualsiasi tribunale. Durante la rivoluzione del 1905, dalla fusione di diverse associazioni similari sorsero le Centurie Nere o i Centoneri, un’organizzazione conservatrice in difesa della tradizione ortodossa, della monarchia e del nazionalismo russo, utilizzata spesso per i lavori sporchi contro gli ebrei, al tempo 5 milioni in Russia, gli intellettuali e i liberali dell’opposizione.
È stata quindi descritta la formazione delle organizzazioni operaie, per motivi di tempo limitate ai partiti, lasciando alla prossima riunione quelle dei sindacati e dei soviet. In breve: la nascita e lo sviluppo delle principali formazioni politiche in Russia avvenne sul finire del 1800, con diffusione locale, essendo tutte costrette alla clandestinità dalla feroce repressione statale e costringendole a stabilire i loro centri direttivi all’estero. Nel 1883 Plekhanov costituì a Ginevra il primo gruppo di ispirazione marxista, “Emancipazione del lavoro”, che divenne nel 1895 “Unione di lotta per l’emancipazione della classe operaia”.
All’interno delle diverse nazionalità presenti nell’impero russo sorsero anche partiti di ispirazione socialista e nazionalista tendenti a forme di autonomia se non di indipendenza dalla Russia, in Polonia, Lituania, Georgia e Armenia. La comunità ebraica fondò il socialista Bund che si diffuse tra le loro maggiori comunità. Alcuni di questi partiti confluirono poi in quelli maggiori, altri mantennero vita autonoma.
Un’importante svolta si ha con la fondazione, in una casa privata a Minsk nel 1898, con 9 rappresentanti di 6 diverse organizzazioni, del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR). Nel suo secondo congresso, del 1903, svoltosi prima a Bruxelles e trasferitosi a Londra per l’ostilità delle autorità belghe, si ha la contrapposizione sull’articolo 1 dello statuto concernente il concetto di militante e le regole per l’adesione al partito. La posizione bolscevica era di un partito forza d’avanguardia composta da “militanti di professione” attivamente impegnati nei suoi organi di lavoro, mentre quella menscevica era per un grande partito di massa a cui bastava per aderirvi la semplice accettazione del suo programma senza una reale partecipazione alla sua vita organizzativa. Altro punto di contrasto riguardava il superamento dello zarismo: i primi attraverso una rivoluzione guidata dal partito e tramite una dittatura di classe, mentre i secondi attraverso fasi successive e una temporanea alleanza tra la borghesia riformista e il proletariato.
La sconfitta della rivoluzione del 1905 costrinse all’estero i sopravvissuti alla repressione statale. La rottura tra bolscevichi e menscevichi si ebbe nel congresso del 1907 a Londra circa il ruolo del partito, l’atteggiamento verso la grande massa contadina e la conseguente questione agraria; dal 1912 i due partiti ebbero vita indipendente. La corrente menscevica sarà per l’appoggio condizionato al Governo Provvisorio, costituitosi nel marzo 1917 subito dopo l’abdicazione dello zar, giustificato col tentativo di salvare la rivoluzione antizarista.
Nel 1902 sorse in Russia il Partito Socialista Rivoluzionario di ispirazione populista e non marxista che si sviluppò principalmente nelle campagne con il suo programma di distribuzione delle terre dei grandi latifondi, contrapposto a quello dei bolscevichi che era per la nazionalizzazione delle terre. Il PSR riteneva i contadini la vera classe rivoluzionaria e considerava centrale nella sua azione l’uso del terrorismo contro personalità del potere e grandi latifondisti, tramite la sua affiliazione “Organizzazione di Combattimento del SR”.
(Fine del resoconto al prossimo numero)
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Da anni le condizioni di vita e di impiego dei lavoratori sono in continuo peggioramento, sottoposte all’attacco della classe capitalista – nazionale ed internazionale – che nasconde la sua dittatura sulla classe lavoratrice dietro il gioco dei suoi burattini che si avvicendano al governo attraverso il falso ed ingannevole teatrino democratico.
Tutto è finalizzato a dividere la classe operaia per abbassarne il salario: rinnovi dei contratti nazionali di categoria sempre a perdere; ricorso agli appalti, alle esternalizzazioni di settori di attività, alla frammentazione contrattuale affinché le aziende dispongano nello stesso posto di lavoro di una forza lavoro divisa; controriforme del lavoro e della previdenza, che hanno diffuso la precarietà contrattuale, innalzato l’età pensionabile, ridotto l’importo mensile della pensione.
Le politiche contro gli immigrati sono un ulteriore strumento della classe dominante per dividere la classe lavoratrice. Servono a rendere quella parte della classe salariata costituita da immigrati privi della cittadinanza più ricattabile, quindi più sfruttabile, per poter più agevolmente metterli in concorrenza contro gli altri, a giovamento dello sfruttamento padronale di tutta la classe proletaria.
L’unità della classe lavoratrice è una necessità pratica prima ancora che un valore morale: è l’unico modo che hanno i lavoratori per frenare la concorrenza al ribasso insita nel mercato del lavoro e fomentata ad arte dai padroni per difendere i loro privilegi di classe. Questa unità è incompleta – quindi fallimentare – se si ferma dinanzi ai lavoratori immigrati e non li include.
Non si tratta di decidere se accogliere o respingere gli immigrati. L’immigrazione dai paesi devastati dalla guerra, dalla carestia, dalla fame è un processo inarrestabile che riguarda decine di milioni di persone in ogni parte del mondo e non esistono muri o barriere che possano fermarla. La questione centrale per la classe lavoratrice è sindacalizzare i lavoratori immigrati, lottare insieme per superare ogni divisione che possa fomentare la concorrenza al ribasso fra proletari, fra cui quella del possesso, o meno, della cittadinanza.
I lavoratori immigrati sono una “risorsa” per ogni borghesia nazionale fintantoché riesce a sfruttarli di più di quanto già non faccia con quelli autoctoni. Ma sono una “risorsa” anche per il movimento operaio quando questo riesce ad unirli a sé.
Lo dimostrano otto anni di scioperi nel settore della logistica in Italia, organizzati dal sindacato SI Cobas: lavoratori in larga maggioranza immigrati sono riusciti a conquistare forti aumenti salariali e miglioramenti nelle condizioni di lavoro, in controtendenza col resto delle categorie della classe lavoratrice.
Di queste dure lotte operaie – il più delle volte vittoriose ma costate sacrifici, ritorsioni padronali, scontri con le forze dell’ordine nei picchetti, persecuzioni giudiziarie contro veri militanti sindacali – i lavoratori italiani sanno pochissimo se non nulla, tenuti all’oscuro sia dai sindacati di regime (CGIL, CISL, UIL e UGL) sia dai mezzi d’informazione, in mano al Capitale, che ben si guardano dal parlarne e si curano invece di rimbambirli con lo spauracchio della “invasione”.
Opporsi alla propaganda razzista sul suo stesso piano, opponendole una propaganda antirazzista, sul piano umanitario, come fa la Chiesa, è insufficiente e non può che condurre al fallimento perché significa non saper riconoscere il vero obiettivo della classe dominante, che non è l’affermazione dell’infame ideologia razzista in sé, ma il suo utilizzo per dividere la classe lavoratrice, mantenerla oppressa e sfruttarla di più.
L’unico terreno vincente su cui rispondere è quello della lotta e dell’unità dei
lavoratori, al di sopra di ogni divisione, per i loro obiettivi di classe:
– forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate;
– riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per tutta la classe
lavoratrice;
– salario pieno ai lavoratori licenziati (non “reddito di cittadinanza”,
vincolato alla accettazione di lavori a basso salario ed utile quindi anche
questo ad abbassare il salario medio);
– forte abbassamento dell’età pensionabile.
Queste sono le vere rivendicazioni generali della classe proletaria, le sole che possano difenderla dal continuo attacco cui è sottoposta dalla classe dominante. Sono rivendicazioni sindacali ma che per il loro carattere generale hanno già un intrinseco valore politico, che non è quello di essere contro un governo di questo o quel colore ma contro l’intero regime politico borghese.
Chiamare allo sciopero i lavoratori solo “contro questo governo” non basta perché, caduto un governo, il regime politico borghese ne fa un altro che sarà comunque contro i proletari: l’obiettivo della classe lavoratrice dev’essere abbattere tutti i governi della classe borghese. Incanalare la lotta operaia nei falsi giochi parlamentari è la migliore risorsa che ha sempre avuto la borghesia per difendere il suo dominio politico. Le rivendicazioni operaie sono intrinsecamente già contro ogni governo e ogni regime politico capitalista, ed un potente movimento di sciopero per esse non potrebbe che vedersi schierato anche contro ogni preteso “governo amico”
Le rivendicazioni generali della classe lavoratrice possono essere portate avanti solo da un forte movimento sindacale di classe in grado di dispiegare scioperi generali ad oltranza. Ieri i sindacati di base SI Cobas, Cub, Adl Cobas, Sgb, Usi Ait, Usi, Slai Cobas e parte dello Slai Cobas hanno proclamato lo sciopero di tutte le categorie. Un atto giusto ma che ha sofferto ancora una volta della divisione interna al campo del sindacalismo di base: sia l’Usb sia la Confederazione Cobas sono state escluse dalla preparazione dello sciopero, fatto prontamente impugnato dalle dirigenze di queste organizzazioni per giustificare la loro mancata adesione. Un tentativo formale ed ufficiale di coinvolgere questi sindacati non avrebbe offerto loro questa comoda giustificazione e avrebbe dato più forza a quei lavoratori che, all’interno di quei sindacati, si sono battuti per l’adesione allo sciopero, in nome dell’unità d’azione della classe operaia e del sindacalismo conflittuale.
L’unità d’azione del sindacalismo di classe (dei sindacati di base e delle
correnti di classe dentro la Cgil):
– servirebbe a smentire agli occhi dei lavoratori le menzogne sparse sul
movimento operaio organizzato dal SI Cobas da otto anni nella logistica;
– aiuterebbe a rompere il muro di silenzio attorno quelle dure lotte operaie;
– inferirebbe un duro colpo al muro che i padroni vogliono erigere per dividere
i lavoratori italiani da quelli immigrati;
– è il miglior modo per dare forza all’autentico sindacalismo di classe
all’interno del sindacalismo di base, per sconfiggere le dirigenze opportuniste
e costituire un Fronte unico sindacale di classe, quale passo verso la
formazione di un unico grande Sindacato di classe.
Compagni, lavoratori,
se alcuni proletari credono siano necessarie delle politiche per fermare l’immigrazione non per questo sono razzisti ma per impedire il loro immiserimento. È la stessa idea che in tutti questi anni ha spesso fatto accettare i sacrifici in nome del preteso comune e superiore “interesse del paese”, che altro non è che il bene del capitale. La maggior parte dei lavoratori crede che il capitalismo possa essere “riformato” perché da decenni questa idea è stata inculcata nella classe operaia dal PCI stalinista e togliattiano e dagli altri partiti opportunisti.
È compito del partito comunista rivoluzionario spiegare ai lavoratori come il capitalismo sia destinato al crollo mondiale della sua economia, non certo a causa degli immigrati, o degli “sprechi”, o della “corruzione”, ma per la inevitabile crisi di sovrapproduzione di merci e capitali e per il calo inesorabile del saggio del profitto.
La soluzione che hanno a disposizione le borghesie di tutti i paesi contro il futuro avvitarsi della crisi è scatenare una nuova guerra, un nuovo macello mondiale per distruggere le merci in eccesso, fra cui la forza lavoro. Per questo per esse è fondamentale usare la propaganda nazionalista, che non a caso inizia a prendere piede in ogni paese e che ha fra i suoi pilastri la paura e l’odio verso gli stranieri e gli immigrati.
Per questo l’unità fra lavoratori in ogni paese è vitale, perché intrinsecamente oppone al cancro nazionalista e patriottico la pratica dell’internazionalismo proletario, della lotta rivoluzionaria che oppone alla guerra tra gli Stati la guerra tra le classi per abbattere il regime del capitale.
Lo scorso 6 novembre due lavoratori della fabbrica tessile DS di Prato, fra gli organizzatori dei recenti scioperi in quello stabilimento, sono stati aggrediti da una banda di scagnozzi padronali. Ancora una volta il SI Cobas si trova a fronteggiare le ritorsioni padronali fatte di sospensioni, licenziamenti, utilizzo di crumiri negli scioperi, aggressioni fisiche. Dove finiscono questi mezzi sporchi, di diretta emanazione padronale, incomincia l’intervento dello Stato borghese, attraverso le forze di polizia che puntualmente sgomberano i picchetti operai, come da ultimo è successo presso lo stabilimento del Panificio Toscano di Collesalvetti (LI), azienda teatro di un’altra dura lotta operaia organizzata dal SI Cobas.
La lotta presso lo stabilimento DS di Prato è un fatto rilevante per il movimento operaio. Dopo essersi radicato in quello della logistica e, sia pure con maggiori difficoltà, in quello della macellazione delle carni, il SI Cobas interviene in un altro settore dove altissimo è il grado di sfruttamento della classe operaia – in barba a norme contrattuali e leggi – e forte la presenza della criminalità organizzata e quasi completa l’assenza di organizzazioni sindacali.
Vogliamo ricordare, a proposito, il rogo in cui nel dicembre 2013 morirono a Prato 7 lavoratori cinesi che si trovavano nel dormitorio interno alla fabbrica. Queste condizioni sono perfettamente note alle “democratiche istituzioni statali”, che le hanno sempre avallate col loro “lasciar fare”. E al pari sono note ai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) che mai nulla hanno fatto se non appellarsi alle istituzioni, nonostante ciò si sia dimostrato sempre ben poco utile.
La rilevanza dell’intervento del SI Cobas in questo settore è confermata proprio dalla aggressione ai due operai: dimostra che i padroni temono la diffusione di un autentico sindacato combattivo nelle fabbriche tessili, temono il contagio della lotta – che alla DS ha portato al riconoscimento delle condizioni del contratto nazionale di categoria (40 ore settimanali, riposo settimanale, ferie, malattie e tredicesima) – in una città come Prato che rappresenta uno dei più grandi centri di produzione e vendita di manufatti tessili d’Europa.
La classe operaia non può difendersi invocando la legalità ma solo reagendo agli attacchi padronali con la forza della sua organizzazione di lotta, come il SI Cobas ha dimostrato di saper fare, con coraggio, determinazione e capacità organizzativa.
L’aggressione di Prato aiuta anche a inquadrare nella giusta luce la questione del razzismo: operai immigrati, sfruttati e aggrediti da padroni e scagnozzi anch’essi immigrati. Con lo Stato della borghesia italiana che finge di non sapere.
Riportiamo qui a fianco il volantino che i nostri compagni hanno distribuito alla manifestazione nazionale del 27 ottobre scorso a Roma, organizzata dal SI Cobas, che ha posto quale suo tema centrale l’opposizione al “Decreto Sicurezza”, in discussione in quei giorni in parlamento.
La manifestazione è riuscita, ancor meglio di quella, sempre nazionale e sempre a Roma, organizzata dal SI Cobas il 23 febbraio scorso. Fra i 5 ed i 6 mila partecipanti, un risultato ottimo, considerata l’estensione organizzativa di questo sindacato, che conferma quanto abbiamo scritto in passato: che gode della fiducia dei suoi iscritti e che questo dato si manifesta in un rapporto fra numero di iscritti e lavoratori mobilitati nella manifestazione superiore a qualsiasi altra organizzazione sindacale in Italia.
Così come per quella del 23 febbraio, la manifestazione seguiva lo sciopero nazionale della logistica del giorno precedente, che in questo caso però avveniva all’interno di uno sciopero generale di tutte le categorie proclamato da una parte del cosiddetto sindacalismo di base: Cub, Sgb, Adl Cobas, Usi, Usi-Ait, e appunto il SI Cobas. Ciò che rimane dello SLAI Cobas si è spaccato in modo grave nel merito dell’adesione, trovando favorevoli gli organizzati di Milano e contrari quelli del Sud Italia.
Non hanno aderito invece né l’Usb né la Confederazione Cobas. Si è confermata quindi la stessa spaccatura fra sindacati che si vorrebbero alternativi a quelli di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) – in quanto conflittuali e non collaborazionisti – verificatasi l’anno passato, con la non secondaria differenza che mentre l’anno scorso Usb e Confederazione Cobas proclamarono uno sciopero generale in altra data (il 10 novembre), quest’anno entrambe queste organizzazioni sindacali non hanno proclamato alcuno sciopero generale.
Per l’Usb, da quando è stata costituita, nel maggio 2010, questa è la prima volta che accade ed appare un fatto alquanto grave, a fronte di un governo che attacca la classe lavoratrice sul piano ideologico, col veleno del razzismo e del nazionalismo, ma anche su quello materiale con il Decreto Sicurezza, che va ad aggravare la condizione di ricattabilità dei lavoratori immigrati e quindi a dividere la classe salariata, e inasprisce le pene per blocco stradale, compiendo un passo in avanti verso il divieto per legge della fondamentale arma del picchetto, senza il quale lo sciopero spesso perde di forza.
Difficile non vedere in questa scelta il prodotto della ricerca di una relazione collaborativa con le forze politiche al governo, in virtù del passato sostegno di non poca parte dell’Usb al Movimento 5 Stelle, nonché della affinità di vedute con la Lega sul piano della politica internazionale, con l’avversione alla Unione Europea e le simpatie verso il blocco imperialista russo.
Come l’anno passato, alcuni militanti di vari sindacati di base, fra cui i nostri compagni, hanno promosso un appello a sostegno di uno sciopero generale unitario del “sindacalismo di base e conflittuale”, intendendo con questa formula coinvolgere anche la opposizione di sinistra nella Cgil.
L’appello ha riscontrato un positivo successo, ma minore rispetto a quello dell’anno passato. L’hanno determinato vari fattori, fra cui il replicarsi della stessa situazione dell’anno scorso nel merito delle modalità della sua proclamazione, avvenuta senza previa consultazione e coinvolgimento di Usb e Confederazione Cobas.
Alcuni militanti e dirigenti del SI Cobas hanno affermato che avrebbero cercato di coinvolgere i due sindacati, ma di tale tentativo non vi è alcun riscontro ufficiale. Per questo nel volantino abbiamo ripetuto che la chiamata alla mobilitazione alle altre organizzazioni sindacali dovrebbe essere pubblica e proclamata, non per amore delle forme burocratiche di relazione ma per invitare tutti gli iscritti e i lavoratori a far pressione sulle direzioni dei propri sindacati per esser portati allo sciopero. Sarebbe così chiara la responsabilità delle scelte delle dirigenze nei confronti delle loro basi.
Lo sciopero, svoltosi venerdì 26 ottobre, ha confermato la debolezza di queste mobilitazioni organizzate da un sindacalismo di base debole e diviso al suo interno, con la eccezione del settore logistico, dove il SI Cobas si conferma il solo sindacato di base in grado di promuovere scioperi che effettivamente colpiscono l’attività produttiva del settore.
A maggior ragione in una situazione in cui una parte della classe lavoratrice ha prestato un minimo di credito al nuovo governo, cadendo nella trappola propagandistica del finto “cambiamento”, lo sciopero avrebbe necessitato di una seria preparazione e della adesione di tutte le organizzazioni e correnti sindacali che dichiarano di voler seguire il sindacalismo di classe.
Il volantino distribuito dai nostri compagni a Roma sabato 27 ottobre è stato diffuso anche a Genova, domenica 21 ottobre ed a Firenze, sabato 17 novembre, in due manifestazioni contro il Decreto Sicurezza, ma entrambe a carattere interclassista.
Il 17 novembre i nostri compagni hanno partecipato anche ad un’altra manifestazione, svoltasi a Prato, in cui abbiamo distribuito un altro testo, anch’esso pubblicato qui accanto. Anche questa manifestazione, indetta dal SI Cobas, è ben riuscita sia per partecipazione sia per il respiro prettamente operaio. Per la classe proletaria di Prato è stato certamente un evento importante.
Sempre il 17 novembre i promotori dell’ “appello per lo sciopero unitario del sindacalismo di base e di classe” sono tornati a riunirsi a Firenze, per dare seguito a uno dei due propositi definiti nella precedente riunione del 2 settembre – che a ben vedere era quello principale – cioè promuovere una “assemblea nazionale ‘autoconvocata’ per l’unità d’azione del sindacalismo di classe”.
Per l’assemblea, decisa per il 2 dicembre a Firenze, era stato redatto un documento di convocazione – datato martedì 6 novembre – il cui contenuto esprimeva, nel merito dei problemi che affrontava, una linea sindacale interamente condivisibile, e che riportiamo qui per intero.
«Per una assemblea nazionale autoconvocata del sindacalismo di classe»
«Le condizioni di vita e d’impiego dei lavoratori sono da anni in continuo peggioramento, sotto attacco del padronato – nazionale ed internazionale – e dei suoi governi d’ogni colore, sempre fedeli al sistema capitalista.
«L’onda delle conquiste del secondo dopoguerra – ottenute grazie a dure lotte operaie – si fermò già al finire degli anni settanta, a fronte dell’esaurirsi del ciclo di crescita economica postbellico del capitalismo e dell’aprirsi di quello di lunga crisi attuale.
«La Cgil reagì consolidando l’unità con Cisl e Uil, per gestire assieme il pompieraggio delle lotte operaie e la ritirata sindacale, abbracciò la cosiddetta “politica dei sacrifici” sostenendo la necessità di sacrificare gli interessi dei lavoratori in nome del preteso comune e superiore “interesse nazionale”, e sancì così il tradimento del sindacalismo di classe.
«A seguito di quella storica svolta, la reazione che ne scaturì fu da un lato il delinearsi di una corrente di opposizione all’interno della Cgil denominata “sinistra sindacale” e dall’altro la formazione di nuove organizzazioni sindacali, dette “di base”, che si posero fuori e contro la Cgil, da esse ritenuta definitivamente inservibile alla difesa della classe lavoratrice.
«Nel tempo, sull’onda di movimenti di lotta generalmente di categoria (ospedalieri, ferrovieri, aeroportuali, INPS, Vigili del fuoco, insegnanti, tranvieri, metalmeccanici, logistica), sono nati vari sindacati di base che, attraverso fusioni e divisioni, sono oggi riconducibili a quattro organizzazioni maggiori (Usb, SI Cobas, Confederazione Cobas, Cub), altre minori (Adl Cobas, Slai Cobas, Sgb, Usi Ait), altre di settore o categoria (Orsa, Cobas Sanità Università e Ricerca), altre più piccole a carattere locale (Adl Varese, Sial Cobas, Soa, Usi).
«In un arco temporale di ormai quasi quaranta anni il sindacalismo di base ha condotto alcune importanti battaglie a livello aziendale o categoriale ma non è mai riuscito ad organizzare e dirigere un movimento di lotta generale della classe lavoratrice in grado di contrastare i gravi attacchi operati dal padronato e dai suoi governi.
«Quando le grandi offensive padronali sono state messe in atto – ad esempio con le successive riforme previdenziali e del lavoro – il controllo delle mobilitazioni è sempre rimasto in mano ai grandi sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil).
«Uno dei fattori che ha contribuito a determinare tale incapacità del sindacalismo di base è stata certamente la condotta della maggioranza delle dirigenze di questi sindacati che, con grave miopia, hanno sempre anteposto l’obiettivo del rafforzamento della propria organizzazione a quello dello sviluppo di un movimento di lotta dei lavoratori, conducendo una continua lotta le une contro le altre.
«In tal modo non solo hanno impedito una fusione organizzativa dei sindacati di base tale da giungere alla costituzione di un unico grande sindacato di classe ma – a fronte dei drammatici attacchi antioperai – nemmeno hanno perseguito l’unità d’azione nella lotta. Ciò non di rado ha condotto a indebolimenti ed arretramenti in quelle stesse categorie dove il sindacalismo di base era nato sulla iniziale onda di entusiasmo dei lavoratori più combattivi.
«Anche questo autunno, ad esempio, è stato organizzato uno sciopero generale sostenuto da una sola parte del sindacalismo di base, in modo analogo a quanto oramai avviene da anni.
«Dal canto suo, la cosiddetta “sinistra sindacale”, in questo arco temporale di quasi quattro decenni, non solo non è riuscita a fermare lo spostamento su posizioni di sempre più aperto consociativismo della Cgil – arrivata a promuovere insieme a Cisl e Uil, ad esempio, la previdenza e l’assistenza sanitaria integrative – ma si è addirittura sfaldata, andando la sua parte maggiore – le aree di “Democrazia e Lavoro” e “Lavoro e Società” – a sostenere, in modo aperto o appena velato, le linee direttive della maggioranza di quel sindacato. Dato palesatosi con ulteriore chiarezza nell’ultimo congresso, ancora in corso, in cui le lotte in seno alla maggioranza per la successione alla Segreteria Nazionale nulla hanno a che vedere con la linea sindacale consociativa, collaborazionista, antioperaia, che è condivisa da tutte le forze che sostengono il documento di maggioranza.
«Fuori da questa dinamica, le forze della opposizione di sinistra – riorganizzatesi perlopiù nell’area “Il sindacato è un’altra cosa” – pur consapevoli di come sia tramontata ogni speranza di cambiare la Cgil, restano al suo interno, da un lato per la persistenza di realtà di lavoro conflittuali, in cui spesso sono presenti, ancora legate alla Cgil, dall’altro lato in conseguenza delle divisioni del sindacalismo di base. E, fatto ancor più grave, esitano ad aderire a mobilitazioni generali che portano la stimmate della contrapposizione fra un fronte e l’altro dei sindacati conflittuali, anche se, nelle manifestazioni del 26 ottobre scorso, ci sono stati segnali incoraggianti in senso opposto, ad esempio a Firenze.
«Da questo quadro emerge il dato ineluttabile per cui nessuna organizzazione o corrente sindacale conflittuale, classista, può oggi pensare di poter far fronte da sola alla condizione sempre più ardua della nostra classe.
«Questo dato però è tanto evidente quanto è ignorato da gran parte delle attuali dirigenze dei sindacati di base le quali, invece di impegnarsi nella organizzazione di movimenti di lotta sindacale unitari, spesso preferiscono unirsi in fronti misti sindacal-partitici, con cui poi muovere guerra le une contro le altre.
«Noi crediamo che la strada per uscire da questa situazione incresciosa e dannosissima per la classe lavoratrice possa essere intrapresa solo dai militanti e dagli iscritti di tutti i sindacati di base e della opposizione di sinistra in Cgil disposti a farsi carico in prima persona di una battaglia per l’unità d’azione del sindacalismo di classe e dei lavoratori.
«Promuoviamo a questo scopo una assemblea nazionale autoconvocata con gli
obiettivi di:
«– sostenere in ogni lotta dei lavoratori – sia essa aziendale, territoriale, di
categoria o generale – l’unità d’azione dei lavoratori e delle organizzazioni
sindacali conflittuali, come già avviene o è avvenuto in alcuni settori (ad
esempio: sciopero nazionale dei lavoratori della scuola del 22 febbraio scorso;
sciopero nazionale dei lavoratori postali del 25 maggio; piattaforma unitaria
del sindacalismo di base nell’ultimo rinnovo del Ccnl dei ferrovieri; lotte
contro le ritorsioni padronali agli ospedali Spallanzani a Roma e Galliera a
Genova);
«– discutere la definizione di una piattaforma rivendicativa generale per la
classe lavoratrice di pochi punti rivendicativi in grado di sintetizzare e
contrastare efficacemente i molteplici problemi ed attacchi che affliggono la
classe lavoratrice (bassi salari, frammentazione contrattuale, licenziamenti,
carichi ed intensità del lavoro, infortuni e vittime sul lavoro, elevamento
dell’età pensionabile).
«Intenzione dei promotori dell’Assemblea non è costituire una nuova organizzazione sindacale ma unire i militanti delle organizzazioni e correnti del sindacalismo conflittuale, nel rispetto di ciascuna di esse, per condurre con più forza la battaglia per l’unità d’azione delle rispettive organizzazioni, affinché questa possa imporsi e divenire completa, conseguente, capace di spezzare il sistema di potere del sindacalismo collaborazionista, fondato sul rispetto delle compatibilità economiche del capitalismo nazionale ed internazionale e sulla complicità con il padronato.
«Affinché l’unione dei lavoratori nella lotta non sia solo uno slogan ma la prima conquista di noi tutti».
L’assemblea del 2 dicembre – nella opinione nostra e degli altri militanti sindacali promotori – è andata alquanto bene, per partecipazione e per qualità dei numerosi interventi. Erano presenti militanti di quasi tutti i sindacati di base: Confederazione Cobas, SI Cobas, Usb, Cub, Cobas Sanità Università Ricerca, Sgb, Slai Cobas, Adl Varese, CAT, Orsa. Vi era inoltre – fatto che consideriamo importante – un nutrito gruppo della opposizione interna alla Cgil, oltre ad alcuni lavoratori non iscritti ad alcun sindacato. Un operaio della FCA di Melfi, aderente a Usb, ha parlato a nome del gruppo Operai Autorganizzati FCA.
L’assemblea sembra aver accolto con favore l’indirizzo proposto: l’azione, concertata fra i militanti delle varie organizzazioni e correnti che si richiamano al sindacalismo di classe, volta alla affermazione dell’unità d’azione del sindacalismo di classe, quale strumento, non unico ma necessario, per ottenere il massimo di unità di lotta dei lavoratori.
A tale fine è stata proposta la formazione di un coordinamento volto a:
– la condivisione e propaganda sul territorio nazionale delle lotte condotte a
livello aziendale, territoriale, categoriale, a sostegno dell’indirizzo
dell’unità d’azione del sindacalismo di classe;
– la condivisione e propaganda della attività di analoghi coordinamenti già
esistenti a livello aziendale, territoriale, categoriale, anche al fine di
promuovere la loro diffusione;
– l’intervento pratico a sostegno di determinate lotte considerate
particolarmente importanti, nel segno dell’unità d’azione del sindacalismo di
classe e nei limiti delle energie disponibili.
Per questo lavoro sono stati proposti alcuni piccoli passi operativi: la costituzione e cura di una pagina facebook e di un bollettino cartaceo; gruppi di lavoro per la loro redazione; la programmazione di successivi incontri di lavoro (riunioni) e di una nuova assemblea nazionale.
Ha trovato sbocco effettivo quest’anno l’indirizzo pratico dell’appello per lo sciopero unitario del sindacalismo conflittuale che l’anno passato, nonostante il seguito che aveva ottenuto, non era riuscito a mettere in atto (vedi: “Il percorso accidentato ma segnato verso un fronte unico sindacale di classe”, il Partito Comunista n. 385 e “Le valutazioni e l’intervento della nostra frazione sindacale nella vicenda del doppio sciopero ’generale‘”, il Partito Comunista n. 386). Segno che, come avevamo previsto, si trattava di avere la pazienza che le condizioni maturassero, cioè che i militanti sindacali attestati su questo indirizzo si trovassero spinti dalla necessità del movimento di lotta rivendicativa della classe proletaria a compiere i primi passi operativi.
«Succedeva che se in un posto ti trattavano come uno schiavo si andava da un’altra parte. Siamo ora arrivati al punto che non c’è più nessun posto dove andare. Siamo ad un punto di svolta. Riceviamo il salario minimo, con contratti a zero ore garantite. Gli straordinari non esistono più e adesso stanno iniziando ad appropriarsi anche delle mance. Non possiamo davvero più tollerare questa condizione».
Con queste parole un giovane lavoratore inglese del settore della ristorazione descrive la condizione sua e di molti altri sfruttati alla vigilia di un’importante ed inedita azione diretta. Il 6 ottobre i lavoratori dei fast-food appartenenti alle catene McDonald’s, TGI Fridays e Wetherspoons hanno dato vita ad uno sciopero coordinato a conclusione, o forse a nuovo inizio, delle lotte particolari di cui si erano avuti diversi episodi l’anno scorso.
I casi di molestie sessuali presso i McDonald’s o le discussioni sulle mance alla TGI Fridays sono stati solo i soprusi che hanno innescato la protesta: farla finita con paghe misere e contratti a zero ore, nonché alla disparità di retribuzione che colpisce i giovani sotto i 25 anni. Da iniziative di sciopero isolate e sparse nel tempo si è fatta strada la consapevolezza che è necessaria un’azione coordinata di lotta.
Per lo più giovani senza sostegno familiare, senza alcuna prospettiva di avanzamento, schiacciati da un mercato della forza lavoro che preme solo al ribasso, questi lavoratori hanno formato o aderito a dei Grassroots Trade Unions, sindacati di base, impermeabili a burocrati e a politiche collaborazioniste di ogni sorta, e che sono per la maggior parte dirette dai lavoratori stessi per la difesa dei loro interessi immediati, inconciliabili con quelli dei loro padroni. Inizia anche a serpeggiare la consapevolezza che la loro situazione potrà difficilmente migliorare rimanendo tali gli attuali rapporti di produzione.
Lo sciopero è stato promosso principalmente dal sindacato Bakers, Food and Allied Workers Union ma anche GMB Union ed il più grande Unite the Union hanno chiamato all’azione gli iscritti.
Evidentemente però il malessere non sta solo nella ristorazione: quando lo sciopero era già deciso, i lavoratori della “gig economy”, gli addetti alla consegna dei pasti a domicilio, hanno presto deciso di partecipare anch’essi. Accomunati da una condizione assai simile, con paghe bassissime e ore di lavoro non garantite, hanno visto nell’unità dei lavoratori l’unica possibilità di riscatto.
Questo segmento di lavoratori vive una condizione al limite della sopravvivenza, negati anche i diritti elementari. Anche se nella maggior parte dei casi si tratta di veri e propri impieghi a tempo pieno, nonché unica fonte di sostentamento, questi fattorini si sentono dire che sono gli “imprenditori di se stessi”, che lavorano “quando e come vogliono”, che sono “padroni del proprio tempo”. La realtà invece è che non hanno altra scelta che subire uno sfruttamento selvaggio con la perenne incertezza di non poter stare al passo con affitto e bollette, lavorando senza ferie, cassa malattie né compenso in caso di condizioni atmosferiche avverse.
Ben 9 le città nel Regno Unito hanno visto la mobilitazione congiunta di lavoratori di UberEats e Deliveroo, con una manifestazione molto partecipata nel centro città di Cardiff. Questi lavoratori sono organizzati quasi interamente da altri due importanti sindacati di base, IWGB e IWW in un’unica rete (Couriers Network).
Parlare della costituzione di un fronte unico sindacale sembra di certo alquanto prematuro in questa fase, ma sorprende la facilità e rapidità con cui questi sindacati giungano ad un totale accordo sull’unità d’azione, in modo da infliggere il massimo danno possibile all’avversario per mezzo dello sciopero. In un settore molto precario in cui è sempre stato difficile organizzare la forza lavoro per via della sua frammentazione, ben 5 sindacati sono riusciti a congiungere i propri sforzi in un tempo relativamente breve.
Nelle pulizie a Londra
Ma questo non è stato l’unico episodio di lotta coraggiosa che ha attraversato il Regno negli ultimi mesi. Merita attenzione la genuina esperienza organizzativa dei lavoratori delle pulizie londinesi tramite il sindacato United Voices of the World (UVW). Per la quasi totalità proletari immigrati, questi lavoratori sgobbano presso i più smaglianti uffici della città per percepire la miseria del salario minimo nazionale di 7,83 sterline l’ora. Se questo, forse, può bastare ad una misera vita fuori di Londra, nella capitale finanziaria basta per pagare il fitto e poco più, tanto che il salario minimo per Londra, il “London living wage”, è fissato in 10,20 sterline.
Con il 100% dei voti per lo sciopero, i lavoratori delle pulizie presso il Ministero della Giustizia e il Quartiere di Kensington e Chelsea (RBKC) hanno deciso di incrociare le braccia per tre giorni dal 6 al 8 agosto. Le principali richieste sono un innalzamento della retribuzione a 10.20 sterline l’ora per tutti, più la fine della disparità di trattamento e di diritti tra lavoratori interni ed esternalizzati. L’azione è sembrata sin dall’inizio decisamente energica e chiassosa: oltre ai picchetti i cleaners sono entrati in entrambi gli edifici interrompendo il regolare svolgimento delle attività. Ad una iniziale accettazione di dialogo espressa da un portavoce del RBKC è seguito un rifiuto di ascoltare le richieste dei lavoratori.
Ma la miccia era ormai accesa. Lavoratori delle pulizie presso altri edifici della città, tra cui gli ospedali privati di lusso e cliniche specialistiche (London’s Luxury Private Hospitals) hanno aderito all’UVW in massa e subito organizzato una votazione per decidere se scioperare o meno. Alla notizia di prossime possibili azioni di sciopero, l’azienda che impiega questi lavoratori ha offerto loro un aumento della paga da 7,83 a 9,18 sterline, ovvero il 17% di incremento. Una mossa che avrebbe potuto far sì che la lotta ripiegasse e si appiattisse su una conquista parziale. Ma che non ha invece sortito gli effetti sperati, visto che i lavoratori sono andati avanti per la loro strada e con un altro importante plebiscito hanno deciso di continuare a scioperare fino all’ottenimento di tutte le loro richieste. Pochissimi giorni dopo arriva la notizia: il Quartiere di Kensington riconosce a partire da dicembre 2018, e con effetto retroattivo da ottobre, un aumento del salario a 10,20 sterline l´ora. Per di più il contratto precario sarà rivisto con la soppressione della possibilità di risoluzione anticipata da parte della ditta appaltatrice.
Ma già prima di questa vittoria, e nei giorni seguenti, anche altri segmenti della forza lavoro impiegata presso il Ministero della Giustizia hanno aderito all’UVW. Le guardie di sicurezza e gli addetti all’accoglienza, entrambi con paga inferiore al “London Living Wage”, hanno deciso di battersi al fianco degli addetti alle pulizie e proseguire con nuovi scioperi nei prossimi mesi. Anche presso gli ospedali privati la battaglia continuerà.
Sulla pagina Facebook del sindacato UVW leggiamo un messaggio chiaro: «la vostra lotta è la nostra lotta e abbiamo bisogno della massima unità e solidarietà tra noi per crescere in forza». È proprio il caso di dire che il maggior risultato della lotta è il miglioramento dell’organizzazione e la sua estensione.
Allo stesso tempo il maggior partito che con molto coraggio riesce ancora a dirsi riformista, il Labour Party, ha spedito i propri parlamentari e i suoi candidati a ministri a farsi riprendere davanti a qualche picchetto mostrando d’essere a favore degli scioperanti e di una legislazione che assicuri un salario minimo nazionale di 10 sterline. Non abbiamo dubbi che si tratti dell’ennesimo inganno: come ovunque le sinistre borghesi inizialmente sbandierano davanti alla classe operaia rivendicazioni radicali per bassi scopi di raggiro ed elettorali, per poi ripiegare su politiche perfettamente funzionali alla conservazione dello sfruttamento. In questo momento il Labour Party e i sindacati di regime ostentano un falso appoggio ma restano sempre la maggiore forza contraria e per la pacificazione del movimento. Sono in attesa della prima occasione per imbrigliarlo ed incanalarlo nell’alveo della collaborazione, del sacrificio e della sottomissione all’interesse nazionale, che si pretende, in mala fede, comune. Anche la classe lavoratrice inglese ha dunque un compito: non prestare ascolto a chi vuole darle in pasto delle briciole per impedire che continui sulla sua strada di lotta coraggiosa.
Il partito ha già scritto della lotta dei lavoratori della scuola in West Virginia, cui abbiamo dichiarato la nostra solidarietà, nel numero 388 di questo giornale. In quello Stato i salari non erano aumentati in proporzione al costo della vita e il governo aveva ripetutamente messo in forse nuovi stanziamenti. Alcuni insegnanti lasciavano il West Virginia per andare ad insegnare negli Stati vicini, dove gli stipendi sono più alti. Alla fine dello sciopero hanno ricevuto un aumento salariale del 5% per tutti, e l’amministrazione Statale si è impegnata a ridurre i costi dell’assicurazione sanitaria. Un risultato quantitativamente modesto ma certo una grande vittoria di principio. Questa mobilitazione infatti ha spronato altri insegnanti ad entrare in azione.
Veniamo qui ad elencare le astensioni dal lavoro e i prolungati scioperi degli insegnanti limitandoci a quelli ancora in corso.
In Oklahoma gli insegnanti sono entrati in sciopero per motivi simili. Qui si è avuto uno scontro tra i sindacati e i lavoratori, i quali si sono dichiarati insoddisfatti di quanto concordato dal sindacato, che avrebbe finito per lasciarli in una posizione peggiore di quando hanno iniziato la lotta. Molti hanno lamentato che i finanziamenti sono insufficienti a coprire gli arretrati fin dal 2007. Il risultato è stato un aumento medio dei salari di 6.000 dollari annui, contro i 10.000 richiesti. Mentre lo Stato si dichiarava disposto a fare parziali concessioni, il sindacato ha ufficialmente interrotto lo sciopero, anche se in alcuni casi l’astensione dal lavoro è andata ancora un po’ avanti. Il governatore dello Stato ha paragonato gli insegnanti, che solo chiedono migliori condizioni di lavoro e di salario, a «un adolescente che vuole un’auto più bella». Ha anche lamentato che qualsiasi sciopero ad oltranza avrebbe ridotto la vendita dei materiali di preparazione ai test ai quali gli studenti si stanno preparando! Il governatore ha anche affermato che i finanziamenti pubblici devono essere riservati alla polizia e alla “correzione” di chi ha commesso reati.
Purtroppo lo stanziamento per pagare gli insegnanti molto probabilmente è stato tolto ad altri servizi pubblici, mettendo settori della classe operaia l’uno contro l’altro, incolpando ogni categoria di aver aspirato ai finanziamenti in modo egoistico. Solo un proletariato unito in un unico movimento difensivo può combattere questa concorrenza fra lavoratori.
In Kentucky stava per essere approvata una legge che conteneva un emendamento per tagliare i giorni di malattia e ridurre gli stipendi dei lavoratori della scuola, allo scopo, si diceva, di trovare i soldi per pagare i pensionati. Ciò ha fatto sì che una massa di insegnanti abbia fatto immediatamente pressione sul governo per bloccare il disegno di legge. In precedenza il governatore aveva sostenuto nel parlamento dello Stato che i bambini delle scuole tornano a casa “piangenti” perché gli insegnanti parlano di scioperi e criticano i loro genitori: che gli insegnanti quindi smettano di parlare “di politica” a scuola!
In Colorado i lavoratori della scuola hanno effettuato scioperi contro l’imposizione di interessi “aziendali” in materia di istruzione, i bassi salari, il taglio delle pensioni e per il fatto che in molti debbono fare anche altri lavori per sopravvivere. Il Colorado è uno Stato amministrato dai democratici e una legge richiede l’approvazione “del popolo” per poter modificare le voci del bilancio statale. Questo significa che i proletari devono competere tra di loro ed appellarsi ai borghesi per finanziare i loro salari attraverso l’aumento delle tasse: un bella trappola democratica del capitale.
Anche in Arizona è emersa una simile combattività nel recente sciopero per pure rivendicazioni di classe, benché qui, come in altri Stati, i lavoratori spesso assumano atteggiamenti di “orgoglio di categoria” affermando di voler dare priorità agli interessi degli studenti e di battersi anche per una migliore qualità della scuola.
Così, nonostante Arizona e Colorado siano “rappresentati” da due diversi partiti borghesi, in proletari debbono ugualmente lottare per difendere i loro interessi.
Nello Stato “più illuminato e progressista”, New York, non vi è ancora alcun visibile movimento degli insegnanti. Vi è stata imposta dalle direzioni delle scuole una valutazione, ulteriormente peggiorativa, non più di istituto ma del singolo insegnante, in base a quanti studenti vengono promossi.
A scala nazionale il movimento non è riconosciuto né diretto dai sindacati corrotti, che invece gli sono contrari, come la American Federation of Teachers e la United Federation of Teachers, cioè la sua federazione di New York, che niente hanno mai fatto di fronte agli abusi che gli insegnanti subiscono quotidianamente nel loro lavoro e che fanno qualche sceneggiata soltanto quando sono minacciate dai tagli di bilancio e dalle privatizzazioni le loro sinecure sindacali.
1.400 lavoratori di Alcoa in due miniere di bauxite e tre raffinerie di alluminio nell’Australia occidentale si ripromettono di continuare uno sciopero a tempo indeterminato contro la società. Alle raffinerie di Kwinana, Pinjarra e Wagerup, alle miniere di Huntley e Willowdale e al porto di Bunbury i lavoratori hanno scioperato all’inizio dello scorso agosto, dopo 20 mesi di estenuanti trattative per un accordo di contrattazione aziendale, con la società che non si è mossa dalle sue posizioni.
Alcoa è una società statunitense che anche in Australia dispone di miniere di bauxite e di impianti di raffinazione. Queste tre raffinerie producono 8,8 milioni di tonnellate di alluminio all’anno ed hanno sicuramente una importanza rilevante nel settore.
Alcoa afferma di agire con integrità, operare correttamente e prendersi cura delle “persone”: «curiamo la dignità delle persone e offriamo una cultura del lavoro diversificata e inclusiva, ci preoccupiamo della sicurezza, promuoviamo il benessere e proteggiamo l’ambiente».
Ecco che lo sciopero viene a chiedere che le imprese capitaliste la smettano di “preoccuparsi dei lavoratori”.
I lavoratori sostengono che lo sciopero non è per il salario ma per la sicurezza del lavoro e contro il precariato. Temono di essere sostituiti da lavoratori occasionali a basso costo o di essere licenziati: anche chi è assunto a tempo indeterminato e da molto tempo sente di non essere al sicuro.
Alcoa ha risposto rifiutando di discutere del mantenimento dei posti di lavoro, offrendo invece un “generoso accordo” con aumento del 14% dei contributi pensione, un prolungamento del congedo per malattia con sostegno al reddito per due anni, una settimana lavorativa di 36 ore e una estensione del lavoro straordinario.
Ma gli operai non si sono fatti ingannare, non hanno interrotto lo sciopero mantenendo la solidarietà fra di loro, benché molti di essi abbiano già perso da 4.000 a 6.000 dollari di paghe.
Questo sciopero è solo un esempio della tradizione sindacale in Australia e conferma la necessità di vere e combattive organizzazioni di classe per la difesa degli interessi economici del proletariato.
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Quando lo Stato della borghesia italiana tende a giocare un ruolo nei riguardi della sponda Sud del Mediterraneo ci si deve domandare se, oltre alle risibili velleità da grande potenza, non ci sia da considerare la gravità del contesto generale in cui si inserisce tale azione con la pretesa di tutelare gli “interessi vitali della Patria”. La nostra corrente è sempre stata consapevole della debolezza della classe dominante italiana, dileggiando le sue efferate imprese coloniali di ieri, senza negare al capitalismo italico il suo ruolo all’interno della divisione imperialista del mondo.
Agli inizi di ottobre è apparsa la notizia della “alleanza” della britannica Bp con l’italiana Eni per riattivare la produzione di gas e di petrolio nei siti di loro competenza in Libia. La multinazionale inglese aveva dovuto interrompere le sue attività dal 2014 per il riesplodere dei problemi di sicurezza attorno all’estrazione e trasporto del prezioso minerale. In questo nuovo accordo la Bp – che deteneva in concessione l’85% dei giacimenti in terra e in mare con il restante 15% della National Oil Corporation – cede la metà delle sue quote all’Eni, la sola compagnia petrolifera in grado di garantire la produzione, l’esplorazione e le trivellazioni in nuove aree.
La scelta dell’Eni piuttosto che della francese Total, che ne esce indebolita nella sua scalata al petrolio libico, ha suscitato grande entusiasmo ed enfasi in Italia, soprattutto tra i nazionalisti e i “sovranisti”, che qui mettiamo insieme. A prima vista segnerebbe un importante riequilibrio strategico tra le compagnie petrolifere assegnando all’Italia, tramite l’Eni, un ruolo primario nell’economia libica e nei rapporti tra le varie bellicose entità tribali connesse nell’affare.
In più si rafforzerebbero le relazioni economico-diplomatiche tra Italia e Gran Bretagna, che solitamente avvengono quando la seconda cerca un alleato contro la Francia, politica già adottata in un passato storicamente verificabile.
Al momento non sono chiari i motivi inglesi: se legati alla Brexit e alla necessità di far cassa, in vista del prezzo da pagare per l’uscita dal condominio europeo, o al tentativo di non essere tagliata fuori dal settore del petrolio, visto il forte incremento dei costi di estrazione nei mari del Nord.
Ogni paese cerca di diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico per contrastare eventuali instabilità nelle aree di estrazione e di trasporto. Le stesse preoccupazioni toccano anche i paesi produttori che cercano di ampliare il “portafoglio clienti”, a seconda anche delle merci che ottengono in cambio.
Per meglio comprendere l’evoluzione della complessa vicenda, acuitasi dopo il 2011 con l’eliminazione di Gheddafi e la distruzione del collaudato equilibrio interno tra le sue 144 tribù, quali ne siano ora i principali attori e come sia divenuto egemone il ruolo dell’Eni nel petrolio libico, dobbiamo brevemente ritornare alla travagliata avventura coloniale dell’Italia e all’evolversi della situazione politica in quel paese.
Quella disgraziata impresa iniziava nell’autunno 1911 approfittando della crisi interna all’Impero Ottomano impegnato dalla rivoluzione dei Giovani Turchi. Di fatto si riuscì a precariamente tenere solo alcune città sulla fascia costiera protette dalle navi militari, mentre nell’entroterra e nelle oasi si sviluppava un’intensa azione di guerriglia.
Questa si concluse definitivamente, dopo due decenni di tenaci azioni da parte delle popolazioni arabe della Cirenaica e della Tripolitania, che non si erano rassegnate alla conquista, solo con la cattura e l’esecuzione del settantatreenne capo dei senussi ribelli, Omar al-Mukhtar, il 15 settembre 1931. Questo capo guerrigliero era un imam libico cirenaico, dotato di notevoli capacità militari perché con limitate forze, rifornite dal contrabbando di armi francesi e inglesi attraverso la Tunisia, seppe tenere lungamente in scacco il moderno esercito coloniale italiano il quale, dimentico della missione di portare civiltà e benessere come strombazzato in casa, si macchiò di terribili efferatezze sulla popolazione. Maggiori informazioni su quella campagna militare si trovano sul n° 81 del 2016 della nostra rivista Comunismo.
Nel dicembre del 1934 fu ufficialmente istituito il Governatorato Generale della Libia unificando i tre già esistenti governatorati di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, conferendo ai libici lo status di “cittadini italiani libici”, che garantiva loro una serie di diritti all’interno della colonia.
Subito dopo la Prima Guerra mondiale iniziò l’afflusso di coloni italiani nelle aree coltivabili della colonia, che raggiunse il suo culmine alla metà degli anni Trenta; la loro maggiore concentrazione era sulla costa attorno a Tripoli e Bengasi dove nel 1939 costituivano rispettivamente il 37% ed il 31% della popolazione. Complessivamente gli italiani nel 1939 erano calcolati in circa 110.000 su una popolazione libica di circa 880.000. Per i coloni furono costruiti 26 nuovi villaggi ed importanti infrastrutture: strade, acquedotti, qualche tratto di ferrovia, recuperi archeologici, ecc.
L’Italia dopo il 1934 iniziò una politica favorevole agli arabi libici, detti “musulmani italiani della quarta sponda d’Italia”, facendo costruire per loro villaggi, con moschee, scuole ed ospedali.
Nei piani strategici dell’imperialismo italiano, dopo una eventuale vittoria contro gli Alleati nella Seconda Guerra mondiale, con l’annessione della fascia costiera della Libia e delle coste adriatiche dell’Istria, della Croazia, della Dalmazia, del Montenegro e dell’Albania fino alla frontiera greca, avrebbe avuto origine la “Grande Italia”, mentre avrebbero fatto parte dell’ “Impero d’Italia” i territori dell’interno sahariano libico, l’Egitto con il canale di Suez e il Sinai, il Sudan, l’Etiopia e la Somalia. Un ambizioso programma che avrebbe portato al completo controllo dei traffici marittimi verso l’Asia.
Il petrolio in Libia era stato scoperto casualmente nel 1914 quando, scavando un pozzo alla ricerca di acqua, uscirono piccole quantità di greggio, ma la sottovalutazione del futuro fabbisogno energetico fecero accantonare ogni progetto di esplorazione.
Solo in concomitanza delle ricerche petrolifere nella pianura padana la borghesia italiana si ricordò delle scoperte nella colonia, ora quasi tutta sotto il suo controllo, e affidò al giovane geologo Ardito Desio il compito di tracciare una carta geografica e geologica della regione. Questi, viaggiando su cammelli, tra il 1930 e il 1936 riuscì a redigere una minuziosa mappatura sia delle falde acquifere, indispensabili a realizzare i progetti di trasformazione agraria della zona semi desertica di Misurata, sia delle zone ricche di petrolio, il quale però si trovava ad una profondità di più di 2.000 metri, oltre quanto raggiungibile allora con la tecnologia nostrana; per la coltivazione di quei giacimenti era necessario rivolgersi alla superiore tecnologia americana.
Nel 1938 Desio scoprì un giacimento di potassio e magnesio da cui scaturì una modesta quantità di petrolio; grande fu l’entusiasmo del governo che subito affidò a Desio un programma triennale di ricerche ed estrazione.
L’Agip, che vi scavò i suoi primi 18 pozzi, era un ente pubblico fondato nel 1926 appartenente per il 60% al Tesoro e per il resto a diversi istituti di assicurazioni sociali italiane. Assieme alla Società Italiana Carburanti Sintetici della Fiat diede inizio alla cosiddetta “operazione Petrolibia” per esplorare la possibilità di ottenere benzine mediante sintesi chimica, mentre a Marghera, Fiume ed in Albania erano già funzionanti delle comuni raffinerie a scissione termica. A causa delle sanzioni all’Italia del 1935/36 e delle ingenti spese per sostenere le campagne coloniali, l’Agip dovette rinunciare a proseguire alcuni investimenti esteri, tra cui le campagne di prospezione in Iraq.
L’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 complicò la questione degli investimenti petroliferi in Libia: ai comandi delle truppe in loco fu inizialmente indicato di assumere un atteggiamento difensivo vista la precaria stabilità delle frontiere, presidiate dai francesi sul versante tunisino e dagli inglesi su quello egiziano.
All’entrata in guerra dell’Italia gli impianti petroliferi delle potenze nemiche in Libia furono requisiti ed affidati all’Agip, la quale nel frattempo aveva assunto una certa importanza a livello mondiale. Ma una vasta parte del territorio libico italiano fu occupato dalle truppe inglesi il che annullò definitivamente quel progetto. La Campagna del Nordafrica, o Guerra nel Deserto, che inizialmente aveva visto lo scontro fra l’interesse dell’Inghilterra a mantenere il controllo del Canale di Suez e le posizioni tenute dall’Italia, in seguito coinvolse tutta la fascia costiera dal Marocco all’Egitto e gli eserciti delle due alleanze belligeranti, Stati Uniti d’America compresi.
L’esito avverso della Seconda Guerra mondiale costrinse l’imperialismo italiano, famelico ma arrivato tardi alla grande rapina mondiale, a ricostruire prima il suo tessuto produttivo, poi a trovare altre strade per la sua espansione. Con i trattati di pace del 1947 l’Italia dovette rinunciare a tutte le colonie, compresa la Libia. La Cirenaica e la Tripolitania furono assegnate in amministrazione temporanea all’Inghilterra, che fornì la maggior parte del personale tecnico e amministrativo dello Stato, il Fezzan alla Francia. Ma il 24 dicembre 1951 la Libia dichiarava l’indipendenza come Regno Unito di Libia con re Idris I capo dei musulmani senussi.
Iniziarono subito complesse lunghe trattative sulle compensazioni richieste: dal governo libico per i danni subiti durante l’occupazione italiana; da Roma a risarcimento dei cittadini italiani che a varie riprese, già durante la Campagna del Nordafrica, avevano dovuto lasciare il paese.
Nel 1955 nel neonato Regno di Libia le Compagnie petrolifere dei paesi vincitori il conflitto mondiale, inglesi, francesi ed americane, iniziano l’esplorazione petrolifera su vasta scala e con migliorate tecnologie, utilizzando le mappe e i piani di scavo di Ardito Desio. L’americana Esso nel 1959 scoprì diversi giacimenti in Cirenaica e fu la prima ad estrarre petrolio con un certo successo; ma le prime esportazioni furono disponibili solo nel 1963.
Già dai primi incoraggianti risultati nel 1957, quelle Compagnie intesero monopolizzare lo sfruttamento del petrolio libico escludendo dall’affare l’italiana Eni, fondata nel 1952 assorbendo l’Agip, Anic e Snam, a quel tempo diretta dall’intraprendente Enrico Mattei che cercava di inserirsi autonomamente nell’affare del petrolio.
Questi si mise subito in forte contrasto con il cartello delle Sette Sorelle (le americane Esso, Mobil, Texaco, Chevron e Gulf Oil, l’inglese British Petroleum e l’olandese Shell) le quali con gli accordi di Achnacarry nel 1928 avevano costituito un cartello per spartirsi le zone di estrazione e i prezzi di vendita del petrolio proveniente da Africa e Medioriente imponendo la regola del fifty-fifty, ovvero il 50% dei ricavati al paese produttore e il restante 50% alle compagnie petrolifere. Maggiori dettagli si trovano nel nostro studio specifico, “Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo”, che tratta in particolare della Libia nel capitolo pubblicato nel numero 370, del 2015, di questo giornale.
Ma il 14 marzo 1957 Mattei sconvolse i piani delle Sette Sorelle stipulando un contratto tra l’Eni e la National Iranian Oil Company che attribuiva il 75% alla compagnia iraniana e il restante 25% all’Eni. In seguito a ciò altri paesi produttori chiesero di rinegoziare i contratti in essere e adeguare i nuovi al nuovo criterio.
Per aggirare la pretesa di re Idris di non stipulare contratti con un’azienda di proprietà statale ma solo con aziende private, visto il passato coloniale, l’Eni fondò la CoRI (Compagnia Ricerca Idrocarburi), formalmente privata, il cui capitale apparteneva per il 90% all’Eni e il restante 10% alla Snam Progetti. Il 19 novembre 1959 la CoRI ottenne la concessione n° 82 nel deserto cirenaico, tra le oasi di Gialo e Jagbub. La CoRI applicava royalties molto favorevoli al governo libico offrendogli anche la possibilità di associarsi col 30% a qualunque nuova scoperta.
Ma il 27 ottobre 1962 l’aereo personale su cui volava Mattei esplose in fase di avvicinamento all’aeroporto di Milano: tutte le inchieste non giunsero mai a scoprirne le cause.
Fu solo nel 1968 che l’Eni ottenne altre importanti concessioni; nel 1969 la Snam scoprì l’immenso giacimento di Bu Attifel e costruì la prima grande raffineria a Tripoli. L’interscambio commerciale italo-libico in quegli anni crebbe di 17 volte.
Il contenzioso con l’Italia sulle compensazioni si complicò dopo il 31 agosto 1969 quando il colonnello Gheddafi si impossessò del potere tramite un incruento colpo di Stato: con un decreto emesso il 21 luglio 1970 agli oltre 20.000 italiani ancora residenti in Libia fu improvvisamente intimato di tornare in Italia entro il 15 ottobre seguente, dopo aver subito la confisca di tutte le loro proprietà. Espulsione e confisca avvennero in violazione del trattato italo-libico del 1956, stipulato sulla base della Risoluzione Onu del 1950 che condizionava l’indipendenza del Regno Unito di Libia al rispetto dei diritti e degli interessi delle minoranze residenti nel Paese.
Re Idris I, malato, allora in Turchia per cure mediche, e prossimo all’abdicazione in favore del figlio, fu deposto, considerato troppo sottomesso agli interessi degli Usa, dell’Inghilterra e della Francia che lo avevano insediato sul trono. La rivoluzione dei giovani ufficiali, che si ispirava a quella di stampo nazionalista e “terzomondista” diretta da Nasser in Egitto, comprendeva un vasto programma di nazionalizzazioni delle compagnie estere e la chiusura delle due basi militari inglesi e quella enorme americana di Wheelus Field che ospitava 6.000 uomini e un nutrito stormo dei migliori aerei da combattimento del tempo.
All’epoca il petrolio libico rappresentava il 27% delle importazioni di idrocarburi dell’Italia, per cui Roma dovette fare buon viso a cattivo gioco cercando di controllare l’instabilità in quel paese. Aldo Moro, allora ministro degli esteri, dovette gestire una non facile situazione basata sulla criticità fra il rimpatrio degli italiani e la fornitura di petrolio. Infine scelse di appoggiare Gheddafi. È ufficialmente riconosciuto che Moro il 21 marzo 1971 ordinò al generale Vito Miceli, capo del Servizio Informazioni Difesa, di bloccare nel porto di Trieste la partenza della piccola nave Conquistator XIII con 25 mercenari addestrati in Inghilterra incaricati di effettuare un contro-colpo di Stato in Libia che sarebbe stato fatale per Gheddafi. Questa “Operazione Hilton”, che asseriva di voler ristabilire la monarchia legittima, avrebbe dovuto impossessarsi delle tetre carceri di Tripoli, da cui il metaforico nome dell’azione, e liberare gli oppositori al nuovo regime; con l’aiuto delle truppe ostili a Gheddafi rovesciarne il regime ed instaurare quello del potente clan di Omar Shahli, ex portavoce del deposto re Idris, escludendone il figlio, legittimo successore, da tutti ritenuto inadatto al ruolo. Londra e i golpisti contavano sul risentimento per le espulsioni, che avrebbe messo in difficoltà il governo italiano.
L’operazione era stata preparata da un gruppo di maggiorenti libici facenti capo a Omar Shahli. Questi si erano recati per “cure termali” in un albergo di Abano Terme, dove accordarsi per la spartizione delle future cariche politiche. Ma l’inconsueto raduno termale era stato spiato dai servizi italiani. Con queste credenziali Moro si recò subito a Tripoli da Gheddafi, il 5 maggio 1971, proponendogli una forma di cooperazione privilegiata e garantendo che importanti aziende italiane avrebbero fornito alla Libia tutto quanto necessario al suo moderno sviluppo, in cambio di future forniture particolarmente vantaggiose di gas e petrolio. Inizia così per i due capitalismi sulle opposte sponde mediterranee un nuovo vitale e prospero ciclo economico Libia-petrolio-Italia, politicamente garantito dal rais.
Il colpo di Stato di Gheddafi non scalfì quindi, pur tra mille compromessi e aggiustamenti, quel particolare legame economico con il governo italiano. Legame che assunse una nuova configurazione nel 1970 con l’istituzione della National Oil Corporation (Noc), la compagnia petrolifera nazionale libica con la quale si stipulavano gli accordi più importanti e che disponeva, con le sue consociate, della metà del petrolio libico. I nuovi accordi Eni-Noc si stipulavano sotto l’ombrello protettore dei rispettivi governi, in rappresentanza degli interessi comuni di tutta quanta la classe borghese.
Nel febbraio 1974 il presidente del consiglio italiano Mariano Rumor firmava con il suo omologo libico Abdessalam Jalloud un accordo per un incremento di estrazione di ben 7 milioni di tonnellate di petrolio all’anno, da pagarsi con costruzioni di infrastrutture, edifici, fognature e impianti industriali, divenendo così l’Italia il primo partner commerciale della Libia. Si conferma che il colonialismo economico e finanziario non è meno saldo, facile da attuare e rapido di quello militare.
Nel corso del suo lungo regno i rapporti tra Italia e la Libia sono sempre stati caratterizzati dalle bizzose “esternazioni” di Gheddafi, concernenti le annose richieste dei danni causati dalla colonizzazione italiana, dagli enormi interessi economici legati al gas e al petrolio e dalla sua possibilità di influenzare il flusso dei migranti clandestini in partenza dalle coste libiche. Usò bene queste tre carte al punto tale che i vari governi succeduti a Roma ebbero difficoltà a rifiutare molte delle sue richieste. Il 14 aprile 1986 si arrivò a preavvisarlo del bombardamento americano della sua dimora a Tripoli, come se ne vantò l’allora Presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi. Il giorno seguente due missili libici di fabbricazione sovietica lanciati dalla Libia caddero in mare davanti a Lampedusa, una fasulla ritorsione con il celato scopo di stornare i sospetti americani dal governo italiano.
Il 21 giugno 1996 le truppe di Gheddafi uccisero per rappresaglia tutti i reclusi del carcere di massima sicurezza di Abu Salim, un quartiere a sud di Tripoli, prevalentemente oppositori politici che avevano protestato per le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti. Fu poi scoperta una fossa con 1.270 resti umani. Essendo un “affare interno” libico i politici nostrani finsero di non vedere durante tutti i successivi corteggiamenti a Gheddafi.
Un ulteriore salto di qualità si ebbe nel 1998 quando il primo ministro italiano Lamberto Dini offrì al suo omologo libico Al Muntassar importanti incentivi economici per ottenere l’autorizzazione alla costruzione del Greenstream, il gasdotto che dal 2005 trasporta in Italia 8 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Seguì poi il più importante accordo del 2007 con la Noc per il prolungamento fino al 2042 dei contratti per la produzione di petrolio e al 2047 del gas con un investimento italiano di 28 miliardi di dollari.
Questi affari furono poi ratificati nel 2008 dal Trattato Italia-Libia, “di amicizia, partenariato e cooperazione”, tra Berlusconi e Gheddafi con cui il governo italiano “finalmente” riconobbe le sue responsabilità nell’occupazione coloniale, risarcendo la Libia con 5 miliardi di dollari mentre si impegnava a finanziare altre opere infrastrutturali per altri 5 miliardi, da realizzarsi con imprese italiane. Gheddafi dal canto suo si impegnava a contrastare l’immigrazione clandestina verso l’Italia utilizzando motovedette fornite dall’Italia, con suo personale addestrato in Italia a carico dell’erario italiano.
Anche durante il IV governo Berlusconi (2008-2011) Gheddafi manovrò abilmente il controllo dei flussi di clandestini e sulla necessità di capitali freschi per l’economia italiana, ottenendo considerevoli risultati. Qui non riportiamo tutta la lunga e quasi farsesca vicenda di quelle relazioni bilaterali.
In quegli anni si registrò un notevole ampliamento della ricerca e sfruttamento degli estesi campi di petrolio, di ottima qualità e a basso costo di estrazione, affidato anche a grandi Compagnie straniere, ora anche cinesi, che si affiancarono all’Eni, senza però riuscire mai ad intaccarne il primato. Nel caso della Libia quindi gli affari per la borghesia italica sono andati a gonfie vele fino alla fine del regime del colonnello Muammar al-Gheddafi avvenuta nel 2011.
Il tenore di vita dei libici però cresceva in modo diseguale poiché solo una minima parte delle consistenti rendite petrolifere raggiungeva gli strati bassi della popolazione, come in ogni economia capitalistica, anche se ammantata in un preteso “socialismo islamico”.
Allora l’intervento della Francia nel rovesciamento del regime, al di là delle ragioni contingenti dovute ai rapporti di affari fra l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy e lo stesso Gheddafi, che ne aveva finanziato la campagna elettorale, venne ispirata dal tentativo di acquisire una quota maggiore della rendita petrolifera, sottraendola alla presa dell’imperialismo italiano. Dunque il “fine nobile” del rovesciamento dell’”folle dittatore” era soltanto una facciata per mascherare la contesa fra le due rapaci potenze europee e l’aiuto dato dalla Francia ai ribelli contro Gheddafi, poi l’intervento diretto dell’aviazione francese era in sostanza un attacco agli interessi italiani.
La guerra civile iniziò il 17 febbraio 2011 con le prime manifestazioni a Tripoli nell’anniversario del massacro nel carcere di Abu Salim e possiamo stabilire la fine di quella prima fase il 20 ottobre con l’assassinio di Gheddafi presso Sirte, dove si era nascosto. La fase successiva è ancora in atto e non se ne intravede una fine.
L’imperialismo francese non si è dimostrato in grado di pilotare la transizione libica verso la costituzione di un governo amico che potesse garantire gli interessi di Parigi, almeno quanto quello di Gheddafi aveva favorito quelli di Roma. Di qui l’anarchia militare che ne è seguita, la lotta fra le tribù ansiose di conquistare la loro quota di rendita petrolifera e, infine – attraverso le conquiste militari, la diplomazia fra le milizie e la mediazione di potenze grandi e piccole – la creazione di due governi in lotta fra loro, che insieme controllano la stragrande maggioranza del territorio della Libia, sempre reggendosi sulla forza dei gruppi armati a base tribale. Il governo di Fayez al-Sarraj, insediato a Tripoli e sostenuto in primo luogo dall’Italia, controlla una vasta estensione di territorio nella Tripolitania e nel Fezzan, ma resta estremamente debole proprio nel controllo militare dell’area attorno alla sua capitale. Invece il governo di Tobruk, che si regge sulla forza armata guidata dal generale Khalifa Haftar, e gode dell’appoggio di Russia, Francia, Egitto ed Emirati del Golfo, appare più solido da un punto di vista militare.
Prima delle grandi rivolte del 2011 la produzione di petrolio in Libia era di quasi 1,6 milioni di barili al giorno, corrispondenti al 2% della produzione mondiale. Di questi il 52% era in mano a 35 aziende internazionali fra le quali l’Eni primeggiava con i 267.000 barili al giorno nel 2010, ben oltre la tedesca Wintershall con 79.000 e la francese Total con 55.000.
Scomparsa la Libia di Gheddafi con la formazione delle due entità locali in Tripolitania e in Cirenaica in conflitto tra loro, gli emissari delle Compagnie petrolifere si sono precipitati a Tripoli e a Bengasi, sia presso gli emissari del Consiglio Nazionale di Transizione sia alla Noc, per tutelare i loro interessi in atto e garantirsi nuovi contratti.
L’allora presidente del consiglio Mario Monti con il presidente dell’Eni Paolo Scaroni si recarono più volte in Libia preoccupati di mantenere il ruolo egemone dell’Eni ed evitare che la Francia, tramite la Total, riscuotesse il compenso per la caduta del rais sotto forma di concessioni a danno dell’Eni.
La crisi libica non si è quindi composta ma aggravata con estesi e prolungati scontri interni tra la miriade di gruppi armati, formati sovente su antiche basi tribali, al punto che la Total, la spagnola Repsol e l’americana Marathon Oil hanno via via sospeso le loro attività per il peggioramento delle condizioni di sicurezza. La relazione finanziaria semestrale dell’Eni riferiva per quel periodo una produzione di soli 50.000 barili al giorno, ma prometteva a breve una forte ripresa produttiva.
La ripresa produttiva dell’Eni si è invece basata su due scelte: contrattare con le diverse milizie locali la sicurezza degli impianti, da pagarsi con denaro e petrolio, spesso destinato al contrabbando, e concentrare i suoi sforzi nella Tripolitania dove, in società con la Noc, gestisce il complesso di estrazione, trasformazione e pompaggio per il terminale del gasdotto Greenstream presso Mellilah.
L’Eni per la protezione dei suoi impianti nel sud del Sahara utilizza le milizie dello Zintan, che appoggiano il governo di Tobruk. La Relazione 2016 della italiana presidenza del consiglio dei ministri in merito alla sicurezza nell’area conferma che la Brigata Rayayina dello Zintan ha consentito la ripresa delle attività su due giacimenti nel Sahara affidati alla Repsol e all’Eni. Non così in Cirenaica dove continuano i contrasti tra le forze del generale Haftar e quelli della Petroleum Facilities Guard di Hibraim Jadran.
In ogni caso la produzione dell’Eni riprende velocemente: nella sua relazione annuale dichiara 240.000 barili al giorno nel 2014 e ben 365.000 nel 2015; questo livello si stabilizza negli anni seguenti facendo dell’Eni la prima e quasi unica compagnia attiva nel Paese.
Francesi ed inglesi, predoni di grande esperienza su vasta scala, hanno sovente deprecato il “metodo Eni” sostenendo di preferire la contrattazione ufficiale e “legale” con le istituzioni politiche a quella con le bande dei ribelli. ça Bp, in questa situazione, ha offerto una parte delle quote dei suoi pozzi all’Eni. In particolare la Francia è assetata di gas e petrolio e questa è la sua urgente e ultima nel tempo motivazione nell’affare del libico.
Risulta confermato che anche nella predisposizione e gestione del fondamentale dispositivo di approvvigionamento energetico la Unione Europea è del tutto inconsistente. Non solo è priva di una politica di scelte tecniche e di strutture comuni, al contrario è lacerata dalla concorrenza e dalla guerra delle grandi compagnie le quali si contendono le fonti con tutti i mezzi, piuttosto quelli illeciti, per darsi colpi bassi al di sotto dei tavoli della diplomazia “comunitaria”. Sebbene le multinazionali si appoggino ciascuna al proprio Stato nazionale del quale utilizzano i servizi segreti, la diplomazia e le forze armate.
Questa è la “razionalità” dell’internazionale modo di produzione capitalista, oltre alla quale non potrà mai andare.
In questo contesto si è inserito l’ambizioso tentativo del governo italiano di svolgere un ruolo di mediazione che aprisse la strada alla celebrazione di elezioni e dunque alla riunificazione della Libia attraverso un processo pacifico. Tale tentativo si è sostanziato nel vertice di Palermo in cui, ospite il presidente del consiglio Giuseppe Conte, si sono riuniti nel capoluogo siciliano i rappresentanti di numerosi Stati e delle forze in campo in Libia.
Sarebbe a questo punto quasi superfluo ricordare quanto noi marxisti siamo scettici riguardo alla possibilità che la riunificazione di un paese, che si presenta in questo caso come un’unificazione fra Stati, siano essi di diritto o de facto, sia un fenomeno che solo in condizioni del tutto particolari si possa compiere senza il dispiegamento cinetico della forza armata. Altrettanto ozioso potrebbe apparire da parte nostra il ribadire quanto siamo poco fiduciosi che un’iniziativa di politica internazionale di grande portata da parte della stracciona borghesia italica riesca ad andare in porto conseguendo i propri obiettivi strategici in campo economico, politico e militare, in un contrasto con Stati più potenti e meglio armati.
Questi maldestri tentativi sono spesso il preludio di grandi catastrofi, come avvenne con la guerra di conquista coloniale del 1911, inserendosi in un contesto che preludeva già al primo conflitto mondiale. «Ogni volta che all’Italietta vengono fregole africane brontolano i tuoni della tempesta generale», scrivevamo nell’aprile del 1949 nel Filo del Tempo dal titolo “I socialisti e le colonie”.
Col vertice del 12 e 13 novembre Conte ha tentato con ogni mezzo di coinvolgere il recalcitrante generale Haftar, il quale è arrivato in ritardo a Palermo e ha partecipato soltanto a una parte dei lavori. Il primo ministro italiano ha pensato di cantare vittoria quando è riuscito a ottenere la stretta di mano fra al-Sarraj e Haftar, come se la sua opera di mediazione acquisisse il significato di una riconciliazione nazionale della Libia sotto il patrocinio dell’Italia. In realtà il risultato era assai più modesto. Haftar ha detto che per adesso al-Sarraj può restare al suo posto, di “sindaco” di Tripoli, o di “presidente di circoscrizione”, se anche in alcune zone della capitale la sua autorità resta debole o addirittura inesistente. Suo precipuo compito sarà di tenere sotto controllo le tribù e le indocili milizie che imperversano nella Tripolitania fino a quando la situazione non sarà più propizia all’avvio del processo elettorale.
“Non si cambia cavallo quando si guada il fiume” ha ribadito l’ineffabile generale, dando il contentino al governo di Roma al prezzo di un’abile mossa che si è rivelata una trappola: ha chiesto di escludere da una riunione ristretta la delegazione turca e i rappresentanti delle milizie vicine ai Fratelli Musulmani, le quali sostengono obtorto collo il governo di Tripoli.
A vertice concluso, dopo che il governo italiano aveva troppo presto cantato vittoria per l’ammissione di al-Sarraj da parte di Haftar, arrivava la prima smentita col suono delle armi da fuoco: la Settima Brigata di Tarhuna, sponsorizzata dalla Turchia, lanciava un’offensiva sull’aeroporto di Tripoli strappandolo al controllo del governo di al-Sarraj. Un episodio che col passare delle ore ha acquisito i contorni dell’atto dimostrativo, dato che, nonostante il gran rumore, non si contano vittime da nessuna delle parti in lotta. Un segno che tutti gli sforzi della diplomazia italiana contano meno del crepitare delle mitragliatrici delle sgangherate milizie libiche.
Intanto la contesa globale per la rendita petrolifera si staglia sullo sfondo come il preludio della prossima tempesta generale.
La fase di relativa stabilizzazione della Siria in seguito alla riconquista di molto del territorio nazionale da parte del regime di Damasco, ottenuta grazie all’appoggio delle forze russe e delle milizie sciite legate all’Iran, ha comportato un temporaneo spostamento lungo altri segmenti della linea di faglia che separa le sfere di influenza nella regione mediorientale. Se ormai al di fuori del controllo del governo siriano restano soltanto la provincia nordoccidentale di Idlib, in parte “pacificata” dal predominio delle milizie filo-turche, a discapito di quelle jihadiste filo-saudite, e la regione curda del Rojawa, dove si sono registrati scontri con le forze armate della Turchia, è attualmente nello Yemen che si scarica la massima energia delle frizioni inter-imperialistiche.
Epicentro di una furiosa battaglia (che nel momento in cui scriviamo non si è ancora conclusa), che ha provocato oltre 500 morti, è la strategica città di Hodeida sul Mar Rosso, a 200 miglia dallo stretto di Bab el-Mandeb per il quale transitano giornalmente 5 milioni di barili di petrolio. La feroce battaglia vede scontrarsi le milizie sciite Huthi, appoggiate dall’Iran, che controllano la parte occidentale del paese, con le forze yemenite alleate all’Arabia Saudita, che ricevono l’appoggio militare di Riad e di Abu Dhabi.
Si tratta di un urto fra Arabia Saudita ed Iran per il controllo dell’accesso al Mar Rosso, di vitale importanza, mentre le forze yemenite sul campo sono costrette a una partigianeria, come sempre accade, subalterna alle potenze maggiori. Per sfatare la leggendaria rappresentazione giornalistica del conflitto yemenita come guerra di religione che contrapporrebbe sciiti e sunniti, appoggiati questi dai campioni dell’ortodossia sauditi, vale la pena di ricordare che a guidare l’offensiva di terra contro gli Huthi è lo sciita Tareq Saleh, nipote del defunto presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, eliminato dagli stessi Huthi dopo avere rotto la loro alleanza e avere cambiato schieramento. Segno questo che gli interessi in gioco sono assai diversi da quanto vorrebbero le divisioni etniche e religiose, mentre il clan dei Saleh, di religione sciita zaidita e al centro della vita politica dello Yemen da 40 anni, oscilla fra i due campi in lotta per l’egemonia sulla regione.
L’impegno dell’Arabia Saudita nella lotta contro gli Huthi non sembra godere del sostegno deciso da parte degli Stati Uniti. Probabilmente a raffreddare gli entusiasmi statunitensi per i successi militari dei tradizionali alleati sauditi, penetrati in profondità nel centro urbano di Hodeida, è la pretesa di Riyadh di giocare un ruolo di primo piano nella determinazione del prezzo del greggio. La contesa per appropriarsi di porzioni della rendita petrolifera, sempre oggetto degli appetiti imperialistici, acquisisce un ruolo centrale nei momenti in cui l’acuirsi della crisi di sovrapproduzione dissuade i grandi gruppi del capitale dall’investire nella produzione manifatturiera.
In questa chiave va vista la decisione statunitense di annullare l’accordo internazionale sul nucleare iraniano, al fine di ridimensionare il peso di Teheran nella spartizione della rendita petrolifera. Sempre in questa luce va vista la decisione dell’Arabia Saudita di tagliare la produzione petrolifera di 500.000 barili al giorno al fine di evitare un calo del prezzo del greggio. Ma a questo reagiva Trump il 12 novembre intimando di fatto a Riyadh di astenersi da ogni tentativo di inseguire una politica di rialzo del prezzo del barile, il quale avrebbe come effetto quello di fermare o rallentare una crescita economica troppo asfittica.
Il ripristino delle sanzioni contro l’Iran da parte degli Stati Uniti diventa un modo di promuovere il commercio statunitense per altre vie. L’Italia viene esentata per un periodo di sei mesi dalle sanzioni comminate a chi acquista petrolio iraniano: questo forse in cambio dell’acquisto miliardario della nutrita pattuglia di F-35 ordinata di recente? Inoltre l’amministrazione statunitense preme perché l’Italia completi il Gasdotto Trans-Adriatico, TAP, avversato a chiacchiere nel programma elettorale del Movimento 5 Stelle. Il TAP consentirebbe l’approvvigionamento di gas mediorientale, diminuendo la dipendenza dell’Italia da quello russo. Un discorso analogo vale per lo sviluppo del Muos, il sistema satellitare avanzato per le comunicazioni militari nel Mediterraneo installato in Sicilia. L’esenzione dalle sanzioni contro l’Iran riguarda anche altri sette paesi: Cina, India, Giappone, Taiwan, Corea del Sud, Grecia e Turchia; certo ci intercorrono analoghe contropartite nella guerra commerciale americana sui mercati mondiali.
La vicenda di Jamal Khashoggi, il giornalista selvaggiamente ucciso all’interno del consolato saudita a Istanbul il 2 ottobre, ha fornito un pretesto per la Turchia ed altri antichi e stabili alleati dell’Arabia Saudita per esprimere i loro contrasti e diffidenza nei confronti del giovane e megalomane principe ereditario Muhammad Bin Salman, MBS, espressione di una fazione borghese particolarmente dinamica e agguerrita, la cui politica potrebbe nuocere agli interessi degli Stati Uniti nella regione. In particolare non può piacere a Washington la volontà di Riyadh di isolare il Qatar e addirittura, come minaccia MBS, trasformarlo in un’isola scavando un canale in territorio saudita lungo 60 chilometri e largo 200 metri. Occorre ricordare infatti che gli Usa in Qatar, nei pressi della capitale Doha, hanno l’importante base militare di Al Udeid.
Un altro focolaio di conflitto si è avuto agli inizi della seconda decade di novembre fra Gaza e Israele. Una operazione israeliana nella Striscia con l’obiettivo, raggiunto, dell’uccisione di un capo militare di Hamas, ha provocato la morte anche di altri sei palestinesi e di un ufficiale dell’esercito israeliano. Ne sono seguiti lanci di missili nel Negev e la ritorsione israeliana con raid aerei che hanno colpito 150 obiettivi nella Striscia. Una tregua, che ha posto fine alla ennesima scaramuccia a intensità controllata, consentirà l’arrivo a Gaza di aiuti provenienti dal Qatar. Questa concessione del governo Netanyahu ha provocato le dimissioni del ministro della difesa Avigdor Liberman, il quale avrebbe voluto una reazione militare “più dura”, segno di frizioni interne alla classe dominante israeliana sulle modalità e i tempi della inevitabile guerra ai fini economici capitalistici e di conservazione sociale nella regione.
Il ciclo di ritiro dei ghiacci nell’Artico consente l’apertura di nuove rotte e ha reso possibile l’estrazione di grandi riserve naturali di combustibili fossili.
L’area intorno al Mar Glaciale Artico è di grande interesse, dato che ci si affacciano tre continenti, America, Asia ed Europa, fra i quali consente spesso rotte commerciali molto più brevi di quelle per Suez o Panama. Il “passaggio a N-E”, la “Northern Sea Route” riduce la distanza tra Europa ed Asia fino al 40% rispetto al percorso per il Canale di Suez.
Inoltre quel mare è ricco di minerali, in particolare petrolio e gas, in gran parte rivendicato dalla Russia che vi si affaccia dal suo territorio continentale. Anche l’Italia ha i suoi interessi nell’area con la presenza di Eni, Finmeccanica e Fincantieri.
Le turbolenze internazionali contribuiscono a spiegare perché le rotte artiche stanno ottenendo crescente attenzione. Gli stretti sono oggi più che mai oggetto di contenziosi politici fra la marina degli Stati Uniti e i suoi avversari. L’Iran minaccia di chiudere al traffico lo Stretto di Hormuz; Pechino teme, in caso di conflitto con Washington, di vedersi chiusi gli stretti di Malacca e della Sonda. Dal primo passano 60.000 navi l’anno e un quarto del commercio mondiale. La recente guerra commerciale lanciata dagli Stati Uniti non fa che accrescere questa inquietudine, a cui la Cina sta già rispondendo con investimenti per ampliare la propria marina militare e allo stesso tempo diversificare le rotte delle sue merci.
La pirateria è un altro pericolo per la logistica mondiale. Minore ormai nello Stretto di Malacca è invece una grave minaccia nel Golfo di Aden.
Fra tutti i paesi coinvolti nella nuova rotta artica, la Russia è quella più interessata. Entro il 2025 l’obiettivo è di aumentare il traffico di 10 volte, a 80 milioni di tonnellate l’anno. Un disegno di legge della Duma prevede che dal 2019 solo navi costruite nei cantieri russi potranno attraversare la rotta per trasportare petrolio, gas o carbone. Un vincolo molto stretto, visti gli interessi a sviluppare l’industria degli idrocarburi nell’Artico, in cui la Russia è capofila con il progetto di gas liquefatto di Yamal, entrato in piena attività dal finire del 2017 e dove sono coinvolte compagnie cinesi e francesi.
Novatek, una delle più grandi compagnie private di gas naturale della Russia, ha lanciato la produzione di gas liquefatto nell’impianto Yamal LNG, situato al di sopra del Circolo Polare Artico. Il progetto è stato sviluppato da JSC Yamal LNG, una joint venture tra la società russa Novatek (50,1%), la francese Total (20%) e le cinesi China National Petroleum Corp. (20%) e Chinese Silk Road Fund (9,9%).
La Russia sta cercando soprattutto in Asia i finanziatori di questa rivoluzione artica, un grande piano infrastrutturale necessario per l’incremento del traffico commerciale. Il governo russo ha avviato una riorganizzazione delle competenze relative alle rotte del Nord, che conferisce al gigante statale Rosatom le principali deleghe al fine di gestirla in maniera organica.
A questo si aggiunge il potenziamento delle ferrovie con il progetto Belkomur, che già dal 2023 collegherebbe il Mar Bianco, attraverso la Repubblica dei Comi, agli Urali, e la costruzione della ferrovia Vorkuta-Ustkara, nella stessa repubblica di Comi. L’obiettivo di Mosca è assicurarsi il pedaggio della “Northern Sea Route”, fornendo assistenza, rompighiacci e ponti radio.
Anche la Cina è già da tempo molto interessata a sviluppare le rotte polari, puntando ad importare materie prime, e soprattutto il gas, dal nord della Russia. La cinese Cosco ha tentato più di 30 viaggi negli ultimi 5 anni. Si prevede che entro il 2020 dal 5 al 15% del valore commerciale della Cina, circa 300-900 miliardi di dollari, potrebbe passare per l’Artico. Nell’ultimo decennio Pechino vi è stato il maggiore investitore con 89,2 miliardi di dollari dal 2012 al luglio 2017. Inoltre conta partecipazioni nella ferrovia russa Belkomur, ha acquisito con 15,1 miliardi di dollari la canadese Nexen e miniere in Russia, Canada e Groenlandia per miliardi di dollari.
Si conta anche l’accordo siglato da Sinopec, la più grande compagnia petrolifera del Dragone, per lo sviluppo di un gasdotto e un terminale per l’esportazione di gas liquefatto dall’Alaska. Il progetto consentirebbe di portare il gas naturale dal North Slope (che conta riserve per 34-45 mila miliardi di metri cubi) alla costa, dove verrebbe liquefatto e caricato per la Cina. La nuova rotta artica si affianca all’ambizioso progetto della Nuova Via della Seta, una Via della Seta Polare.
Ovviamente la questione ha risvolti militari. Gli Usa hanno lanciato in orbita sopra l’Artico il primo di quattro satelliti al fine, questa la spiegazione ufficiale, di monitorare lo scioglimento dei ghiacci. In realtà c’è ben altro. Non a caso l’ex sottosegretario di Stato Usa, Paula J. Dobriansky, rivolgendo un appello alla Nato, ha affermato: «È in corso una guerra fredda nell’Artico, con la Russia protagonista di una escalation militare che impone una risposta decisa da parte dell’Occidente». Il ministro della difesa russo non ha atteso molto a ribattere: “È aumentata la possibilità di uno scontro militare per l’Artico”.
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L’armamento dello Stato
Come abbiamo avuto modo di ribadire nel nostro articolo “Il riarmo degli imperialismi” (nel n.390), nonostante il prolungarsi della crisi, l’andamento della spesa militare mondiale è da diversi anni in costante aumento. Il 2017 è stato un record, 1.739 miliardi in armamenti, l’1,1% in più rispetto al 2016. Poco più di un terzo, il 35%, lo spendono gli Stati Uniti mentre la Cina, al secondo posto, si attesta al 13%. In questa classifica l’India è quinta, dopo Arabia Saudita e Russia, con 63,8 miliardi di dollari. Negli anni 2013-2017 l’India è stata però il maggiore importatore mondiale di armi con il 12% del totale. Il 62% delle sue importazioni di armi provenivano dalla Russia, ma le importazioni dagli Stati Uniti sono aumentate del 557% tra il 2008-2012 e il 2013-2017, diventando gli Usa, con il 15%, il secondo maggiore fornitore di armi del gigante indiano. Terza Israele con l’11%.
L’India, oltre ad essere il secondo Paese al mondo per numero di abitanti, oltre 1,3 miliardi, è tra le prime cinque nazioni per numero di soldati e mezzi militari. Ma le forze armate indiane sono le peggio equipaggiate tra quelle delle grandi potenze. Lo scorso marzo alcuni generali hanno dichiarato davanti ad una commissione parlamentare che l’esercito, l’aeronautica e la marina hanno risorse sufficienti per combattere una “guerra intensiva” solo per dieci giorni. Secondo il rapporto della commissione due terzi dell’equipaggiamento delle forze armate indiane è totalmente obsoleto e soltanto l’8% sarebbe moderno. I fucili, per esempio, sono ancora i vecchi Indian Small Arms System e dal 2011 l’industria pubblica cui è affidato il settore non è riuscita a rimpiazzarli. Le Forze armate inoltre non sono efficacemente centralizzate, ancora oggi divise in 17 comandi regionali scoordinati tra loro. La Cina, dopo una delle ultime riforme, ne conta 5.
Il governo indiano si è posto diversi obiettivi nello strategico settore, consapevole che modernizzare ed accrescere l’apparato militare è fondamentale per rafforzare la borghesia indiana nello scacchiere regionale, dove le tensioni con gli storici rivali confinanti, Pakistan e Cina, non sembrano attenuarsi.
Appare però evidente che Nuova Delhi non è in grado di provvedere autonomamente all’ammodernamento del suo esercito, nonostante i sempre maggiori investimenti. Le relazioni con i paesi esportatori diventano quindi vitali, una dipendenza economica, oltre che militare, di cui il governo indiano vorrebbe liberarsi. La borghesia indiana cerca quindi la collaborazione con fornitori stranieri a condizione che trasferiscano anche la relativa tecnologia.
I rapporti con la Russia
La Russia storicamente traffica con l’India fin dall’epoca di Krusciov e di Nehru e poi di Breznev e di Indira Gandhi. Mosca ha sempre venduto armi in India, ma oggi questo rapporto è minacciato dalle pressioni degli Stati Uniti.
L’avvento al governo del Bharatiya Janata Party nel maggio del 2014, scalzato il Congresso Nazionale Indiano che governava da 10 anni, non ha implicato un cambio di rotta nei rapporti tra India e Russia e i legami economici e commerciali non ne hanno sofferto.
Il 5 ottobre scorso India e Russia hanno firmato un contratto da oltre 6 miliardi di dollari per la fornitura di armamenti tra cui 5 squadroni del sistema di difesa missilistico SS-400. È un sistema d’arma terra-aria sviluppato dall’azienda russa Almaz Antey progettato per intercettare e colpire aerei da guerra, missili balistici e da crociera, un apparato che può individuare fino a 36 obiettivi contemporaneamente con un raggio d’azione da 30 a 400 km in base al tipo di missile utilizzato. Nuova Delhi è il terzo acquirente degli SS-400 russi dopo Cina e Turchia. Compreso in questo ricco contratto è la fornitura di 48 elicotteri Mi-17-V5.
A fine ottobre ne è stato firmato un altro che prevede la fornitura di 4 fregate destinate alla Bh?rat?ya N?u Sen?, la Marina Militare: due navi saranno costruite in Russia, le altre due in cantieri indiani, come espressamente richiesto dagli acquirenti, con relativo trasferimento di tecnologia. Curioso che queste fregate monteranno turbine a gas di un’azienda ucraina, la quale ha interrotto le forniture alla nemica Russia; ma tutto si risolve quando corrono i dollari: le turbine saranno sì consegnate ai cantieri russi, però “in conto” all’India!
Un altro esempio la richiesta del governo indiano di assemblare gli ultimi aerei comprati dalla Russia.
Gli USA e le sanzioni
Ma questi accordi sembrano in discussione. Un mese prima della stipula le delegazioni congiunte di Esteri e Difesa di Stati Uniti ed India si sono incontrate per considerare l’offerta di Washington di sistemi di difesa ad alta tecnologia. Nell’occasione è stato inoltre sottoscritto l’accordo ComCASA, Communication compatibility and security agreement, che porterebbe l’India a dotarsi di sistemi di comunicazioni militari compatibili con quelli degli Stati Uniti e della Nato.
È evidente che si cerca di mettere in discussione il rapporto tra India e Russia: si intrecciano la sempre più stretta cooperazione tra Cina e Federazione Russa e il consolidarsi della partnership tra Washington e Nuova Delhi.
Preoccupati per l’espansionismo militare cinese nella regione sono decenni che gli Stati Uniti lavorano a rafforzare i rapporti con Nuova Delhi. La vendita di armi e il trasferimento di tecnologia è visto dall’amministrazione americana come parte di una strategia per affidare all’India l’arduo compito di controbilanciare Pechino nell’Oceano Indiano. Per questo, nonostante il recente acquisto indiano dei sistemi russi SS-400, Washington molto probabilmente non applicherà all’India le Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA), approvato dal Congresso americano nel 2017 per punire la Russia per il suo atteggiamento in Ucraina e per l’interferenza nelle elezioni presidenziali americane. Queste sanzioni hanno avuto applicazione contro la Cina nella scorsa estate a causa dell’annuncio di acquisto di sistemi SS-400 e di caccia Su-35.
Quasi sicuramente, inoltre, verrà consentito all’India di beneficiare dello Strategic Trade Authorization, che le garantirà gli stessi diritti commerciali degli alleati della NATO, dell’Australia, del Giappone e della Corea del Sud. Anche per consentire in futuro l’acquisto da parte dell’India di armamenti, in grado, fra l’altro, di ridurre il loro squilibrio commerciale con gli Usa.
Cina ingombrante vicino
Se i rapporti con la più grande potenza imperialista al mondo non sono sempre stati facili, quelli con l’emergente capitalismo cinese sono ancora più tesi e complessi.
Nel 1962 vi fu un breve ma intenso conflitto che vide contrapposti i due giganti asiatici per il controllo della parte nordoccidentale del territorio indiano Aksai Chin e Arunachal Pradesh. Nonostante il sostegno statunitense, l’India perse un’ampia porzione di territorio himalaiano, che tuttora rivendica.
Oggi i rapporti con la Cina non sono certo dei migliori, con il potente vicino che sempre più si rafforza nell’aerea.
L’alleanza della Cina con il Pakistan – storico rivale nucleare indiano – di fatto blocca all’India l’accesso all’Asia centrale. La grande visione della Belt and Road Initiative cinese isola di fatto Nuova Delhi mettendola al di fuori dalle principali rotte commerciali terrestri e marittime.
Petrolio e rotte indiane
Un altro importante capitolo di queste intrecciate tensioni tra i diversi predoni capitalisti è avvenuto a causa delle sanzioni “secondarie” americane, che consentono ritorsioni contro i soggetti che continuino ad importare petrolio dall’Iran o che effettuino operazioni con la Banca centrale iraniana. Annunciate da Trump con l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dal Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare iraniano, entrato in vigore nel gennaio 2016 e che fu firmato, oltre che dagli Stati Uniti, da Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania e Unione Europea.
Nuova Delhi, che ha enormemente bisogno del petrolio iraniano, e ha fatto capire di non essere disposta a rinunziarvi in deferenza alla superpotenza a stelle e strisce. Il ministro degli Esteri indiano, Sushma Swaraj, non poteva essere più chiaro: «Delhi non fa politica estera su pressione di paesi stranieri; noi riconosciamo soltanto le sanzioni comminate dalle Nazioni Unite non quelle emanate da un singolo paese».
In attesa della decisione statunitense, l’India ha fatto scorta di petrolio. A giugno le raffinerie indiane hanno importato circa il 50% in più rispetto allo scorso anno. L’India è il secondo acquirente di petrolio iraniano rappresentando circa il 27% delle esportazioni della Repubblica Islamica.
Ma Teheran infatti, oltre ad essere uno dei principali fornitori del greggio consumato nel subcontinente indiano, è anche un importante partner economico. L’India, che da tempo sta cercando di penetrare nei mercati dell’Asia centrale, per svincolarsi dalla cinese Via della Seta, ha investito nella costruzione e la messa in opera del porto iraniano di Chabahar, che dovrebbe fornire alla potenza asiatica una valida alternativa alla pakistana Gwadar. Questo “Corridoio Nord-Sud” partendo dal porto di Mumbai e passando per quello di Chabahar consentirebbe all’India un collegamento diretto, con la Russia e l’Europa, passando attraverso i paesi dell’Asia centrale, Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakistan, evitando il passaggio attraverso il Canale di Suez.
La necessaria guerra
Agli inizi di novembre l’amministrazione Trump ha deciso di esentare dalle sanzioni per sei mesi otto paesi: Italia, Grecia, Turchia, Corea del Sud, Taiwan, Giappone, Cina ed anche l’India. Per quel che riguarda l’India risulta evidente che Washington non ha potuto mettere a rischio i reciproci delicati rapporti.
Per noi comunisti rivoluzionari da questi intrecciati scenari emerge il quadro dell’evidente instabilità del capitalismo mondiale, della volatilità delle alleanze borghesi, della corsa al riarmo. Prevale la profonda legge economica a determinare gli aspetti della politica. Gli accordi si firmano e si stracciano. Ogni borghesia nazionale ha interessi che la legano ad ogni altra, ma allo stesso tempo la separano e la oppongono. Ogni classe dominante gioca una partita per conto proprio e l’India ne è un chiaro esempio. L’unica via per superare la crisi del Capitale – la guerra - determinerà il confermare delle vecchie alleanze o il loro capovolgimento: per il capitale è importante fare la guerra; con chi e con quale pretesto è una questione secondaria.
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Ne “L’Ami du peuple” n. 34-35 del 10 novembre 1789 sostiene le legittimità dell’insurrezione: «C’è forse da fare un paragone fra il piccolo numero di vittime che il popolo immola alla giustizia in una insurrezione e la folla innumere di sudditi che un despota riduce in miseria o che sacrifica al suo furore, alla sua cupidigia, alla sua gloria, ai suoi capricci? Che cosa sono alcune gocce di sangue che la plebaglia ha fatto scorrere durante l’attuale Rivoluzione per recuperare la sua libertà, in confronto ai torrenti versati da un Tiberio, un Nerone, un Caligola, un Caracalla, un Commodo, in confronto ai torrenti fatti scorrere dalla frenesia mistica di un Carlo IX°; in confronto ai torrenti fatti scorrere dalla colpevole ambizione di un Luigi XIV°? Che cosa sono alcune case saccheggiate in un sol giorno dalla plebaglia, in confronto alle concussioni che l’intera nazione ha sopportato per 15 secoli, sotto le tre razze dei nostri re?».
Nel n.121 del 2 giugno 1790 leggiamo: «Ma tutte queste risorse saranno nulle per noi, se trascureremo di impadronirci di tutti gli arsenali, di tutte le fonderie, di tutte le polveriere; se i soldati della patria non hanno continuamente gli occhi aperti sui capi dei loro battaglioni; se non esaminano con cura le conseguenze degli ordini che riceveranno dal generale; se prestano vilmente il loro braccio per opprimere i loro fratelli, per schiacciare i loro difensori».
Dal n.131 del 12 giugno: «Non rifletterete mai, dunque? Vi si culla con le parole di pace e di unione, nel momento stesso in cui sordamente si prepara contro di noi la guerra».
Nel n.132 del 13 giugno c’è una nota di Marat alla parola popolo: «È la sola parte sana della nazione, la sola che ama la libertà, la sola che vuole il bene pubblico; in tutte le altre classi la massa è corrotta e vi sono soltanto delle onorevoli eccezioni».
Nel n.149 del 30 giugno un’altra nota: «È certo che la Rivoluzione è dovuta all’insurrezione del popolino e non è meno certo che la presa della Bastiglia è soprattutto dovuta a 10.000 poveri operai del faubourg Saint-Antoine».
Ancora una nota: «È questo un motivo potente per indurre tutti i cittadini a protestare a favore dei diritti del povero. Se per disgrazia sopraggiungesse di nuovo un periodo di crisi, invece di venirci in aiuto, egli avrebbe ragione di tapparsi le orecchie, di restare immobile e di lasciare che ci sgozzino». Nello stesso articolo: «Che cosa avremo guadagnato a distruggere l’aristocrazia dei nobili se essa è rimpiazzata dall’aristocrazia dei ricchi? E se dobbiamo gemere sotto il giogo di questi nuovi parvenus tanto valeva conservare gli ordini privilegiati».
Ancora: «Per mettervi a posto noi non dobbiamo far altro che restare a braccia conserte: costretti allora a servirvi con le vostre mani e a coltivare i vostri campi, ridiventerete nostri uguali; ma, meno numerosi di noi, siete sicuri di raccogliere il frutto del vostro lavoro?».
Dal n.159 del 11 luglio: «È importante dunque, prima di tutto, richiamare l’esercito parigino allo spirito della sua istituzione. Perciò, la prima massima da consacrare è che ogni cittadino onesto e qui domiciliato deve essere armato per la causa comune, per la difesa dei suoi diritti e della libertà, contro i nemici interni ed esterni».
Dal n.177 del 30 luglio, titolato “Necessità di un dittatore”: «Un pregiudizio micidiale alla libertà nascente in ogni Stato che esce dalla condizione di servitù trattiene loro le braccia: essi credono che si devono punire i malvagi soltanto per vie legali; pregiudizio che può essere opportuno soltanto nei regimi in cui è superfluo, nei regimi bene ordinati, ma, in un periodo di anarchia e di confusione, è il colmo della follia opporre soltanto quest’arma a vili cospiratori che calpestano le leggi e attendono solo di essere abbastanza forti per far scorrere il sangue. Mettiamoci in testa una volta per sempre che siamo in stato di guerra, che la salvezza del popolo è la legge suprema e che ogni mezzo è buono, quando è efficace, per disfarsi dei perfidi nemici che si sono messi al di sopra delle leggi e che continuano a cospirare contro la pubblica felicità».
Nell’articolo si chiede: «L’istituzione di un vero tribunale di Stato, composto da pochi buoni patrioti, con il compito di fare il processo a quanti cospirassero contro la patria; poi, l’istituzione di una carica di dittatore, eletto dal popolo nei periodi di crisi, il cui potere durasse soltanto tre giorni e il cui compito sarebbe di punire senza eccezioni i cattivi cittadini che avessero messo in pericolo la salute pubblica. Lo ripeto: è il colmo della follia, pretendere che uomini che da dieci secoli hanno la possibilità di dominarci, di derubarci e di opprimerci impunemente, si risolvano di buon grado ad essere soltanto nostri uguali: essi trameranno in eterno contro di noi, fino a che non saranno sterminati; e se noi non prendiamo questo partito, il solo che detta la voce imperiosa della necessità, ci sarà impossibile sfuggire alla guerra ed evitare che noi stessi finiamo per essere massacrati».
Naturalmente questo dittatore ha i tratti del Licurgo della Sparta amata da Marat, o del Cincinnato romano che restò in carica meno di 24 ore. Tuttavia Marat, nel 1790, è forse l’unico che non ha paura di adoperare il termine di dittatura tra i rivoluzionari.
Dal n.263 del 27 ottobre: «Gli sfortunati costituiscono i diciannove ventesimi della nazione; essi saranno i padroni dello Stato non appena conosceranno i loro diritti e avranno coscienza della loro forza: per dissolverlo, basterebbe loro non voler più lavorare. Sarebbe saggio dunque per l’Assemblea non costringerli, con un trattamento indegno, ad aprire gli occhi e a farsi giustizia da sé».
Ancora: «Ecco dove saranno costretti ad arrivare i nostri rappresentanti, se non vogliono vedere un giorno i tre quarti della nazione chiedere la divisione delle terre; giorno meno lontano di quanto si pensi e che il progresso dei lumi deve necessariamente portare con sé».
Dai nn.303-304 del 7-8 dicembre: «Dire che la forza pubblica è essenzialmente destinata ad agire contro i perturbatori “dell’ordine e della pace”, è dire parole vaghe che non danno nessuna idea precisa e che lasciano campo libero agli abusi d’autorità; infatti con queste parole di ordine e di pace si può intendere il regime istituito dal dispotismo e la calma ispirata dal timore. Non è forse del nome odioso di “perturbatori dell’ordine e della pace” che si servono tutti i despoti per definire gli uomini giusti e coraggiosi che osano protestare contro i loro ordini tirannici? Non è forse con questo odioso nome che sono designati, nei paesi in schiavitù, tutti gli amici della libertà?».
Dal n.314 del 18 dicembre: «No, non sulle frontiere, ma nella capitale bisogna colpire. Smettete di perdere tempo a immaginare mezzi di difesa: non ve ne resta che uno solo. Quello che vi ho raccomandato tante volte: un’insurrezione generale e delle esecuzioni popolari. Cominciate, dunque, con l’assicurarvi il re, il delfino e la famiglia reale: metteteli sotto buona scorta e che le loro teste vi rispondano di tutti gli avvenimenti. Abbattete poi, senza esitare, la testa del generale, quella dei ministri e degli ex ministri controrivoluzionari; quella del sindaco e dei municipali, antirivoluzionari».
Dal n.449 del 5 maggio 1791: «Noi non siamo ancora liberi, ne convengo, e non possiamo sperare di esserlo tanto presto, poiché una nazione che scuote il giogo deve lottare a lungo contro i fautori del vecchio ordine, dal momento che essa non ha preso subito la saggia risoluzione di sterminare i più colpevoli e di frenare gli altri con il terrore».
Nel n.493 del 18 giugno Marat si pronuncia duramente contro la legge Le Chapelier, ma con la motivazione di difendere le “società fraterne” e le associazioni rivoluzionarie. «Non osando scioglierle, hanno deciso di renderle nulle, vietando qualsiasi deliberazione o piuttosto ogni petizione fatta da una qualsiasi associazione con il pretesto che il diritto di lamentarsi è un diritto individuale (...) Infine per prevenire i grandi assembramenti di popolo che tanto temono, hanno privato la classe sterminata dei lavoratori manuali e degli operai del diritto di riunirsi per deliberare regolarmente sui loro interessi; con la scusa che queste assemblee potrebbero resuscitare le corporazioni che sono state abolite. Costoro volevano soltanto isolare i cittadini e impedir loro di occuparsi in comune della cosa pubblica».
Dal n.497 del 22 giugno: «Un solo mezzo vi resta per trarvi fuori dal precipizio in cui vi hanno fatto cadere i vostri indegni capi, ed è di nominare immediatamente un tribuno militare, un dittatore supremo, che spazzi via i più noti traditori». Ancora: «Impadronitevi dell’arsenale, disarmate gli alguazil a cavallo, le guardie dei porti, i cacciatori delle barriere: preparatevi a tutelare i vostri diritti, a difendere la vostra libertà e a sterminare i vostri implacabili nemici».
Dal n.542 del 30 agosto: «Il popolo si dia un capo illuminato e incorruttibile ed esegua senza esitare i suoi ordini (...) Poiché il popolo ha fatto la Rivoluzione, poiché è il solo ad aver interesse a consolidarla e poiché esso è incapace di guidare qualsiasi impresa, avrebbe dovuto avvertire la necessità di nominarsi un capo, al quale avrebbe affidato soltanto un potere momentaneo, ma senza limiti, per scacciare dal senato e dagli impieghi i nemici dell’uguaglianza e della libertà, tenerli prostrati al suolo e sterminarli non appena provassero ad alzarsi».
Nel n.624 del 12 dicembre Marat si esprime contro il colonialismo e a favore della rivolta nella colonia francese di San Domingo. Lo sfruttamento delle colonie è considerato proprio del dispotismo, e l’oppressione dei negri e dei mulatti dell’isola è considerata connessa all’oppressione dei poveri nella madrepatria.
Nel n.626 del 15 dicembre 1791 troviamo una sorta di teorizzazione della guerriglia, dove leggiamo, riguardo al popolo francese: «Ma deve anzitutto capire che è indispensabile che al primo colpo di cannone chiuda le porte di tutte le città e si disfaccia senza esitare dei preti sediziosi, dei pubblici funzionari controrivoluzionari, degli intriganti noti e dei loro complici. Ciò fatto, deve darsi dei capi ai quali darà soltanto i poteri per guidarlo al combattimento. Capi abili concerteranno i loro piani di operazioni tenendo conto dei mezzi di attacco del nemico e dei mezzi di difesa del popolo. Tutto sarebbe perduto se si affrontasse il nemico in campo aperto o su un terreno sul quale esso potesse dispiegare la sua tattica o impiegare l’artiglieria. Così, il primo principio, il grande principio, l’unico principio da cui è necessario non allontanarsi mai, è di tendergli mille imboscate, di attirarlo nelle gole, nei boschi, nei luoghi acquitrinosi ecc. Cioè di attaccarlo in tutti i luoghi in cui un esercito non può disporsi in ordine di battaglia e in cui è impossibile piazzare con profitto delle batterie; in questo modo si priva il nemico di tutti i suoi vantaggi; infatti, non potere far uso delle armi è precisamente la stessa cosa che non averne affatto (...) Non resta dunque che attaccare i nemici nei luoghi in cui un esercito non può dispiegarsi, che assalirlo mentre è in marcia, nelle gole o quando è accampato. È soprattutto nelle città che questo genere di combattimento assicurerà la vittoria al popolo. Gli abitanti della campagna devono rifugiarvisi, vi si deve attendere il nemico, a porte aperte, dopo aver disselciato le strade, ingombrato gli accessi alle cittadelle: poi attaccarlo per le strade in cui si alzeranno barricate o nelle sue caserme alle quali si appiccherà fuoco, osservando come massima costante di non risparmiare nessuno».
Dal n.634 del 19 aprile 1792: «Perché il popolo non ha tanto senno da sentire la necessità di scegliersi finalmente un dittatore supremo, i cui poteri siano circoscritti in modo che, senza autorità per dominare, ne abbia una illimitata per abbattere i capi della cospirazione, designati dalla voce pubblica?».
Dal n.630 del 25 aprile: «A questo punto sento mille voci che gridano: e il rispetto dovuto alla legge? Ma invano il despota e i suoi sostenitori, invano magistrati venduti, invano un legislatore prostituito predicano continuamente il rispetto delle leggi, che essi stessi non esitano a violare per asservirci (...) No, non smetterò mai di levarmi contro la dottrina del superstizioso rispetto delle leggi, dell’obbedienza cieca e della provvisoria soggezione ai pubblici funzionari».
Dai nn.669 e 670 del 9 e 10 luglio: «Ammettiamo che tutti gli uomini conoscano e amino la libertà: la maggior parte è costretta a rinunciarvi per avere il pane; prima di pensare ad essere liberi, bisogna pensare a vivere (...) I nemici della patria agiscono soltanto secondo un piano operativo accuratamente studiato: tutti i loro calcoli sono fatti, tutti i loro passi sono concertati; mentre invece il popolo non ha né capi né piani di difesa ed è sempre abbandonandosi all’impulso del momento e trascinato dalla disperazione che lo determina ad agire».
Dopo il 10 agosto Marat moltiplica, affiancandoli al giornale, i pamphlet diffusi dagli strilloni o attaccati ai muri di Parigi. Uno di questi, in data 26 agosto, titolato “Marat, l’Amico del popolo, ai bravi parigini”: «Che da questa sera il Comune nomini tre commissari illuminati e rigidi perché veglino sulla salute pubblica. Ve la dirò, miei cari amici, forse sarete costretti alla fine, per salvare il popolo, a nominare un triumvirato con gli uomini più illuminati, più integri e più intrepidi, che concerteranno tutte le loro risoluzioni in un consiglio composto dai patrioti più intelligenti e più puri. Non vi spaventate delle parole, soltanto con la forza riusciremo a far trionfare la libertà e a garantire la salute pubblica. A garanzia della loro buona condotta, basta che i depositari dell’autorità nazionale abbiano solo il potere di schiacciare i nemici della Rivoluzione, senza averne nessuno per opprimere i loro concittadini e che il loro compito cessi nel momento in cui il nemico non potrà più sollevarsi. Per tanti secoli avete tollerato che padroni insolenti esercitassero su di voi un potere arbitrario per rovinarvi; rifiuterete ai più virtuosi fra i vostri fratelli lo stesso potere per salvarvi?».
In queste righe si intravede il Comitato di salute pubblica della Convenzione montagnarda.
Il 2 settembre 1792 Marat è cooptato nel comitato di controllo del Comune di Parigi. Appena gli arriva notizia dei massacri nelle prigioni, conosciuti come Massacri di Settembre, cerca, inutilmente, di salvare i detenuti comuni, indirizzando l’odio verso i controrivoluzionari. Il 9 settembre, con l’appoggio del club dei Giacobini, viene eletto alla Convenzione come deputato di Parigi. Il 21 settembre pubblica l’ultimo numero de “L’Ami du peuple” e il 25 fonda il “Journal da la République française”. Il 25 settembre i girondini accusano i deputati di Parigi di aspirare alla dittatura. Danton e Robespierre si difendono prendendo le distanze da Marat, che pochi giorni dopo viene escluso dal comitato di controllo del Comune di Parigi per iniziativa di Hébert.
All’accusa dei girondini Marat replicò: «Io credo di essere il primo scrittore politico, e forse il solo in Francia dopo la Rivoluzione, che abbia proposto un tribuno militare, un dittatore, dei triumvirati come unico mezzo atto ad annientare i traditori e cospiratori».
Dal “Journal de la République française” n. 51 del 20 novembre: «Non sono di quelli che reclamano l’indefinita libertà delle opinioni: essa non deve essere illimitata che per i veri amici della patria ed è un crimine ai miei occhi agitare questioni contrarie al senso civico, così come lo è predicare la soggezione a leggi oppressive. Nel sistema dei moderati, la salute pubblica è sacrificata a un falso amore dell’umanità; vogliono che sia lasciata ai nemici della Rivoluzione la possibilità di fomentare contrasti, con il pretesto che la libertà di pensiero non deve essere attaccata; vogliono che si lasci loro la libertà di sovvertire lo Stato, con il pretesto che la libertà individuale non deve essere ostacolata; vogliono che si lasci loro la libertà di andare a cospirare all’estero, con il pretesto che non si deve attaccare la libertà di viaggiare».
Dal n.56 del 25 novembre: «Nella maggior parte dei dipartimenti il pane è carissimo, in alcuni i poveri salariati non riescono a guadagnare abbastanza da saziarsi; cominciano a sollevarsi, presto l’insurrezione sarà generale se non ci si affretta a porvi rimedio; e una volta che il popolo, vittima delle manovre degli accaparratori e in preda al terrore di morir di fame, si sarà sollevato, quale mano sarà tanto potente da poter far rientrare nel suo letto questo torrente straripato?».
Nel n.108 del 27 gennaio 1793: «La Rivoluzione sempre ostacolata dalle classi che favoriva e sempre difesa dalle classi che schiacciava (...) I lavoratori manuali, gli operai, gli artigiani, gli indigenti, in breve le classi della società che non guadagnavano nulla dalla Rivoluzione e che il corrotto legislatore aveva escluso dal rango di cittadini, sono le sole che l’abbiano costantemente difesa e che l’abbiano infine consacrata, opponendo sempre agli artifici dei loro nemici soltanto la forza delle loro braccia e le risorse del loro coraggio».
Marat è forse l’unico a parlare di repubblica nel 1790, prima della fuga del re del 21 giugno 1791. Nello stesso 1790 è probabilmente l’unico a parlare della necessità di una dittatura rivoluzionaria.
Viene assassinato il 13 luglio 1793, e le sue spoglie sono portate nel Panthéon. Non a caso vi saranno tolte per ordine del Direttorio nel 1795.
Marat fu essenzialmente un isolato, anche tra i giacobini.
Significativo di come viene visto da una notevole parte dei suoi contemporanei, sono le parole di Bassal, parroco di Versailles,che lo aveva aiutato a sfuggire all’arresto nel 1789: «Marat ci è essenziale come intermediario fra noi e quell’immondo rifiuto delle nazioni corrotte, quella crudele e laida plebaglia di cui egli è l’espressione e l’incarnazione tipica». Filippo Buonarroti lo colloca, insieme a Robespierre e Saint-Just, «nella lista onorata dei difensori dell’eguaglianza». Il grande scrittore Victor Hugo scriverà poi: «Finché vi saranno miserabili, vi sarà sull’orizzonte una nube che può diventare un fantasma e un fantasma che può diventare Marat».
(Continua al prossimo numero)