|
|||||
|
|
PAGINA 1
Il 5 dicembre si sono svolte diverse manifestazioni in Francia, le principali a Parigi e a Marsiglia. All’origine si trattava di due manifestazioni diverse, poi confluite: l’una, indetta da un “comitato per la difesa delle libertà”, contro la legge “sécurité globale”, che mira, in nome della sicurezza delle forze dell’ordine, a vietare il filmare o fotografare la polizia in azione; l’altra, che da dieci anni si svolge ogni anno in questa stagione, promossa dai comitati disoccupati e precari della CGT, diretta contro la disoccupazione e la precarietà.
Ambedue le manifestazioni sono finite con violenti scontri con la polizia. A Parigi nella folla c’erano anche i “gilets jaunes”. I “black blocs” hanno dato fuoco alle auto e alle banche.
I
compagni partito hanno diffuso il seguente volantino.
Crisi e disoccupazione sono elementi costanti nella storia del capitalismo. Le crisi sono endemiche, malgrado e a causa dell’immenso sviluppo delle forze produttive.
La pandemia, il Covid che investe il pianeta è un prodotto del capitalismo, del suo sviluppo urbano e produttivo.
Se questa crisi colpisce la piccola borghesia e i piccoli datori di lavoro, le piccole imprese, il piccolo commercio, il turismo, che rappresenta il 10% del PIL mondiale, colpisce ancora più duramente tutta una parte del proletariato, soprattutto i tanti precari che perdono il lavoro.
La disoccupazione è in aumento nei paesi industrializzati, e aumenterà ancora, perché il capitale non riesce più a valorizzarsi sul mercato, né può farlo con altri mezzi, come la speculazione in cui la somma dei benefici e delle perdite si annullano a vicenda.
La crisi non è dovuta a capi “incompetenti” o politici “corrotti”, come dicono sindacati e partiti, di destra e di sinistra. Ignoranti e ladri sono sempre esistiti, e i delinquenti sono sempre stati utili alla società capitalista – il crimine può essere produttivo per il capitale.
Sacrificano i lavoratori in nome della loro economia nazionale, per difendere i loro mercati e la loro produzione, dicono che è importante sviluppare l’industria attraverso l’innovazione tecnologica, accettare sacrifici per salvare posti di lavoro, ecc. Molti lavoratori hanno accettato tutto, per anni, compresi i tagli salariali, solo per vedere la chiusura della loro attività e ritrovarsi disoccupati.
Ma l’unica verità è che troppe merci stanno invadendo un mercato che non riesce ad assorbirle; la produttività cresce, ma con essa aumenta la disoccupazione. I proletari hanno sempre vissuto in una condizione più o meno precaria a seconda della situazione economica. Questa precarietà è – e sarà sempre – la condizione di milioni di esseri umani. Oggi, con la crescente automazione, con una maggiore forza lavoro disponibile, l’occupazione diventa un miraggio e una parte crescente della popolazione diventa superflua per il capitale.
I prezzi delle merci, compreso quello della forza lavoro, crollano in un mercato divenuto internazionale e senza confini, il salario di un operaio francese non riesce a competere con quello di un polacco o di un africano. La concorrenza tra i lavoratori di diversi paesi provoca lo spostamento di interi settori produttivi da un continente all’altro e diventa il seme di una guerra tra poveri.
I capitalisti mantengono questa concorrenza. La disoccupazione è un’arma nelle mani dei padroni e del loro Stato per dividere e fomentare la concorrenza tra i lavoratori. Nel nostro linguaggio chiamiamo i disoccupati Esercito Industriale di Riserva, da cui attinge la borghesia secondo le sue necessità e che può utilizzare per spezzare l’unità dei lavoratori. Questo esercito di riserva può però disertare e contribuire a dare forza alla lotta del proletariato! L’unione di classe è uno strumento per cambiare il ruolo dei disoccupati, da massa amorfa e passiva a esercito di proletari combattivi e organizzati.
I modelli sindacali di organizzazione per categoria devono essere superati in quanto la tendenza generale è quella di un aumento della precarietà proletaria esacerbata dalla concorrenza capitalista. Il localismo delle lotte è imposto dalle dirigenze sindacali, mentre nella società regna flessibilità, precarietà e disoccupazione. Voler limitare le lotte al livello della categoria o dell’azienda è inutile e un tradimento che impedisce l’unità dei lavoratori e li priva di una azione veramente efficace. La difesa degli interessi proletari, delle condizioni di lavoro e di vita è un problema di rapporti di forza: l’organizzazione sindacale si sviluppa e si afferma attraverso la lotta. I metodi di lotta, l’organizzazione le rivendicazioni e le tattiche sindacali devono cercare sempre di unificare i lavoratori, indipendentemente dalla loro categoria professionale e dalle divisioni aziendali. La lotta dipende anche dall’affiancare le forze dei lavoratori fissi, dei disoccupati, dei precari, ecc.
L’inerzia dei sindacati è imposta dalle dirigenze, nelle mani di partiti opportunisti.
Lottare per il sindacato di classe significa attrarvi i precari e i disoccupati attraverso le Camere di Lavoro e i comitati di disoccupati e precari, dove si può sviluppare l’organizzazione intercategoriale. Se vogliamo lottare per un vero sindacato di classe non possiamo ignorare i precari e i disoccupati che crescono ogni giorno di numero.
Il salario aumenta o diminuisce secondo la situazione economica, ma soprattutto per i rapporti di forza tra le classi.
Il tasso di occupazione dei lavoratori è storicamente destinato a diminuire, secondo la legge dell’accumulazione capitalistica. Il lavoro è “liberato” dalle macchine e dai processi produttivi sempre più automatizzati. Questo oggi si traduce in più disoccupazione e intensificazione dei ritmi di lavoro. Ma è anche segno della crisi di un sistema economico antiquato e drogato in cui siamo costretti a vivere.
Il sindacato di classe è necessario, per dare forza e organizzazione alla resistenza dei proletari occupati o disoccupati nella loro quotidiana lotta per la sopravvivenza, ma non basta per ottenere l’emancipazione dei lavoratori. L’emancipazione dei lavoratori passa attraverso il rovesciamento del potere della borghesia – industriale, finanziaria e fondiaria – attraverso la sua espropriazione e il passaggio a una società comunista, della quale il modo di produzione capitalistico ha sviluppato le basi economiche su larga scala socializzando le forze produttive. L’arma indispensabile per raggiungere questo traguardo è l’organizzazione dell’avanguardia proletaria: il partito, depositario del programma del comunismo.
-
Diminuzione dell’orario di lavoro e più salario
- Salario per i
disoccupati - Per il sindacato di classe
- Per il partito comunista
internazionale
- Per l’abolizione del capitale e del lavoro
salariato
- Per la dittatura del proletariato.
Nel precedente articolo sulla pandemia pubblicato su questo giornale abbiamo ripetuto come il capitalismo, nelle sue articolazioni nazionali in competizione tra loro, non fosse in grado di offrire altro se non soluzioni limitate, parziali e in conflitto tra loro; abbiamo denunciato la sua incapacità di gestire l’epidemia in termini di cure, di disponibilità di ricoveri ospedalieri attrezzati, e il fallimento sostanziale dell’organizzazione sovranazionale che avrebbe dovuto dare indicazioni vincolanti per tutti gli Stati.
Nello stesso modo in cui la crisi capitalistica si sviluppa, ad onta di una serie di apparati di controllo nazionali e internazionali, e la feroce concorrenza tra Stati e aree economiche ne amplifica la dimensione, la pandemia evidenzia la incapacità degli Stati a una collaborazione internazionale. Ma questo è il capitalismo, non la buona o la cattiva volontà dei governi: nient’altro l’umanità si può aspettare da questo mondo.
Su una situazione di crescente difficoltà per i capitalismi nazionali e sovranazionali è precipitata una non inaspettata epidemia mondiale, più letale delle precedenti. Il mondo del capitale si è trovato in una duplice fase critica, da un lato per gli effetti negativi in molti settori della produzione e nel consumo delle merci, dall’altro per l’inesorabile procedere della sua intrinseca crisi di sovrapproduzione.
Per i borghesi la possibilità di una pandemia non era una prospettiva remota: in una serie di documenti prodotti nei congressi internazionali, a cominciare dal World Economic Forum a Davos nel 2015, quella della pandemia è una prospettiva prevista. Nel gennaio del 2019 lo stesso Forum riprende l’argomento, correlandolo al meccanismo mondiale di globalizzazione che ha abbattuto ogni separazione tra aree, con tanto di stime economiche dei costi e delle perdite economiche, ammonendo che questo era un rischio che “le aziende” (e non l’umanità!) non potevano permettersi di ignorare e indicando le linee guida di intervento. Si affannavano perfino di approfittarne per aumentare i fatturati: una collaborazione sovranazionale tra agenzie nazionali e internazionali, tra ministeri della sanità, tra compagnie di trasporto marittime ed aeree per potenziare le strutture logistiche, il potenziamento delle scorte di medicinali, il finanziamento delle ricerche mediche per lo sviluppo dei vaccini, in relazione alle quali si indicavano le revisioni necessarie alla legislazione in termini di tempi di sperimentazione e accelerazione dei protocolli di via libera alla commercializzazione. Tutto per evitare il blocco dei commerci, garantendo rotte commerciali e mobilità delle persone.
Quelle indicazioni sono state travolte dalla pandemia sviluppatasi nemmeno dodici mesi dopo, con la saturazione dei posti ospedalieri, con un andamento pandemico esponenziale e non lineare, come nelle previsioni. È nella natura del capitalismo guardare solo all’immediata realizzazione del profitto e non predisporre nulla che non lo prometta in tempi brevi: nei primi posti della graduatoria delle azioni non indispensabili e rimandabili c’è la salute dei lavoratori, dei quali ci sarà sempre abbondanza.
Le attività manifatturiere e agricole non si sono arrestate nel periodo pandemico. Alla faccia del “lavoro intelligente”, e solo per alcuni dei lavoratori non alla produzione materiale delle merci: a questi il capitale ha impedito ogni reale protezione.
Però il mercato, dove le merci realizzano valore e plusvalore, si è ridotto notevolmente, sia il commercio al dettaglio, sostituito solo in parte dalla grande distribuzione, ma anche altri settori strategici, il mercato dell’auto, la cantieristica civile, il petrolio e così via.
Dopo un anno di pandemia gravi sono gli effetti sociali. Il peso delle conseguenze verrà a scaricarsi sul proletariato, ma si fa sentire anche sulla piccola e media borghesia, che vive sul commercio, sul turismo. Né i governi riescono a contrastare la paura del futuro che pervade le società e la paura spinge la classe media a non comprare e a mantenere le riserve. La incapacità di tornare a un passato “normale” e la mancanza di ogni prospettiva per il futuro diffonde sentimenti di rabbia e di impotenza che rischiano di scoppiare in manifestazioni di malessere se non in rivolte. E questo è trasversale a tutto il corpo sociale.
Se, come detto, i “poteri forti” sovranazionali avevano previsto la pandemia, certo non l’hanno provocata né gonfiata nei suoi effetti, per non si sa quale scopo o perversa volontà di dominio e sottomissione della “gente”. Nei fatti l’evento, benché previsto da anni, nel mondo del capitale ha prodotto una serie di reazioni improvvisate, scoordinate, dettate dal non saper cosa fare, piegato ad assumere iniziative che erano state esplicitamente escluse per i danni che gli avrebbero provocato. E ne sono scaturite le conseguenze paventate, fino alla caduta del PIL mondiale. Non diamo alcun credito alle teorie del complotto e al rifiuto di credere alla gravità del contagio.
Questo naturalmente non significa che specifici settori del capitale non sfruttino ogni opportunità derivante dalla pandemia per il loro profitto. Ci saremmo stupiti del contrario. Congeniale a questi traffici è mantenere l’impreparazione delle strutture medico ospedaliere nella presunzione di poter intervenire “al momento”, secondo l’ideologia del “just in time” che, per risparmiare sulle scorte di magazzino, pretende di produrre “a richiesta”, quando se ne vede la necessità.
Infine, grazie al grande progresso delle forze produttive, tecnico, degli strumenti e delle conoscenze, con uno sforzo finanziario enorme che solo il sostegno degli Stati ha permesso, in tempi irragionevolmente brevi la aziende farmaceutiche sono giunte alla produzione del vaccino. I tempi del controllo clinico sono stati compressi e per i dati delle prove c’è da affidarsi ai produttori. Quanto sarebbe bastato, in altre circostanze, a bloccarne la distribuzione.
Ma per esporre in modo chiaro il giudizio sul vaccino occorre mettersi su un piano superiore alla situazione contingente e fare una precisa distinzione tra merce e necessità umana. Nel capitalismo tutto è merce, tutto è subordinato al mercato. È questo lo iato fondamentale del capitalismo, che lo rende antiumano. Ci faremo somministrare certo un vaccino capitalista. Ma è il meno peggio che possiamo avere.
Questo anche se è vero che è il capitalismo che ha necessità dello scambio tra produttori e consumatori. E quando lo scambio è in condizioni di necessità è allora che il capitale anticipato per studio, produzione e distribuzione rende massimo il profitto. Questo anche se è vera la natura falsa, corruttrice e mistificatoria del capitalismo, e degli Stati che ne sono il baluardo politico. Ed è vero che le ditte farmaceutiche metteranno a segno guadagni vertiginosi. Tutto secondo la necessità del capitale.
Perché la questione non è “rifiutare” i prodotti del capitalismo, ma abbatterlo!
Le pause nelle guerre che da decenni affliggono il Medio Oriente non sono mai prive di mortifere esplosioni di violenza. Alle sanguinose repressioni di moti proletari, che approfittano dell’assenza di eventi bellici per loro vitali rivendicazioni, si aggiungono atti di ordinario terrorismo borghese. Sotto l’etichetta dell’Islam jihadista si perseguono obiettivi inconfessabili e gli Stati con esecuzioni mirate, tramite i loro servizi segreti o gruppi politici o mercenari, cercano di indebolire una potenza rivale, di interferire sugli indirizzi di politica estera del suo governo e sui rapporti di forza interni al suo apparato.
All’ultima tipologia del terrorismo statale appartengono i due omicidi perpetrati in Iran negli ultimi mesi: l’assassinio del numero due di al-Qaeda, Abdullah Ahmed Abdullah (meglio noto col nome di battaglia di Abu Mohammed al Masri) risalente al 7 agosto scorso, e quello del fisico nucleare Mohsen Fakhrizadeh avvenuto il 27 novembre. Si tratta in entrambi i casi di attacchi che hanno rivelato la permeabilità della sicurezza interna dell’Iran, incapace di proteggere un capo jihadista tenuto in condizioni di libertà vigilata (presumibilmente la sua condizione di ostaggio ne faceva un’arma di ricatto verso gli avversari esterni del regime di Teheran), e soprattutto uno dei massimi responsabili dell’equipe impegnata nello sviluppo del programma nucleare.
Il primo episodio è stato reso noto dal New York Times soltanto il 14 novembre, 10 giorni dopo le elezioni statunitensi, suscitando molti interrogativi sulle ragioni per le quali il presidente uscente Donald Trump abbia perso l’occasione per vantare un successo nella “lotta contro il terrorismo”. Il giornale “liberal” americano afferma che a uccidere al Masri, insieme con la figlia, vedova di Hamza Bin Laden, figlio del più noto Osama, mentre i due si trovavano a bordo di una motocicletta a Teheran, sia stato un agente israeliano che avrebbe agito per conto degli Stati Uniti.
Diverse le modalità dell’attacco che ha portato alla morte di Fakhrizadeh, un attentato che avrebbe avuto bisogno di una organizzazione più complessa, il coinvolgimento di un maggiore numero di uomini e l’uso di armi sofisticate, specie se, come risulta dall’ultima versione fornita dalle autorità iraniane, l’auto blindata su cui viaggiava il fisico era seguita da alcune auto di scorta, tanto che nell’attacco sarebbero morte anche tre guardie del corpo. Forse questa versione è stata fornita per avvalorare l’accusa sostenuta dalla sicurezza iraniana che l’attentato sia stato il frutto di una collaborazione fra i servizi israeliani e il gruppo dei Mojahedin del Popolo. Ma la versione del coinvolgimento fino a 50 persone nella preparazione e realizzazione dell’attentato, può servire a minimizzare le défaillance dell’apparato di sicurezza iraniano, che già in passato non è riuscito a evitare l’uccisione di altri quattro fisici impegnati nel programma nucleare. Risulta comunque evidente la sua vulnerabilità agli attacchi esterni, che potrebbe ascriversi anche a fratture interne agli assetti politici del paese.
Il regime teocratico deve fronteggiare un malcontento sociale crescente dovuto al carovita e alle conseguenze economiche della rottura dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano, imposta unilateralmente nel 2018 da Trump, e alla conseguente reintroduzione delle sanzioni economiche che hanno penalizzato pesantemente le esportazioni petrolifere iraniane. L’accordo del 2015 e la fine delle sanzioni avevano giovato all’economia iraniana. Mentre l’anno successivo le esportazioni petrolifere avevano raggiunto i 2,1 milioni di barili al giorno, attualmente, a causa della pressione degli Usa sui partner economici dell’Iran, sono scese di oltre il 75%. L’obiettivo del governo americano era di trarne vantaggio per incrementare la produzione interna: gli Usa, grazie anche all’estrazione dello shale oil, negli ultimi anni sono giunti in vetta alla classifica dei produttori mondiali.
Per l’Iran il quadro economico appare a tinte fosche se al peso delle sanzioni e ai riflessi della crisi mondiale si somma la pandemia, che lo vede fra i paesi più colpiti. Il tasso d’inflazione è salito negli ultimi mesi da poco meno del 20% di aprile al 46,4% di fine novembre, l’effetto del carovita crea un diffuso malcontento fra i lavoratori e le mezze classi in fase di impoverimento, e potrebbe dare vita a nuove rivolte dopo quelle che negli anni scorsi hanno scosso il paese.
La borghesia iraniana e le sue istituzioni teocratiche potrebbero trovarsi di fronte a sommosse in cui la componente proletaria potrebbe avere un peso maggiore rispetto agli anni precedenti, e in particolare come quella della fine del 2017 che vide scioperi e agitazioni operaie. Ed è proprio l’aspettativa di nuovi sussulti sociali ad avere spinto il regime ad inviare un macabro messaggio terroristico con l’esecuzione avvenuta il 12 dicembre di Ruhollah Zam, un giornalista e figlio di un membro della nomenclatura condannato a morte per il ruolo di propaganda nella rivolta del 2017: “badate proletari, se impicchiamo un giornalista membro della nostra classe, pensate cosa potremo fare di voi qualora osaste ribellarvi!”.
Eppure in Iran negli ultimi anni l’industria ha continuato a espandersi e nell’export iraniano sta prendendo il sopravvento la quota della manifattura. Un aspetto che incide sulla politica interna, rafforzando i settori legati all’industria rispetto alla rete d’interessi attorno alla rendita petrolifera. Se lo sviluppo manifatturiero dell’Iran dovesse rafforzarsi dopo la fine dell’emergenza epidemica potrebbero acuirsi le tensioni interne alla classe borghese circa la definizione della politica estera.
L’Iran viene descritto come l’arcinemico di Israele, dell’Arabia Saudita e delle altre monarchie del Golfo. Ma questa inimicizia, in parte effettiva, non è la stessa verso i diversi Stati dell’area. Ad esempio il Kuwait, il Qatar e l’Oman mantengono relazioni abbastanza buone con l’Iran. In particolare il Qatar condivide con l’Iran lo sfruttamento del giacimento offshore North Dome, uno dei più grandi del mondo. La rottura fra Riad e Doha nel 2017 ha avuto come conseguenza un’intensificazione dei rapporti commerciali fra Iran e Qatar. In una posizione mediana si trovano gli Emirati Arabi Uniti con cui, nonostante un’ostilità manifestatasi su vari scenari come la Siria e l’Iraq, l’Iran intrattiene relazioni commerciali privilegiate. Mentre dagli Emirati vengono il 14,8% delle importazioni iraniane, in direzione inversa viaggia un cospicuo flusso di investimenti: sono molte migliaia gli operatori iraniani presenti negli Emirati e i loro interessi raggiungono la cifra stratosferica di 300 miliardi di dollari.
La collocazione politica dell’Iran sulla scena internazionale dipende anche dai suoi flussi di import-export. La Cina da qualche anno è diventato di gran lunga il principale partner commerciale dell’Iran, verso il quale secondo The Economist si orientano quasi un terzo delle esportazioni iraniane e dal quale giungono quasi un quarto delle sue importazioni. I dati della stessa fonte riguardanti il 2012 danno per le esportazioni verso la Cina il 16,7% e per le importazioni l’8,6%. Si è aggiunto nel giugno scorso un accordo di cooperazione fra i due paesi della durata di 25 anni che prevede ben 400 miliardi di dollari di investimenti cinesi.
Ma anche con l’altro gigante asiatico i rapporti economici si sono rafforzati: nel 2012 le esportazioni iraniane destinate all’India erano il 10,2% del totale, mentre nel 2020 sono diventate il 19,5%. In vari progetti India e Cina sono in concorrenza per accaparrarsi i terminali iraniani sulle grandi rotte del commercio internazionale. La Cina, per aprirsi la strada al Golfo Persico e fare dell’Iran il suo emporio in Medio Oriente, ha puntato già da alcuni anni sulla costruzione di una ferrovia lunga 2.100 chilometri, ormai in fase avanzata di costruzione che a partire dal Xinjiang attraversa il Kirghizistan, il Tagikistan e l’Afghanistan. L’11 dicembre è stato inaugurato il tratto dalla città iraniana di Khaf a Herat, importante città dell’Afghanistan occidentale. Meno promettente risulta invece il tentativo dell’India di accaparrarsi il terminale di Chabahar (Bandar Beheshti), un porto iraniano sul Golfo di Oman che dista soltanto 750 miglia marittime da Munbay.
L’orientarsi verso l’Asia del commercio iraniano non necessariamente allargherebbe la faglia geostorica che separa le sponde del Golfo Persico dato che il grosso dei flussi riguarda prodotti manifatturieri che non interferiscono direttamente con la spartizione della opulenta rendita petrolifera, da molti decenni elemento fondamentale dei conflitti mediorientali.
Gli Usa vorrebbero impedire quell’impetuoso sviluppo di relazioni commerciali, e tenere lontana dalla penisola arabica la Cina, che nell’area porta avanti una manovra avvolgente su più fronti: dagli interessi sul Mar Rosso alla base militare a Gibuti.
Ma è proprio negli Emirati Arabi Uniti che potrebbe crearsi una zona di frizione. L’accordo con Israele e il riconoscimento dello Stato Ebraico da parte degli EAU ha avuto come conseguenza l’inaugurazione di collegamenti aerei diretti fra Tel-Aviv e Dubai. Per facilitarne la rotta l’Arabia Saudita, che ancora non ha stabilito relazioni diplomatiche con lo Stato Ebraico, permette ai suoi aerei di sorvolare il proprio spazio aereo. Ora però i servizi segreti israeliani temono che gli Emirati possano diventare il teatro di attacchi terroristici organizzati dall’Iran contro gli interessi dello Stato ebraico.
A complicare il quadro d’assieme del Medio Oriente intervengono altri fattori, come gli accordi fra Israele e i paesi arabi, frutto della diplomazia statunitense, e la fase di transizione della politica della borghesia statunitense giustificata col passaggio dalla presidenza Trump a quella di Biden.
La crisi interna di Israele vede una crescente opposizione al governo di Benjamin Netanyahu, messo in difficoltà col pretesto delle sue ruberie. Ora che il riconoscimento di Israele da parte di altri quattro paesi arabi, Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco, ha rimescolato le carte, una parte della borghesia israeliana potrebbe aver interesse ad ammorbidire le sue posizioni verso Teheran. Basta leggere un giornale della sinistra borghese come Haaretz per rendersene conto. Dal recente incontro segreto fra Netanyahu e il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman non è risultato lo stabilire relazioni diplomatiche fra i due paesi: a frenare sono le resistenze interne all’Arabia Saudita che per aspirare a un ruolo guida nel mondo arabo non può ancora rinunciare alla pregiudiziale antisionista.
Ma ci sono altri elementi di ambivalenza nelle linee della politica mediorientale statunitense, non tanto per le differenze fra la guida democratica che si sta sostituendo al populismo di Trump. Dipenderà dalla bilancia fra le potenze e dalla necessità della borghesia statunitense di aggiustare il tiro. La nostra corrente infatti non ha mai attribuito importanza al colore elettorale, e comunque grande-borghese, del presidente degli Stati Uniti: lo consideriamo l’individuo più impotente sulla faccia della terra ad agire liberamente. Se la politica mediorientale di Obama costituì un interventismo più “moderato” rispetto a quello di Bush, e se con Trump si è assistito a un limitato disimpegno militare nella regione (assai minore nella realtà di quanto proclamato a chiacchiere), questo si iscrive in una linea di continuità che non sfocerà certo in un isolazionismo di lungo periodo. È probabile che gli Stati Uniti torneranno a rafforzare la presenza militare e a combattere e fomentare altre guerre in un’area dalla quale non se ne sono mai andati e in cui convergono gran parte degli equilibri mondiali e dove si svolge il grande gioco della spartizione della rendita petrolifera.
L’eventuale ripresa delle trattative sullo sviluppo del programma nucleare iraniano, anche ammesso che il nuovo governo statunitense possa essere effettivamente interessato a questo “passo pacificatore”, incontrerà degli ostacoli sul suo cammino. Riemergeranno le opposizioni di quelle fazioni interne al regime teocratico borghese iraniano, in particolare in seno alla cosiddetta Guardia Rivoluzionaria dei Pasdaran, che si erano già opposte all’intesa del 2015 adducendo che rappresentava una resa agli Stati Uniti. La campagna elettorale per elezioni presidenziali iraniane è prevista per il giugno del 2021: in tale periodo è improbabile che le fazioni che compongono la borghesia iraniana raggiungano una convergenza sulla linea da adottare. Nel frattempo il programma nucleare iraniano potrebbe compiere processi decisivi, inaccettabili dagli Usa se dovesse portare Teheran al punto di disporre dell’arma atomica.
Le difficoltà che congiurano contro lo sviluppo delle relazioni fra Iran e Stati Uniti non sono tuttavia il solo problema che gli USA dovranno affrontare in Medio Oriente. L’atteggiamento di Trump nei confronti della casa regnante in Arabia Saudita non è stato di costante benevolenza come vorrebbe la manierata quanto mistificante narrazione mediatica. Infatti Riad non è stata sempre accontentata nelle sue pretese di inasprire lo scontro con l’Iran. Quando il Congresso statunitense ha deciso di bloccare la vendita di armi che i sauditi utilizzavano nella guerra nello Yemen contro gli houthi filoiraniani, Trump ha aggirato il bando ma nello stesso tempo ha spinto Riad a trattare con i ribelli. Inoltre lo stesso presidente Usa ha frustrato la volontà dei sauditi di colpire l’Iran dopo che nel settembre del 2019 un attacco missilistico compiuto dagli houthi, evidentemente con l’appoggio tecnico di Teheran, aveva distrutto gli impianti di raffinazione di Abqaiq e Khurais dimezzando così la produzione petrolifera dell’Arabia Saudita. Quest’ultimo evento con ogni probabilità ha facilitato il compito dell’amministrazione statunitense in quanto ha propiziato l’intesa fra Riad e Mosca sul taglio della produzione petrolifera al vertice dell’Opec plus dell’aprile scorso. In quell’occasione si trattava di fronteggiare gli effetti della crisi che da diversi anni aveva portato a una sostanziale stagnazione della domanda di petrolio e di fronteggiare un suo ulteriore calo repentino in conseguenza della prima ondata del Covid-19.
Biden ha parlato a più riprese dei problemi posti dall’ingombrante e impresentabile casa regnante saudita. In occasione della brutale eliminazione del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuta all’interno del consolato saudita di Istanbul nel 2018. Il prossimo presidente americano disse che si dovevano riconsiderare i rapporti con l’Arabia Saudita. Evidentemente gli Stati Uniti non possono essere mai troppo amici di Riad e non possono smettere di sperare che Teheran un giorno sia costretta a rientrare sotto il patrocinio di Washington, il che permetterebbe loro di riconquistare il ruolo di arbitro in Medio Oriente.
Certo soltanto gli appassionati della politique politicienne continueranno a lasciarsi abbagliare dalle differenze fra i due candidati alle elezioni presidenziali statunitensi del 2020. Il Medio Oriente resta il luogo dove la politica degli Stati Uniti è più obbligata: Washington non può permettersi di lasciare che il suo principale avversario, la Cina, entri attraverso il corridoio iraniano in Medio oriente, e se per ora non ci sarà la guerra generale sarà soltanto perché i tempi non sono ancora maturi.
PAGINA 2
La propaganda patriottica del Partito Comunista Cinese fa ampio riferimento al sentimento popolare che non dimentica la vergogna del passato “secolo di umiliazione” nazionale, il periodo dalla prima Guerra dell’Oppio (1839-1842) alla nascita della Repubblica Popolare nel 1949, con devastazioni della Cina e smembramenti territoriali perpetrati dalle potenze imperialistiche.
Con le Guerre dell’Oppio il capitalismo occidentale si aprì a colpi di cannone il vasto mercato cinese; ma i cannoni inglesi introdussero altre droghe oltre all’oppio: le religioni cristiane. A partire da metà Ottocento con la forza delle armi furono imposti alla Cina i cosiddetti Trattati Ineguali che conferivano agli stranieri enormi privilegi, economici ma anche giuridici. Alcuni vantaggi furono accordati anche alle missioni cristiane, che ne approfittarono per il proselitismo tra i cinesi.
In particolare con il trattato di Whampoa del 1844 fu stabilito il protettorato francese sulle missioni della Chiesa Cattolica, il che diffuse in Cina la percezione del cristianesimo come strumento dell’oppressore straniero e rafforzò l’odio verso i cristiani. Questo esplose violento con la Rivolta dei Boxer nel 1900, che in generale si scagliava contro gli imperialisti, prendendo particolarmente di mira i missionari, cattolici o protestanti che fossero. Scriverà successivamente Mao Zedong: «Questi missionari stranieri, i cattolici soprattutto, mentre facevano costruire chiese si impadronivano di terre, minacciavano i funzionari locali, s’inserivano nell’amministrazione, intervenivano nello svolgimento dei processi, raccoglievano vagabondi e ne facevano dei “convertiti”, di cui si servivano per opprimere le masse. Un tal modo di agire non poteva che provocare l’indignazione del popolo cinese». Tra il 1900 e il 1901 furono massacrati circa 30.000 cattolici.
Successivamente il papato cercò di non far percepire il cristianesimo come una religione straniera e di svincolarsi da ogni protezione degli Stati europei, cosa che avvenne in maniera definitiva nel 1942 con l’abolizione dei Trattati Ineguali, e quindi anche del protettorato francese. Sempre nel 1942 furono stabilite relazioni diplomatiche tra la Cina e la Santa Sede.
Ma nel 1949 i “comunisti”, vincendo la guerra civile contro i nazionalisti del Kuomintang e fondando la Repubblica Popolare, inauguravano un lungo periodo di conflitto con la Chiesa cattolica. La prima costituzione della Repubblica Popolare del 1954, se garantiva formalmente la libertà di credo religioso, stabiliva il controllo del Partito Comunista su ogni attività organizzata. In quel periodo non mancarono episodi di repressione nei confronti dei cattolici, come nel 1955 l’arresto del vescovo di Shanghai e molti altri.
Nello stesso tempo tra i cattolici cinesi si diffuse l’idea di inserirsi e partecipare alla vita politica del paese. Questa tendenza trovò un’occasione favorevole tra il 1956-57 con la cosiddetta Campagna dei Cento Fiori che costituì un periodo di ammorbidimento dei rapporti tra il potere e i religiosi. In questo contesto nel 1957 fu fondata l’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi, con l’appoggio dell’Ufficio Affari Religiosi della Repubblica Popolare, che cercava così di controllare l’attività dei cattolici.
L’Associazione Patriottica procedette subito con le prime ordinazioni episcopali senza mandato pontificio. Era l’inizio del cosiddetto cattolicesimo ufficiale, controllato dal governo di Pechino, che entrava in contrapposizione ad una chiesa sotterranea costituita dal clero e dai fedeli rimasti legati al Vaticano. Questo il 29 giugno 1958 pubblicava una nuova enciclica sulla Cina, Ad Apostolorum Principis, in cui denunciava la persecuzione in atto e disconosceva i vescovi nominati dalla Chiesa Patriottica. In sostanza si trattava della riproposizione dell’antica lotta tra Stato e Chiesa sul controllo della gerarchia.
L’accordo con il Vaticano
Il 22 settembre 2018 fu comunicata la firma di un accordo tra la Repubblica Popolare Cinese e il Vaticano riguardante la nomina dei vescovi e la riunificazione dei cattolici in Cina. L’accordo è frutto di un lungo “dialogo” tra la Chiesa cattolica e lo Stato cinese, che da parte cattolica fanno risalire al pontificato di Giovanni Paolo II e il cui inizio coincide con l’ascesa e le riforme di Deng Xiaoping.
Le religioni ottennero allora maggiore libertà di azione rispetto al periodo maoista. Il nuovo orientamento fu espresso nella Costituzione del 1982, che all’articolo 36 garantì la libertà religiosa: «I cittadini della Repubblica godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere in qualsiasi religione, né possono discriminare i cittadini che credono, o non credono in qualsiasi religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini o interferire con il sistema educativo dello Stato. Enti religiosi e dei culti non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera».
Rispetto alle formulazioni costituzionali precedenti è stata espunta l’affermata libertà di propaganda dell’ateismo, che poneva l’ateismo ufficiale in una posizione superiore rispetto alle religioni le quali non godevano della libertà di proselitismo, seppure affermata: nella nuova formulazione ateismo e religioni sono poste sullo stesso piano.
Nonostante la maggiore libertà religiosa non venne fatta alcuna concessione al Papa sulla possibilità di nominare i vescovi, considerata dallo Stato cinese una interferenza negli affari interni del Paese per il ruolo sociale, ideologico e politico dei vescovi: il Papa, capo di un altro Stato, non avrebbe avuto quel diritto.
Il moderno Stato cinese aveva però bisogno della superstizione religiosa per la conservazione dell’ordine e, non essendoci nella sua tradizione storica e culturale una religione di Stato, si orientò a “tollerare” le religioni “affidabili”. Tutt’oggi la Repubblica Popolare riconosce, ufficialmente, cinque religioni: buddismo, cattolicesimo, protestantesimo, islam e taoismo.
Ma tutte le organizzazioni religiose debbono registrarsi presso una delle cinque Associazioni Religiose Patriottiche, supervisionate dall’Amministrazione Statale per gli Affari Religiosi. Il governo cinese teme infatti l’influenza delle religioni in questioni politicamente delicate e interviene anche in modo repressivo per difendere gli “interessi nazionali”.
Il problema riguarda principalmente i musulmani uiguri dello Xinjiang che, prima assai laicizzati, hanno identificato la religione con l’indipendenza della regione. Lo stesso vale per il Tibet, dove il governo cinese reprime la religione in quanto strumento di lotta anti-cinese e indipendentista.
La Chiesa di Roma ha così impiegato anni per provarsi degna di fiducia agli statisti cinesi, in particolare negli ultimi anni, a differenza delle altre religioni riconosciute. L’accordo siglato due anni fa dimostrò il miglioramento delle relazioni tra la Chiesa cattolica e il governo cinese. L’accordo, di cui non fu pubblicato il testo, era definito “provvisorio” perché «contempla un tempo di verifica per sperimentarne il funzionamento e gli effetti, così da modificarne e migliorarne la codificazione testuale». Ignoriamo quindi in particolare i termini dei rapporti stabiliti tra la Repubblica Popolare e il Vaticano, il quale, fra l’altro, mantiene ancora rapporti diplomatici con Taiwan.
Non furono forniti i dettagli sulla procedura di nomina dei vescovi ma sarebbero dovuti essere eletti dai rappresentanti delle diocesi, passare all’approvazione delle autorità cinesi per essere infine sottoposti alla conferma definitiva della Santa Sede, alla quale sarebbe così riservato un diritto di veto.
Recentemente quell’Accordo Provvisorio è stato rinnovato per altri due anni, fino al 22 ottobre 2022. I contenuti rimangono ancora segreti e si parla di un’intesa transitoria, ma nelle settimane scorse i vertici sia del Partito cinese sia del Vaticano l’hanno “valutato positivamente”, per i cinesi addirittura “un pieno successo”.
Il Vaticano ha dichiarato: «La Santa Sede, ritenendo che l’avvio dell’applicazione dell’Accordo – di fondamentale valore ecclesiale e pastorale – è stato positivo, grazie alla buona comunicazione e collaborazione tra le Parti nella materia pattuita, è intenzionata a proseguire il dialogo aperto e costruttivo per favorire la vita della Chiesa cattolica e il bene del Popolo cinese». Si sottolinea che i motivi principali che hanno guidato l’azione della Santa Sede «sono fondamentalmente di natura ecclesiologica e pastorale», intendendo che lo scopo principale dell’accordo, come del rinnovo, è la nomina dei vescovi. Da questo punto di vista i risultati dei primi due anni dalla firma dell’accordo, numericamente di poco conto con soli due vescovi nominati, hanno rappresentato un buon inizio, nella prospettiva di intese “più ampie e lungimiranti”.
Che la strada del dialogo tra Trastevere e Pechino sia ben avviata lo dimostra anche la resistenza del Vaticano di fronte alle pressioni degli Stati Uniti che, tramite il segretario di Stato Mike Pompeo, hanno tentato, senza successo, di fermare i negoziati e di schierare la Chiesa su posizioni anti-cinesi. Inoltre il rinnovo dell’accordo è incappato in alcune critiche dall’interno sia della Chiesa sia dello Stato cinese.
Ma la linea tracciata va ben aldilà delle ordinazioni episcopali.
Un accordo, ovviamente, contro il proletariato
La nostra dottrina individua il peso del fattore religioso considerando diversi momenti nella lotta tra le classi: la preparazione, lo svolgimento e la vittoria della rivoluzione borghese contro le istituzioni feudali, poi la lotta della borghesia vittoriosa contro il pericolo di restaurazioni, infine la fase in cui la borghesia al potere lotta per difendersi dalla rivoluzione dei proletari.
La borghesia, che nel suo periodo rivoluzionario aveva lottato contro le istituzioni feudali, di cui la Chiesa rappresentava un fondamentale pilastro, non appena conquistato e stabilizzato il suo dominio politico e disperso il pericolo di una restaurazione, mise ben presto da parte la lotta contro le istituzioni religiose per giungere con esse ad un compromesso volto al mantenimento dell’ordine borghese. Pochi anni dopo la vittoria rivoluzionaria in Francia Napoleone Bonaparte stipulò nel 1801 un Concordato con la Santa Sede che disciplinava i rapporti tra il nuovo Stato borghese e la Chiesa cattolica. Non era passato tanto tempo dalla prima vittoria rivoluzionaria della borghesia contro il feudalesimo che la Chiesa cattolica metteva a disposizione la sua solida organizzazione e la sua secolare esperienza controrivoluzionaria al servizio del mantenimento dell’ordine capitalistico.
Oggi la Chiesa cattolica offre i suoi servigi di difensore dell’ordine costituito anche allo Stato cinese, che da parte sua ha l’arduo compito di mantenere in catene economiche centinaia di milioni di proletari. La ricompensa per il suo lavoro controrivoluzionario è la possibilità di accedere al miliardario mercato cinese di anime.
La Chiesa cattolica, che si ritiene investita di una missione universale, non può rinchiudersi nel mondo occidentale ma deve guardare all’Asia, dove si concentrano i sei decimi della popolazione del globo e che è il motore della crescita mondiale del capitalismo. In quest’area fondamentale la presenza di cattolici è estremamente bassa, quasi irrilevante, ad esclusione delle Filippine, ed è verso l’Asia che è rivolta l’attenzione della Chiesa di Roma che vi scorge un’ottima opportunità di proselitismo e di traffici.
A differenza dei dirigenti cinesi, che devono cercare di mascherare lo sfruttamento capitalistico, la Chiesa cattolica analizza la Cina per quello che è: una società precipitata nel capitalismo, e che quindi sa bene quanto sia bisognosa di soddisfare le “necessità spirituali”. Scrive “Civiltà Cattolica”, la rivista dei Gesuiti, nn. 4007 e 4039: «In una Cina sempre più capitalistica, materialista e utilitarista (...) tanti uomini e tante donne non smettono di coltivare la ricerca del senso dell’esistenza». Giustamente i teorici cattolici sanno che la rapida espansione economica ha reso la vita troppo “materialista e utilitarista”, con la conseguente perdita dei valori tradizionali della società cinese e il sorgere di “bisogni spirituali” ai quali la Chiesa può sopperire con la propria “via cristiana”. Una ghiotta prospettiva di vendere in abbondanza il suo oppio “spirituale” nel principale paese asiatico, e senza cannonate.
Ma se la Chiesa si accorda con lo Stato cinese per inserirsi in questo sterminato mercato di anime, per il governo di Pechino l’accordo con la Chiesa di Roma si spiega con la volontà di avere a disposizione una religione e una Chiesa a sostegno della sua politica. Xi Jinping aveva delineato chiaramente questa prospettiva all’ultimo Congresso del PCC nell’ottobre del 2017: «Noi attueremo pienamente la politica di base del Partito per le questioni religiose, sosterremo il principio che le religioni in Cina devono avere un orientamento cinese, e forniremo una guida attiva alle religioni, in modo che possano adattarsi alla società socialista». Ma quando Xi Jinping parla di adattamento alla “società socialista” intende il riconoscimento del dominio politico del Partito Comunista Cinese, dal momento che “il socialismo con caratteristiche cinesi” non è altro che la formula utilizzata dai falsi comunisti cinesi per coprire il brutale sfruttamento capitalistico del proletariato.
La politica verso le religioni dei dirigenti cinesi è volta a “sinizzare” le religioni per farne uno strumento di sostegno alla politica del PCC e degli interessi del capitalismo nazionale.
Oltre questi due “punti di vista” in sostanza l’accordo tra la Repubblica Popolare e il Vaticano si riduce al comune obiettivo del mantenimento dell’ordine borghese. Da una parte la Chiesa cattolica, riconoscendo quello che i falsi comunisti cinesi provano a nascondere con la bandiera del “comunismo”, cioè l’esistenza delle classi sociali e la loro lotta, offre, in cambio della libertà di proselitismo, la sua lunga tradizione di azione controrivoluzionaria per addormentare i proletari. Da parte loro i falsi comunisti cinesi sono costretti ad allentare il rigore ideologico e poliziesco del confuciano partito unico allo scopo di trattenere i proletari cinesi anche con le catene dello spirito. Il capitalismo cinese, come tutto ha ereditato dal più vecchio capitalismo occidentale, ora arruola anche la “straniera” Chiesa cattolica nel tentativo di contenimento della forza proletaria, di cui cresce sempre più il vigore, la lotta e la tendenza ad organizzarsi in modo indipendente.
Quando i proletari cinesi torneranno a darsi sindacati classisti e quando le loro avanguardie si riapproprieranno del marxismo rivoluzionario e del programma comunista, spazzeranno via tutti: capitalisti, falsi comunisti e il pretume di ogni colore.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Un finto “sciopero generale” per non prepararne uno vero
Domenica 29 novembre si è tenuta in videoconferenza la terza assemblea nazionale dei Lavoratori Combattivi, dopo la prima il 12 luglio e la seconda il 27 settembre. Il numero dei partecipanti, al massimo 200, si è un po’ ridotto rispetto alla precedente, per altro svoltasi in presenza. Una cinquantina abbondante gli interventi.
Le principali forze sindacali presenti e promotrici della ALC sono quattro: il SI Cobas, il Sindacato Generale di Base (Sgb), lo Slai Cobas per il Sindacato di Classe, un gruppo di delegati dell’area di opposizione in Cgil denominata “Riconquistiamo tutto”, in gran parte aderenti al PCL, un partito trotskista.
Vanno
chiariti i rapporti di forza fra questi 4 gruppi:
-
Fa da padrone il SI Cobas, che dichiara circa 20 mila iscritti, la
maggior parte dei quali nella logistica;
-
A una notevole distanza in termini di consistenza numerica l’Sgb,
che nacque da una scissione dall’Usb nel febbraio 2016 e che
recentemente ha subito la fuoriuscita di una parte di delegati e
iscritti – grosso modo fra un terzo e la metà delle sue forze –
confluiti nella Cub;
-
Poi vi è il piccolo Slai Cobas per il Sindacato di Classe,
apprezzabile per la linea rivendicativa sindacale – ne abbiamo
scritto riguardo alla situazione al siderurgico di Taranto – ma che
in parte agisce confondendo l’ambito sindacale e quello partitico,
dato confermato dalla sua partecipazione all’intergruppo politico
denominato “Patto d’Azione Anticapitalista per un Fronte
Unico di Classe”, insieme al SI Cobas e al PCL, ma non all’Sgb;
-
Infine, per ultimi, possiamo porre il gruppo di delegati della
minoranza Cgil aderenti al PCL che, diversamente dai tre sopracitati,
non dirigono una organizzazione sindacale bensì sono una minoranza
della minoranza. Tuttavia, pur essendo forse il gruppo più
debole dei quattro sopra elencati, arrecano con sé il valore di
trovarsi all’interno di una più grande area di opposizione
sindacale, che si dichiara classista e che fa parte del maggior
sindacato di regime d’Italia. Seppur deboli numericamente, essi
offrono quindi una via di potenziale espansione per un organismo che
si orientasse realmente nella direzione dell’unità
di azione dei lavoratori.
In aggiunta a questi 4 gruppi va poi considerato il cosiddetto Fronte della Gioventù Comunista, un organismo politico giovanile di marca stalinista, formato in larga parte da studenti e perciò presente nella ALC con pochi lavoratori. Tuttavia offre l’appoggio dei giovani da esso inquadrati alle iniziative dell’ALC: in alcune città ha portato fra un terzo e la metà dei partecipanti alle sinora molto deboli manifestazioni messe in campo. In virtù di questo contributo e della sua partecipazione al cosiddetto Patto d’Azione Anticapitalista, al FGC è affidato – non in modo formale, essendo un gruppo politico, ma sostanziale – un ruolo di primo piano anche dentro la ALC.
Il dato essenziale dell’assemblea del 29 novembre è stato che le quattro forze sindacali sopracitate si sono divise circa la decisione se fissare o meno per la data del 29 gennaio niente di meno che uno sciopero generale: i dirigenti del SI Cobas e dello Slai Cobas per il Sindacato di Classe hanno spinto in quella direzione; Sgb e delegati Cgil aderenti al partito trozkista hanno frenato, ritenendo fosse necessario prima rafforzare la ALC.
Dalla rapida rassegna di cui sopra emerge chiaramente che l’influenza della ALC nella classe lavoratrice di ben poco si scosta da quella della sua forza sindacale maggiore, il SI Cobas, che per altro è ancora un piccolo sindacato, sconosciuto alla gran parte della classe operaia.
Questo stato delle forze dovrebbe suggerire una condotta prudente, cercando quanto meno la più larga condivisione interna all’assemblea, nella intenzione di addivenire a promuovere una mobilitazione.
I dirigenti del SI Cobas invece hanno pensato bene, sicuri della “vittoria”, visti i rapporti di forze interni alla ALC, di ricorrere al voto per “risolvere” la questione. Lo sciopero per il 29 gennaio prossimo è stato così approvato con l’85% dei votanti: nel successivo comunicato l’hanno dichiarata decisione presa dalla “stragrande maggioranza dei partecipanti”. In realtà, oltre a essere inopportuna, in quanto ha sanzionato la spaccatura interna all’assemblea, la votazione è stata priva dei minimi requisiti di serietà, compiuta in modo caotico per via telematica e quando oltre un terzo dei partecipanti non era più presente, visto che la mozione della maggioranza ha raccolto in tutto 94 voti, contro i 16 di quella di minoranza.
Così il SI Cobas si accinge a organizzare uno sciopero “generale” di cui, a parte sé stesso, sono convinti solo i dirigenti dello Slai Cobas per il Sindacato di Classe e i gruppi minoritari della ALC, pretendendo di portarvi controvoglia Sgb e i delegati della minoranza Cgil del PCL.
Questi ultimi, essendo una minoranza della minoranza Cgil, avranno grosse difficoltà a promuovere uno sciopero sui loro posti di lavoro, non sostenuto né dalla Cgil né dalla minoranza interna e che sarà nettamente minoritario anche nel sindacalismo di base. Ciò nonostante fanno buon viso a cattivo gioco, manifestando il loro opportunismo politico.
All’interno dell’area di opposizione in Cgil denominata “Riconquistiamo Tutto” avevano condotto una giusta battaglia affinché partecipasse all’assemblea del 27 settembre – ne abbiamo scritto nel giornale a settembre – condotta però con argomenti in parte sbagliati e con toni eccessivamente aspri.
Ora che la ALC, con la decisione dello sciopero del 29 gennaio e col palesarsi dei suoi metodi di vita interni, conferma la correttezza di alcune delle critiche – da noi stessi condivise e avanzate – mosse dalla maggioranza dell’area di opposizione RT per giustificare – certo erroneamente – la mancata partecipazione a questo organismo, i militanti sindacali del PCL devono fingere che tutto vada bene, per non sminuire il valore di quella loro battaglia condotta con foga sproporzionata in seno all’area di opposizione in Cgil.
A ciò si deve aggiungere che questo partito fa parte – come detto – del cosiddetto Patto d’Azione Anticapitalista, insieme ai dirigenti del SI Cobas e dello Slai Cobas per il Sindacato di Classe, al FGC e ad altri gruppetti. Questo fronte politico – che abbiamo definito un “piccolo mostriciattolo intergruppettaro” – è stato il promotore della ALC, con la sua prima assemblea nazionale, a Bologna il 12 luglio.
Nei mesi successivi, fino alla seconda assemblea nazionale del 27 settembre, i promotori hanno cercato di caratterizzare la ALC come un organismo indipendente dal Patto d’Azione, onde fugare i dubbi circa una sua natura di mero strumento di quel progetto politico, e la partecipazione dell’Sgb ha aiutato a dar credito a questa ipotesi. Per altro va notato – come già più volte noi abbiamo rimarcato – come persino l’Adl Cobas, da sempre a braccetto negli scioperi col SI Cobas, si sia invece tenuto alla larga dall’ALC.
La forzatura imposta dai dirigenti del SI Cobas ricorrendo al voto il 29 novembre per imporre uno sciopero “generale” che, a meno di imprevedibili e improbabili avvenimenti, non ha praticamente alcuna possibilità di riuscita, e i metodi di vita interna alla ALC stanno invece palesando come i gruppi politici che dirigono il Patto d’Azione non abbiano alcuna intenzione di rinunciare all’utilizzo di ogni mezzo pur di garantire che la ALC svolga l ruolo di appendice di quel fronte politico. E questa è la seconda ragione che spiega il “tutto va bene” dei delegati del PCL nel merito dell’ALC.
L’Sgb appare non troppo convinto dello sciopero “generale” del 29 gennaio. Essendo l’unica forza sindacale delle quattro sopra passate in rassegna a non aderire al cosiddetto Patto d’Azione, la sua condotta offre la controprova dello stato delle relazioni interne alla ALC e dei metodi di gestione dei suoi promotori e dirigenti.
Un nostro compagno è intervenuto nell’assemblea del 29 novembre a nome del Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA) affermando come non vi siano ad ora le condizioni per organizzare un vero sciopero generale, che il risultato sarebbe quello del rituale sciopero di testimonianza di una minoranza del sindacalismo di base, e che un’azione più seria e concreta, suscettibile di rafforzare il sindacalismo di classe, sarebbe stata quella di promuovere l’unificazione delle vertenze delle categorie interessate ai rinnovi contrattuali: metalmeccanici, logistica, pubblico impiego, multiservizi, ferrovieri, marittimi e telecomunicazioni.
Questo
obiettivo, già di per sé per niente facile da raggiungere, sarebbe
stato da perseguire:
-
attraverso il tentativo di coinvolgere tutte le organizzazioni del
sindacalismo conflittuale in questa azione unitaria, promuovendo
una preventiva campagna in tal senso per dare tempo di battersi nel
seno di ogni organizzazione sindacale per farla aderire
alla mobilitazione;
-
data la debolezza del sindacalismo conflittuale in tutte queste
categorie, a eccezione della logistica, sarebbe stato opportuno
appoggiarsi a una sciopero del sindacalismo di regime in una di esse,
cui sommare lo sciopero nazionale nella logistica, e quelli
delle altre categorie.
A un altro nostro compagno è stato impedito di intervenire con indecenti mezzucci. In tal modo l’assemblea nazionale non è stata messa al corrente del fatto che a Roma molte voci si erano levate contro l’inserimento della tassa patrimoniale fra le rivendicazioni dell’assemblea. Abbiamo parzialmente ovviato inviando il suo intervento in forma scritta nella chat dell’assemblea.
La maggioranza dell’assemblea non ha preso in alcuna considerazione le considerazioni espresse dal CLA né si è fatta scrupolo della spaccatura interna all’assemblea. È emerso l’opportunismo in salsa movimentista-gruppettara che pervade questo organismo, con la sua angusta visione del movimento operaio e il suo modo caporalesco di dirigere gli organismi sindacali.
Lo sciopero generale è stato presentato come “un passo in avanti” verso “ulteriori mobilitazioni”, ridotto a una sorta di strumento di propaganda che avrebbe la facoltà di “mettere in moto” la classe lavoratrice. Null’altro che il solito agire idealistico delle dirigenze del sindacalismo di base in atto da decenni. Altro che preteso “voltar pagina” del sindacalismo di classe, come pomposamente proclamato dai dirigenti del SI Cobas dopo l’assemblea del 27 settembre.
Gli “scioperi generali” sulla carta ma ultraminoritari nei fatti non fanno che segnare passi indietro, non in avanti, svilendo e facendo perdere il senso di questa suprema arma di lotta ai lavoratori e ai delegati.
Ad oggi quindi la costituzione della ALC ha condotto a un ulteriore passo indietro rispetto alla già pessima situazione degli anni passati, quando lo “sciopero generale” veniva proclamato con mesi di anticipo, in piena estate, da un cartello formato da una parte del sindacalismo di base – Cub, Si Cobas, Sgb, Adl Cobas, Usi – in concorrenza con l’altra – Usb e Confederazione Cobas – alienandosi in tal modo ogni possibilità di coinvolgervi i gruppi di opposizione sindacale interni alla Cgil. Si tratterà dunque di uno sciopero ancor più minoritario e ancor più svilente dell’arma dello sciopero generale di quelli organizzati negli anni passati.
Il sabato successivo, 5 dicembre, si è svolta la ALC del Lazio. Un nostro compagno è intervenuto anche in questa occasione spiegando, fra altri punti, come uno sciopero generale non si possa ordinare “per decreto”, stabilito a freddo con eccessivo anticipo, ma debba essere il risultato di un montante movimento di lotta dei lavoratori, o una pronta risposta a un episodio politico-sociale che abbia profondamente emozionato ed eccitato le masse proletarie, rendendole disposte e pronte alla mobilitazione.
Dall’assemblea del 5 dicembre è scaturita poi una decisione organizzativa che di per sé la dice lunga circa il modo di gestire questo organismo da parte dei suoi promotori e dirigenti. Le mozioni e risoluzioni che saranno proposte dal “tavolo di presidenza” – questo il nome altisonante dato all’organo dirigente locale e nazionale della ALC – non potranno essere discusse ed elaborate collettivamente, ad esempio attraverso un gruppo di corrispondenza interno, bensì ogni proposta di modifica da parte di partecipanti alla ALC dovrà essere inviata privatamente all’estensore del documento, e membro dello stesso “tavolo di presidenza”, non portando in tal modo a conoscenza della assemblea le diverse posizioni nel merito dei punti in discussione.
Nulla di imprevisto. Sono confermati la diagnosi e l’indirizzo del nostro partito, secondo cui l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale è osteggiata dalla maggioranza delle attuali dirigenze e potrà essere perseguita solo unificando e coordinando gli sforzi delle rispettive basi, dei militanti, dei delegati e degli iscritti. Ciò per cui si è costituito il CLA, che non a caso non gode del sostegno di alcuna dirigenza sindacale.
Di fronte all’aggravarsi della crisi generale del modo di produzione capitalistico, e alla crescente concentrazione della ricchezza a un polo della società e della miseria all’altro, la classe dominante si affanna a deviare l’attenzione dei lavoratori verso obiettivi estranei alla difesa dei loro interessi.
Fra i temi ai quali ricorre la demagogia borghese di ogni latitudine in primo piano sono le tasse e il sistema fiscale. In un abusato gioco delle parti, in genere alla fazione “di destra” dello schieramento politico del capitale viene riservato il ruolo di fautori di un sistema fiscale che metta al riparo da eccessivi prelievi i profitti aziendali e riduca le tasse ai borghesi e ai proprietari fondiari, al fine, dicono, di dare incentivo agli investimenti dei privati, così garantendo la prosperità economica. La fallacia di questo ragionamento si verifica puntualmente quando, in tempi di crisi, i capitalisti rifuggono dagli investimenti nelle produzioni a causa della difficoltà di realizzare profitti accettabili e del carattere estremamente aleatorio dei guadagni attesi.
Ma questo vale anche per gli investimenti nelle industrie sotto il controllo statale, come pure per gli stanziamenti di pubblico denaro per l’ammodernamento e lo sviluppo delle infrastrutture. Al lato solo apparentemente opposto dello schieramento borghese troviamo la “sinistra progressista”, tradizionalmente fautrice di un prelievo progressivo sui redditi, la quale, quando la “economia nazionale” naviga in cattive acque, si trova in prima fila nell’invocare il farmaco polivalente che va sotto il nome di imposta patrimoniale.
Tale cura – cui anche da parte dell’opportunismo politico-sindacale di ogni tendenza si riconosce un effetto prodigioso – oltre a rimpolpare le finanze pubbliche salvando lo Stato dalla bancarotta, darebbe il “buon esempio” ai lavoratori-contribuenti, i cui salari sono decurtati dalle tasse direttamente in busta paga. Inoltre questo atto di “suprema giustizia”, colpendo le grandi ricchezze, metterebbe al riparo da nuove tasse il proletariato e le mezze classi.
Nello stesso tempo ogni fazione della classe dominante si impegna a propugnare, a chiacchiere, una politica fiscale che suoni allettante al proprio elettorato. In Italia un deputato di Sinistra Italiana e uno del Pd hanno voluto strafare con una proposta di legge per l’utilizzo dell’imposta patrimoniale a copertura finanziaria dell’abolizione della tassa sulle seconde case, l’Imu. La “sinistra parlamentare”, per conquistare il voto della piccola borghesia e dei piccoli proprietari, rinuncia al suo antico cavallo di battaglia che era la defiscalizzazione dei redditi da lavoro. Ma niente paura: la proposta è stata dichiarata inammissibile dalla Commissione Bilancio della Camera dei Deputati con la motivazione dell’assenza di copertura finanziaria, del tutto paradossale per una nuova tassa!
Ma anche esponenti “di destra” starnazzano contro le tasse “sulle famiglie e le imprese”, allineati contro “le grandi ricchezze”.
A questo panorama si aggiunge però un’altra schiera di fautori dell’imposta patrimoniale, quella che maggiormente ci inquieta perché rischia di avere un’influenza deleteria nell’indirizzo della lotta proletaria. Si tratta di quelle tendenze del sindacalismo, in particolare di quello conflittuale, che ripropongono in maniera tanto pertinace quanto incosciente la richiesta, all’interno delle rivendicazioni di lotta operaie, di una patrimoniale “per fare pagare la crisi ai padroni”.
Tali tendenze sostengono che questa rivendicazione, oltre a richiamare alla lotta un numero più cospicuo di lavoratori, sopravanzerebbe per radicalità le proposte delle varie fazioni borghesi. Si tratta, in sostanza, di una riedizione del “programma di transizione” caro alla tradizione dei trotskisti, secondo cui tali rivendicazioni svolgerebbero la funzione di “ponte” verso la rivoluzione sociale. Il risultato invece sarebbe del tutto opposto, il proletariato non ne verrebbe sospinto affatto su atteggiamenti “rivoluzionari”, viceversa sarebbe incanalato nell’alveo del dibattito democratico, dominato dalle fazioni borghesi, su tematiche del tutto interne alle compatibilità del capitalismo.
Anzi, nel caso della patrimoniale, al capitalismo è favorevole. Sarà lo stesso Stato borghese, quando vi sarà costretto da ragioni di cassa, a organizzare un congruo prelievo dalle tasche di piccoli, medi e grandi borghesi, in nome della difesa del regime del capitale. Contro la Proprietà, appunto, e contro gli stessi borghesi, ma a difesa del Capitale. Lo ha già fatto (come il nazismo in Germania), e lo farà di nuovo.
La faccenda quindi non riguarda la classe lavoratrice, sulle cui condizioni di vita e di lavoro la patrimoniale non influirà.
Leggiamo ad esempio su entrambe le mozioni conclusive votate dall’Assemblea nazionale dei Lavoratori Combattivi che si è tenuta il 29 novembre, la seguente lista di rivendicazioni: «riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario; una patrimoniale sulle grandi ricchezze; un salario medio garantito a occupati e disoccupati, eliminando contratti precari e paghe da fame; l’eliminazione del razzismo istituzionale». Nell’ostinarsi quasi all’unanimità su di una simile macedonia di rivendicazioni, i due schieramenti si sono poi divisi sulla data dello sciopero che, se vuole essere davvero “generale”, non si può decidere a tavolino con troppo anticipo.
La regia ha voluto terminare la discussione con la conta di voti su due mozioni diverse solo nella data dello sciopero. In realtà in questione era la scelta di accettare o no che il baricentro dell’ALC sia il gruppo dirigente del SICobas. Il nostro partito aborrisce questi metodi, è del tutto estraneo a questo genere di schermaglie, in cui non si parla franco per timore di perdere un equilibrio, una mediazione.
Per altro questo tipo di conduzione dell’ALC non aiuterà il SICobas a rompere l’isolamento sindacale. E non metterà in discussione il controllo dei sindacati di regime sulla stragrande maggioranza dei lavoratori in Italia. Non darà coraggio e fiducia ai lavoratori. Al contrario, farà crescere la sfiducia dei lavoratori ancora non sindacalizzati o isolati nei posti di lavoro.
Contro entrambe queste mozioni hanno votato soltanto i compagni del Coordinamento dei Lavoratori Autoconvocati per l’Unità della Classe. Un voto contrario che non vuol indicare una terza via fra l’una e l’altra proposta ma una contrarietà sul metodo, e prefigurandone un altro: un vero confronto sindacale, aperto al processo di quella necessaria fraternizzazione proletaria che darà corpo alla riorganizzazione della difesa immediata della classe.
Il Regno Unito è alle prese con la seconda ondata della pandemia di Covid-19. La gestione delle restrizioni sulla popolazione è stata lasciata alle amministrazioni decentrate in Scozia, Galles e in Irlanda del Nord, mentre l’Inghilterra resta sotto il controllo di Westminster.
Il primo blocco a marzo per limitare la diffusione della malattia ha chiuso tutte le attività e i servizi non essenziali. Il governo ha varato misure per concedere un sostegno ai lavoratori regolari licenziati, mentre anche molti padroni si sono affrettati a richiedere questo sussidio in base alla forza lavoro impiegata. Lo Stato avrebbe dovuto pagare l’80% dei salari, fino a un limite fisso, inizialmente fino alla fine di settembre, cosa poi prorogata fino alla fine di ottobre. Ma il ministro del tesoro ha dichiarato che il nuovo provvedimento non sarebbe stato così generoso, e che i licenziati avrebbero ricevuto solo i due terzi dei salari, per lo più pagati dallo Stato. Dopo le lamentele dei datori di lavoro, del Partito Laburista e dei sindacati, il contributo ai licenziati è stato esteso fino alla fine di marzo 2021.
Entro la fine dell’estate i licenziamenti erano già in atto nei settori delle linee aeree, turismo e della distribuzione, poiché il declino dell’attività economica ha portato al fallimento delle imprese. I licenziamenti e i disoccupati stavano aumentando a centinaia di migliaia.
I conservatori e i rappresentanti delle imprese hanno allora lamentato che il blocco nazionale era troppo restrittivo, in quanto alcune aree erano meno colpite dall’epidemia e dunque alcune imprese avrebbero potuto proseguire la propria attività. In seguito a queste lamentele è stato introdotto un approccio localizzato e decentrato riguardo agli spostamenti e ai contatti personali. Ognuno dei quattro Paesi del Regno Unito ha stabilito i propri livelli di restrizioni: l’Inghilterra ne ha tre, la Scozia cinque, il Galles ha optato per un coprifuoco di 17 giorni conclusosi di recente, mentre l’Irlanda del Nord è impegnata ad adottare sue severe misure.
In Inghilterra il sistema dei tre livelli è stato inizialmente applicato all’area della Grande Liverpool, rapidamente esteso al Lancashire centrale, a Manchester, poi, più in generale, a tutto il nord dell’Inghilterra. Londra e altre aree sono state spostate al secondo livello, seguite da altre regioni. Infine Westminster ha ordinato un altro lockdown nazionale di quattro settimane, finito il 2 dicembre.
A ciò in molte regioni si sono aggiunti i test di massa, in alcuni casi con la mobilitazione dell’esercito.
Il piano del governo di un sostegno fino a tutto marzo 2021 è stato accolto con entusiasmo da tutti i settori della classe capitalista, dalle imprese al Partito Laburista ai capi sindacali. Sono state stanziate ingenti somme per mantenere in piedi l’economia (soprattutto i padroni). È per il futuro delle imprese capitaliste che si preoccupano, mentre i lavoratori dovranno arrangiarsi. A pagare tutto, ciò nelle intenzioni del grande capitale, saranno il proletariato e la piccola borghesia. Ma il ministero del tesoro ha già suggerito un congelamento di tre anni delle retribuzioni nel settore pubblico, col pretesto che c’è stato un calo dei salari nel settore privato. Per rimettere in moto l’economia il piano è quello di spingere i disoccupati verso qualsiasi posto di lavoro.
Che fine farà la Brexit è tutt’altro che chiaro, ma la primavera vedrà forse un surriscaldamento, non certo solo del clima ma anche della lotta di classe.
L’Indonesia è il quarto paese più popoloso al mondo, con 267 milioni di abitanti, e la più grande economia del Sud-Est asiatico. Ma si trova in condizioni di svantaggio rispetto alle altre, specialmente con il Vietnam, dove la gestione economica particolarmente centralizzata consente alla borghesia di fornire ai capitalisti stranieri molto più terreno e incentivi.
Questa concorrenza spaventa la borghesia nazionale indonesiana ansiosa di valorizzare il proprio capitale con il contributo di 153 investitori stranieri. Questi a loro volta trovano nella presidenza e nel parlamento indonesiani il loro ideale comitato d’affari, confidando perciò compattamente nel loro appoggio, si muovono nella direzione dei loro interessi, opposti a quelli dei proletari.
L’anno 2019, da maggio a ottobre, era già stato attraversato da scioperi, manifestazioni e rivolte di massa, tali che non si vedevano dall’epoca dei disordini del 1998 che avevano causato la caduta del dittatore Suharto e il potere dei militari, in carica dal colpo di Stato del 1965, e dal massacro della sinistra indonesiana.
Le rivolte sono iniziate nel maggio 2019, dopo le elezioni che hanno portato al potere Joko Widodo, accusato di averle truccate. Sono seguite altre rivolte e manifestazioni contro emendamenti repressivi del codice penale, poi da una rivolta in Papua; di nuovo dallo sciopero degli studenti di 300 università contro la corruzione del regime, con rivolte, anche lì; nuovamente con massicce manifestazioni e scioperi di lavoratori contro le nuove leggi antioperaie che criminalizzano gli attivisti e facilitano i licenziamenti; e ancora per lo stesso obiettivo il 20 gennaio 2020 c’è stata la minaccia dei sindacati, per quanto poco radicali, di rinnovare questo movimento, concretizzatasi in una gigantesca manifestazione il 30 aprile, nonostante il Covid19, che ha preso di mira il parlamento nazionale dando così un carattere politico al movimento dei lavoratori.
All’inizio del 2020 la stampa ammoniva che il vulcano sociale non era lontano dall’eruzione. Di fronte alla minaccia della manifestazione del 30 aprile il governo ha cercato di mostrare i muscoli vietando la manifestazione con il pretesto del virus.
Nei mesi compresi tra marzo e ottobre 2020 il Covid19 ha colpito il paese più di qualsiasi altro nella regione, con 320.000 contagi e 6 milioni di nuovi disoccupati, che si aggiungono ai 7 già esistenti. I nuovi lavoratori che ogni anno entrano a far parte della forza lavoro sono 3 milioni.
Di fronte alla epidemia il governo non ha attuato un contenimento sanitario generalizzato, con l’obiettivo primario di mantenere l’attività produttiva, imponendo uno stato di polizia nelle regioni e in particolare a Jakarta.
Nella capitale la situazione avrebbe potuto esplodere. In questa città di 30 milioni di abitanti, 4 milioni sono ammassati negli slum con una dimensione media abitativa di 9 metri quadri per famiglia e con solo pochi punti di accesso all’acqua. Evidentemente possibilità di distanziamento fisico nulla. Jakarta ha per altro una rete di hotel di lusso con ospedali privati e test per tutti i clienti.
Il governo ha quindi chiesto ai lavoratori di non contagiare i ricchi, confinando i poveri negli slum, chiudendo loro quasi tutte le uscite tranne che per andare ad acquistare gli alimenti e a lavorare.
Infine il 30 aprile ha ceduto alla paura e, coinvolgendo la leadership sindacale nelle discussioni, ha sospeso le leggi antioperaie – decisione accolta dai lavoratori come una grande vittoria. Un precedente tentativo delle istituzioni, nel 1997, di modifica della legislazione del lavoro nello stesso senso dell’attuale, presentato dalla borghesia sotto forma di un corpo di leggi meno ambizioso e più limitato, fallì miseramente per l’opposizione ferma e intransigente del proletariato.
Ma presto, dopo il 30 aprile, il regime borghese è tornato alla carica. Il 5 ottobre la Camera dei Rappresentanti della Repubblica ha varato in via definitiva una nuova legge “sulla creazione di posti di lavoro” (in realtà sulla eliminazione di posti di lavoro), un ponderoso insieme di misure, 186 articoli per oltre 900 pagine!
Fra i punti fondamentali che riguardano direttamente la classe operaia: l’abolizione dei limiti delle ore di lavoro notturno, l’aumento a 4 delle ore giornaliere di straordinario, l’abolizione dei permessi di maternità, matrimonio, battesimi, funerali, mestruazioni per le donne, la riduzione dell’indennità di licenziamento da 32 a 25 mensilità, di cui 19 pagate dalle aziende e 6 da una nuova assicurazione per i disoccupati finanziata dallo Stato, la rimozione delle preesistenti restrizioni al lavoro degli immigrati, l’incremento del subappalto, la conversione dei salari da mensili a orari, nessun diritto di stabilizzazione per i precari né limiti ai periodi di precarietà. Ciò si tradurrebbe nell’impossibilità per i lavoratori giovani di trovare impieghi che prevedano pensioni e assistenza.
La legge è stata anche presentata dal ministro delle finanze Indrawati come lo strumento adatto a garantire «un approccio equilibrato tra sindacati e imprenditori». Questi hanno quale unica organizzazione riconosciuta la Apindo, depositaria di un potere di classe centralizzato. Fa eccezione la CCITL, la Camera di Commercio e dell’Industria di Timor Est, unica rappresentante dei capitalisti per quella zona.
Tali concentrazioni padronali controllano, tramite la coalizione di Widodo, il 74% dei seggi del Parlamento. La coalizione è a sua volta l’interprete di una larga fetta di investitori stranieri. A questi le vecchie regole imponevano di compensare i lavoratori licenziati o rimasti senza lavoro per il fallimento dell’impresa, limiti alle assunzioni informali, insomma all’attrattiva degli investimenti nel paese.
Oltre a colpire i lavoratori altri ambiti sarebbero interessati dal provvedimento: la protezione delle piccole e medie imprese e delle cooperative, la ricerca e l’innovazione, le facilitazioni allo svolgimento delle attività produttive, la compravendita dei terreni, la regolamentazione delle attività economiche, gli investimenti del Governo centrale e i progetti strategici d’interesse nazionale, l’amministrazione pubblica.
L’obiettivo dichiarato sarebbe lo “snellimento”, ritenuto non più rinviabile, delle norme che nel paese hanno regolato il sistema produttivo e gli assetti giuridici della proprietà. Il provvedimento investe quindi una serie di componenti sociali più ampia della sola forza lavoro, rendendolo un tentativo di riforma della società e del capitalismo indonesiani.
Un altro ambito di intervento della nuova legge è quello fondiario. Si verrebbe a fondare una Banca Nazionale Fondiaria; tale istituto, che dovrebbe essere sotto controllo pubblico, avrebbe il potere di espropriare terreni ed edifici inutilizzati, lotti abbandonati e campi incolti: quelli non utilizzati dai proprietari o dagli affittuari nei due anni precedenti la richiesta di acquisizione. Tale mossa viene propagandata come finalizzata a “umanizzare lo sfruttamento” ponendo l’accento tanto sugli alti canoni di locazione pagati dagli affittuari quanto sulla “mancanza di riposo, che li rende meno produttivi” dei contadini.
Sebbene i capitalisti indonesiani condividano largamente gli scopi della legge, alcune fazioni borghesi rivali a quella cui fa capo il governo attuale del presidente Joko Widodo hanno sollevato un moto sociale diffuso, facendo leva sulla opposizione al tentativo di Widodo di varare nel 2019 un decreto che rendeva illegali i rapporti sessuali tra coppie non sposate, nonché le relazioni omosessuali, discriminando questi a tutti i livelli e in qualsiasi ambiente di lavoro.
La protesta ha poi interessato anche gli ambientalisti, contro alcune parti della legge che cancellano la valutazione di impatto ambientale per i nuovi progetti, e smantellano i precedenti tentativi di bloccare gli incendi delle foreste. In generale la spinta liberalizzatrice del decreto ai processi già in atto di devastazione ambientale costituisce un ulteriore elemento di controversia tra le fazioni borghesi, incluse quelle preoccupate dei danni al patrimonio delle foreste tropicali del paese: una di queste fazioni è quella costituita da 35 investitori internazionali, tra i quali Aviva Investors, Legal & General Investment Management e Church of England Pensions Board, che hanno espresso preoccupazioni per il “rischio di infrazione dei regolamenti internazionali”.
Tuttavia la reazione più decisa contro la riforma è stata quella guidata dai lavoratori, scesi in piazza contro la sua ratifica, con un programma di scioperi sfociati nel grande sciopero nazionale il 10 ottobre, cui ha aderito la maggior parte delle principali sigle sindacali.
L’evento centrale della mobilitazione è stato lo sciopero di tre giorni, da martedì 6 a giovedì 8 ottobre, indetto inizialmente dalla confederazione sindacale Kasbi e che ha visto scendere in sciopero per primi gli operai della Federazione dei Lavoratori Metallurgici.
La riuscita delle mobilitazioni per affossare il decreto del 2019, ha illuso le fazioni padronali oppositrici della attuale presidenza di poter replicare oggi quanto avvenuto allora, contando sulle parole d’ordine borghesi della difesa dei profitti, dell’ordine pubblico e della democrazia, evitando di mettere in moto la forza proletaria e il suo strumento di lotta, lo sciopero.
La scesa in campo dei lavoratori ha mandato all’aria tali velleità, in una battaglia dove la classe operaia ha occupato il centro dello scontro, guidandolo e organizzandolo per mesi e progressivamente estesosi a tutto il paese. La protesta ha trascinato dietro ai lavoratori e a 33 organizzazioni sindacali anche disoccupati, studenti e organizzazioni non governative.
Le proteste sono state precedute dalla presentazione al Tribunale Amministrativo di Jakarta di una denuncia per incostituzionalità contro il provvedimento: le tre ONG promotrici intendevano evidentemente circoscrivere la risposta al piano legale.
Iniziali proteste pacifiche si sono viste a livello nazionale a partire dal 3 ottobre. Sono state tollerate in alcune regioni, represse in altre. Nella capitale Jakarta la polizia ha negato l’autorizzazione a manifestare e ai cortei di entrare in città. Si sono avuti degli scontri a Palmerah, una delle cinque unità amministrative in cui è suddivisa la capitale. Negli scontri a Bandung durante le manifestazioni del 6 e 7 ottobre si sono avuti 209 arresti. L’8 ottobre gli scontri hanno raggiunto il centro di Jakarta, dove centinaia di manifestanti, tra i quali i lavoratori dell’Astra Honda, hanno gridato e lanciato pietre contro il palazzo presidenziale, respinti dalla Polizia, che ha fatto 800 arresti.
Il 9 ottobre le proteste si sono allargate a 12 città del paese, inclusa la remota area del North Mauku, dove i dimostranti hanno messo in scena funerali farsa e portato bare in corteo, a simboleggiare la morte del Parlamento.
Il regime è ricorso anche alla retorica sanitaria: lo stesso presidente Widodo ha affermato che «le folle, in condizioni di intenso coinvolgimento emotivo e di distanza ravvicinata, sono inclini a non indossare le mascherine». In realtà la situazione sanitaria dei proletari di Jakarta è particolarmente minacciata, fra l’altro, dall’alta percentuale di pendolarismo, dovuta alla crisi abitativa che rende impossibile a molti lavoratori alloggiare nella capitale in cui si devono recare ogni giorno con mezzi di trasporto affollati.
Le manifestazioni di protesta a Jakarta sono proseguite il 13 ottobre. Il Movimento del Lavoro di Jakarta (GBJ) ha allora annunciato un piano per la prosecuzione degli scioperi, a cadenza settimanale, per il 15 e il 22 ottobre.
Oltre al Kasbi, fondato nel 2005, i principali sindacati indonesiani sono al momento: la KSPSI Rekonsiliasi (Confederazione Pansindacale Indonesiana Riconciliazione), la KSPSI Kongres Jakarta (Confederazione Pansindacale Indonesiana Congresso), la CITU (Confederazione dei Sindacati Indonesiani), e la KSBSI (Confederazione dei Sindacati per la Prosperità Indonesiana).
L’organizzazione più forte nella regione di Timor Est è invece la KSLT (Confederazione delle Unioni Sindacali).
Tutte queste sigle lamentano limiti nelle libertà di organizzazione, la mancanza di protezione dei lavoratori immigrati e di contrasto al lavoro schiavista e minorile, disuguaglianze di genere, carenze di sicurezza sul lavoro e nella prevenzione e provvidenze sociali.
Anche in questa occasione il proletariato, che è passato nuovamente all’offensiva per respingere la peggiore offensiva di classe sferratagli dalla borghesia indonesiana nell’arco degli ultimi decenni, ha controbattuto colpo su colpo scavalcando i tentativi delle forze borghesi di bloccarlo o di deviarlo verso sterili binari democratici, congeniali a una parte di esse, per fiaccarne la determinazione.
La durata di questa battaglia, la sua estensione e il suo sviluppo sono perciò un esempio per tutto il proletariato mondiale, da cui apprendere lezioni preziose e durature su come riuscire a prevalere nello scontro di classe che lo oppone alla borghesia mondiale.
Il 6 novembre oltre 800 infermieri del St. Mary’s Medical Center nella contea di Buck, insieme ad oltre 260 loro colleghi del Mercy Fitzgerald Hospital nella contea del Delaware, coordinati dalla Pennsylvania Association of Staff Nurses and Allied Professionals (PASNAP) – l’Associazione del personale infermieristico e professionisti affini della Pennsylvania – hanno annunciato, con 10 giorni di anticipo, l’intento di scendere in sciopero presso il Trinity Health, società madre dei due ospedali.
Il Mercy Fitzgerald Hospital, di fronte alla minaccia dello sciopero, ha ceduto alle rivendicazioni dei lavoratori: un graduale aumento dei salari e ampliamento del personale. Il St. Mary’s Medical Center invece non ha riconosciuto le stesse migliorie sicché i suoi dipendenti sono scesi in sciopero come previsto il 16 novembre. Le intenzioni erano di astenersi dal lavoro per 2 giorni, ma la proprietà, dopo aver assunto personale temporaneo presso un’agenzia in sostituzione degli scioperanti, ha poi imposto la serrata per i successivi 3 giorni.
I due ospedali hanno patito carenza di personale e problemi nel turnover da quando Trinity Health ne ha assunto il controllo. Tutto ciò ovviamente per aumentare i profitti, intensificando i carichi, licenziando e abbassando i salari. Non è un caso che il St. Mary Medical Center sia per Trinity Health una dei più redditizi della regione.
La lotta di questi lavoratori non era incentrata sui salari ma sulla carenza e rotazione del personale: perciò quando il St. Mary ha proposto solamente un aumento salariale hanno rifiutato la proposta. La carenza di personale infatti si traduce in eccesso dei carichi di lavoro: per ogni infermiere al St. Mary c’erano in media da 5 a 6 pazienti, con ovvie ricadute sulla loro cura. Sono state fatte negli anni varie segnalazioni da parte degli infermieri del St. Mary dell’alto tasso di mortalità dei pazienti. Un altro, ennesimo, esempio dell’antagonismo tra merce e vita umana.
Terminato lo sciopero sono ora in corso al St. Mary le trattative per un nuovo contratto, per ora senza risultati.
Va considerato che il PASNAP non ha chiamato allo sciopero i lavoratori del Mercy Fitzgerald in solidarietà coi colleghi del St. Mary, affinché le migliorie loro accordate fossero estese anche al St. Mary. Questo è stato un errore. Il capitale è fortemente concentrato nelle mani di poche imponenti aziende, il che significa che esse possono in molti casi affrontare facilmente scioperi localizzati in singoli posti di lavoro. L’unità della classe operaia è più che mai necessaria e questo significa organizzare scioperi simultanei, in più settori, in più imprese.
Un altro punto da tenere presente è che lo sciopero al St. Mary non era a tempo indeterminato: doveva durare solo 2 giorni. Una grande azienda come la Trinity Health può senza problemi assumere crumiri e resistere per più giorni uscendone relativamente indenne. Le imprese che offrono servizi di crumiraggio sono costose: uno sciopero a tempo indeterminato avrebbe potuto spingere Trinity a considerare la resa.
Infine, durante il picchetto di St. Mary, sono intervenuti un rappresentante dell’AFL-CIO e un rappresentante delle istituzioni statali, offrendo il loro “aiuto e appoggio”, tentando di arruffianarsi lavoratori e sindacato. Questi imbonitori pugnaleranno alle spalle i lavoratori quando rappresenteranno una vera minaccia per i padroni.
Alcuni dati per capire di cosa stiamo parlando. Il 27 novembre il New York Times riportava che nei primi 10 mesi del 2020 il colosso delle vendite on-line aveva assunto 427.300 lavoratori portando i suoi dipendenti a 1,2 milioni. Dai circa 350.000 del 2017 la crescita è impressionante, portando l’azienda al terzo posto nel mondo dopo Walmart, gigante della grande distribuzione, che occupa circa 2,2 milioni di lavoratori, e la China National Petroleum con 1,3 milioni. Numeri che dovrebbero bastare a smentire chi sostiene che non esiste più la classe operaia. Amazon è quotata al Nasdaq, la borsa dei titoli tecnologici di New York, con una capitalizzazione di 1,3 miliardi di dollari. Nella lista dei PIL dei vari Stati si troverebbe al tredicesimo posto, vicina a Spagna, Australia, Russia, Corea del Sud e Canada. Sì, la borsa è solo una grande lotteria per ricchi, un castello di carta che il cerino della crisi ridurrà in cenere, ma qui dà il senso delle proporzioni.
Un colosso simile inevitabilmente solleva delle maree, che investono dalla economia mondiale fino a varie emozioni, rancori e ideologie.
L’ultima in ordine di tempo è la “petizione” #NoëlSansAmazon ("Natale senza Amazon"), in cui i sottoscrittori invitano a non usare l’azienda di Jeff Bezos per l’acquisto dei regali, privilegiando invece i negozi di quartiere. Lunga la lista dei firmatari, dal sindaco “socialista” di Parigi, Anne Hidalgo, a diversi intellettuali della “sinistra” francese e personalità del mondo della cultura e della politica. Tra i firmatari c’è anche José Bové, il leader dei “no global” francesi che una ventina d’anni fa divenne celebre per la lotta contro i McDonald’s. La ghiotta occasione non potevano farsela scappare i populisti di qua delle Alpi: Salvini attraverso il suo brillante “staff social-media“ ha “postato” su Facebook e Twitter un “sondaggio” dove chiede ai seguaci se sia “giusto” boicottare Amazon. «I regali li compro sotto casa, piuttosto che con un clic», dice. Mentre Maurizio Gasparri di Forza Italia condivide “totalmente” l’idea, Giorgia Meloni se la prende col Black Friday: «una giornata nera per i nostri imprenditori, compriamo italiano».
Ma anche in Italia i “sinistri” sono sulla stessa lunghezza d’onda e la lista non entrerebbe nelle pagine di questo giornale. Il soccorso alla piccola borghesia ha consenso trasversale.
Le leggi economiche insite nel sistema di produzione capitalistico nel loro svolgersi ineluttabile portano le mezze classi alla rovina, come previsto ampiamente dal marxismo. Se si accetta il capitalismo si deve accettare questo fenomeno, non separabile da questo modo di produzione. La centralizzazione della produzione e di conseguenza della distribuzione non sono fatti del caso o della ingordigia di alcuni, ma sono il prodotto delle leggi della concorrenza e della riduzione di costi.
Se è vero che in certe fasi del ciclo economico, e in alcuni paesi, la forte crescita ha permesso il proliferare e l’ingrassarsi di una piccola borghesia, le crisi, come quella iniziata qualche decennio fa, scatenano una concorrenza sfrenata che portano le aziende più grosse a soffocare le piccole.
La necessità per il capitale di accelerare la creazione del valore ha spinto verso organizzazioni della logistica e della distribuzione sempre più vaste ed efficaci. Amazon è un eccellente esempio di questo processo e riprova della descrizione marxista del capitalismo.
Ma, al di fuori di ogni sentimentalismo e idealismo, per il marxismo lo sviluppo delle forze produttive è un fatto oggettivo, che osserva e descrive. Il suo risultato, anche nei suoi talvolta tragici effetti, è però socialmente positivo. Le forze produttive, nel loro potenziarsi, sempre con maggiore difficoltà riescono a essere contenute all’interno dei vecchi rapporti di produzione e spingono per nuove forme. Questo trapasso è avvenuto nelle epoche storiche che si sono succedute. Anche la futura società comunista potrà usufruire del progresso della tecnica già sviluppata dal capitalismo, non più per accrescere all’infinito l’accumulazione del profitto ma per favorire la soddisfazione delle necessità della specie umana in modo più pieno, soddisfacente, bello, completo e complesso.
Questo passaggio non sarà automatico, necessita di un passaggio politico, della presa rivoluzionaria del potere e della dittatura del proletariato.
Oggi i prodigi della tecnica che anche Amazon impiega sono utilizzati solo per la ricerca sfrenata, quanto inevitabile, del profitto. Ma in essi la società futura è già pronta, a portata di mano. Lo sviluppo di sistemi di comunicazione come internet, della logistica nella distribuzione come in Amazon, l’aumentare della robotica nei processi produttivi e distributivi, prefigurano già una società comunista. Anche se oggi, in mano alla borghesia, non sono altro che strumenti infernali che schiacciano la internazionale classe lavoratrice.
I comunisti quindi non si perdono a “boicottare Amazon”, in una difesa, per altro disperata, dei piccoli commercianti, ma puntano alla difesa delle condizioni di vita e di lavoro, che internazionalmente sono assai dure, di chi in quella azienda lavora. Contratti precari, ritmi forsennati, ricattabilità perenne sono tipiche dell’infernale mondo di Amazon. I comunisti si rivolgono a quei lavoratori perché si organizzino nella loro difesa, che è la stessa dei lavoratori della Walmart e della China Petroleum, nonché della classe lavoratrice mondiale.
Perché i comunisti sanno che arriverà un giorno in cui per la semplice richiesta di migliorie salariali e delle condizioni di vita e di lavoro il proletariato si troverà a dover fronteggiare sempre più duramente questo sistema e, sotto la guida del suo partito, fino al suo abbattimento.
PAGINA 5
14. Lenin di “Stato e Rivoluzione”
Rapporto esposto alla riunione di Firenze nel settembre 2018
I socialsciovinisti e i centristi, poi i riformisti, tutti apparenti tutori dell’ortodossia marxista, in realtà abbandonano la dialettica per l’eclettismo. Lenin ne dà un’esatta descrizione, che ci fa venire in mente altri traditori rivendicanti l’ortodossia marxista, cioè gli stalinisti e i loro collaborazionisti togliattiani: «Nella falsificazione opportunista del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più facilità le masse, dà loro una apparente soddisfazione, finge di tener conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contraddittorie ecc., ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria del processo di sviluppo della società».
Torniamo
all’”Antidühring”:
«Solo
con sospiri e gemiti egli ammette la possibilità che per abbattere
l’economia dello sfruttamento sarà forse necessaria la violenza...
purtroppo! Infatti [secondo Dühring] ogni uso di violenza
demoralizza colui che la usa. E questo di fronte all’elevato
slancio morale e intellettuale che è stato il risultato di ogni
rivoluzione vittoriosa! (...) E questa mentalità da predicatore,
fiacca, insipida e impotente, ha la pretesa di imporsi al partito più
rivoluzionario che la storia conosca?».
Ancora
Lenin:
«La
dottrina di Marx e di Engels sulla necessità della rivoluzione
violenta si riferisce allo Stato borghese. Questo non può essere
sostituito dallo Stato proletario (dittatura del proletariato)
per via di “estinzione”; può esserlo unicamente, come regola
generale, per mezzo della rivoluzione violenta.
«La
necessità di educare sistematicamente le masse in questa – e
precisamente in questa – idea della rivoluzione violenta, è alla
base di tutta la dottrina di Marx e di Engels. Il tradimento della
loro dottrina perpetrato dalle tendenze social sciovinista e
kautskiana oggi dominanti si esprime con particolare rilievo
nell’oblio di questa propaganda, di questa agitazione da parte
dell’una e dell’altra. La sostituzione dello Stato proletario
allo Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta. La
soppressione dello Stato proletario, cioè la soppressione di ogni
Stato, non è possibile che per via di “estinzione”».
Questi spiriti nobili a cui fa orrore la violenza, hanno in realtà orrore solo per quella esercitata dai proletari, dato che prima o poi finiscono sempre con l’accettare la guerra per la difesa della patria, in cui i proletari dei diversi paesi si scannano tra di loro. Oggi che la borghesia ha raggiunto vette di raffinatezza linguistica e concettuale, non ci sono più guerre, ma “operazioni di pace internazionali” o “missioni di polizia internazionali contro il terrorismo”. Una sola di queste “operazioni di pace”, condotta dagli Stati Uniti e dai loro vassalli contro l’Iraq alcuni anni fa, sembra abbia provocato da mezzo ad un milione di morti. La pace della borghesia, oggi come ieri, è la pace dei cimiteri.
Sempre
Lenin:
«L’essenza
della dottrina dello Stato di Marx può essere compresa fino in fondo
soltanto da colui che comprende che la dittatura di una sola
classe è necessaria non solo per ogni società classista in
generale, non solo per il proletariato dopo aver abbattuto la
borghesia, ma per un intero periodo storico, che separa il
capitalismo dalla “società senza classi”, dal comunismo. Le
forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la
loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono in un modo o
nell’altro, ma, in ultima analisi, necessariamente, una
dittatura della borghesia. Il passaggio dal capitalismo al comunismo,
naturalmente, non può non produrre un’enorme abbondanza e
varietà di forme politiche, ma la sostanza sarà inevitabilmente una
sola: la dittatura del proletariato».
La Comune di Parigi occupa una posizione centrale nella teoria comunista dello Stato e della rivoluzione. Nel Secondo Indirizzo del Consiglio Generale dell’Internazionale sulla guerra franco-prussiana, del 9 settembre 1870, Marx scrive: «Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia».
Quando
nel marzo 1871 gli operai furono costretti ad accettare la battaglia,
Marx non fece il pedante, non fece il professore, non disse “ve
l’avevo detto”, ma salutò con entusiasmo la rivoluzione. Scrive
Lenin:
«Nel
momento rivoluzionario delle masse, benché esso non avesse
raggiunto il suo scopo, Marx vide una esperienza storica di enorme
importanza, un sicuro passo in avanti della rivoluzione proletaria
mondiale, un tentativo pratico più importante di centinaia di
programmi e di ragionamenti. Analizzare questa esperienza, ricavarne
delle lezioni di tattica, rivedere, sulla base di questa
esperienza, la sua teoria – questo fu il compito che Marx si pose.
L’unico “emendamento” che Marx giudicò necessario apportare al
Manifesto del Partito comunista, lo fece sulla base dell’esperienza
rivoluzionaria dei comunardi di Parigi. L’ultima prefazione a
una nuova edizione tedesca del Manifesto del Partito Comunista
firmata insieme dai due autori porta la data del 24 giugno 1872. In
questa prefazione Karl Marx e Friedrich Engels dicono che il
programma del Manifesto del Partito comunista “è oggi qua e là
invecchiato”.
«La
Comune, specialmente – essi aggiungono – ha fornito la prova
che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e
semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in
moto per i suoi propri fini” (...) Spezzare la macchina burocratica
e militare: in queste parole è espresso in modo incisivo
l’insegnamento principale del marxismo sui compiti del proletariato
nella rivoluzione per ciò che riguarda lo Stato. E proprio questo è
l’insegnamento che non solo è stato del tutto dimenticato, ma
addirittura deformato dalla ”interpretazione” dominante,
kautskiana, del marxismo».
È
inevitabile continuare a citare Lenin e il suo “Stato e
rivoluzione”:
«Con
che cosa sostituire la macchina statale spezzata? A questa domanda
Marx non dava ancora, nel 1847, nel “Manifesto del Partito
Comunista”, che una risposta puramente astratta; per meglio dire
indicava i problemi e non i mezzi per risolverli. Sostituire la
macchina dello Stato spezzata con l’”organizzazione del
proletariato come classe dominante”, con la “conquista della
democrazia”: questa era la risposta del “Manifesto del Partito
Comunista”. Senza cadere nell’utopia, Marx aspettava
dall’esperienza di un movimento di massa la risposta alla
questione: quali forme concrete avrebbe assunto questa organizzazione
del proletariato come classe dominante e in che modo precisamente
questa organizzazione avrebbe coinciso con la più completa e
conseguente “conquista della democrazia”. Nella “Guerra
civile in Francia” Marx sottopone l’esperienza della
Comune, per quanto breve essa sia stata, a un’analisi attentissima.
Citiamo i passi principali di questo scritto:
«Nel
secolo decimo nono, trasmesso dal medioevo, si sviluppava il potere
statale centralizzato, con i suoi organi ovunque presenti: esercito
permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura. A misura che
l’antagonismo di classe tra capitale e lavoro si accentuava il
potere dello Stato assumeva sempre più il carattere (...) di forza
pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento
di dispotismo di classe. Dopo ogni rivoluzione che segnava un
passo avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo
dello Stato risultava in modo sempre più evidente. Dopo la
rivoluzione del 1848-1849 il potere dello Stato diviene uno strumento
pubblico di guerra del capitale contro il lavoro. Il Secondo Impero
non fa che consolidarlo. La Comune fu l’antitesi diretta
dell’Impero. Fu la forma positiva di una repubblica che non avrebbe
dovuto eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe,
ma lo stesso dominio di classe.
«In
che cosa consisteva questa forma “positiva” di repubblica
proletaria, socialista? Quale era lo Stato ch’essa aveva cominciato
a creare? ”Il primo decreto della Comune fu la soppressione
dell’esercito permanente, e la sostituzione ad esso del popolo
armato”. Questa rivendicazione figura oggi nel programma di tutti i
partiti che desiderano chiamarsi socialisti. Ma quel che valgono i
loro programmi lo dimostra nel modo migliore la condotta dei nostri
socialisti-rivoluzionari e dei nostri menscevichi che, appunto dopo
la rivoluzione del 27 febbraio, di fatto si rifiutarono di attuare
questa rivendicazione! (...)
«La
Comune avrebbe dunque “semplicemente” sostituito la macchina
statale spezzata con una democrazia più completa: soppressione
dell’esercito permanente, assoluta eleggibilità e revocabilità di
tutti i funzionari. In realtà ciò significa “semplicemente”
sostituire – opera gigantesca – a istituzioni di un certo tipo
altre istituzioni basate su principi diversi. È questo precisamente
un caso di “trasformazione della quantità in qualità”: da
borghese che era, la democrazia, realizzata quanto più pienamente e
conseguentemente sia concepibile, è diventata proletaria; lo Stato
(forza particolare destinata a opprimere una classe determinata) s’è
trasformato in qualche cosa che non è più propriamente uno Stato.
«Ma
la necessità di reprimere la borghesia e di spezzarne la
resistenza permane. Per la Comune era particolarmente necessario
affrontare questo compito, e il non averlo fatto con sufficiente
risolutezza è una delle cause della sua sconfitta. Ma qui l’organo
di repressione è la maggioranza della popolazione, e non più
la minoranza, come era sempre stato nel regime della schiavitù,
del servaggio e della schiavitù salariata. E dal momento che è la
maggioranza stessa del popolo che reprime i suoi oppressori, non c’è
più bisogno di una “forza particolare” di repressione! In questo
senso lo Stato comincia ad estinguersi. Invece delle istituzioni
speciali di una minoranza privilegiata (funzionari privilegiati,
capi dell’esercito permanente), la maggioranza stessa può
compiere direttamente le loro funzioni, e quanto più il popolo
stesso assume le funzioni del potere statale, tanto meno si farà
sentire la necessità di questo potere».
Eleggibilità assoluta, revocabilità in qualsiasi momento di tutti i funzionari senza alcuna eccezione, riduzione dei loro stipendi al livello abituale del “salario da operaio”: questi semplici e “naturali” provvedimenti democratici, mentre stringono pienamente in una comunità di interessi gli operai e la maggioranza dei contadini, servono in pari tempo da passerella tra il capitalismo e il socialismo. Questi provvedimenti concernono la riorganizzazione statale, puramente politica, della società; ma essi, naturalmente, assumono tutto il loro significato e tutta la loro importanza solo in legame con la “espropriazione degli espropriatori” realizzata o preparata; in legame cioè con la trasformazione della proprietà privata capitalistica dei mezzi di produzione in proprietà sociale.
«La Comune – scriveva Marx – fece una realtà della frase pubblicitaria delle rivoluzioni borghesi, il governo a buon mercato, distruggendo le due maggiori fonti di spese, l’esercito permanente e il funzionarismo statale».
Quanto al parlamentarismo, Marx scrive: «La Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo (...) Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo nel Parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni così come il suffragio individuale serve ad ogni altro imprenditore privato per cercare gli operai e gli organizzatori della sua azienda».
Il
Partito comunista una volta preso il potere non lo divide con
nessuno, per cui la concezione di divisione dei poteri ci è
estranea: Montesquieu è definitivamente liquidato. Scrive Lenin:
«Ministri
e parlamentari di professione, traditori del proletariato e
socialisti “d’affari” dei nostri tempi hanno abbandonato agli
anarchici il monopolio della critica del parlamentarismo e per questa
ragione, di eccezionale saviezza, hanno qualificato di “anarchismo”
qualsiasi critica del parlamentarismo! Nulla di strano quindi che il
proletariato dei paesi parlamentari “progrediti”, disgustato alla
vista di “socialisti” come gli Scheidemann, i David, i Legien, i
Sembat, i Branting, i Bissolati e compagnia, abbia riversato sempre
più spesso le sue simpatie sull’anarco-sindacalismo, per quanto
questo sia fratello dell’opportunismo».
Sempre
Lenin, ne “L’estremismo malattia infantile del comunismo”
scrive:
«L’anarchismo
fu non di rado una sorta di castigo per i peccati opportunisti del
movimento operaio. Le due deformità si completavano a vicenda».
Torniamo
a “Stato e rivoluzione”:
«Marx
seppe romperla implacabilmente con l’anarchismo per la
sua incapacità di utilizzare anche la “stalla” del
parlamentarismo borghese, soprattutto quando è evidente che la
situazione non è rivoluzionaria; ma seppe in pari tempo dare
una critica veramente proletaria e rivoluzionaria del
parlamentarismo. Decidere una volta ogni qualche anno qual
membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo
nel Parlamento – ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese,
non solo nelle monarchie parlamentari costituzionali, ma anche nelle
repubbliche le più democratiche».
Scrive
Lenin, pensando anche ai soviet:
«Le
istituzioni rappresentative rimangono, ma il parlamentarismo, come
sistema speciale, come divisione del lavoro legislativo ed esecutivo,
come situazione privilegiata per i deputati, non esiste più. Noi non
possiamo concepire una democrazia, sia pur una democrazia proletaria,
senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo
concepirla senza parlamentarismo, se la critica della società
borghese non è per noi una parola vuota di senso, se il nostro
sforzo per abbattere il dominio della borghesia è uno sforzo serio e
sincero e non una frase “elettorale” destinata a scroccare i voti
degli operai (...)
«In
Marx non v’è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non
immagina una società “nuova”. No, egli studia, come un processo
di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge
dall’antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra
(...) Egli “si mette alla scuola” della Comune (...) Non sarebbe
possibile distruggere di punto in bianco, dappertutto, completamente,
la burocrazia. Sarebbe utopia. Ma spezzare subito la vecchia macchina
amministrativa per cominciare immediatamente a costruirne una nuova,
che permetta la graduale soppressione di ogni burocrazia, non è
utopia, è l’esperienza della Comune, è il compito primordiale e
immediato del proletariato rivoluzionario.
«Il
capitalismo semplifica i metodi d’amministrazione “dello Stato”,
permette di eliminare la “gerarchia” e di ridurre tutto a una
organizzazione dei proletari (in quanto classe dominante) che
assume, in nome di tutta la società, “operai, sorveglianti e
contabili”. Noi non siamo degli utopisti. Non “sogniamo di fare a
meno, dall’oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni
subordinazione; questi sono sogni anarchici, fondati
sull’incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato,
sogni che nulla hanno di comune con il marxismo e che di fatto
servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista fino al
giorno in cui gli uomini saranno cambiati. No, noi vogliamo la
rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non
potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né
di “sorveglianti, né di contabili”.
«Ma
bisogna subordinarsi all’avanguardia armata di tutti gli sfruttati
e di tutti i lavoratori: al proletariato. Si può e si deve subito,
dall’oggi al domani, cominciare a sostituire la specifica
“gerarchia” dei funzionari statali con le semplici funzioni “di
sorveglianti e di contabili”, funzioni che sono sin da ora
perfettamente accessibili al livello generale di sviluppo degli
abitanti delle città e possono facilmente essere compiute per
“salari da operai”.
«Organizziamo
la grande industria partendo da ciò che il capitalismo ha già
creato; organizziamola noi stessi, noi operai, forti della nostra
esperienza operaia, imponendo una rigorosa disciplina, una
disciplina di ferro, mantenuta per mezzo del potere statale dei
lavoratori armati; riduciamo i funzionari dello Stato alla funzione
di semplici esecutori dei nostri incarichi, alla funzione di
“sorveglianti e di contabili”, modestamente retribuiti,
responsabili e revocabili (conservando naturalmente i tecnici di ogni
specie e di ogni grado): è questo il nostro compito proletario; è
da questo che si può e si deve cominciare facendo la rivoluzione
proletaria. Questo inizio, fondato sulla grande produzione,
porta da sé alla graduale “estinzione” di ogni burocrazia, alla
graduale instaurazione di un ordine – ordine senza virgolette,
ordine diverso dalla schiavitù salariata – in cui le funzioni,
sempre più semplificate, di sorveglianza e di contabilità
saranno adempiute a turno, da tutti, diverranno poi un’abitudine e
finalmente scompariranno in quanto funzioni speciali
di una speciale categoria di persone (...)
«La
posta è attualmente un’azienda organizzata sul modello
del monopolio capitalistico di Stato. A poco a poco l’imperialismo
trasforma tutti i trust in organizzazioni di questo tipo (...)
«Una
volta abbattuti i capitalisti, spezzata con la mano di ferro
degli operai armati la resistenza di questi sfruttatori, demolita la
macchina burocratica dello Stato attuale, avremo davanti a noi un
meccanismo mirabilmente attrezzato dal punto di vista tecnico,
sbarazzato dal “parassita” (...)
«Tutta
l’economia nazionale organizzata come la posta; i tecnici, i
sorveglianti, i contabili, come tutti i funzionari dello Stato,
retribuiti con uno stipendio non superiore al “salario da operaio”,
sotto il controllo e la direzione del proletariato armato: ecco
il nostro fine immediato. Ecco lo Stato, ecco la base economica dello
Stato di cui abbiamo bisogno. Ecco ciò che ci darà la distruzione
del parlamentarismo e il mantenimento delle istituzioni
rappresentative, ecco ciò che sbarazzerà le classi lavoratrici
dalla prostituzione di queste istituzioni da parte della borghesia».
(continua al numero 408)
La gigantesca Cina
Passiamo a un pezzo chiave del puzzle globale: la Cina. Il problema con la Cina è che gli indici della produzione industriale non sono utilizzabili perché grandemente sopravvalutati. Nessuna istituzione, né l’ONU né l’OCSE li prende in considerazione. Dobbiamo fare riferimento ai dati fisici, in particolare alla produzione totale di energia e, soprattutto, ai consumi energetici dell’industria, che sono quelli più affidabili, anche se la Cina li consegna col contagocce.
Sulla curva della produzione di energia si può vedere la recessione del 1997-1998, che corrisponde alla crisi asiatica, che ha causato una crisi finanziaria in Russia e ha costretto lo Stato russo a sospendere i pagamenti. Ha poi raggiunto i Paesi dell’America Latina, in particolare Messico, Brasile e, soprattutto, Argentina, che hanno poi attraversato una grave crisi finanziaria e commerciale. Poi tra il 2000 e il 2007 c’è stata un impennarsi della curva, di pari passo con un enorme afflusso di capitali soprattutto dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla Germania verso la Cina, il nuovo Eldorado delle multinazionali. Nel 2008-2009 invece di una recessione abbiamo un forte rallentamento, seguito dalla ripresa nel 2010-2011, poi un forte rallentamento con una contrazione della produzione nel 2015-2016. Seguita, come nel resto del mondo, dalla ripresa economica del 2017-2018. Però non sono disponibili i dati per il 2019, anche se siamo già a fine settembre 2020.
Qui abbiamo la curva corrispondente al consumo di energia per l’industria. Purtroppo si parte solo dal 2011; se avessimo avuto i dati del 2007 avremmo potuto vedere gli effetti della recessione del 2008-2009. A quel tempo il governo cinese intervenne energicamente aprendo il rubinetto del credito, il che portò a un’alta speculazione e inflazione, soprattutto sui prodotti agricoli. Per rimettere in moto l’industria investì 1.000 miliardi di dollari in enormi opere infrastrutturali. Ciò non ha tuttavia impedito il forte rallentamento dopo il 2011 e la recessione del 2015-2016. Questo mostra i limiti del capitalismo di Stato.
Il rallentamento della produzione industriale è visibile anche nella produzione di energia elettrica, anche se è oggetto di molte speculazioni da parte delle diverse regioni amministrative della Cina perché è nel loro interesse gonfiare le cifre nei confronti del governo centrale. Nella tabella che riportiamo questo rallentamento, che preannuncia una formidabile crisi di sovrapproduzione, è chiaramente evidente.
La prima riga mostra la quantità di energia elettrica prodotta in terawattora (1000 miliardi di wattora). La seconda riga mostra il numero di anni tra le due date. Ogni data corrisponde al massimo raggiunto prima di una crisi di sovrapproduzione. La terza riga mostra l’incremento medio annuo. Dal 1966 al 1973, la produzione di energia elettrica è aumentata ogni anno, in media, dell’11,5%. Dal 1973 al 2007 il tasso di crescita, ancora molto forte, è sceso al 9,1%. Dal 2007 al 2014 la crescita scende ulteriormente al 7,9%. Nell’ultimo ciclo col 3,9% ci avviciniamo ai ritmi asmatici dei vecchi capitalismi occidentali, preannunciando una formidabile crisi di sovrapproduzione.
Abbiamo quindi la tendenza degli ultimi 37 mesi nella costruzione di abitazioni e produzione di cemento. L’edilizia, oggetto di molte speculazioni, è un buon termometro della fase del ciclo in cui ci troviamo: nel 2017-2018, lungi dal registrare una ripresa economica, era in recessione. La situazione è confermata dalla produzione di cemento.
Purtroppo, le Nazioni Unite a metà del 2018 hanno smesso di fornire questi dati. E stanno gradualmente interrompendo tutto il loro lavoro statistico. Non ne è stato dichiarato il motivo; forse non ricevono più i necessari stanziamenti? In ogni caso significa che la borghesia non è più interessata a queste informazioni perché non controlla più nulla, del passato come del futuro.
Che la Cina sia in recessione è confermato da altri dati. La Cina ha superato gli Stati Uniti in molte aree. Non solo nell’assemblaggio di computer e telefonini: per esempio, è diventata il più grande mercato automobilistico del mondo, molto più avanti degli USA. Ma nel 2019 le vendite di auto in Cina sono diminuite del 13% rispetto al 2018, che a sua volta era in calo rispetto al 2017. Meno vendite significa sovrapproduzione. A livello globale le vendite di auto nel 2019 sono state inferiori del 6% rispetto al 2018. Dei telefonini – la Cina è uno dei principali mercati al mondo – le vendite sono diminuite dell’11%.
Per concludere sul 2019 in Cina abbiamo esposto l’indice “PMI” (basato su interviste ai responsabili agli acquisti di una selezione di aziende): se l’indice è inferiore a 50 la produzione è in recessione, al di sopra di 50 è in crescita. L’indice è rimasto sotto 50 per gran parte del 2019.
Per il 2020 abbiamo pochissimo da riportare perché l’Istituto cinese è stato molto avaro di dati: niente su cemento, abitazioni, ecc. Abbiamo la produzione di carbone, ancora molto utilizzato dall’industria cinese e il cui uso, per ragioni di sicurezza nazionale, è stato recentemente rafforzato. Cala la produzione da maggio ad agosto, così come già a gennaio e febbraio, al culmine dell’epidemia. C’è effettivamente un recupero dopo la fine del distanziamento sanitario, ma per cadere di nuovo in seguito.
Molti Paesi emergenti, come il Messico, il Brasile o l’Argentina, sono in recessione e fortemente indebitati. Dal 2008 al 2014, hanno agito come una locomotiva attirando capitali dai vecchi paesi imperialisti che non riuscivano a trovare il modo di investire. Ma il 2014-2015 ha segnato la fine di questo ciclo: con la ripresa statunitense i tassi di interesse hanno cominciato a salire e il flusso di capitali si è invertito.
Conclusione: il mondo intero è incamminato verso la recessione.
Il commercio internazionale
Il commercio internazionale è un altro importante indicatore della situazione economica globale. Da gennaio 2017 a gennaio 2018, le esportazioni di merci dai principali paesi industrializzati sono in costante crescita. La curva poi si inverte: le esportazioni rallentano per tutto il 2018, poi a partire da ottobre 2018 gli incrementi diventano nettamente negativi. Nel 2019 il commercio mondiale è diminuito del 3% in termini di valore, mentre nell’anno precedente era aumentato del 10%. Il commercio di materie prime e prodotti energetici ha registrato il maggior calo in valore (-7,5%), dovuto in gran parte al calo dei prezzi.
Sul grafico si può notare che gli incrementi sono quasi tutti negativi nel corso del 2019, ma nel 2020, in conseguenza della pandemia si assiste a una caduta vertiginosa tra marzo e giugno: in aprile e maggio la caduta raggiunge il 44%, poi abbiamo una ripresa a giugno e luglio con un -18% e un -16% rispetto a giugno e luglio del 2019, che erano però già in regressione.
Se confrontiamo questa curva con quella del 2008-2009 constatiamo che il calo è stato della stessa portata, ma allora su un periodo di tempo molto più lungo, da ottobre 2008 a dicembre 2009. Quindi la crisi attuale, continuazione della precedente, è tutt’altro che finita e sono da prevedere delle ricadute.
(Continua al prossimo numero)
PAGINA 6
La riunione internazionale del partito annuncia il Comunismo contro le menzogne e le infamie della difficile ora presente
Riunione in video-conferenza, 25-27 settembre
[RG 138]
Continua dal numero scorso e fine del resoconto
[Alla prima parte]
L’attività sindacale del partito fra giugno e settembre dell’anno in corso si è svolta principalmente in due ambiti: il Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA) e l’Unione Sindacale di Base.
L’ultimo giorno della scorsa riunione generale, domenica 31 maggio, si è tenuta in videoconferenza anche un’assemblea nazionale del CLA. Questa ha confermato gli impegni del Coordinamento su tre fronti: l’intervento nelle mobilitazioni promosse dai sindacati promuovendovi l’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo combattivo; la lotta entro le organizzazioni sindacali affinché cresca la consapevolezza della necessità di superare le divisioni nell’azione fra sigle sindacali; la promozione di una campagna sul tema della salute e della sicurezza sul posto di lavoro e nel territorio, nella quale cercare di coinvolgere tutte le organizzazioni del sindacalismo conflittuale [leggi qui]. Un altro ambito di lavoro proposto è stato quello nella sanità, a cui però sinora non è stato dato seguito in modo continuativo e organico.
Lungo queste direttive si è sviluppata la successiva attività del Coordinamento.
Il 12 giugno i compagni dell’istituto sanitario privato Maugeri di Tradate (Varese) hanno pubblicato un comunicato di solidarietà [leggi qui] coi lavoratori in lotta al San Raffaele di Milano, il più grande ospedale privato del capoluogo lombardo, in cui l’Unione Sindacale Italiana e il Sindacato Generale di Base inquadrano la maggior parte dei lavoratori sindacalizzati.
L’Sgb nacque nel febbraio 2016 da una scissione dall’Usb, ragion per cui il comunicato da parte dei compagni di Tradate, delegati dell’Usb, aveva un valore ancor maggiore, volto a superare le diffidenze e le divisioni fra le diverse sigle del sindacalismo di base: nei mesi successivi i delegati Sgb del San Raffaele sono confluiti nella Cub. Il comunicato è stato firmato a nome del “Collettivo Usb Maugeri per il Sindacato di Classe aderente al CLA”.
Il comunicato era importante anche ai fini della lotta interna all’Usb contro la condotta della sua dirigenza volta a ignorare le azioni delle altre organizzazioni sindacali di base.
Ciò è stato confermato nemmeno un mese più tardi – il 2 luglio – quando l’Usb ha proclamato da sola uno sciopero nazionale dei lavoratori della sanità pubblica e privata. I compagni di Tradate si sono prima battuti internamente al Coordinamento nazionale Usb Sanità contro questa decisione, poi hanno redatto un comunicato, che è stato pubblicato a nome del CLA, intitolato “Sullo sciopero della sanità indetto dall’Usb per il 2 luglio” [leggi qui]
Prima, il 27 giugno, il CLA aveva organizzato una nuova assemblea nazionale, questa volta in presenza, a Firenze [leggi qui]. Un nostro compagno ha tenuto, a nome del coordinamento, la relazione introduttiva [leggi qui]. Un altro nostro compagno è intervenuto sottolineando i limiti della rivendicazione di una sanità pubblica, laddove non sia completata dagli obiettivi materiali che interessano i lavoratori – gratuità e disponibilità dell’assistenza sanitaria – e ha riportato l’esperienza della lotta degli ospedalieri del 1978.
All’assemblea si è registrata la partecipazione di nuovi lavoratori e delegati da Pisa, Viareggio, Brescia e Vicenza.
Nei giorni successivi il nostro compagno è stato intervistato da una nota radio del bresciano, per presentare il CLA e fare un breve resoconto dell’assemblea.
L’11 luglio i compagni di Tradate hanno pubblicato un nuovo numero del loro bollettino sindacale interno, dedicato interamente alla critica della ipotesi di rinnovo contrattuale della sanità privata Aris Aiop che i sindacati di regime andavano a siglare [leggi qui]
Il giorno successivo, domenica 12 luglio, un nostro compagno è intervenuto alla prima assemblea nazionale dei Lavoratori Combattivi – svoltasi a Bologna – ribadendo, ai fini dell’unità d’azione dei lavoratori, la necessità della costruzione di un organismo prettamente sindacale, estraneo al frontismo fra partiti e gruppi politici, e che si impegni per l’unità d’azione di tutte le organizzazioni del sindacalismo conflittuale. Questo intervento è stato fatto nella consapevolezza che l’organismo che si andava costituendo in quella assemblea doveva essere, nelle intenzioni dei suoi promotori, una sorta di appendice di un fronte politico riunitosi il giorno precedente nella stessa sala del SI Cobas bolognese.
In quell’assemblea è intervenuto, con argomenti critici quasi del tutto coincidenti con quelli espressi – a nome del CLA – dal nostro compagno, l’ex dirigente nazionale dell’Usb Lavoro Privato, Bellavita, col quale nei mesi precedenti si era cercato, invano, di costruire una battaglia interna a questo sindacato, infine da egli abbandonato [leggi qui]
Vista la concorde valutazione circa i caratteri dell’Assemblea dei Lavoratori Combattivi, e l’impegno di Bellavita, dopo l’uscita dall’Usb ad aprile, nel tentativo di costruzione di una “intersindacale di base” a partire dal coinvolgimento di Adl Cobas, Sial Cobas e Sgb, gli si è proposto un incontro col gruppo di lavoro del CLA per un confronto sulla situazione del sindacalismo conflittuale. Ne è scaturita la concorde decisione del CLA di redarre un appello volto a promuovere – nella ipotesi in cui, come negli anni passati, alcune dirigenze del sindacalismo di base avessero proclamato per l’autunno un sciopero generale – un sostegno unitario di tutto il sindacalismo conflittuale alla mobilitazione [leggi qui].
Pur convinti non vi fossero le condizioni per chiamare i lavoratori a uno sciopero generale, la situazione di aggravata frammentazione fra le varie forze del sindacalismo di base sembrava poter favorire il rafforzamento della battaglia per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, attraverso lo strumento dell’agitazione per un’azione unitaria, nella eventualità in cui una parte delle organizzazioni sindacali avesse proclamato, come di abitudine ogni anno, la massima mobilitazione della classe lavoratrice.
Così invece non è stato, in quanto nessuna delle forze sindacali coinvolte nel tentativo di costruzione della intersindacale ha appoggiato l’appello – tranne il piccolo Adl di Varese – e nemmeno lo hanno fatto il gruppo di delegati metalmeccanici che avevano seguito Bellavita dalla Fiom nell’Usb e che vi sono rimasti nonostante la sua fuoriuscita. Sicché l’appello non è andato oltre il numero di adesioni che analoghe iniziative avevano avuto negli anni passati.
Alla fin fine quest’anno lo sciopero generale è stato proclamato da un solo sindacato di base: dalla Cub per il 23 ottobre.
Si è quindi spezzato quel cartello sindacale formato da Cub, SI Cobas, Sgb, Adl Cobas e Usi che negli ultimi anni aveva promosso lo sciopero generale, senza coinvolgere, cioè in concorrenza con l’Usb e la Confederazione Cobas, fatto del quale le dirigenze di queste due organizzazioni non hanno potuto che compiacersi, ponendosi sullo stesso identico piano di concorrenza fra sigle e manovrando la leva della azioni di lotta “separate e in concorrenza”, cioè dividendo e danneggiando il già debole movimento di lotta operaia di questi anni.
Quel cartello sindacale ha visto Cub e Sgb allontanarsi a seguito del passaggio di una parte importante dei delegati del secondo alla prima; il SI Cobas da par suo ha lanciato la supposta “iniziativa unitaria” della Assemblea Lavoratori Combattivi (ALC), cui non ha aderito la Cub e a cui ha invece aderito l’Sgb; nemmeno l’Adl Cobas, come detto, ha aderito alla ALC, ritenendola strumento del cosiddetto Patto d’Azione Anticapitalista, e, come di consueto, si è limitato a promuovere insieme al SI Cobas lo sciopero nazionale della categoria in cui entrambi questi sindacati sono maggiormente radicati, la logistica, fissato il giorno stesso in cui la Cub aveva proclamato lo sciopero generale, il 23 ottobre.
Dopo l’assemblea del 12 luglio la dirigenza del SI Cobas si è sforzata di far risultare la ALC indipendente dal Patto d’Azione. Ciò si è parzialmente riflesso nel testo di convocazione della seconda assemblea nazionale dei Lavoratori Combattivi, tenutasi a Bologna il 27 settembre, in cui l’intervento redatto da un nostro compagno a nome del CLA è stato distribuito stampato ai circa 300 presenti [leggi qui]
Nelle settimane precedenti questa seconda assemblea i nostri compagni hanno seguito l’attività della ALC del Lazio, la più attiva fra le poche ALC locali di fatto messe in piedi (Veneto, Lombardia, Piemonte). Sulla base del mutamento di condotta della dirigenza del SI Cobas e dell’attività della ALC di Roma si è valutato opportuno partecipare a questo organismo battendosi affinché esso fosse indirizzato sui corretti binari utili a costruire l’unità d’azione dei lavoratori: il suo mantenimento su un terreno sindacale; il suo tentativo di coinvolgere tutte le organizzazioni del sindacalismo conflittuale; suoi metodi di vita interni che lo rendessero indipendente dal cosiddetto Patto d’Azione.
Caratteri questi propri del CLA, tranne naturalmente il terzo, dato che non lo riguarda in alcun modo, visto che la dirigenza del SI Cobas si è data alla costruzione prima, a febbraio 2020, del Patto d’Azione, poi, a luglio, della ALC, dopo aver abbandonato il CLA, cui aveva partecipato d’altronde sempre e solo allo scopo di cercare sostegno alle iniziative della propria organizzazione.
Non mancava affatto da parte nostra la consapevolezza di quanto la condotta mutevole della dirigenza del SI Cobas fosse strumentale ad allargare la partecipazione alla ALC, pur mantenendone il controllo da parte del Patto d’Azione. Tuttavia il controllo di ogni organismo sindacale da parte della dirigenza opportunista non è garantito che dall’impiego di metodi coercitivi, costringendolo a un inevitabile rachitismo.
Per altro la partecipazione dell’Sgb, forza sindacale non partecipe al cosiddetto Patto d’Azione, facilmente sarebbe risultata la cartina di tornasole della condotta dei promotori e dirigenti della ALC. Si legga in proposito l’articolo su questo stesso numero.
Lotte
di classe in Etiopia
Il rapporto è già apparso nel numero scorso di questo giornale sotto il titolo “Nel nuovo industrialismo dell’Etiopia lotte sociali fra retaggi ancestrali e le classi del moderno capitalismo”
Il concetto di dittatura in Marx
La dittatura democratica degli operai e dei contadini
Dalla dittatura del proletariato, esaminata attraverso gli scritti e i discorsi di Lenin fino al 1922, facciamo ora diversi passi indietro per esaminare il concetto di “dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini”. Tale forma riguarda una fase superata nei paesi di capitalismo maturo, ma che all’inizio del XX secolo riguardava ancora paesi come la Russia, dove la rivoluzione borghese o non era avvenuta o non era arrivata alle estreme conseguenze, con la inevitabile riscossa della controrivoluzione.
Abbiamo detto che con il 1871 e la Comune di Parigi era terminata in Europa l’era delle alleanze del proletariato con altre classi, in vista delle rivoluzioni borghesi, antifeudali e antiassolutiste. Non facciamo certo i sofisti se ribadiamo che per noi materialisti non esiste la verità “assoluta”, ma che la verità è sempre concreta. Il 1871 è il punto di arrivo di uno sviluppo del capitalismo mondiale che nel suo culmine, nell’Europa occidentale e in Nord America, è già maturo per la rivoluzione socialista, poiché la rivoluzione borghese ha indiscutibilmente sbaragliato il mondo precedente. I proletari di questi paesi si possono quindi porre il problema di prendere il potere esclusivamente nelle loro mani, e di mettersi alla guida del proletariato e della rivoluzione comunista mondiale.
Da questo punto d’arrivo, e di partenza, era lontano gran parte del resto del mondo, tra cui la Russia, ancora semifeudale e con un capitalismo poco sviluppato. In tali condizioni era possibile per il partito del proletariato pensare ad alleanze temporanee con altre classi in vista di una completa rivoluzione borghese, una volta compiuta e consolidata la quale tali classi sarebbero divenute nemiche mortali. Ciò che per l’Europa occidentale era stato il 1848, per la Russia fu il febbraio 1917.
Lenin non accettava la concezione dei populisti, per cui la Russia avrebbe potuto addirittura saltare la fase capitalistica, e ribadiva che in Russia c’era già il capitalismo, per quanto debole e con una sovrastruttura statale di tipo feudale. L’analisi del capitalismo fatta da Marx, a differenza di ciò che pensavano i populisti, era valida anche per la Russia.
Trotski, nel suo “1905” scrive: «la rivoluzione ha ucciso la nostra “originalità”. I menscevichi accusarono Lenin di essere poco marxista, in quanto si occupava della rivoluzione borghese e non esclusivamente di quella socialista, e i socialisti-rivoluzionari, eredi dei populisti, lo accusarono di essere troppo marxista, non prendendo egli in considerazione la possibilità di arrivare al socialismo attraverso il mir contadino, saltando a pie-pari la fase capitalistica».
Il concetto di dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini ha poi generato travisamenti, in buonafede e non, il cui esito è stato l’entrata nel pantano della controrivoluzione. Un abbaglio fu quello di Trotski, che vide nelle tesi di aprile 1917 un rovesciamento delle precedenti posizioni di Lenin, non vedendo la continuità con tesi già esposte a partire dal 1902-1903. Certamente peggiore fu la lettura staliniana che prevedeva la possibilità e la “decisione” di passare immediatamente alla ”edificazione” del socialismo.
Non meno perniciosa fu la parola d’ordine, nella III Internazionale, dei “governi operai”, derivata dalla dittatura democratica rivoluzionaria di Lenin, ma usata per dar vita ad alleanze con partiti “simpatizzanti”, il cui esito è stato l’impossibilità di esercitare la dittatura proletaria, cioè la dittatura del partito comunista, e il trionfo della controrivoluzione. Non fa alcuna differenza se inizialmente tali alleanze e fusioni, imposte ai partiti comunisti dall’Internazionale, furono errori commessi in buona fede. Per quanto riguarda le fusioni imposte con partiti “affini” abbiamo detto, e ripetiamo, che anche il grande nostro Lenin è qui caduto in errore.
Nello scritto di Lenin “Due tattiche della socialdemocrazia”, del 1905, si parla della necessità di una rivoluzione democratica russa e di un governo rivoluzionario provvisorio a cui il partito, a determinate condizioni, può partecipare, nella consapevolezza che tale rivoluzione rafforzerà il dominio della borghesia: «La vittoria definitiva della rivoluzione sullo zarismo è la dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini (...) Non sarà però evidentemente una dittatura socialista, ma una dittatura democratica, che non potrà intaccare (senza che la rivoluzione abbia percorso varie tappe intermedie) le basi del capitalismo (...) Nulla aumenterà maggiormente l’energia rivoluzionaria del proletariato mondiale, nulla accorcerà tanto il suo cammino verso la vittoria completa quanto questa vittoria decisiva della rivoluzione cominciata in Russia (...) La vittoria completa della rivoluzione attuale segnerà la fine della rivoluzione democratica e l’inizio di una lotta decisiva per la rivoluzione socialista (...) La parola d’ordine della dittatura “democratica” esprime per l’appunto questo carattere storicamente limitato della rivoluzione attuale».
Nel 1917 le “Tesi di aprile” di Lenin non si discostano dalla tattica del 1905, nonostante il parere contrario di Trotski e degli stalinisti. Lenin riconosce nel Soviet la forma assunta ora, ma anche nel 1905, dalla “dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini”. I bolscevichi erano una piccola minoranza. Si creò un dualismo di poteri tra il soviet di Pietrogrado e il governo provvisorio del principe Lvov, nominato dai maggiori partiti della Duma, assemblea rappresentativa con scarsi poteri. Nel maggio a Lvov subentrò il socialista-rivoluzionario Kerenskij.
Leggiamo
in “Comunismo” n. 21:
«Le
rivoluzioni nella storia (...) sono tre: rivoluzione antifeudale
condotta dalla borghesia con l’alleanza della piccola borghesia
– rivoluzione democratica condotta dal proletariato e dalla piccola
borghesia – rivoluzione socialista condotta mondialmente
dal solo proletariato. Lenin ci dice che in questo schema la
rivoluzione russa ha concluso la prima fase e si è fermata a cavallo
fra la prima e la seconda. Compito del partito è di far giungere la
rivoluzione alla seconda fase, ma non è ancora maturo il salto alla
terza. Il dualismo del potere espresso dal governo Lvov e dal soviet,
non è dunque fra dittatura borghese e dittatura del proletariato, ma
fra dittatura borghese e dittatura democratica rivoluzionaria degli
operai e dei contadini (...) In una situazione di questo tipo sarebbe
follia per il partito tentare di abbattere il governo Lvov, perché
questo ha la fiducia dei soviet. Le condizioni storiche e sociali ma
anche politiche non sono mature nell’aprile per la presa del potere
da parte dei bolscevichi, il che sarebbe la dittatura del
proletariato.
«Il
12 luglio si ristabilì la pena di morte al fronte contro i
disertori, le sentenze avevano esecuzione immediata, avvenendo quello
che si era previsto. Il partito ebbe dai fatti di luglio insegnamenti
decisivi per il futuro della rivoluzione. Immediatamente venne inteso
il mutamento repentino di fase, il mutare della situazione storica.
La necessità di passare dalla parola d’ordine del passaggio
pacifico di tutto il potere alla “dittatura democratica
rivoluzionaria” a quella successiva, per altro già prevista, dello
scontro diretto con la borghesia e la piccola borghesia (...) In
Russia si era bruciata in sei mesi una fase storico-politica che in
Europa era durata una cinquantina d’anni, la cosiddetta fase di
sviluppo “graduale e pacifico” della democrazia liberal-borghese
(...) Ma se era il proletariato a prendere il potere non poteva che
prenderlo per sé, anche se alleato coi contadini poveri. Ciò
significa che la Dittatura Democratica Rivoluzionaria del
proletariato e dei contadini si sarebbe realizzata nella forma
politica più favorevole alla rivoluzione mondiale di dittatura del
proletariato e dei contadini poveri e senza terra; mentre restavano
immutati i compiti economici da svolgere in Russia: sviluppo del
capitalismo. Cambia la tattica? No, cambia la fase storica!».
Il 25 agosto Kornilov, comandante dell’esercito, tenta un colpo di Stato marciando su Pietrogrado per schiacciare la rivoluzione: fu sconfitto e arrestato grazie alla reazione spontanea di operai, soldati e marinai, coadiuvati da comitati rivoluzionari di autodifesa e da reparti di guardie rosse guidati dai bolscevichi. Quella sorta di fronte unico contro Kornilov è l’ultima espressione e manifestazione, nella rivoluzione russa, della Dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini. Quando negli anni successivi, nell’Internazionale, saranno riproposti i fronti unici politici in aree non di doppia rivoluzione ma già pienamente capitalistiche, il risultato sarà inevitabilmente l’indebolimento e poi lo snaturamento del partito.
Torniamo
a “Comunismo” n. 21:
«Che
il partito si alleasse coi partiti piccolo borghesi per respingere un
vero tentativo controrivoluzionario delle vecchie classi
spodestate dalla rivoluzione di febbraio era previsto fin dal 1848.
Lo strano, se vogliamo l’imprevisto, era che dopo luglio
menscevichi e social rivoluzionari avessero sempre la forza di
opporsi alla reazione, avessero un “rigurgito” rivoluzionario.
Ecco l’eccezione. Su questa positiva inerzia Lenin fa leva per
riproporre la tattica della fase storica pre-luglio, la quale
rappresenta il normale sviluppo della rivoluzione nazionale russa».
Nella vittoriosa lotta contro Kornilov siamo ancora alla Dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini.
Nella Russia del 1917 era all’ordine del giorno la rivoluzione borghese democratica e radicale, non quella proletaria e socialista, per la quale mancava un capitalismo pienamente dispiegato. Il compromesso proposto da Lenin nei giorni successivi al tentato colpo di Stato non fu accettato dalla piccola borghesia, incapace di portare a termine la propria rivoluzione. Al proletariato, e al suo Partito Comunista, toccò il gigantesco compito di portare a termine la rivoluzione borghese, sotto la propria direzione e dittatura. Questo per creare le condizioni per un futuro sviluppo, sperato come prossimo, verso il socialismo; e il tutto nell’attesa di passare il testimone, e la direzione della rivoluzione mondiale, al proletariato occidentale (a cominciare da quello tedesco) una volta preso il potere nei paesi di capitalismo più avanzato.
Ciò non avvenne, e la sorte della prima vittoriosa rivoluzione proletaria della storia fu quindi segnata. Abbiamo già detto, e ribadiamo, che come non sono i grandi uomini, gli eroi, a fare la storia, allo stesso modo non la fanno neanche i traditori.
Corso
della crisi economica
Il
rapporto esteso è in corso di pubblicazione, “La catastrofica
traiettoria del capitalismo mondiale”, con inizio nel
numero scorso
e continuazione in questo.
La
questione militare
La rivoluzione di Ottobre
Il fallito tentativo di Kornilov, nell’agosto-settembre 1917, e la dissoluzione delle forze cosacche di Krimov generano nelle campagne il diffondersi delle rivolte e la requisizione delle terre dei latifondisti. Sempre duramente represse dalle truppe governative, spingono le masse verso il programma bolscevico.
Nel tentativo di mantenere la maggioranza alla prossima Assemblea Costituente, il Governo indice una Conferenza Democratica privilegiando la rappresentanza delle cooperative e delle associazioni locali, dove gli SR sono in maggioranza. L’intento è contrastare l’indicazione bolscevica di tutto il potere ai Soviet. Essa si conclude in modo confuso con l’indicazione di formare un Preparlamento. I bolscevichi inizialmente vi partecipano, in contrasto alle indicazioni di Lenin di rivolgersi direttamente alle masse per l’insurrezione.
Alle elezioni dei Soviet di inizio ottobre si ribaltano i rapporti di forza, i bolscevichi risultano in maggioranza, in particolare a Mosca e Pietrogrado. Progressivamente i bolscevichi assumono il controllo della maggior parte dei Soviet di tutta la Russia con la parola d’ordine di tutto il potere ai Soviet.
Il rapporto ha dato lettura di alcune lettere di Lenin sull’analisi della situazione e sul sentimento delle masse dopo l’avventura di Kornilov, ora più favorevoli al cambiamento politico in Russia. Si imponeva una netta e rapida azione perché: ”non prendere il potere oggi significa perdere la rivoluzione”.
7 ottobre: i bolscevichi escono dal Preparlamento. Kerensky forma un nuovo governo e ordina di spostare i reparti militari più rivoluzionari da Pietrogrado verso il fronte.
A Pietrogrado si costituisce il Comitato Militare Rivoluzionario (CMR) formato dal comando militare della regione e dall’organizzazione militare bolscevica, che funzionerà come stato maggiore della rivoluzione, sottoposto alla direzione politica del Comitato Esecutivo del Soviet della città.
22 ottobre: il CMR, in risposta al tentativo di Kerensky di allontanare le truppe più politicizzate da Pietrogrado, nomina suoi commissari in tutte le unità militari assumendo di fatto il controllo di quasi tutte le forze armate della città e della regione.
23 ottobre: il CC bolscevico stabilisce la data dell’insurrezione che secondo Lenin dovrà avvenire prima dell’inizio del Congresso dei Soviet di tutta la Russia perché, grande organismo formato da diverse tendenze politiche, non sarebbe stato in grado di assumere una chiara ed immediata decisione, e per metterlo di fronte al fatto compiuto.
28 ottobre: i bolscevichi di Pietrogrado iniziano l’organizzazione dell’insurrezione e ne affidano la direzione ad un triunvirato formato da fidati esponenti del partito che hanno una qualche esperienza militare, anche se nessuno di loro è esperto nel comando di grandi unità, eterogenee e diversamente armate.
Le organizzazioni militari bolsceviche comandano un massimo di 150.000 armati in 62 città, di cui circa 25.000 a Pietrogrado e 12.000 a Mosca. Dispongono di un armamento leggero con qualche mitragliatrice, organizzate in squadre di 10 uomini, plotoni di 4 squadre, compagnie di 3 plotoni e battaglioni di 3 compagnie. Le fabbriche più importanti hanno già le loro organizzazioni armate sommariamente addestrate.
Sappiamo da Trotski che, anche se la maggioranza degli operai e della guarnigione sono per l’insurrezione, una piccola minoranza composta di cadetti e ufficiali è contro, non si può convincerli ma bisogna batterli militarmente.
31 ottobre: nel palazzo dello Smolny, sede dei Soviet, i delegati dei reggimenti della regione di Pietrogrado approvano l’insurrezione armata. Il CMR diffonde un manifesto in cui denuncia il Governo Provvisorio e il comando generale della guarnigione di essere diventati strumenti della controrivoluzione ed esorta i soldati della capitale a difendere l’ordine rivoluzionario e a obbedire solo agli ordini del Comitato Militare Rivoluzionario.
4 novembre: la manifestazione di operai e soldati durante la Giornata del Soviet di Pietrogrado conferma l’adesione delle avanguardie rivoluzionarie alle parole d’ordine bolsceviche.
5 novembre: il vigoroso intervento di Trotski all’assemblea dei soldati della fortezza-prigione di Pietro e Paolo produce la loro adesione al CMR mettendo a sua disposizione l’arsenale interno e i cannoni che controllano la città: questo sancisce la completa rottura con i vertici militari che sostengono Kerensky e il Governo Provvisorio.
Nella notte questi ordina all’incrociatore Aurora di salpare in una crociera di addestramento per allontanare l’equipaggio dalla capitale, di aprire i ponti sulla Neva per separare i quartieri operai dal resto della città e farli presidiare dai cadetti ancora a lui fedeli, di isolare i telefoni dello Smolny, di sequestrare tutti i giornali bolscevichi e di arrestare i membri del CMR.
Nella stessa mattina il CMR ordina a due suoi reggimenti di riaprire con le armi le tipografie sequestrate e all’Aurora di rimanere a presidiare la città e difendere la rivoluzione. Il comando delle operazioni militari è assunto dal triumvirato che dà le ultime disposizioni. Le forze fedeli a Kerensky iniziano a sbandarsi. Lenin in incognito si trasferisce allo Smolny.
Del 7 novembre il rapporto ha riferito la cronologia dei fatti militari più significativi, iniziati alle ore 2 quando la Guardia Rossa occupa le due principali stazioni ferroviarie di Pietrogrado, e che si concludono alle ore 23 quando i cannoni della fortezza di Pietro e Paolo sparano sul Palazzo d’Inverno. Dopo di che iniziano gli assalti delle forze del CMR che annientano ogni residua resistenza e arrestano i membri del Governo Provvisorio ancora presenti.
In quello stesso momento inizia il secondo Congresso panrusso dei Soviet, ora a maggioranza bolscevica e della sinistra degli SR, che approva l’appello di Lenin indirizzato “Agli operai, ai soldati e ai contadini” per un immediato armistizio, per il passaggio gratuito delle terre ai soviet, per il controllo della produzione e la fornitura di pane alle città e di quanto necessario alle campagne. Tutto il potere sarà gestito dai Soviet.
Man mano giungono le notizie dell’insurrezione di Mosca e nelle altre città.
8 novembre: dopo l’insurrezione quasi incruenta il CMR assume il controllo e la gestione delle primarie funzioni e necessità di Pietrogrado. Intanto la controrivoluzione si organizza rapidamente costituendo un suo Comitato per la Salvezza del Paese, disconosce il secondo Congresso dei soviet e si presenta come l’erede del decaduto Governo Provvisorio. Ottiene adesioni dalla vecchia burocrazia statale, dai servizi e da parte dei socialisti moderati.
Kerensky rifugiatosi al Quartier generale di Pskov si accorda con Krasnov, comandante della cavalleria cosacca per sferrare un attacco su Pietrogrado.
Nella serata Lenin presenta al Congresso panrusso i dettagliati decreti sulla pace, l’abolizione della diplomazia segreta, l’abolizione della proprietà privata della terra senza indennizzo e l’amministrazione dei beni ecclesiastici trasferita ai soviet contadini.
A Mosca il locale CMR allerta le sue formazioni militari e interrompe ogni contatto con le opposizioni.
9 novembre: il governo sovietico telegrafa a tutti i paesi belligeranti le sue proposte di pace.
I 700 cosacchi di Krasnov si posizionano a 45 chilometri da Pietrogrado; a Mosca iniziano i primi scontri armati. Altre città sono controllate dal soviet.
10 novembre: i cosacchi di Krasnov si impossessano della residenza imperiale di Tsarskoe Selo, presso Pietrogrado, presidiata da 16.000 soldati; ma si dichiarano neutrali, segno dell’avvenuta disgregazione dell’esercito. Il CMR organizza le difese di Pietrogrado affidate alla Guardia Rossa e agli operai.
A Mosca gli junker occupano il Cremlino, la posta centrale, il telegrafo e i telefoni, ma ne sono ricacciati il giorno successivo da una controffensiva del CMR.
Krasnov non riceve i necessari rinforzi per l’attacco alla città e rimane presso la residenza imperiale, da cui si ritirerà nei giorni successivi temendo un accerchiamento.
13 novembre: a Mosca il CMR riprende l’iniziativa militare sostenuta dall’adesione dei rappresentanti di 6 armate russe nella zona, che si schierano coi soviet.
14 novembre: trattative con Krasnov per la consegna di Kerensky, che riesce a fuggire. Marinai bolscevichi si infiltrano tra i cosacchi fiaccandone il morale e la disciplina. Nel pomeriggio truppe del soviet conquistano l’ultimo avamposto cosacco; Krasnov e lo stato maggiore di Kerensky sono arrestati.
A Mosca i bolscevichi, dopo aver espugnato le roccaforti degli junker, iniziano a bombardare il Cremlino, loro ultimo rifugio.
15 novembre: il generale Alekseev, ex comandante in capo zarista, inizia ad organizzare nei territori cosacchi forze antibolsceviche.
16 novembre: inizia a Mosca l’assalto finale al Cremlino espugnato dai bolscevichi.
18 novembre: Lenin, come presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo, annuncia la definitiva vittoria della rivoluzione a Pietrogrado e a Mosca.
20 novembre: radiomessaggio a tutte le potenze belligeranti con la proposta di armistizio immediato. Il governo bolscevico ordina al generale Duchonin di avviare trattative in tal senso con i comandi tedeschi e di sospendere ogni azione militare.
22 novembre: il bolscevico Krylenko sostituisce Duchonin perché si rifiuta di trattare coi tedeschi. Quest’ultimo libera diversi generali posti agli arresti tra cui Kornilov e Denichin. Una folla inferocita di soldati bolscevichi trascina giù dal treno Duchonin e lo massacra a colpi di fucile e baionetta.
Alla nostra riunione, per motivi di tempo non abbiamo potuto esporre 3 cartine descriventi le operazioni militari: saranno inserite nella pubblicazione del testo esteso.
La
rivolta dei neri negli Stati Uniti
Sui “Black Lives Matter” oggi si volge l’attenzione più che su ogni altro movimento sociale o dei lavoratori negli Stati Uniti e, in una certa misura, ovunque. Il BLM, come movimento per i diritti civili, nacque nel 2013, in risposta alla tremendamente lunga lista di uccisioni perpetrate dallo Stato borghese e dai suoi sostenitori a danno dei neri nel corso di centinaia di anni.
La nuova ondata di mobilitazioni è partita da Minneapolis per diffondersi rapidamente nel resto degli Stati Uniti e in diverse città nel mondo. L’estate scorsa ha visto un infinito susseguirsi di proteste, maggiori nelle grandi metropoli, con devastazioni su larga scala e con la risposta violenta di polizia ed esercito.
All’inizio, nato spontaneamente, il movimento ha assunto un certo carattere di classe, e vi è stata una momentanea perdita di controllo della situazione da parte dello Stato borghese. Tuttavia, a partire dai dirigenti stessi del movimento, quel carattere è rapidamente venuto meno per fare posto a quella che è sempre stata la vera natura di BLM: un movimento interclassista, quindi borghese, piuttosto che proletario. La classe operaia nera ha avuto un forte peso nel movimento, così come la classe operaia nel suo complesso, ma noi comunisti sappiamo che non basta una maggioranza statistica operaia perché un movimento ne sia espressione come classe. La rivolta di quella minoranza razziale così a lungo perseguitata si è spostata al di fuori del terreno di classe, strizzando l’occhio a quel medesimo ordine sociale che è all’origine delle iniquità che BLM vorrebbe sradicare: lo Stato borghese e le illusioni della democrazia liberale.
Essendo un movimento decentralizzato, confuso, senza programma e senza direzione di partito, le sue rivendicazioni e indicazioni, a volte deliranti, spesso divergono tra loro. Tuttavia tra le richieste più spesso ricorrono: la critica al regime di Trump (soprattutto nella misura in cui lo si vuole sostituire, tramite la farsa elettorale, con il candidato dell’ala “democratica” del partito unico del Capitale), la riforma del sistema giudiziario, sanzioni più severe per gli agenti di polizia violenti, contenere il diffuso razzismo, ridurre i fondi ai dipartimenti di polizia locali, sostegno alle imprese piccole o di proprietà di neri, e così via.
Qui la natura di classe della violenza razzista si perde, in quanto gli afroamericani appartenenti alle mezze-classi o alla classe dei padroni ne sono meno soggetti rispetto ai proletari di colore. Deve anche essere sottolineato che un capitalista negro ha uguale interesse alla tutela della sua proprietà quanto qualsiasi altro della sua classe.
Questa ideologia, prevalente in BLM, non può che spingere il proletariato di ogni razza verso la trappola dell’interclassismo e del progressismo populista. Quelle rivendicazioni di natura piccolo borghese manifestano l’interesse a preservare gli attuali rapporti sociali.
L’inevitabile malcontento, sia sociale sia razziale, sprofonda qui nella palude elettorale e trova conferma nel fatto che il Partito Democratico abbia come obiettivo, per nulla nuovo, quello di portare a casa il maggior numero di “voti neri”. I "Blu" contro il “tiranno” Trump, colpevole di dare voce e protezione ai suprematisti bianchi. Intanto le multinazionali dei media e del commercio, Apple, Nike, Adidas e altre, sventolano la bandiera del progressismo anti-razzista, in cambio di buoni affari, e hanno recentemente promesso investimenti nelle comunità afroamericane.
Le rivendicazioni populiste del movimento hanno attratto anche molti giovani bianchi, piccolo borghesi e proletari, pronti a esprimere solidarietà alla causa dell’antirazzismo e il loro malcontento per il generale panorama americano di oggi.
Si sono aggiunte all’opera di insabbiamento riformista una molteplicità di partiti, organizzazioni e nebulose antifasciste. Come è stato dimostrato dalle proteste indette da BLM, l’auto-proclamata “sinistra comunista” negli Stati Uniti ha evidentemente raggiunto livelli di distacco dalla realtà tali, nonché minimi di organizzazione politica, che qualsiasi esplosione sociale, spontanea e casuale, è vista nella prospettiva più esagerata in una totale mancanza di spirito critico: caratteristica che l’avvicina più al progressismo borghese che al marxismo.
Il tutto mentre il tamburo del sindacalismo di classe non batte un colpo.
Anche la “radicale” rivendicazione dell’abolizione dei dipartimenti di polizia presuppone che gli sgherri del capitale e il capitale stesso possano essere affrontati separatamente: gli agenti di polizia non sono che il braccio armato dello Stato, necessari per far rispettare le leggi che garantiscono la riproduzione dei rapporti sociali capitalistici. Senza l’apparato repressivo dello Stato l’accumulazione di capitale risulterebbe impossibile, la borghesia mai potrebbe disciplinare la forza lavoro del proletariato. Non basta abolire la polizia o creare quartieri autonomi per portare alla rivoluzione, e nemmeno entrambe le cose. Fintanto che esiste una società divisa in due grandi classi antagoniste, è necessario un apparato a disposizione della classe che regna sull’altra, di uno Stato. La necessità di estorcere sempre più plusvalore dal proletariato comporta una resistenza da contenere con mezzi sempre più violenti.
La povertà del proletariato afroamericano, violentemente colpito prima dalla crisi economica in corso del capitalismo mondiale, poi dalla pandemia del Covid-19 – che negli Stati Uniti ha visto un terzo delle sue vittime nella popolazione negra – ha subito un’impennata della disoccupazione, già storicamente molto alta. Mancano i servizi essenziali, in particolare nel settore sanitario, gli alloggi. La violenza razzista contribuisce al mantenimento della società di classe.
Per tutte queste ragioni il BLM ha ben poco da offrire al proletariato nero, se non “fantasia e stravaganza”.
La violenza dello Stato è proporzionale all’impoverimento generale dei proletari. In particolare di quelli negri e latini. La crisi del Covid-19 ha portato loro ulteriori sofferenze. Lo stesso George Floyd vi aveva perduto il lavoro: molti neri lavorano in settori costretti a chiudere o soggetti a restrizioni, settori nei quali, di solito, già si guadagna decisamente poco. Di conseguenza, mentre l’assegno “stimulus” di 1.200 dollari erogato ad aprile ha probabilmente rappresentato per i lavoratori peggio pagati una manna dal cielo, sono state di molto minore aiuto la maggior parte delle altre misure di sostegno, come l’incremento degli assegni di disoccupazione e i sussidi legati al reddito dell’anno precedente. E al momento è improbabile che siano in arrivo altri assegni del tipo “stimulus”. Gli strati sociali più poveri – che abitano nelle zone più inquinate e densamente popolate, ad alta criminalità – tendono inoltre a non avere accesso a un’assistenza sanitaria decente e a costi accessibili: sono dunque soggetti a maggiore stress e a problemi di salute che li predispongono alle complicazioni del Covid-19. Nessun aspetto di tale sfruttamento è riducibile al caso.
Certo la maggioranza della classe operaia è composta di bianchi. Ma il particolare sfruttamento e l’oppressione ai danni di una parte del proletariato porta con sé gravi implicazioni di carattere razzista, di cui sono vittime i lavoratori delle comunità di colore. Questo è il prodotto di una serie di motivazioni economiche e sociali che acconsentono a un razzismo strutturale, indispensabile strumento dello Stato borghese. Nel fitto tessuto delle comunità urbane e nei luoghi di lavoro la forza lavoro è composta in modo sproporzionato da proletari di colore. Membri a pieno diritto della classe operaia, sono designati a sorreggere il peso di un capitalismo che cerca di ridurre al minimo il costo della forza lavoro.
Questi lavoratori non sempre subiscono in silenzio. Nel mese di giugno sono stati segnalati 600 scioperi, di un’ora o di un giorno: molti di essi hanno avuto motivazioni legate a “salute e sicurezza” in difesa dalla pandemia da Covid-19. Questo tipo di sciopero “semi-politico” è raro negli USA: anche se il Partito Democratico ha cercato di trarne vantaggio elettorale, possono essere visti come un positivo risveglio della classe.
È anche possibile che alcuni tra quei 600 scioperi siano stati in realtà condotti assieme ai padroni, in solidarietà di razza.
I compagni statunitensi del partito porteranno la loro propaganda anche fra le componenti del proletariato negro e ispanico, a questo in lingua spagnola.
Un
gruppo di compagni nordamericani si è già impegnato in uno studio
sulla questione dei neri all’interno del movimento proletario
negli Stati Uniti. Il lavoro vuole essere un’indagine sulla
questione razziale, basata sugli scritti del Partito e su quelli del
movimento operaio nel corso della sua storia. Lo schema appare
attualmente così: - Dallo schiavismo alla schiavitù
salariale - I neri nel movimento sindacale: dai Cavalieri del
Lavoro agli IWW – I neri ed il movimento socialista: il Partito
Socialista del Lavoro e i partiti socialisti - La Fratellanza di
Sangue Africana ed il comunismo americano - Il Congresso
del Lavoro dei Negri Americani e la rivendicazione di una Repubblica
dei Nativi - La Lega Comunista di Lotta e le Camere del Lavoro Negre
- La cosiddetta Liberazione Nera.
Come
il partito ha giudicato la mancata rivoluzione in Germania
Alla riunione generale scorsa la compagna ha esposto la seconda parte del rapporto iniziato alla precedente generale.
Nel
1960 “Il Programma Comunista”, dopo aver pubblicato nei numeri 6
e 7 dello stesso anno “Le posizioni di Rosa Luxemburg e di
Vladimiro Lenin nella battaglia contro il tradimento opportunista e
per la nuova Internazionale”, scrive sul n.21 “In difesa della
Luxemburg”. È un articolo teso a sottolineare come il ricordo del
lascito della Luxemburg sia spesso volto a speculare sugli “errori
teorici”, per distogliere i proletari dalle pagine più essenziali
della inflessibile fustigatrice degli “innovatori” del
marxismo.
«Il
risveglio di interesse per la tanto dimenticata e tanto grande
rivoluzionaria polacca sarebbe da salutare con gioia se non vi
si nascondessero dietro meschine speculazioni di bottega. In
genere si trascura il gigantesco apporto della Luxemburg alla
lotta contro il revisionismo, il riformismo, il
cretinismo parlamentare, e si fa della “Rosa rossa” un
contraltare a Lenin nella visione dei compiti storici del Partito: si
butta a mare quello che fu il cardine della vita di questa
militante rivoluzionaria di eccezione e il contributo
permanente della sua attività anche teorica alla vita del
movimento proletario, per eternizzare e assolutizzare
una polemica con Lenin sul problema della “democrazia interna”
i cui sviluppi, qualora i tragici avvenimenti del 1919 non avessero
troncato la vita sua, di Karl Liebknecht e di Leo Jogiches, nessuno
può oggi prevedere quali sarebbero stati nel quadro della III
Internazionale Comunista».
Nel
1969, sul n.5 “Il Programma Comunista” pubblica: “1919-1969:
Il proletario rivoluzionario grida: Ero, sono, sarò”,
sferrando una quanto mai giusta ed aspra critica contro i
“commemoratori d’oggi” che osano trasformare quella che per
Lenin era un’“aquila” e che non aveva mai cessato d’essere
una rivoluzionaria, in una pia “colomba” voce della pacificazione
fra classi e fra Stati.
«La
vita della Luxemburg fu tutta spesa nella lotta per la rivoluzione
contro le riforme e la cui polemica con Lenin può essere
giudicata criticamente solo da rivoluzionari, come
polemica fra grandi rivoluzionari fu, mai posta al servizio
delle bandiere logore e intrise di sangue degli “eterni principi”
democratici e borghesi».
Il
Programma Comunista pubblicò anche numerose citazioni e passi
di Rosa tra cui alla riunione abbiamo ricordato le seguenti. Nel
1963 al n. 9, “La via maestra”, del 1918:
«Il
partito di Lenin è il solo che abbia capito la legge e il dovere di
un partito veramente rivoluzionario, e che, con la parola d’ordine:
Tutto il potere nelle mani degli operai e dei contadini poveri, abbia
assicurato lo sviluppo della rivoluzione. I bolscevichi hanno così
risolto la celebre questione della “maggioranza del popolo” che,
da tempi immemorabili, pesava come un macigno sul petto dei
socialdemocratici. Discepoli incarnati del cretinismo parlamentare,
questi si limitavano a trasferire alla rivoluzione la saggezza
domestica dell’asilo infantile parlamentare: “Per far
passare qualcosa, bisogna prima aver la maggioranza”. Dunque, anche
nella rivoluzione: prima conquistiamo la
“maggioranza”. Ma la vera dialettica delle
rivoluzioni butta all’aria questa saggezza da talpe: la strada
non va attraverso la maggioranza alla tattica rivoluzionaria,
ma attraverso la tattica rivoluzionaria alla maggioranza. Solo
un Partito che sappia guidare, cioè spingere avanti, conquista nella
bufera la massa dei suoi aderenti. La decisione con cui Lenin e
compagni, nel momento cruciale, lanciarono l’unica parola
d’ordine animatrice: L’intero potere nelle mani del proletariato
e del contadiname povero!, li trasformò, quasi dalla sera alla
mattina, da minoranza “illegale” perseguitata e calunniata, i cui
dirigenti, come Marat, dovevano nascondersi nelle cantine, in
padroni assoluti (...)
«Tutto
ciò che in un epoca storica un partito può dare in coraggio, forza
d’azione, lungimiranza e coerenza rivoluzionaria, Lenin,
Trotski e compagni l’hanno dato in pieno. Tutto l’onore
rivoluzionario e la capacità d’azione, che mancarono
alla socialdemocrazia in Occidente, si sono condensati nei
bolscevichi. La loro insurrezione di ottobre non è stata soltanto
l’effettiva salvezza della rivoluzione russa: essa ha anche salvato
l’onore del socialismo internazionale».
Nel
1963, al n.13, “Cretinismo democratico”, del 20 novembre
1918:
«Negli
agenti confessi o camuffati della classe dirigente, la parola
d’ordine dell’Assemblea Nazionale si intende da sé (…)
Essi pretendono di risparmiare alla rivoluzione l’impiego della
forza, la guerra civile con tutti i suoi terrori. Illusione
piccolo-borghese! Essi si immaginano il corso della potente
rivoluzione sociale di fronte a cui l’umanità si trova come una
specie d’incontro fra le diverse classi per una bella
discussione tranquilla e “dignitosa”, che trovi la sua
conclusione in un voto. Credono che la classe capitalistica,
constatato che si trova in minoranza, dichiarerà, con un sospiro, da
partito parlamentare disciplinato: “Nulla da fare! Vedo che
siamno battuti ai voti: e sia! Ne conveniamo, e trasmettiamo ai
lavoratori tutte le nostre terre, le nostre fabbriche, le nostre
miniere, le nostre casseforti a prova dxi bomba, i nostri bei
profitti…”.
«Questi
marxisti pieni di profondità hanno dimenticato l’ABC del
socialismo. Hanno dimenticato che la borghesia non è un partito
parlamentare ma una classe dirigente in possesso di tutti gli
strumenti del dominio economico e sociale».
Nel
1963, al n.14, “Parlamentarismo o lotta rivoluzionaria”, del
novembre 1919:
«Niente
valse la maggioranza parlamentare per la difesa delle
rivoluzioni borghesi. Eppure, che cos’era l’opposizione fra
borghesia e feudalesimo di fronte all’abisso gigantesco che si è
oggi aperto fra lavoro e capitale? Che cos’era la coscienza di
classe dei combattenti dei due campi che si affrontavano nel 1649 e
nel 1789 paragonata all’odio mortale, inestinguibile, che
divampa ai nostri giorni fra il proletariato e la classe dei
capitalisti? Non invano Carlo Marx ha illuminato con la sua lanterna
scientifica le molle più segrete del meccanismo economico e politico
della società borghese. Non invano ha fatto, apparire in modo
clamoroso tutto il suo comportamento, fino alle forme più sublimi
del sentimento e del pensiero, come un’emanazione del fatto
fondamentale che essa trae la sua vita, come un vampiro, dal sangue
del proletariato!
«È
l’ultima grande battaglia, la cui posta è il mantenimento o
l’abolizione dello sfruttamento; è una svolta nella storia
dell’umanità, una lotta nella quale non possono esservi né
scappatoie né compromessi né pietà. E questa lotta, che per
l’ampiezza dei suoi compiti supera tutto ciò che si è conosciuto
finora, dovrebbe realizzare ciò che nessuna lotta di classe, nessuna
rivoluzione ha mai realizzato: sciogliere la lotta mortale fra due
mondi in un dolce mormorio di battaglie oratorie in parlamento e di
decisioni prese a maggioranza.
«Il
parlamentarismo è stato per il proletariato un’arena della lotta
di classe finché durava il tran-tran quotidiano della società
borghese: era la tribuna da cui le masse, riunite intorno alla
bandiera del socialismo, potevano allenarsi al combattimento.
Oggi siamo nel vivo della rivoluzione proletaria, e si tratta di
menare la scure sull’albero dello sfruttamento capitalistico.
Il parlamento borghese, come la dominazione di classe della borghesia
di cui è l’obiettivo politico essenziale, è decaduto dal suo
diritto all’esistenza. Ora entra in scena la più aperta, la più
nuda delle lotte di classe. Il capitale e il lavoro non hanno più
nulla da dirsi, non hanno più che da avvinghiarsi in un corpo a
corpo senza pietà, perché la lotta decida chi sarà gettato a
terra».
Nel
1968, al n.14, “Riforma o Rivoluzione”, 1899:
«È
completamente falso e contrario alla storia immaginarsi il lavoro per
le riforme come la rivoluzione tirata in lungo, e la rivoluzione come
una riforma condensata. Una trasformazione sociale e una riforma
legale non sono elementi distinti dalla loro durata ma dal loro
contenuto.
«Tutto
il segreto delle trasformazioni storiche, mediante l’uso del potere
politico, risiede appunto nella trasformazione di semplici modifiche
quantitative in una qualità nuova o, per parlare in termini
concreti, nel passaggio da un periodo storico, da una data forma di
società, a un’altra.
«Perciò,
chiunque si pronuncia a favore della via delle riforme legali invece
della conquista del potere e della rivoluzione sociale, e contro di
esse, non sceglie in realtà una via più tranquilla, più sicura e
più lenta, che conduce allo stesso fine, ma sceglie un fine diverso,
cioè invece dell’instaurazione di una società nuova,
modificazioni puramente superficiali della vecchia società. È così
che, partendo dalle considerazioni politiche del revisionismo, si
giunge alla stessa conclusione delle sue teorie economiche; cioè
esse mirano, in fondo, non alla realizzazione dell’ordine
socialista ma unicamente alla rimessa in forma dell’ordine
capitalista, non alla soppressione del salariato, ma al dosaggio
in più o in meno dello sfruttamento, alla soppressione degli abusi
del capitalismo ma non del capitalismo stesso (...)
«I
rapporti di produzione della società capitalistica si avvicinano
sempre più ai rapporti di produzione della società socialista,
ma per converso i suoi rapporti politici e giuridici erigono fra la
società capitalistica e la società socialista un muro sempre più
alto. Questo muro non soltanto non è intaccato, ma al contrario
rafforzato, consolidato, potenziato dallo sviluppo delle
riforme sociali e della democrazia. Ciò che potrà abbatterlo è
quindi unicamente il colpo di ariete della rivoluzione, cioè la
conquista del potere politico da parte del proletariato».
Nel
1971, al n.23, “Continuità programmazione pratica”:
«Il
nostro programma sarebbe solo un miserabile pezzo di carta se non
fosse in grado di servirci in ogni eventualità e in ogni momento
della lotta, e di servirci appunto con la sua applicazione e non
con la sua omissione.
«Invero,
se il nostro programma dà la formula dello sviluppo storico della
società dal capitalismo al socialismo, deve conseguentemente
formulare fasi transitorie di questo sviluppo, presentarle nei loro
lineamenti generali: dev’essere quindi in grado di
indicare al proletariato, in ogni momento, l’atteggiamento da
adottare per avvicinarsi al socialismo. Ne segue che per il
proletariato non può esserci in generale un momento in cui esso sia
costretto ad abbandonare il suo programma, o un momento in cui,
al contrario, questo programma lo abbandoni».
“L’ordine regna a Berlino” è l’ultimo scritto di Rosa, apparso nel giornale Die Rote Fahne il 14 gennaio 1919: «L’ordine regna a Berlino! Oh stupidi sgherri! il vostro ordine è costruito sulla sabbia. Domani la rivoluzione si leverà di nuovo con fragore, e, nel vostro terrore, annunzierà fra squilli di tromba: “IO ERO, IO SONO, IO SARÒ!”.
Questo
grido, questa certezza noi li riprendiamo. Solo così si ricordano
Carlo e Rosa. Solo così risorgono i morti di ieri e risorgeranno i
morti di domani. “Vivremo noi o no, vivrà il nostro programma”.
La formazione della nazione indiana
Il compagno continuava la serie dei rapporti sulla storia dell’India descrivendo gli avvenimenti fino alle elezioni del 1977 che videro il successo del partito Janata.
L’indipendenza del Bangladesh nel 1971 smascherava definitivamente l’India capitalista che da tempo aveva abbandonato le fantasiose litanie della non violenza e vedeva tramontare definitivamente l’utopistico progetto del non allineamento che nei piani della borghesia indiana avrebbe favorito il capitalismo nazionale.
Il 16 dicembre del 1971, con la resa delle truppe pakistane si affermò l’egemonia regionale dell’India, anche a scapito dei rivali Stati confinanti più piccoli.
Lo stesso Bangladesh ben presto manifestò tendenze anti indiane. Sebbene l’esercito fosse stato rapidamente ritirato, numerosi uomini d’affari e mercanti indiani si recarono nel fertile Bangladesh, sfruttando la popolazione locale.
Pochi anni dopo l’indipendenza, sul Gange, nel territorio indiano vicino al confine, fu costruita la diga di Farakka; sarà presto evidente come questo monumento dell’India capitalista, utile per la regimentazione delle acque del grande fiume, aveva cambiato radicalmente la rete idrografica della zona portando alla fame migliaia di famiglie contadine, costrette ad emigrare verso le baraccopoli delle grandi città, Calcutta e Dacca.
Nel marzo del 1972 si tennero le elezioni negli Stati. Nuovamente trionfò il partito della Gandhi, anche grazie al prestigio della vittoria militare. Come in passato Indira si trovò a promettere e pianificare una serie di riforme, ma alla testa di un partito che rimaneva condizionato da classi retrograde, in particolare nelle sterminate campagne, e all’interno del Congresso.
L’euforia per la vittoria contro il nemico pakistano svanì in fretta. Oltre ai considerevoli costi della guerra, dal 1972 al 1975 le sfavorevoli piogge monsoniche danneggiarono l’agricoltura. Lo Stato non fu in grado di farvi fronte, anche per l’inizio della fase discendente del capitalismo globale. Un ulteriore peggioramento si ebbe nel 1973 quando quadruplicò il prezzo del greggio.
Le condizioni di vita della maggioranza della popolazione indiana rimanevano precarie. Le riforme sociali erano solo un vago ricordo elettorale. Il tentativo di avviare una nuova fase di ridistribuzione della terra si concluse in un insuccesso; idem per la nazionalizzazione del commercio all’ingrosso del grano e la distribuzione a prezzi calmierati.
L’ennesimo fallimento della politica riformista rifletteva la disputa sulle riforme terriere. Era evidente come le classi agrarie dominanti continuavano a esercitare nel partito di governo e su tutta la burocrazia statale una notevole influenza.
Il capitalismo indiano non decollava e cresceva la miseria. Quasi la metà della popolazione non riusciva a soddisfare le normali necessità alimentari. L’abolizione giuridica delle caste non aveva scalfito la condizione del contadino paria indiano. Le tanto sbandierate riforme furono un insuccesso, la maggior parte dei contadini continuava ad avere terra insufficiente o ne era priva, mentre le grandi proprietà rimanevano condotte con metodi arcaici di produzione.
I pochi aiuti internazionali finirono alle aziende in grado di investire in macchinari, fertilizzanti, opere e apparecchiature per l’irrigazione e in impianti di conservazione. Se le poche aziende moderne progredirono, le condizioni di milioni di contadini poveri peggiorarono, anche perché la terra aumentò di prezzo divenendo loro inaccessibile.
Il monsone rimaneva l’arbitro della sorte di milioni di indiani e nelle stagioni sfavorevoli la produzione di cereali diminuiva di molto. Una tragedia del moderno, lacerato e imprevidente mondo borghese: i conflitti esistenti tra i diversi Stati dell’Unione impedivano il convogliare nelle regioni semi-aride le piene del Gange, del Bramaputra, del Nurmanda e degli altri fiumi minori.
In questo scenario le classi dominanti indiane, pur in contesa per il controllo delle istituzioni statali, agivano unite contro il comune nemico, il proletariato, che nel maggio del 1974 alzò la testa e si impose in un imponente sciopero generale dei ferrovieri. Fu indetto per aumenti salariali e il rispetto delle otto ore. Durò tre settimane e trascinò nella lotta più di un milione e settecentomila lavoratori di ogni razza, religione e casta. Episodi di solidarietà operaia si moltiplicarono in diverse città dell’India, alcune fabbriche aderirono allo sciopero rilanciando loro rivendicazioni di categoria.
Di fronte al pericolo la borghesia indiana non tardò a ricompattarsi e a reprimere il movimento con durezza. Oltre 30.000 scioperanti furono gettati nelle carceri e la polizia si macchiò di diversi omicidi di lavoratori e attivisti sindacali.
Era da almeno un decennio che i ferrovieri lottavano con determinazione rivendicando condizioni di vita e di lavoro migliori; una lotta gestita dai numerosi sindacati ufficiali espressione di tutti i partiti di governo e di opposizione, che quindi, per natura, non tendevano all’unità d’azione. I risultati ottenuti furono deludenti a causa dell’atteggiamento delle centrali sindacali, alcune delle quali pronte a spegnere le fiamme della lotta e ad emarginare i lavoratori più combattivi.
La rabbia dei ferrovieri sfociò in aperta ribellione a questi sindacati che vennero prima apertamente contestati e combattuti poi abbandonati. Furono le successive strutture sindacali di base, create in brevissimo tempo, che permisero ai lavoratori di esprimersi con energia e determinazione.
La repressione fu pesante, una cocente sconfitta per tutto il movimento operaio indiano che fece fatica a riprendersi. Fu però anche una lezione preziosa che indicava al giovane proletariato indiano quale fosse la giusta strada per difendersi dagli attacchi dei padroni e del loro Stato: organizzazioni dedite alla lotta più intransigente e solidarietà con i fratelli di classe.
Mentre lo sciopero dei ferrovieri era ancora in corso, il 18 maggio 1974 nel deserto del Rajasthan fu fatto esplodere un ordigno nucleare. Con questo, che chiamarono “Il sorriso del Buddha”, l’India diventò la sesta potenza nucleare dopo Stati Uniti, Cina, Inghilterra, Francia e Russia, benché in passato avesse sempre chiesto a gran voce il generale disarmo nucleare. Era una evidente risposta alla minaccia nucleare della nemica Cina.
Ma il test nucleare non poteva far dimenticare la non risolta questione agraria e la miseria di milioni di contadini, cui si aggiungeva un vivace movimento operaio ad intimorire la classe dominante indiana.
Nel giugno 1975 l’Alta Corte di Allahabad invalidò l’elezione di 4 anni prima della Gandhi accusandola di irregolarità e per sei anni la bandì da ogni carica, trovando sostegno in una fronda interna al Congresso. La Gandhi reagì ricorrendo a poteri straordinari. Furono incarcerati tutti gli oppositori politici, compresi uomini del Congresso. Restò escluso dalle persecuzioni il sedicente partito comunista indiano, sostenuto da Mosca. Furono colpiti in particolar modo gli attivisti sindacali. Venne imposta la totale censura sui mezzi di informazione.
In quella accesa lotta tra borghesi furono le classi subordinate, quelle verso cui era di fatto stato proclamato il regime dell’emergenza, a soffrirne maggiormente. Furono allontanati a forza gli abitanti poveri dal quartiere musulmano, nella vecchia Delhi, intorno alla grande moschea, e si cercò di imporre una dissennata politica di controllo delle nascite.
In questa instabilità politica la Gandhi fu costretta a indire nuove elezioni. Lo stato di emergenza venne sospeso e parte dei prigionieri politici rimessi in libertà. Le forze borghesi ostili al primo ministro si presentarono in un fronte comune anti Congresso, il Partito Janata. La classe dominante indiana, debole e divisa, provava così a tamponare un’emergenza sociale sempre più profonda. Le politiche di riforma sociale promosse durante l’emergenza avevano spaventato i conservatori, la sospensione delle loro libertà democratiche avevano impaurito i borghesi, ma soprattutto le riforme sociali avevano raggiunto solo settori limitati delle sterminate masse indiane, sempre più impoverite dallo sviluppo del capitalismo e dal suo ritardato sviluppo.
Fine del resoconto al prossimo numero