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La violenza, apparentemente cieca, esercitata dagli agenti dello Stato borghese nelle ultime settimane negli Stati Uniti e la energica ed estesa risposta dei lavoratori in genere, richiedono dei confronti storici.
Vengono subito in mente le proteste e i disordini provocati dall’assassinio di Martin Luther King nel 1968 e quelli che seguirono l’assoluzione dei poliziotti che massacrarono Rodney King nel 1992. Più recente la rivolta di Baltimora del 2015, provocata dall’assassinio di Freddie Gray, per il quale, ricordiamo, nessun poliziotto è mai stato condannato dalla “giustizia” borghese. A questi e altri episodi hanno seguito ampie mobilitazioni del proletariato nero.
Eppure, nonostante risposte vaste e vigorose come quelle attuali, continua a ripetersi lo stesso ciclo di brutalità e di omicidi. Perché questa violenza borghese continua? e c’è cosa che possa fermerla?
Nel 1919 Rosa Luxemburg scriveva «la miglior difesa sta nel colpire con forza». La risposta del proletariato a qualsiasi attacco nei suoi confronti può consistere solo nell’accrescere la sua forza. Ma azioni efficaci volte a conquistare diritti pratici per i proletari sono possibili solo attraverso loro estese e robuste organizzazioni.
Le fondamenta del razzismo negli Stati Uniti, come in ogni altro paese moderno, sono queste: i lavoratori di colore guadagnano, per le stesse mansioni, molto meno dei bianchi; ciò fa deprezzare tutta la forza lavoro, a vantaggio della borghesia. Fino a che i lavoratori, divisi per razze, sono obbligati a competere l’uno contro l’altro, il salario di ognuno viene tenuto basso, e la forza della classe operaia si azzera.
La polizia rende effettivo questo ordine sociale all’interno del paese, come l’esercito, attraverso le guerre imperialiste, contro i diseredati all’estero.
Ai proletari bianchi sono inculcate le peggiori menzogne razziste per dissuaderli dall’organizzarsi assieme a quelli delle minoranze attorno alla loro causa comune.
Di fatto è in corso una guerra civile fra la classe dei borghesi, forte del suo Stato, e l’insieme, interrazziale, della classe operaia. Questa persecuzione delle minoranze è un diversivo interno di questa guerra, e quindi continuerà e si inasprirà anche assai finché continuerà il potere della borghesia.
Quindi l’attuale movimento antirazzista dimostra tutta la sua impotenza ignorando la base di classe del razzismo, e impostando l’azione lungo le linee di razza, nella illusione di poter così ottenere una tregua dallo Stato borghese.
Invece l’unica reale forza sociale che possa davvero rispondere alla violenza razzista non può che essere una energia rivoluzionaria di classe: il movimento della classe operaia volto all’abbattimento del dominio politico della borghesia.
Solo la conquista del potere politico e la socializzazione dei mezzi di produzione potrà trarre il proletariato di ogni colore dalla sua condizione miserevole.
Ciò non toglie affatto, anzi è necessario che la classe operaia debba organizzarsi per la sua difesa. In questa società i lavoratori possono resistere all’oppressione borghese solo tramite gli scioperi. Lo sciopero è lo schierarsi dei lavoratori contro la borghesia, e quindi anche contro la sua ideologia e propaganda razzista. Con gli scioperi è possibile strappare delle concessioni immediate, di cui i lavoratori di colore in particolare necessitano disperatamente.
Nel corso di questa battaglia sociale andranno a costruirsi i sindacati dei lavoratori, organi di combattimento che, in periodo rivoluzionario, dovranno esser diretti dal partito comunista per lo scontro finale rivoluzionario.
Non gli attuali sindacati venduti al regime borghese, che opporranno ogni resistenza. Essi esistono, infatti, per disperdere le lotte dei lavoratori, dirottandole verso binari legalitari, elettorali e burocratici. I nuovi sindacati della classe lavoratrice dovranno sorgere contro questi sindacati collaborazionisti.
Il ruolo del partito oggi è dimostrare la sua capacità di dirigere queste battaglie immediate, in modo tale che la classe arrivi preparata al momento rivoluzionario.
Lotte operaie contro il razzismo
Osservate come anche negli Usa i lavoratori hanno cercato di difendersi dagli effetti della epidemia. Le azioni sindacali che hanno avuto luogo all’inizio della pandemia di Covid‑19 mostrano la forza che gli scioperi possono avere nell’immediato. Un’ondata di scioperi è scoppiata a marzo e ad aprile, quando i padroni hanno messo a rischio la salute dei lavoratori. La maggior parte di questi erano scioperi spontanei, organizzati senza l’approvazione del sindacato o in luoghi di lavoro non sindacalizzati.
In oltre 300 aziende decine di migliaia di lavoratori hanno osato scioperare per proteggere se stessi e i compagni, e hanno rapidamente ottenuto alcune concessioni, tra cui condizioni di lavoro più sicure e indennità di malattia.
Queste vittorie dimostrano che è possibile lottare contro le minacce alla condizione operaia. E possono allo stesso modo combattere il razzismo nei posti di lavoro e nei trattamenti salariali. Questi abusi sono altrettanto immediati e diffusi, e le conseguenze per l’inazione altrettanto gravi.
Cosa diciamo a chi si vuol battere contro il razzismo
La portata delle proteste scoppiate dopo l’assassinio di George Floyd dimostra che la generalità dei lavoratori riconosce che la sua morte è solo un episodio del generale atteggiamento del regime attuale a perseguitare gli uomini di colore.
Non tutti sono coscienti che questo è il regime del capitale, e che la violenza razzista è parte della guerra della borghesia contro il proletariato in generale, ma riconoscono che i diversi casi di brutalità poliziesca non sono in alcun modo fatti isolati.
Il ruolo dei comunisti è quello di mostrare a chi per questo si indigna e scende nelle strade che il capitalismo è alla radice di questa mostruosità, che solo il movimento della classe operaia, diretta dal partito comunista, la potrà fermare.
Lavoratori!
La vostra unica difesa è nella organizzazione e nella lotta come classe
La risolutiva risposta al razzismo è solo nella rivoluzione comunista.
Solo nel partito comunista è l’anticipazione del comunismo e la coscienza della strada per arrivarci.
Nella catastrofe economica i ceti di piccola borghesia implorano la protezione dello Stato
Questo, che fa tutt’uno col grande capitale, li schiaccerà spietato
La classe operaia non ha da appoggiare né gli uni né l’altro
In questo periodo di profonda crisi internazionale del sistema capitalistico ritornano in auge varie rivendicazioni che poco hanno a che vedere con il movimento operaio. Una di queste, ultimamente riproposta da varie forze politiche opportuniste e da dirigenti sindacali, consisterebbe in una nuova patrimoniale i cui proventi, si pretende, verrebbero impiegati ad alleviare le sofferenze della classe lavoratrice.
Su “Sinistra Sindacale”, corrente interna alla CGIL, si legge un articolo dal titolo Patrimoniale subito intesa come una tassa sulla rendita, fondiaria e finanziaria, a vantaggio dei “ceti produttivi”, accomunando lavoratori e padroni, il “mondo del lavoro”. Come se il capitale cosiddetto “produttivo” e quello finanziario non fossero profondamente interdipendenti.
Anche l’area politica a cui fa riferimento la dirigenza del SI Cobas ha promosso un “Patto di Azione” – con varie assemblee on‑line, l’ultima delle quali il 16 giugno – che inquadra ideologicamente e politicamente alcune rivendicazioni operaie nella proposta riformistica di una imposta patrimoniale con un prelievo del 10% sul 10% dei più ricchi.
Sono in buona compagnia. Potrebbero aprire un dibattito per convincere ad aderire al Patto anche le Sardine e Liberi e Uguali, che avevano chiesto una patrimoniale dell’1‑1,5%. E, perché no, anche l’economista tedesco Daniel Stelter che dalla rivista “Manager Magazine” consiglia al governo italiano una tassa del 14% sulla ricchezza privata per risanare il debito pubblico. Negli Stati Uniti c’è la proposta della 29enne neo‑deputata dei Democratici Alexandra Ocasio-Cortez a voler fissare un’aliquota marginale del 70% sui redditi dei più ricchi per finanziare un piano di riforma della cosiddetta “green economy”.
Ma già la politica del PCI nei decenni seguenti la Seconda Guerra mondiale pretendeva fondarsi sulla concorrenza tra “latifondisti” e “borghesia produttiva”: era solo opportunismo antiproletario.
Nella recente storia italica ricordiamo che lo strumento della patrimoniale è già stato utilizzato. Con un decreto dal titolo: “Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica” l’11 luglio del 1992 il governo Amato istituì una imposta straordinaria con un prelievo forzoso del 6 per mille sui depositi bancari, postali e presso istituti e sezioni per il credito a medio termine, conti correnti, depositi a risparmio e a termine, certificati di deposito, libretti e buoni fruttiferi, da chiunque detenuti. Il provvedimento fu reso retroattivo al 9 luglio per evitare fughe di capitali. A settembre dello stesso anno fu introdotto un altro prelievo straordinario per le persone fisiche che avevano auto di grossa cilindrata, aeromobili, imbarcazioni da diporto.
Nel 1993 il gettito salì di altri 4,8 miliardi per effetto della sostituzione dell’Isi con l’Ici che, pur applicandosi sulla medesima base imponibile, prevedeva delle aliquote più alte. Inoltre fu introdotta una nuova imposta sul patrimonio delle imprese con aliquota del 7,5 per mille.
Andando indietro, nel 1919, a seguito dell’aumento vertiginoso del debito pubblico dovuto alle spese sostenute per la Grande Guerra, il governo Nitti instaurò una serie di misure che andavano a toccare il patrimonio. Anche all’epoca vi furono proposte estreme che arrivavano all’esproprio.
Su “Il Popolo d’Italia” del 6 giugno di quell’anno fu pubblicato il Manifesto del comitato centrale dei Fasci Italiani di Combattimento dal quale qui stralciamo. «Per il problema finanziario, noi vogliamo: a) Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera Espropriazione Parziale di tutte le ricchezze; b) Il sequestro di tutti i beni delle Congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense Vescovili, che costituiscono una enorme passività per la Nazione, e un privilegio di pochi; c) La revisione di tutti i contratti di forniture di guerra, ed il sequestro dell’85% dei profitti di guerra».
Spostandoci di qualche anno ed attraversato l’oceano arriviamo agli anni Trenta negli Stati Uniti. Il famoso “giovedì nero” del 1929 fece da detonatore alla già evidente crisi capitalistica. Negli anni successivi furono introdotte nuove aliquote fiscali: con la legge sulle entrate del 1934 Roosevelt dispose l’aumento delle aliquote per i redditi più alti, l’anno successivo, con legge del 30 agosto, l’aliquota più alta passò dal 63% al 75%, per poi arrivare al 79% nel 1936.
Potremmo andare avanti con esempi di come gli Stati hanno utilizzato e utilizzeranno sempre, quando necessario, imposte patrimoniali anche sui “ricchi”. Ma bisogna ricordare che gli Stati non sono entità al di sopra della società, che la gestiscono come un padre di famiglia: sono il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi ed esistono proprio perché tali antagonismi sono inconciliabili. La loro funzione è garantire alla classe capitalistica strumenti politici e di forza per tenere sottomesse e sfruttate le classi inferiori. Questo non solo negli Stati antichi su schiavi o servi ma egualmente nello Stato rappresentativo moderno, garante dello sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale.
La domanda quindi nasce spontanea: chi gestirebbe la ricchezza ricavata dall’esproprio, seppure parziale, degli espropriatori, qualora lo Stato borghese decidesse di tornare a tanto? Ci pare ovvia la risposta che solo una dittatura comunista del proletariato, scaturita dalla violenta rivoluzione per la presa del potere, potrebbe imporre questo accentramento, sotto il controllo diretto dello Stato, dei mezzi di produzione e di distribuzione in senso davvero utile alla classe operaia, cioè come primo passo verso la socializzazione completa e razionale di tutta l’economia.
Quindi, prima considerazione, i comunisti e i lavoratori con un minimo di coscienza sindacale non sono né pro né contro le tasse sui “ricchi”: non è cosa che ci riguarda o nemmeno ci avvicini, ci faccia fare un passo verso il socialismo. Anzi, è precisamente negli interessi e nelle intenzioni del grande capitale dissanguare la piccola borghesia. I partiti della falsa sinistra si danno così attivamente ad aiutarlo, e saranno i “comunisti” ad essere additati agli ex “risparmiatori” come i responsabili della loro rovina.
La classe operaia, in questo regime, lotterà invece per la sua diretta immediata e reale difesa, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per aumenti salariali per le categorie peggio pagate, per il salario integrale ai disoccupati, per la difesa di un sistema pensionistico che permetta ai proletari di vivere anche quando non possono più lavorare.
Non vogliamo noi giustificare queste rivendicazioni dimostrando allo Stato e ai borghesi che sono possibili, indicando loro dove racimolare i denari per soddisfare queste necessità impellenti della nostra classe. Sappiamo che queste rivendicazioni storiche del movimento proletario, che accomunano internazionalmente la classe operaia, porteranno comunque alla incompatibilità e allo scontro, sul piano prima economico, poi politico e di guerra sociale con la nemica classe borghese.
La rivendicazione più conseguente alla patrimoniale è quella delle nazionalizzazioni. Qui la seconda considerazione: le nazionalizzazioni non sono affatto incompatibili con il modo di produzione capitalistico.
La potente tesi dialettica di Marx della “espropriazione degli espropriatori” nella storia della lotta di classe ha dato luogo a pericolose deviazioni e a dottrine che hanno falsificato cardinali posizioni dello stesso Marx e del socialismo rivoluzionario.
La proprietà privata, la facoltà di “privare” un’altra persona o un gruppo dell’uso di un bene, varia nella storia: dalla primitiva società comunista ove tutto era acquisito e usato in comune e la proprietà non esisteva, nei secoli e millenni successivi con lo schiavismo oggetto di proprietà divenne la stessa persona umana. Il sorgere dell’economia capitalistica nei suoi effetti sui rapporti di proprietà si presenta già come una larghissima abolizione di diritti di proprietà privata. Il capitalismo ha distrutto i diritti di proprietà della già numerosa classe dei produttori artigiani ed ampiamente anche dei piccoli contadini proprietari. Ai lavoratori è tolta la possibilità di possedere le materie prime e gli arnesi di lavoro e quindi di restare possessori di quanto hanno prodotto. I capitalisti si accaparrano ora le materie e gli strumenti e della forza lavoro, e restano proprietari, fino allo smercio, di tutto il prodotto del lavoro. Ma, aumentando la massa e il valore di impianti e fabbriche, anche il singolo piccolo capitalista viene espropriato a vantaggio di grandi corporazioni anonime. Il capitale è quindi una forza sociale e non personale, di generici ricchi.
Quindi nel marxismo “ricchi” e “tagliatori di cedole” non definiscono il capitalismo, sono solo una parte, e nemmeno necessaria, delle classi fondamentali della società, la borghese e la fondiaria, che accumulano profitti e rendite sfruttando il lavoro salariato. È possibilissimo un regime sociale pienamente borghese e capitalistico senza “ricchi” e, come condizione limite, senza borghesi e senza fondiari, con le attività di entrambi, profitto e rendita, e le corrispondenti funzioni di capitalista e di landlord, assunte direttamente dallo Stato.
La società socialista non trasformerà la proprietà personale in proprietà sociale, cosa che è già avvenuta col capitalismo: l’espropriazione degli espropriatori di cui parla Il Capitale di Marx è il trasferimento del controllo e della disposizione delle forze produttive sociali dal dominio del capitale articolato in aziende al soggetto che ne è il vero depositario, la futura società di specie.
All’inizio di maggio è stato ampiamente riportato dai media della incursione armata di alcuni militari disertori venezuelani insieme a mercenari statunitensi, subito bloccati dalle forze governative.
Una congerie di analisti e opinionisti, di sinistra e di destra, ha riempito i media e le reti sociali con le tesi dello “imperialismo sconfitto”, ovvero del “fallimento delle forze democratiche”, secondo la opposta propaganda delle due frazioni borghesi concorrenti, quella al governo e quella all’opposizione. Nello stile delle produzioni a basso costo di Hollywood, è stato il borghese governo venezuelano, con l’aiuto di parte dell’opposizione e persino della stessa Casa Bianca, a montare tutta questa caricatura.
Insorti uccisi e arrestati, confisca di armi, copia di un contratto firmato tra mercenari americani e capi dell’opposizione, video con le confessioni degli arrestati in cui denunciano i mandanti e il sostegno ricevuto dai governi della Colombia e degli Stati Uniti, e persino movimenti della flotta da guerra americana nei Caraibi! Tutti i pezzi per una di quelle miniserie televisive che incantano i poveracci e li sottomettono alla dittatura ideologica della classe dominante.
Il governo venezuelano lo aveva già fatto in passato, ben conoscendo l’efficacia di tali sceneggiate per distrarre l’attenzione della classe operaia dalle sue sofferenze quotidiane, per i salari da fame, la disoccupazione, i beni e servizi troppo cari, la carenza di acqua e di elettricità. Questa pantomima di “invasione” diventa così una ulteriore aggressione ideologica contro la lucidità di mente dei lavoratori, per bloccare ancora la ripresa della lotta di classe.
Per questo la borghesia ha commissionato questa finta aggressione, così come si ordina una pizza a domicilio, per distrarre la classe operaia con le loro lotte interborghesi e interimperialiste, come fanno anche i partiti opportunisti in tutto il mondo.
I governi ovviamente sono sempre ben infiltrati nei vari gruppi “guerriglieri” e facilmente li manovrano e utilizzano ai loro scopi e infine ne raccolgono i frutti politici, talvolta esponendo questi “cospiratori” al reality mediatico e al vortice dei social, al quale aggiungono molte fake‑news, bufale. Dal montaggio del film degli scontri tra governo e opposizione, il potere borghese e la controrivoluzione vincono sempre.
Ma la borghesia non sempre riuscirà a distrarre e arrestare la classe operaia.
Infatti nulla di buono è mai venuto agli operai da alcuna delle fazioni borghesi che si battono per il controllo del governo in Venezuela.
- Rafforzato l’apparato di polizia, militare e giudiziario che reprime nella classe operaia qualsiasi tentativo di sciopero, catalogato come “cospirazione cosmopolita” o “pro‑imperialista”.
- Campagne ideologiche con messaggi interclassisti e patriottici, che allontanano i lavoratori dalla lotta per l’aumento dei salari e per la sicurezza delle loro condizioni.
- Integrazione degli attuali sindacati nello Stato borghese come strumenti all’interno della classe ad uso dei padroni e del governo per dividere e smobilitare le lotte.
- Recentemente, proroga dello stato di emergenza per imporre misure economiche, politiche e di polizia ad impedire ogni rivolta delle masse impoverite per l’impatto della pandemia di Covid‑19.
- Approfittare della “invasione” per trascinare le masse salariate verso il voto nelle prossime elezioni parlamentari, falsa via d’uscita dalla infinita crisi economica.
Il proletariato, in Venezuela e in tutto il mondo, rifiuterà queste illusioni per concentrarsi sulla sua lotta per un aumento del salario, contro la beffa dei bonus, per il pagamento del salario pieno ai pensionati e ai disoccupati, per garantire la sicurezza sul lavoro, per la riduzione delle ore di lavoro.
E, nello slancio della lotta, costruire un’organizzazione di base che garantisca l’unità d’azione della classe operaia, che superi i confini delle diverse imprese e le divisioni artificiali di categoria, di qualifica, di nazionalità, di razza. In questa lotta i lavoratori dovranno necessariamente rompere con i sindacati attuali e con tutti i partiti e i movimenti di destra e di sinistra che chiedono ai lavoratori la pace sociale e la conciliazione di classe.
L’oggetto della scienza medica non è un dato naturale ma storico. In realtà tanto l’uomo quanto le sue malattie sono in larga misura determinati da tutto il complesso delle sue condizioni di vita. Ciò è vero anche per le malattie infettive, il modo di reagire degli organismi, individuali e sociali, a questo o quell’agente patogeno (batterio, virus, ecc.) dipende dall’insieme del loro stato e dal loro grado maggiore o minore di resistenza. La proliferazione di nuove malattie può certo provenire da modificazioni dei microrganismi patogeni, ma è indubbio che deriva anche da una modificazione delle difese dell’organismo ospite, ossia dall’insieme delle condizioni di vita sia materiali in senso proprio (lavoro, alimentazione, abitazione, ecc.) sia emotive e dei sentimenti collettivi e reciproci, che dipendono dai rapporti fra gli uomini in un dato modo di produzione.
La correlazione tra inquinamento atmosferico ed infezioni delle basse vie respiratorie è dimostrata. Una ricerca della Società italiana di medicina ambientale esaminando i dati delle centraline che rilevano lo smog ne ha trovato una correlazione con il numero dei casi di persone infettate dal Covid‑19. Anche uno studio di Harvard ha dimostrato un nesso evidente fra la densità del particolato nell’aria e la probabilità di sviluppo di malattie, comprese quelle di origine virale. La correlazione tra attività antropiche e diffusione del virus si è resa evidente fra le aree di maggior diffusione del Covid‑19 e quelle di maggior industrializzazione, le stesse dove si verificano più casi di patologie oncologiche e respiratorie. La Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia, si colloca tra i primi posti al mondo per inquinamento.
Lo stesso corpo umano non può sfuggire al processo degenerativo in atto. Esso viene lentamente avvelenato, assorbendo sostanze inquinanti e metalli pesanti dall’acqua, dagli alimenti e dall’aria che respira, sviluppando una serie di sintomatologie e patologie degenerative tipiche di questa mortifera fase storica.
A fronte di ciò ecco sorgere le ideologie piccolo borghesi degli “ecologisti”, propugnatori di ogni sorta di “green economy”. L’obbiettivo della loro battaglia è uno “sviluppo sostenibile”. Il che, in questo modo di produzione, è un puro ossimoro.
Come i pacifisti e riformisti di tutte le tendenze privano il proletariato delle sue armi di classe, di fronte alla inevitabile guerra civile contro il capitale per la distruzione di questo sistema già morto, così gli ecologisti alimentano le illusioni sulla possibilità di riformare il capitalismo, emanando un soffocante inquinamento ideologico. L’ecologismo è la fase suprema dell’idealismo controrivoluzionario.
In realtà nei millenni la specie umana, nella sua interazione con la natura, ne ha sempre provocato dei cambiamenti; nella società capitalista senile, dominata dal capitale fittizio, questa manomissione è diventata particolarmente invasiva. Il lavoro morto grava sul lavoro vivo come mai prima: «Lavoro morto che resuscita come un vampiro solo succhiando lavoro vivo, e tanto più vive quanto più ne succhia» (Marx, Il Capitale, vol.I).
Per la prima legge della dialettica, superata una certa soglia la quantità si trasforma in una qualità differente, oggi il dominio del capitale sul pianeta non è semplicemente aumentato quantitativamente ma è qualitativamente diverso e mette in discussione l’esistenza stessa della specie umana. La “mineralizzazione” della vita procede a ritmo accelerato insostenibile per l’intero pianeta. Il nostro Partito l’ha definita “mineralizzazione della biosfera”, il trionfo del lavoro morto sul lavoro vivo.
La biosfera è un insieme termodinamico complesso, la cui esistenza è dovuta all’equilibrio fra l’energia che arriva dal Sole e quella utilizzata per i cicli vitali della riproduzione della nostra e delle altre specie. Il capitale in pochi secoli sta bruciando l’energia solare che la terra ha accumulato in centinaia di milioni di anni. Alcuni dati raccolti dal 1961 illustrano bene il fenomeno: a quella data la società del capitale consumava circa la metà di ciò che la biosfera nello stesso tempo era in grado di reintegrare. Il pareggio si è avuto già nel 1986. Oggi saremmo a cinque volte tanto se tutta l’umanità consumasse energia nella misura media degli Stati Uniti d’America.
Tutti sono a conoscenza delle perniciose conseguenze dei fenomeni descritti da questi dati, e a maggior ragione ne è consapevole la scienza. Ma sarebbe errato credere che ciò che impedisce agli attuali scienziati di prevenire questi mali o di guarirli sia solo una insufficienza di conoscenze o una incapacità tecnica. Il problema dell’avvelenamento dell’aria sulle città, per esempio, piuttosto che scientifico è sociale. La scienza ufficiale, nella morsa del capitale e della ideologia borghese, è condannata all’impotenza, travolta dalle contraddittorie forze cieche del capitale, che precludono ogni vero sviluppo umano. I suoi risultati, seppure involontari, sono per molti versi distruttivi: non è forse la scienza termodinamica che ha permesso il diffondersi nei trasporti dei motori a combustione che appestano il respiro, la scienza chimica delle industrie dei veleni, ecc, ecc.
La scienza in mano al Capitale è inoltre una formidabile arma ideologica di conservazione. È distribuita a tutti come un oppio, assumendo nelle sue manifestazioni la forma dogmatica classica delle religioni, con tanto di sacerdoti, eretici e untori.
Il vero patogeno della terra è il Capitale, compresa la sua scienza e la sua tecnica dissipativa e genocida.
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Le manifestazioni di strada ad Hong Kong non si sono mai placate del tutto.
Alle adunate oceaniche dell’estate scorsa, intervallate da giornate segnate dai violenti scontri tra polizia e manifestanti, sono succedute numerose proteste, come il primo di ottobre, in occasione dell’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. L’apice della tensione si è avuto con l’occupazione del Politecnico, presto assediato dalla polizia, tra la metà e la fine dello scorso novembre, operazione conclusasi con oltre mille arresti. Sebbene si sia trattato di violenti cortei, che hanno fatto registrare anche qualche morto, non si sono avute altre imponenti manifestazioni simili a quelle di giugno 2019, anche perché vietate dalle autorità. Non però l’8 di dicembre, quando, per la prima volta da agosto, la polizia non ha potuto impedire un grande assembramento, al quale secondo gli organizzatori avrebbero preso parte in 800.000.
Fino all’inizio del 2020 è proseguita l’ostinata lotta di strati sociali che individuano la loro difesa nel mantenimento dell’autonomia della ex‑colonia, in atteggiamenti anticinesi e filo‑occidentali. Mezze classi che trovano il sostegno nelle strade di “giovani” e “studenti” e nelle urne elettorali di ampi strati della popolazione, come dimostrato lo scorso 24 novembre con i candidati pro‑democrazia a cui sono andati 390 seggi su 452, mentre alle ultime elezioni del 2015 ne avevano ottenuti circa un terzo (per altro una vittoria del tutto simbolica in quanto le competenze dei consigli distrettuali sono locali, ininfluenti sul Consiglio Legislativo, il piccolo Parlamento di città).
Neanche la diffusione dell’epidemia ha fermato del tutto lo scontro sociale in corso. Le misure della quarantena sono state il pretesto che ha fatto riemergere le tendenze autonomiste e localiste: piccoli gruppi anti‑Pechino hanno invocato una chiusura totale di ogni collegamento tra Hong Kong e la Cina continentale, protestando contro i quattro corridoi lasciati aperti. A tal fine ad inizio febbraio c’è stato anche uno sciopero di medici e paramedici per chiedere la chiusura totale del confine. In generale tra febbraio ed aprile non sono mancate le azioni, meno partecipate.
Ma è da maggio che le proteste sono riprese con virulenza. Ad innescarle una recente legge varata dalla Cina: il Congresso Nazionale del popolo, il ramo legislativo del Parlamento cinese, ha approvato una legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong che punisce, in maniera molto generica, atti di separatismo, sovversione, terrorismo, interferenza straniera. Ovviamente il campo pro‑democrazia denuncia la fine del principio “un Paese, due sistemi”. In migliaia sono scesi nelle strade scontrandosi con la polizia e centinaia gli arrestati.
La crisi di Hong Kong non è confinata alla grande metropoli ma, come avevamo messo in evidenza sul numero 397 di questo giornale, la partita si inserisce nel conflitto di vasta portata fra Cina e Stati Uniti. All’offensiva di Pechino contro l’autonomia di Hong Kong gli Stati Uniti hanno risposto con la minaccia della revoca dello statuto speciale della metropoli. Finora Hong Kong ha svolto un ruolo di intermediario per la movimentazione dei capitali: da una parte la Cina se ne serve sia per attrarre capitali stranieri sia per suoi investimenti finanziari all’estero, dall’altra parte i capitalisti stranieri la utilizzano come testa di ponte per la penetrazione economica nella Cina continentale. Inoltre, Hong Kong è tra le principali aree commerciali del mondo, caricano nel porto di Hong Kong una quota rilevante delle merci cinesi verso gli Stati Uniti e viceversa. Per cui la ritorsione americana, che renderebbe la metropoli del tutto simile al resto della Cina continentale e farebbe ricadere sull’economia di Hong Kong la minaccia di tariffe doganali e altre sanzioni, si configura come un atto della guerra commerciale in corso tra le due super‑potenze.
A ciò si aggiunge la crescente tensione nelle acque dei mari cinesi, e in generale in tutta l’area del Pacifico, dove si fronteggiano le armi delle flotte di Cina e Stati Uniti. La partita di Hong Kong non è quindi un affare interno cinese, come si afferma a Pechino, ma un fronte dello scontro tra i maggiori imperialismi, che l’avanzare della crisi del capitale renderà inevitabile.
In questo contesto, fino a quando la lotta ad Hong Kong sarà condotta dalle mezze classi con l’obiettivo dell’autonomia dalla Cina, qualunque ne sarà l’esito, sia la permanenza sotto il tallone di Pechino sia il mantenimento dell’autonomia politica sotto l’ombrello protettivo degli imperialismi d’Occidente, nulla cambierà per il proletariato della metropoli, se non un diverso padrone pronto a spremerlo. Solo un intervento autonomo della classe operaia di Hong Kong, solidale nei fini e nella guerra sociale con quella di tutta la Cina, sotto la guida del suo partito rivoluzionario, potrà rovesciare ogni piano imperiale.
I sindacati a Hong Kong
Il proletariato della città ha una lunga tradizione di lotte sindacali e, data la storia e le caratteristiche della colonia, ha sempre avuto un ruolo internazionale.
Negli anni Venti, quando in tutto il mondo si diffondeva l’onda della rivoluzione comunista e la lotta classista nelle metropoli occidentali si fondeva con le rivoluzioni doppie nei paesi coloniali, secondo la grande prospettiva della Terza Internazionale, il proletariato di Hong Kong si batteva non solo per l’emancipazione politica dal dominio britannico ma direttamente contro l’oppressione del capitale, che aveva fatto della città un mostro capitalistico che sfruttava decine di migliaia di operai.
A differenza dell’arretrata Cina che, esclusi alcuni centri come Shanghai, Canton e altri pochi, era dominata da uno sconfinato mondo rurale di oltre 300 milioni di contadini, ad Hong Kong il proletariato era schierato direttamente contro la borghesia dando esempi di grandiose lotte: lo sciopero dei marittimi del 1922 e quello insieme a Canton tra il 1925 e il 1926.
Con la sconfitta della rivoluzione proletaria in Cina nel 1927 i forti sindacati vengono distrutti e il movimento rivoluzionario riparte dalle arretrate campagne. Ma abbandona la prospettiva rivoluzionaria che aveva infiammato il Paese: l’affermazione del maoismo rappresenta la sottomissione della lotta del proletariato cinese alla borghesia, alla conquista della sua indipendenza politica e nazionale e alla libera accumulazione del capitale.
Ad Hong Kong la rinascita delle organizzazioni operaie dopo la Seconda Guerra mondiale avviene in un contesto internazionale che ha visto in Cina, nel 1949, la vittoria del PCC nella guerra civile contro i nazionalisti del Kuomintang e la fondazione della Repubblica Popolare, ma con Hong Kong rimasta colonia britannica. In questa situazione il movimento operaio si trova ingabbiato nella polarizzazione tra due blocchi borghesi contrapposti: la fazione pro‑PCC e quella pro‑Kuomintang.
Sul piano sindacale questa divisione si manifesta con la nascita di due avverse centrali sindacali: la “comunista” Hong Kong and Kowloon Federation of Trade Unions (FTU), divenuta oggi la Hong Kong Federation of Trade Unions (HKFTU), e la Hong Kong and Kowloon Trades Union Council (TUC), oggi HKTUC, formata dai sostenitori del Kuomintang.
Nell’ottobre del 1956 violenti scontri tra i sostenitori dei “comunisti”, nazionalisti anche loro, e quelli di Taiwan provocano l’intervento delle truppe coloniali che fanno 59 morti.
Questa divisione politica, riflesso dello scontro tra opposti fronti internazionali entrambi borghesi, è alla base della debolezza del movimento operaio di Hong Kong, caratteristica protrattasi nei decenni e, sebbene in forme diverse, giunta fino ad oggi.
L’FTU negli anni Cinquanta e Sessanta opera come società di mutua assistenza a favore degli associati, martoriati dalla disoccupazione e dai bassi salari.
In seguito ai turbolenti eventi cinesi della Rivoluzione Culturale l’FTU intraprende una serie di lotte nelle fabbriche e in altri settori, in particolare nei trasporti, e crescono le tensioni con il governo coloniale. Nel 1967 la repressione di uno sciopero da parte della polizia coloniale, con numerosi feriti ed arresti, produce una vasta reazione dei lavoratori. A queste decise proteste il governo coloniale risponde con la violenza, gli arresti e l’imposizione del coprifuoco. La lotta dei proletari di Hong Kong è sostenuta dalla Repubblica Popolare, che fa intravedere la minaccia di un intervento militare per prendere il controllo della colonia. Le rivolte si protraggono per mesi, ma alla fine dalla Cina giunge l’ordine di fermarle. Il bilancio finale è di decine di morti, centinaia di feriti e migliaia di arrestati. La classe operaia dimostra la sua generosa disponibilità alla lotta contro l’oppressore britannico e contro lo sfruttamento capitalistico, ma resta sotto il controllo di organizzazioni legate al nazionalismo cinese.
A partire dalla fine degli anni Settanta, in seguito alle riforme economiche avviate in Cina, inizia a mutare l’atteggiamento dell’FTU nei confronti del governo coloniale: le trasformazioni economiche in atto nell’entroterra continentale necessitano dei capitali che transitano per Hong Kong. Questo spinge il sindacato alla collaborazione col governo della colonia. Inoltre si sono aperte trattative tra la Gran Bretagna e la Repubblica Popolare in vista del ritorno della città-Stato alla sovranità cinese. È in questo contesto che all’FTU è concessa dal governo coloniale la possibilità di partecipare alle elezioni del Consiglio Legislativo, anche per contrastare i nascenti partiti democratici.
Con il ritorno di Hong Kong alla Cina si apre una nuova frattura all’interno del movimento operaio della ex colonia, con lo scontro tra la fazione pro‑Pechino e quella pro‑democrazia. Quest’ultima nel 1990 dà vita ad una propria organizzazione sindacale, la Hong Kong Confederation of Trade Unions (HKCTU).
Ma ancora oggi la maggiore organizzazione sindacale è la FTU, con più di 400.000 iscritti e circa 250 sindacati federati. Fin dalla sua fondazione è un braccio della ufficiale Federazione Sindacale Cinese e si oppone alle richieste “democratiche” e autonomiste. La CTU è la seconda centrale per numero di aderenti, con circa 160.000 iscritti e 60 sindacati affiliati; fa riferimento ai sindacati dei paesi occidentali, è legata ai partiti “democratici” di Hong Kong ed è schierata attivamente nella “battaglia per la democrazia”. Poi, terza confederazione sindacale, con circa 60.000 iscritti, è la Federation of Hong Kong and Kowloon Labour Unions (HKFLU), fondata nel 1984 con una posizione neutrale rispetto agli altri due maggiori sindacati, oggi è schierata nel campo pro‑Pechino. Quarta organizzazione per numero di iscritti, ad oggi solo poco più di 6.000, è la HKTUC, storicamente legata al Kuomintang e a Taiwan. Questi quattro sindacati complessivamente inquadrano circa il 70% dei lavoratori sindacalizzati; altre centrali raccolgono il rimanente.
Nonostante siano oltre 900.000 i lavoratori aderenti ai sindacati, la classe operaia ad Hong Kong si trova in una condizione di debolezza, oltre che per i lunghi decenni della controrivoluzione, perché le sue organizzazioni sono sottomesse, dopo la iniziale contrapposizione RPC‑Taiwan, a quella odierna fra nazionalismo grande-cinese e autonomia. Il movimento operaio di Hong Kong è quindi oggi inquadrato in sindacati che perseguono interessi borghesi, intenti a schierare i proletari su fronti opposti ma entrambi appartenenti ai suoi nemici.
Proletari a difesa di interessi borghesi
Le proteste in corso ad Hong Kong da ormai un anno ripetono quanto successo nel passato e dovrebbero essere di monito anche per i proletari della metropoli. Seguendo le direttive delle attuali centrali il proletariato è portato non alla lotta per i suoi interessi ma per obiettivi borghesi e rischia di versare il sangue in uno scontro fra i suoi sfruttatori.
Ciò è confermato dall’atteggiamento che ancora oggi tengono le due principali centrali sindacali: la FTU sostiene il governo di Pechino, la CTU si schiera dalla parte dei manifestanti pro‑democrazia. È stata quindi la CTU ad indire alcuni scioperi generali, il 5 agosto e il 2‑3 settembre, in sostegno del movimento di protesta. Ma le rivendicazioni per le quali ha chiamato a scioperare sono appiattite sulle richieste del movimento democratico: ritiro del disegno di legge di estradizione verso la Cina; dimissioni del capo dell’esecutivo; un’inchiesta sulle violenze della polizia contro i manifestanti; rilascio degli arrestati; maggiori libertà democratiche. Non è avanzata nessuna rivendicazione operaia, anzi si teme che gli scioperi vengano a deteriorare il “normale funzionamento” della “vita produttiva” della ex‑colonia.
Dice infatti il manifesto che chiama allo sciopero del 2‑3 settembre: «Hong Kong ha raggiunto un punto critico e non abbiamo altra scelta che intensificare lo sciopero dei lavoratori poiché questa è la nostra ultima risorsa (...) Dobbiamo lanciare un avvertimento a coloro che sono al potere: quando i valori e i sistemi fondamentali di Hong Kong si sgretolano, l’ordine economico affonderà con essi, siamo determinati a lasciare il nostro lavoro e a unirci per le strade con tutti i manifestanti che lottano per il nostro comune futuro!».
I “valori e i sistemi fondamentali di Hong Kong” non sono altro che la libertà borghese e il sistema capitalistico che fanno di Hong Kong un paradiso per i borghesi e un inferno per i proletari; la minaccia del peggioramento dell’andamento economico è il classico avvertimento che tutti i sabotatori della lotta di classe sbandierano per spingere i lavoratori alla difesa dell’economia nazionale.
Inevitabilmente la recente legge sulla sicurezza di Hong Kong è avversata della CTU, in quanto, ritiene il sindacato, essa andrà a ledere “le libertà di Hong Kong” e “lo stato di diritto”, distruggendo la già danneggiata formula di “Un paese, due sistemi” e l’”Alto grado di autonomia” della metropoli. Un recente manifesto del sindacato, in commemorazione dei fatti di Piazza Tienanmen del 1989, mette in relazione la situazione attuale con quanto accaduto allora e schiera il movimento sindacale nella lotta per la democrazia: “Nell’odierna Hong Kong, la classe operaia di qualunque estrazione ha organizzato e creato nuovi sindacati, determinati a combattere la tirannia dal fronte sindacale. È davvero una nuova ondata di movimento sindacale alla ricerca della democrazia. Questo assomiglia al movimento sindacale nel 1989, quando i sindacati autonomi stavano spuntando in tutta la Cina. Sebbene i sindacalisti siano stati sottoposti a detenzioni e repressione su larga scala, hanno piantato dappertutto i semi delle lotte operaie. Dopo trentuno anni, la fiamma non si è spenta e la lotta continuerà. Il movimento operaio indipendente di Hong Kong porterà sicuramente avanti questo spirito. Miriamo a liberarci dalla dittatura, a realizzare un sistema veramente democratico e l’uguaglianza”. C’è quindi da aspettarsi che il sindacato possa chiamare i lavoratori ad una lotta contro la legge sulla sicurezza di Hong Kong, che sicuramente sarà utilizzata dalle autorità cittadine e da Pechino per reprimere anche le organizzazioni dei lavoratori, ma contro l’attacco del potere borghese la classe operaia non deve cadere nell’illusione che la soluzione sia nell’instaurazione di un sistema democratico, in quanto l’essenza di ogni potere borghese, sia esso democratico o “totalitario”, è quella di tenere sottomesso il proletariato e garantire la sopravvivenza del modo di produzione capitalistico.
Se da una parte la CTU chiama i lavoratori ad una lotta “per la democrazia” senza avanzare nessuna rivendicazione che riguardi le dure condizioni del proletariato di Hong Kong, dall’altra il maggiore sindacato della città-Stato, la FTU, segue le direttive di Pechino e, come il sindacato ufficiale in Cina, collabora al mantenimento delle pace sociale e infonde nella classe operaia sentimenti nazionalistici ponendo il “patriottismo” al primo posto. Non c’è quindi da stupirsi che la FTU abbia dichiarato in un comunicato stampa che la legge sulla sicurezza di Hong Kong può contribuire a garantire un ambiente sociale stabile affinché milioni di lavoratori della città possano vivere e lavorare in pace.
Contro questa politica borghese il proletariato tornerà ad avanzare rivendicazioni in difesa delle proprie condizioni di vita, da imporre con gli strumenti della lotta di classe. In realtà è già accaduto ad Hong Kong pochi anni fa: nel 2013 i lavoratori portuali hanno scioperato per 40 giorni per aumenti salariali e per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Questo sciopero, ricorrendo ai picchetti e con la solidarietà di altre categorie, ottenne degli aumenti di salario.
Al momento le condizioni di vita e di lavoro del proletariato di Hong Kong diventano insopportabili, con lunghi orari e miseri salari, a fronte dell’alto costo della vita nella penisola, in particolare delle abitazioni. Ma sarà proprio la condizione di miseria a riportare i proletari a combattere per i propri interessi e riaccendere il fuoco della lotta di classe, sicuramente in unione con le centinaia di milioni di fratelli di classe della Cina continentale.
La necessaria autonomia di classe
Quel che succede ad Hong Kong, crocevia dei traffici dell’imperialismo, non può non ripercuotersi sulla scena mondiale. Il modo di produzione capitalistico vi ha raggiunto l’apice della sua parabola, mostrando ormai tutti i caratteri della putrescenza e facendone intravedere la catastrofica distruzione. Ma l’abbattimento di un modo di produzione ormai antistorico può avvenire esclusivamente per mezzo di una feroce lotta della classe operaia, l’unica “che non è una classe di questa società”.
Ad Hong Kong invece il sommuoversi, anche talora clamoroso, esteso, prolungato e violento, ha un carattere interclassista e si pone le finalità delle classi piccolo borghesi. Queste di per sé non si pongono l’obbiettivo della distruzione della società borghese e con la loro disperata lotta cercano di difendere la loro precaria esistenza all’interno di un modo di produzione che non possono e non potranno mai mettere realmente in discussione.
Il ribellismo piccolo borghese che esplode un po’ ovunque nel mondo non è parallelo a quello della rivolta della classe operaia. E le rumorose proteste di Hong Kong confermano l’impotenza di questi ceti senza storia e senza partito, che non riescono a darsi che le antistoriche e ormai vuote rivendicazioni democratiche e micro-nazionali.
La classe operaia deve evitare di farsi schierare in una lotta fra tardo-nazionalismi destinati a sfociare solo nella dispiegata guerra imperialista, e a farsene strumento di propaganda.
Ad Hong Kong, come in altre parti del mondo, la sollevazione delle mezze classi travolte dalla crisi del capitale si manifesta senza la presenza della forza organizzata e della coscienza politica della classe operaia. Benché ancora assente dallo scontro sociale con obiettivi ed organizzazioni distinte, il proletariato è l’unica classe veramente rivoluzionaria, il solo a minacciare l’ordine sociale borghese, e che, inquadrato in sindacati classisti e guidato dal proprio partito, è in grado di abbattere il dominio del capitale. Contro le illusioni delle multiformi mezze classi, il proletariato può abbattere il regime borghese solo ritrovando sé stesso, la sua autonomia di movimento e il suo programma, cioè il suo partito.
Dopo lunghi decenni di controrivoluzione, che hanno sottomesso la classe operaia e le sue organizzazioni alla collaborazione con il capitale, la sua riorganizzazione passa inevitabilmente attraverso la ricostituzione di sindacati classisti e della guida rivoluzionaria del partito comunista. Solo in questo modo anche il proletariato di Hong Kong potrà evitare una sconfitta certa e forse sanguinosa.
La classe operaia, quando si presenterà sulla scena sociale in tutta la sua statura storica e inquadrata nella disciplina delle sue estese organizzazioni, allora riuscirà anche a trascinare dietro di sé le pletoriche mezze classi in rovina, o almeno a renderle neutrali nella guerra sociale. Non allettandole col mito della “democrazia” e delle autonomie locali, ma offrendo loro la liberazione dal giogo del grande capitale che impietosamente le schiaccia.
Il Lakadh fa parte del territorio conteso del Kashmir tra le tre potenze di Cina, India e Pakistan. Il 15 giugno una colluttazione tra soldati cinesi e indiani nel territorio conteso di Lakadh, lungo il confine cinese-indiano, ha provocato diversi morti in entrambi i campi.
La Cina, potenza imperialista in ascesa, nel 2013 si è aperta una strada al Mar Arabico stabilendo con il Pakistan un Corridoio Economico Cina‑Pakistan, che passa non lontano dal Lakadh, parte della globale Via della Seta. Il controllo affidabile delle vie di rifornimento dell’energia è vitale al crescente potere imperialista dei vari capitalismi arroccati nei loro Stati nazionali.
Dagli anni ‘70, la Cina è passata da esportatore a importatore netto di petrolio. Questo deve passare per lo stretto di Malacca. La Cina quindi deve fare affidamento sulle rotte marittime per il suo approvvigionamento di energia. I mari sono però controllati dagli Stati Uniti, che mantengono la superiorità navale. Il “dilemma Malacca” lo definì nel 2003 l’allora presidente Hu Jintao. Ugualmente l’India ha fortificato le sue basi militari sulle vicine isole Andamane e Nicobare.
Da allora la Cina si è sforzata di diversificare il proprio approvvigionamento energetico con l’obiettivo di evitare di farlo passare per gli stretti di Malacca e della Sonda.
Il Corridoio Cina‑Pakistan è quindi fondamentale, prevedendo anche la costruzione di un gasdotto dal porto di Gwadar allo Xinjiang, con possibile diramazione fino all’Iran.
Quindi gli scontri di confine non sono eventi isolati o episodi di una guerra decennale alimentata da tensioni etniche. Persino le dichiarazioni ufficiali di entrambi gli Stati ammettono che non è così e ognuno accusa l’altro di tentare di modificare a proprio vantaggio la reciproca disposizione strategica. Anche questo conflitto, in sostanza, è alimentato solo dagli interessi dei capitalisti di entrambe le nazioni.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
I lavoratori hanno bisogno di salari decenti, di orari di lavoro più brevi, di migliori condizioni di lavoro, sicure e igieniche. Ma questo si può ottenere solo con l’unità, l’organizzazione e la lotta.
Da molte città del mondo le reti sociali e i media diffondono video di operatori sanitari, in prima linea nella battaglia contro Covid‑19, da finestre e balconi applauditi eroi. Ma nei borghesi questa campagna diviene ipocrita e cinica di fronte ai bassi salari che questi lavoratori ricevono in tutto il mondo, in deplorevoli condizioni di lavoro, costretti a lunghi orari e con un numero eccessivo di pazienti da assistere.
Nei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi dove esistono servizi sanitari pubblici è comune trovare ospedali senza adeguati servizi idraulici ed elettrici, senza aria condizionata, senza sufficienti attrezzature per la pulizia e l’igiene. È anche comune che i lavoratori non dispongano di indumenti e attrezzature di protezione personale.
Con la crisi del Covid‑19 gli operatori sono costretti ad assistere masse di pazienti infetti senza quasi nessuna protezione. In alcuni casi diventa difficile pure recarsi al lavoro a causa della crisi dei trasporti. Spesso gli infermieri debbono portarsi il pranzo da casa. Nelle cliniche private la situazione non è diversa.
Durante la quarantena in Venezuela, con la distribuzione di benzina razionata, i lavoratori ospedalieri hanno dovuto andare ai turni di lavoro a loro spese con mezzi privati. Nelle regioni di confine con la Colombia e con il Brasile, il sovraffollamento nelle strutture ospedaliere si è accentuato anche a causa di significativi rientri di emigrati spinti dalla disoccupazione e dalla depressione economica.
Tra i contagiati e i morti della pandemia vi sono gli operatori sanitari. Ma i dirigenti delle cliniche e degli ospedali non hanno riconosciuto il contagio come malattia professionale o infortunio sul lavoro. La difesa del profitto ha in questo unito le istituzioni sanitarie pubbliche e quelle private.
L’OMS, che ritiene adeguato un operatore sanitario ogni 250 abitanti, ha denunciato per anni la carenza di personale infermieristico in America Latina e nei Caraibi, dove c’è una media di un infermiere ogni 750 abitanti. Il Venezuela aveva un infermiere ogni 880 abitanti nel 2001, nel 2018 uno ogni 1.062. Con la complicità dei sindacati di regime gli ospedali hanno imposto un numero sempre crescente di pazienti. Lo stipendio mensile di una infermiera professionale è l’equivalente di 4,52 dollari, nel 2011 era di 269 dollari.
La maggior parte di loro sopravvive grazie a un secondo lavoro. Alcuni sono stati costretti a licenziarsi, vendono per strada sigarette o piatti confezionati o altri lavori dell’economia informale. Ma la situazione degli infermieri in pensione è anche più grave di quella del personale attivo.
Prima della quarantena c’erano infermieri che assistevano dai 30 a 40 pazienti durante il turno al pronto soccorso, quando il rapporto avrebbe dovuto essere di 3 pazienti per infermiere. Questo quando alcune situazioni richiedono anche 3 o 4 infermieri per paziente.
È una vera tragedia per gli operatori sanitari, sottoposti a un così intenso sfruttamento. Lo stesso per i pazienti, per lo più lavoratori, i principali fruitori di questi servizi nel caos, che magari si sono ammalati o feriti sul posto di lavoro.
Nel 2019, almeno il 78% degli ospedali in Venezuela aveva problemi di approvvigionamento idrico e il 63% di elettricità. Ci sono infermieri che lavorano con mascherine non adeguate, ma le regolamentari non ci sono e vi è carenza anche di guanti e cuffie per i capelli. Il personale – al 90% donne – può trasmettere malattie ai pazienti, o viceversa. Le infermiere portano così a casa una varietà di microrganismi patogeni. Lì rientrate spesso trovano che l’acqua non arriva. Dovrebbero lavare le uniformi con detergenti specifici, anche questi a loro carico.
Dieci giorni dopo i primi casi di Covid‑19 in Venezuela, il vicepresidente Delcy Rodriguez ha diramato un appello ai sanitari in pensione affinché si offrissero volontariamente per tornare al lavoro.
Nonostante tutto questo, gli applausi dei borghesi si fermano quando i lavoratori hanno chiesto aumenti salariali.
Il sindacato degli infermieri del distretto di Caracas ha richiesto uno stipendio base di 600 dollari per tutti i livelli. L’ultimo aumento di stipendio era arrivato con un provvedimento presidenziale, senza alcuna consultazione dei lavoratori del settore.
Le principali rivendicazioni degli ospedalieri che dovrebbero essere avanzate con la mobilitazione e lo sciopero sono:
- Forti aumenti di salariali.
- Miglioramento delle condizioni e dell’ambiente di lavoro e garanzia di una sufficiente e tempestiva fornitura di strumenti di protezione personale.
- Riduzione della giornata lavorativa (senza riduzione di stipendio) fino a un massimo di 30 ore settimanali.
- Garantire un rapporto di 3 pazienti per infermiere in tutte le strutture sanitarie pubbliche e private.
- Riconoscimento delle infezioni degli operatori sanitari da Covid‑19 o da altri agenti patogeni come malattie professionali e conseguente diritto a indennizzi e a prestazioni.
Alcune delle richieste degli ospedalieri coincidono con quelle dei lavoratori della scuola, dei tribunali e degli altri lavoratori in genere. Che si tratti di lavoratori dell’industria, della logistica o del commercio o dei servizi, tutti devono affrontare salari da fame. Tutti sono stati lasciati senza protezione, tutti sono stati costretti ad uscire di casa fin dall’inizio della pandemia.
È quindi urgente unire e organizzare tutti i lavoratori, in tutti i settori economici, in tutte le categorie, sollevando un’unica serie di richieste. Questo movimento abbraccerà anche i disoccupati e i pensionati.
- ISRAELE
La crisi alla El Al
Tra i nemici della classe operaia
L’atteggiamento disfattista di Histadrut, la Federazione Generale dei Lavoratori d’Israele, disposto a vendere i lavoratori a qualsiasi prezzo, non è un dato contingente o episodico. La collaborazione con il padronato è la sua ragione d’essere e il suo fine. I fatti accaduti lo scorso 25 maggio alla El Al lo dimostrano ancora una volta.
In un comunicato del Consiglio generale dei lavoratori della Compagnia aerea, leggiamo: «Un mese fa il direttore della sezione trasporti dell’Histadrut, Abi Edri, ci ha proposto di cambiare la forma organizzativa del Consiglio e di dividerlo in 4 sezioni: piloti, equipaggio di volo, ingegneri tecnici e amministrativi (...) istanza scaturita dalla richiesta di un gruppo di piloti fatta al direttore generale affinché venisse fatta una trattativa in modo indipendente (...) Dopo che in una riunione d’emergenza del Consiglio è stata presa la decisione di respingere tale richiesta (...) e il rifiuto di trattative separate siamo rimasti sorpresi dall’apprendere che solo un’ora dopo il rifiuto del Comitato l’Histadrut, la direzione padronale e il sindacato dei piloti si sono seduti a negoziare senza la presenza del Comitato dei lavoratori (...) Di fronte a questo fatto, il Comitato sindacale unificato dei lavoratori è entrato in sala per la seconda volta per presenziare alla seduta delle trattative. La reazione è stata quella di interrompere la trattativa per la indesiderata presenza dei lavoratori».
L’atteggiamento della dirigenza sindacale, le parole di questo sindacato giallo, la sua forma organizzativa volta a prendere decisioni e accordi senza permettere alcun intervento o partecipazione dei lavoratori sindacalizzati, si riassumono nella infida risposta del portavoce sindacale: “Il comportamento ed il sabotaggio delle trattative è dannoso per tutti i dipendenti dell’azienda, la quale si trova ad un bivio critico (...) Irrompere in una riunione, ribaltare le carte in tavola e insultare (...) sono vandalismo e violenza che non saranno accettati (...) A causa di questo comportamento contrario alle regole dell’Histadrut si è deciso di sospendere immediatamente tutti i rappresentanti del Comitato unificato dei lavoratori».
In altre parole: difesa dell’azienda contro gli interessi dei lavoratori, dividere invece di unire, repressione contro la lotta. I bonzi dell’Histadrut, tra i nemici della classe operaia, sono quelli che meglio sanno il loro sporco lavoro.
L’aviazione oggi è in una crisi profonda e globale, come l’intero sistema capitalista. La riduzione delle attività e i licenziamenti minacciano i lavoratori di tutto il mondo. Secondo la IATA 2,5 milioni di posti di lavoro sono in pericolo.
Affinché non siano i proletari a pagare è necessario sostenere le uniche rivendicazioni realmente efficaci della classe operaia: salario pieno per i disoccupati, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Per questi obiettivi la classe operaia deve mobilitarsi fuori e contro i nemici della classe travestiti da organizzazioni operaie, con scioperi, senza limiti o servizi minimi, estesi in generale ai settori produttivi e tendendo alla solidarietà internazionale della lotta.
Come pagheranno? Con quali soldi? Non dobbiamo essere noi a rispondere a questo, ma siamo ben certi che le forze produttive, sia come macchine e materiali sia come lavoratori, sono sovrabbondanti rispetto al fabbisogno di tutti gli uomini.
- RUSSIA
Vladikavkaz - Compensi per la quarantena
Il 20 aprile, circa 2.000 abitanti di Vladikavkaz, nell’Ossezia settentrionale, si sono radunati davanti al Palazzo del governo per richiedere compensi monetari diretti per far fronte alle difficoltà imposte dall’emergenza pandemica. Si è poi passati a chiedere le dimissioni del capo della Repubblica, uno dei più ricchi della regione e i cui traffici non si sono certo fermati durante la pandemia. La polizia ha disperso la folla. Circa una settantina di persone sono state multate o detenute per diversi giorni.
Campo di Chayandinskoye - Protesta alla Gazprom
Il 17 aprile il campo della Gazprom di Chayandinskoye, in Yakuzia, è stato messo in quarantena a causa di un focolaio di infezione da coronavirus. La vice Presidente del governo della regione, riportando le indicazioni degli specialisti in malattie infettive del Ministero della Salute, aveva ammesso che nel campo quasi 3.500 lavoratori, un terzo dei 10.000 in totale, erano stati infettati dal coronavirus, benché il 90% risultasse asintomatico. Tuttavia in seguito, per motivi non dichiarati, ma facilmente intuibili, le informazioni sono cessate. Per questo motivo il 27 aprile centinaia di lavoratori della Gazprom hanno dato vita ad una manifestazione davanti all’edificio degli uffici, e hanno poi bloccato la strada principale per protestare contro la mancanza di mezzi di protezione e di iniziative per prevenire l’infezione.
Nel campo i lavoratori, non essendo noto chi è contagiato, non sanno se ne sono a contatto o no. Inoltre le misure prese dalle autorità per isolare gli infetti sarebbero del tutto inefficaci in quanto le condizioni di vita nel campo non rendono possibile evitare i contatti: si mangia insieme, si usano gli stessi bagni e le stesse docce e si condividono gli stessi dormitori.
I lavoratori chiedevano quindi di essere rimandati a casa. Il 29 aprile è stato eliminato il primo gruppo di turni e 50 lavoratori sono tornati a Omsk. Intanto si iniziava ad effettuare test sui lavoratori ma la situazione rimaneva tesa. Le autorità della Yakutia avevano promesso di allontanare 8.500 operai dal campo, ma a metà maggio ne erano stati spostati solo 1.790. Alla fine si è ottenuto che a circa 7.000 lavoratori fosse concesso di partire.
Omsk - Sciopero dei lavoratori cinesi
Oltre un migliaio di dipendenti cinesi della China National Chemical Engineering & Construction Corporation Seven hanno protestato per essere riportarti nel loro paese d’origine. La società è impegnata presso una raffineria che appartiene a Gazprom alla periferia di Omsk.
A causa del rapido deterioramento della situazione epidemiologica e della mancanza di dispositivi di protezione, gli operai hanno deciso di lasciare il territorio russo. Ma né l’amministrazione della compagnia né le autorità cinesi hanno fornito assistenza. Pertanto i lavoratori hanno scioperato per qualche giorno per ottenere di poter tornare a casa.
Khabarovsk - Protesta degli autotrasportatori
A Primorye, al confine russo-cinese, dove la maggior parte della frutta e della verdura consumata nella regione di Khabarovsk proviene dalla Cina, a causa dei controlli per l’epidemia si sono formate lunghissime code di camion. In tre diversi punti del confine il 14 maggio gli autisti sono scesi in sciopero e si sono rifiutati di procedere con il loro carico.
In questa situazione i vettori subiscono enormi perdite, in particolare per le merci deperibili. Molti mezzi sono noleggiati, e qualcuno ha contratto prestiti. Ma la maggior parte dei conducenti sono dipendenti, ai quali è stato ordinato di rimanere sui mezzi attendendo per giorni di passare il confine. Col rischio di perdere il salario, nelle disagiate condizioni negli edifici delle dogane, con scarsità di alimenti, niente maschere protettive, nessun posto per lavarsi, nessuna farmacia: come ostaggi.
Le proteste sono continuate nonostante l’intervento delle autorità locali per mediare con i vettori. La situazione si è sboccata solo il 18 maggio.
Circondario autonomo Jamalo-Nenec - Sciopero alla Velesstroy
Il 10 maggio i lavoratori del villaggio Yamal di Sabetta hanno organizzato una manifestazione spontanea presso gli uffici chiedendo di essere riportati a casa in aereo. Stanno lavorando per la compagnia Velesstroy al progetto Yamal LNG.
Sebbene abbiano atteso il trascorrere della quarantena e superato due volte il test per il Covid‑19, continuano a essere tenuti nei dormitori e i tempi di rimandarli a casa sono ancora sconosciuti: si dice loro “oggi, domani” ma le promesse non vengono mantenute. I manifestanti hanno anche lamentato di non essere separati dai lavoratori positivi all’infezione e di non poter uscire dai dormitori. Inoltre, gli operai protestano per le condizioni degli alloggi e per i bassi salari.
Degli 11.000 dipendenti del cantiere solo 1.800 sono stati trasferiti.
Isole Curili - Sciopero alla lavorazione del pesce
Il 15 maggio, 150 lavoratori di uno stabilimento del pesce si sono ribellati sull’isola di Scikotan, nelle Curili. Il motivo dello sciopero sono i bassi salari, a fronte delle sempre più dure condizioni di lavoro.
Lo sciopero è stato avviato nelle Kurilsky Rybak LLC, una delle più grandi imprese di pesca della regione. Il motivo è stato un forte calo dei salari. Il governo regionale è intervenuto nella vicenda.
La mattina del 15 maggio due reparti si sono rifiutati di entrare in turno. Ciò ha causato seri danni all’azienda: i restanti lavoratori non potevano far fronte a circa mille tonnellate di pescato. Vengono avanzate le seguenti richieste: aumento della paga oraria, alzare lo stipendio garantito a 65.000 rubli, ricalcolo dello stipendio dall’inizio del 2020. In risposta la direzione ha cercato di reagire con metodi repressivi, intimidendo i dipendenti, minacciando che “i loro nominativi sarebbero passati alle altre aziende che non li assumeranno”.
Tuttavia lo sciopero continua.
Che la giustizia sia di classe, ordinata a difesa del violento rapporto sociale di classe che lega il proletariato ai capitalisti, risulta dalla conclusione della vicenda processuale seguita al rogo dell’acciaieria Thyssen‑Krupp di Torino avvenuto nella notte tra il 5 e 6 dicembre 2007 in cui perirono a causa delle gravi ustioni 7 lavoratori. La Thyssen‑Krupp è la più importante azienda europea nel settore siderurgico che nel tempo ha acquisito diversi stabilimenti anche in Italia tra cui quello di Torino.
A seguito della riduzione della domanda di acciaio e la delocalizzazione della produzione in aree “economicamente più favorevoli” all’azienda, l’impianto in questione era in fase di dismissione per cui la direzione aveva ridotto, per non dire completamente tagliato, gli investimenti per la sicurezza e nel numero e nella formazione del personale. Emerse al processo che ne seguì che perfino la compagnia di assicurazione aveva indicato le urgenti misure di sicurezza da adottare per continuare a garantire la copertura assicurativa sugli infortuni sul lavoro. Ma ciò non fu fatto: risultò dall’inchiesta che gli estintori erano semi scarichi, non funzionavano né gli idranti né i telefoni di emergenza, non esistevano sistemi di spegnimento automatico e le squadre di soccorso non erano sempre attive e con adeguata formazione.
In quel periodo, a seguito di una temporanea maggiore richiesta di acciaio, agli operai era stato richiesto del lavoro straordinario, con il beneplacito dei sindacati concertativi: al momento dell’incidente quella squadra era al lavoro già da 12 ore!
L’attrito provocato dall’anomalo sfregamento del nastro d’acciaio sulle strutture metalliche dell’impianto innescò un piccolo focolaio, come sovente capitava a causa delle alte temperature, per la presenza di olio lubrificante e dei rotoli di carta necessari alla lavorazione. L’operaio addetto al controllo della linea non riuscì a spegnerlo con gli estintori presenti e quando sopraggiunsero gli altri operai per attivare gli idranti furono tutti investiti da una nuvola infuocata di vapore d’olio in pressione fuoriuscito da un tubo rotto. 7 operai furono mortalmente ustionati; rimase leggermente ferito l’operaio che stava aprendo la manichetta dell’idrante, spostato dal punto critico e protetto da alcune attrezzature.
L’azienda subito accusò gli operai di incapacità e di “essersi distratti durante il lavoro”.
Non riferiamo qui di tutte le complesse vicende processuali rimbalzate tra i tribunali italiani e tedeschi. Nemmeno ci stupiamo o scandalizziamo per le lievi condanne o le deprechiamo. Non si tratta di equilibrare “diritti” fra il “cittadino” padrone e il “cittadino” operaio. Anche se fossero state mostruosamente pesanti nulla cambierebbe nella sottomissione sociale e nella condizione reale di chi lavora.
La classe operaia cosciente nulla si attende e nulla pretende da una giustizia giusta, ma esclusivamente dall’imporre la sua difesa con la forza della solidarietà, della organizzazione e della lotta. Non chiederà ai borghesi di essere giusti nei salari e nei trattamenti, che il giusto dei borghesi è la fame e la morte degli operai, ma di distruggere, insieme con tutta la loro civiltà, anche la loro giustizia. La classe operaia sarà terribilmente ingiusta con i borghesi: lavoro obbligatorio per tutti e loro distruzione come classe, insieme a tutte le loro venerate istituzioni.
A settembre pubblicammo un lungo articolo intitolato “Una significativa assemblea operaia” ad analisi e commento dell’assemblea dei delegati metalmeccanici dell’Unione Sindacale di Base tenutasi a Bologna nel luglio precedente, un anno fa.
Dal corso di quell’incontro e dal confronto con la precedente assemblea nazionale dei “delegati e dei quadri Usb”, tenutasi in aprile, traevamo la conferma che la crescita del sindacato Usb – in questo caso nel settore industriale e in quello metalmeccanico in particolare – sarebbe andata necessariamente ad urtare con il controllo dell’organizzazione da parte della dirigenza nazionale, coi metodi autoritari che da tempo andiamo denunciando e stigmatizzando, in quanto inevitabilmente si sarebbe generata una pluralità di posizioni che già in quella “assemblea operaia” si erano manifestate in embrione.
Previsione questa non certo nuova ma che fa parte del bagaglio della nostra corrente laddove sostiene che il sindacato, in quanto associazione sulla base della condizione economica dei suoi aderenti, e non di una omogeneità politica, necessariamente è attraversato da una pluralità di indirizzi, figli delle diverse correnti ideali che hanno seguito nella classe proletaria. L’inevitabile scontro fra diversi indirizzi che ne consegue non può esser negato, nascosto, dissimulato, ma reso possibile e aperto, e difeso quando impedito dall’alto, essendo un necessario processo attraverso il quale matura la parte organizzata della classe lavoratrice, e con essa la classe intera.
«È quindi tradizionalmente adottato all’interno del sindacato operaio il metodo del centralismo democratico (...) Questo dovrebbe essere il metodo di vita e di prendere decisioni di un sindacato di classe, non perché il centralismo democratico risponda a un superiore principio di “giustizia”, ma in quanto metodo efficiente per condurre un organismo non omogeneo sul piano politico, quale è il sindacato» (“Una classe lavoratrice che deve trovare se stessa fra l’attacco borghese, il tradimento dei sindacati di regime e le incertezze del sindacalismo di base - Metodo di organizzazione dell’Usb”, “Il Partito Comunista” n.356, 2012).
Un ambiente di artificiosa e fasulla unanimità – in cui chi si esprime diversamente dalla dirigenza appare come un bestemmiatore in chiesa e le opinioni minoritarie si scambiano clandestine nei corridoi invece che pubblicamente nelle riunioni, nelle assemblee e nella stampa sindacale – non fa maturare i lavoratori iscritti e i delegati, li tiene lontani dai problemi generali del sindacato e della classe, indeboliti di fronte ai compiti della lotta che li attendono.
I fatti subito successivi alla pubblicazione di quell’articolo venivano a confermare, in modo inaspettatamente rapido, quanto in esso sostenuto. Qui li presentiamo velocemente, prendendo però le mosse dalle principale prese di posizione negli ultimi anni dei compagni del nostro partito nell’Usb, per evidenziarne coerenza e correttezza e mostrare la traiettoria dei diversi opportunismi, che in modo diverso tutti danneggiano, indebolendolo e rallentandolo, il processo di rinascita e ricostruzione del movimento operaio e del sindacato di classe.
Contro scissionismo e autoritarismo
Il 5 dicembre 2015 a Bologna si svolse un’assemblea di delegati e iscritti Usb che da lì a due mesi avrebbe condotto a una scissione e alla nascita del Sindacato Generale di Base (Sgb), guidato da uno degli storici dirigenti nazionali di quel sindacato. Il nostro compagno intervenne in questi termini: «Il problema del corretto funzionamento interno di Usb si è aggravato ma non è nuovo. Il primo congresso, nel 2013, si è svolto con un regolamento congressuale appositamente costruito per impedire la presentazione di mozioni alternative: è stato un congresso a mozione unica. Nemmeno nella Cgil si è giunti a tanto. Interi ministeri – Difesa, Infrastrutture e Trasporti, Beni Culturali – non parteciparono per protesta al congresso e la parte maggioritaria delle federazioni di Varese, Legnano e Brescia uscirono dal sindacato, con centinaia di iscritti. In molti, sia nella dirigenza, sia fra chi ad essa si oppone, ritengono che la presenza di aree, correnti, frazioni all’interno del sindacato sia un carattere proprio dei vecchi sindacati confederali, che non può appartenere a un sindacato di base, nel quale si potrebbe e si dovrebbe sempre giungere a un certo grado di omogeneità. Il congresso a mozione unica è stato giustificato anche con questa motivazione. Questo ci sembra un equivoco che ha già dimostrato la sua pericolosità col primo congresso in cui, di fatto, le correnti c’erano, ma sono state represse. Il patologico frazionamento del sindacalismo di base è un’altra manifestazione di come la formazione di correnti sia un fatto ineluttabile. Il problema è che le dirigenze di questi sindacati non sono state in grado di creare le condizioni affinché queste diverse correnti convivessero in un unica organizzazione sindacale.
Cercare di formare un sindacato senza correnti è azione idealistica e reazionaria che costringe l’organizzazione ad un passo indietro non in avanti perché negando un dato di fatto, materiale, crea delle distorsioni ancora peggiori».
Poi, nel merito dei rapporti con la dirigenza, proseguiva: «Il sindacato è costantemente sottoposto alla pressione del padronato e del suo regime politico, che cercano di sottometterlo, di farlo diventare un sindacato di comodo, collaborazionista. Quello che è successo nel secondo dopoguerra alla Cgil, con un processo che è giunto a compimento nella seconda metà degli anni Settanta e che ha condotto alla nascita dei sindacati di base, accade a tutti i sindacati. È inevitabile perciò che nel sindacato si sviluppi una corrente opportunista che lo vuole condurre sulla strada di quella che oggi è chiamata concertazione. Questa corrente è attiva in Usb già da tempo ed è rappresentata dalla dirigenza del nostro sindacato. Noi pensiamo che, se si intende agire con i metodi del sindacalismo di classe, non si possa scendere a patti con questa corrente, non si possa trovare una sintesi di posizioni con l’opportunismo sindacale ma ci si debba battere contro di esso, si deve dichiarare apertamente che si vuole seguire una linea sindacale diversa, e che per farlo occorre una dirigenza diversa. Occorre costituirsi in corrente e battersi al congresso con questo scopo» (Intervento all’assemblea nazionale a Bologna).
Il nostro compagno si espresse dunque contro l’ipotesi di una scissione sindacale e a favore di una battaglia interna a fondo e a viso aperto. Quell’assemblea giunse al termine dello scontro interno all’Usb, promosso dai nostri compagni insieme ad altri militanti del sindacato, contro l’adesione al Testo Unico sulla Rappresentanza del gennaio 2014. Lotta che portò alla costituzione di un “Coordinamento Iscritti Usb per il Sindacato di Classe”.
La scissione, formalizzata in un’assemblea a Milano il 31 gennaio 2016, vanificò la possibilità di costruzione di una forte corrente di opposizione interna all’Usb, lasciando indebolito il gruppo di militanti sindacali che avevano guidato la battaglia contro l’adesione al TUR, che inquadrarono come un episodio della marcia della dirigenza verso il collaborazionismo sindacale e della lotta contro di essa. Infatti diversi militanti sindacali che avevano sostenuto quella battaglia preferirono seguire la via della scissione, pur se promossa da dirigenti che avevano condiviso le scelte della dirigenza nazionale, compreso quella di organizzare un congresso a mozione unica e di aderire al TUR.
La nostra contrarietà alla scissione non derivava da considerazioni assolute e di principio – giacché da fine anni settanta sosteniamo la parola d’ordine “Fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil), per la rinascita del sindacato di classe” – ma dalla convinzione che un simile passo dovesse avvenire in sintonia con una maturazione in tal senso degli iscritti, così come accadde coi gruppi di lavoratori, minoritari ma consistenti, che abbandonarono la Cgil per formare nel giro di pochi anni i primi sindacati di base, nel fuoco delle lotte e non per una iniziativa a freddo e dall’alto.
Inoltre, per la presente tenuità delle lotte operaie e la esile dimensione dell’Usb, abbiamo sempre ritenuto aprioristico considerare questo sindacato irreversibilmente passato al collaborazionismo sindacale, anche se tale epilogo è naturalmente possibile e forse anche probabile.
In ogni caso i nostri compagni dentro l’Usb restavano fermi nella convinzione che una sua crescita numerica avrebbe fatto affluire nuove energie a una opposizione e alla lotta al finto sindacalismo di classe della dirigenza.
Il 5 febbraio 2016, all’indomani della scissione che portò alla nascita di un ennesimo piccolo sindacato di base – il Sindacato Generale di Base (Sgb) – i compagni del “Coordinamento Iscritti Usb per il Sindacato di Classe” promossero un appello per “Un congresso straordinario e realmente democratico” in cui si leggeva:
«Una grave scissione ha colpito il nostro sindacato. Noi non stiamo né coi dirigenti scissionisti né con la nostra dirigenza nazionale, che riteniamo entrambi responsabili di questo duro fallimento sulla strada della costruzione del Sindacato di Classe. A fronte di questa eccezionale crisi riteniamo che la sola strada per risollevare le sorti del nostro sindacato sia quella di aprire una discussione libera che coinvolga e risvegli tutto il suo corpo. Chiediamo perciò a tutti i delegati, i militanti e gli iscritti di USB di sottoscrivere questo nostro appello per un Congresso Straordinario che si svolga con un regolamento che lasci la massima libertà all’espressione di tutte le posizioni interne al sindacato.
«Riteniamo necessario che al centro di esso debbano essere posti i seguenti temi: 1) Riconoscimento di piena libertà di espressione, di critica, di formazione di correnti da parte di gruppi di iscritti; 2) Trasparenza e semplificazione funzionale (finanziaria, iscritti, organismi); 3) Ritiro dell’adesione al Testo Unico sulla Rappresentanza; 4) Rilancio patto del sindacalismo di base, per l’unità d’azione dei lavoratori, contro l’autosufficienza di USB; 5) Sviluppo del sindacato incentrato sulla sua struttura territoriale, per superare l’aziendalismo, unire la classe e ovviare alla restrizione delle agibilità sindacali» (Appello per un congresso straordinario).
Due giorni dopo, il Coordinamento pubblicava un documento più esteso intitolato “Contro la scissione e gli autoritarismi, due facce dello stesso opportunismo che distrugge il sindacato. Per un congresso straordinario e realmente democratico dell’unione sindacale di base”. In aggiunta a quanto già riportato vi si leggeva: «Al primo congresso, nel 2013, la maggioranza di costoro (dei dirigenti scissionisti) non ha sollevato alcuna critica per il regolamento adottato, anzi, alcuni hanno eseguito in prima persona le direttive che hanno condotto alle fuoriuscite sopra citate. All’assemblea di Bologna del 5 dicembre, promossa dagli odierni scissionisti per discutere dei problemi interni a Usb, noi abbiamo partecipato solo con lo scopo di proporre la costruzione di una corrente per una linea sindacale veramente di classe, per la quale battersi in vista del secondo congresso, che è previsto svolgersi il prossimo anno. Questo strada è stata categoricamente esclusa dai promotori di quell’assemblea, secondo i quali in un sindacato di base non può esservi una divisione in correnti con linee sindacali diverse. I promotori hanno invece stabilito la formazione di quella che essi chiamavano una “area di scopo”, ossia la legittimazione e formalizzazione di un dibattito interno al sindacato sui problemi sollevati, per giungere a una soluzione condivisa con la dirigenza, a una sintesi delle posizioni, a un accordo con essa. L’assemblea del 31 gennaio a Milano è stata convocata per proseguire la discussione appellandosi alla democrazia interna quando da giorni i dirigenti avevano già deciso per la scissione e operavano attivamente per essa. Nelle intenzioni dei suoi promotori la scissione doveva avvenire all’oscuro della dirigenza nazionale e quindi inevitabilmente anche degli iscritti, che come un pacco sarebbero dovuti passare da Usb al nuovo sindacato» (Contro la scissione e gli autoritarismi).
Dalla Cgil alla Usb
Dal colpo della scissione di fine gennaio, l’Usb si ridestò parzialmente pochi mesi dopo – a giugno – in virtù dell’ingresso nel sindacato dell’ex coordinatore nazionale dell’area di opposizione in Cgil, Sergio Bellavita.
Questi era giunto a entrare nella segreteria nazionale Fiom, nel luglio del 2010, all’indomani del “no” della federazione metalmeccanica della Cgil all’accordo di Pomigliano, poi approvato dal referendum in fabbrica del 22 giugno. In segreteria nazionale Fiom sostituì l’altro rappresentante della sinistra Cgil, Cremaschi, e vi entrò con Airaudo, che sostituiva Rinaldini, ex segretario generale Fiom, cui era succeduto a maggio Landini.
Airaudo – dal 2001 segretario della Fiom torinese, dal 2013 deputato di SEL e nel 2018 candidato non eletto per il Senato con Liberi e Uguali – merita d’essere ricordato per il suo commento al parapiglia fra Slai Cobas e Fiom avvenuto a Torino, nel maggio 2009, durante l’ultima – ad oggi – manifestazione nazionale dei lavoratori del gruppo FIAT: «Un episodio deplorevole, costruito in modo organizzato; un’aggressione di alcuni teppisti dello Slai Cobas» (da “L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil”).
La direttiva della Cgil nel rapporto con gli altri sindacati è sempre stata lapidaria: colpire alla sua sinistra i sindacati di base, mai mettere in discussione l’unità a destra con gli altri sindacati di regime (Cisl, Uil, Ugl). Airaudo è sempre stato fedele esecutore di questa direttiva. Bellavita saprà calpestarla ancora pienamente attivo sindacalmente. Cremaschi anche lo farà ma solo dopo aver terminato l’attività sindacale di una vita, tutta devoluta a quel sindacato.
La corrente più a sinistra della Cgil, quella in parte derivante dalla Rete 28 Aprile, al XVII congresso nel 2014 formò l’area di opposizione “Il sindacato è un’altra cosa”, separandosi dalla corrente di Rinaldini. Questo invece, insieme a Landini, non presentò un documento alternativo se non nell’assise finale a Rimini (“Il XVII Congresso Cgil”) per poi formare l’area “Democrazia e Lavoro”.
Tutta quella che diverrà la dirigenza di “Il sindacato è un’altra cosa” avallò l’idea di una Fiom realmente intenzionata a condurre una lotta operaia contro l’attacco della FIAT, iniziato con l’accordo di Pomigliano e compiutosi con l’uscita da Confindustria (dicembre 2011) e la sigla di un Contratto Collettivo Specifico di 1° livello (Ccs1l) per i lavoratori del gruppo, diverso e peggiorativo rispetto al Ccnl metalmeccanico. Non volle riconoscere, e denunciare, la falsità dell’operazione in atto, evidente sin dal principio, e in tal modo rafforzò il proprio carnefice, che ora siede nel più alto scranno della Cgil, concessogli a ricompensa dell’opera compiuta in otto anni di disfattismo delle forze del sindacalismo di classe, dentro e fuori la Cgil, e della forza operaia.
Il 22 giugno 2012 il sindacalismo di base per un momento ritrovò l’unità d’azione scioperando unito contro la riforma del lavoro Fornero (il primo colpo di piccone all’art. 18). La Fiom non solo si guardò bene dall’aderire a quello sciopero, nonostante a parole criticasse la sua Confederazione che aveva revocato lo sciopero generale, ma in quello stesso giorno Landini si presentò a Bergamo all’assemblea nazionale di Confindustria. «La sinistra Cgil diede sostegno allo sciopero dei sindacati di base, contestando Landini al suo ingresso all’assemblea degli industriali con un piccolo corteo composto da militanti sindacali, operai della Same di Treviglio (Bergamo), della Piaggio di Pontedera e di altre aziende. Il 27 giugno la riforma fu approvata. La rottura fra la maggioranza Fiom e la sinistra era consumata” (“Nuovo episodio de ‘la FIOM sulle barricate”).
Al “Comitato Centrale Fiom [5‑6 settembre 2012; ndr] si ribaltarono le alleanze interne: la maggioranza centrista di Landini si alleò con la minoranza di destra, allineata con la maggioranza Cgil, in opposizione alla minoranza di sinistra, il cui unico esponente nella segreteria nazionale, Sergio Bellavita, fu buttato fuori attraverso un escamotage organizzativo. La contestazione di Bergamo e l’adesione allo sciopero generale del sindacalismo di base erano ripagate” (“E nuova manovra di rientro”).
Tre anni dopo, al seminario di Bellaria del 26‑27 marzo 2015, dedicato alla discussione interna all’area congressuale “Il sindacato è un’altra cosa”, Bellavita diede una lettura finalmente netta e corretta della condotta della Cgil riguardo al varo del “Jobs Act”, contro cui la dirigenza confederale della Cgil aveva promosso un solo giorno di sciopero generale nazionale, il 12 dicembre 2014, 9 giorni dopo l’approvazione della legge! Quello è stato ad oggi l’ultimo sciopero generale indetto dalla Cgil.
Scrisse Bellavita: «In primo luogo va considerato il carattere pressoché mediatico dello scontro ingaggiato tra i vertici della Cgil e Renzi. Mentre sui mass media volavano stracci, insulti, nel paese non si apriva nessun reale scontro sociale dentro e fuori i luoghi di lavoro. Nelle centinaia di aziende in crisi, nelle ristrutturazioni a suon di licenziamenti l’iniziativa della Cgil e di tutte le sue categorie, Fiom compresa, proseguiva unitaria [con Cisl e Uil, ndr] e indisturbata nella contrattazione di restituzione di salari e diritti. In secondo luogo l’autunno di contrasto ad un provvedimento tra i più brutali della storia della repubblica sulla condizione di chi lavora è consistito in uno sciopero generale di otto ore e in una manifestazione di sabato».
Faccia riflettere circa il cambiamento di lettura dato da Bellavita all’azione della Cgil, il dato che, a fronte dell’offensiva FIAT iniziata a Pomigliano, la Fiom fece peggio, giacché dal giugno al dicembre 2010 non convocò neanche uno sciopero nazionale della categoria ma solo una manifestazione nazionale sabato 16 ottobre, per altro riuscitissima.
Un anno dopo – siamo nel 2016 – negli stabilimenti FIAT di Melfi e Termoli si aprì lo scontro fra una parte dei delegati Fiom e le strutture territoriali e nazionale del sindacato, nel merito del prosieguo degli scioperi contro gli straordinari obbligatori il sabato e la domenica, che i primi volevano proseguire (“Gli scioperi contro i sabati lavorativi alla Fiat”).
Il 26 febbraio 2015 a Melfi era stato siglato l’accordo per il passaggio dai 18 ai 20 turni. «In tal modo questa fabbrica sarebbe divenuta il primo impianto automobilistico a ciclo continuo d’Europa, sottoponendo gli operai a condizioni ancora peggiori di quelle in vigore dal 1993 – coi 18 turni e la cosiddetta “doppia battuta” – contro cui avevano lottato con lo sciopero dei 21 giorni del 2004, ottenendo i 15 turni» (“Pompieri a Melfi”).
Sabato 14 marzo 2015 l’area “Il sindacato è un’altra cosa” indisse una manifestazione nazionale davanti alla fabbrica di Melfi, a sostegno di un nuovo sciopero, cui parteciparono delegati e lavoratori di tutto il sindacalismo di base.
Questa azione che, come quella di Bergamo del 22 giugno 2012, andava a rompere in modo inequivocabile la direttiva della Cgil di unità del sindacalismo di regime, cioè con Cisl e Uil, e lotta col sindacalismo di base, provocò una divaricazione delle posizioni internamente alla Opposizione in Cgil, che si manifestò al seminario di Bellaria, fra i sostenitori di questa linea d’azione e chi la osteggiava.
Il primo aprile, con una lettera inviata alla dirigenza nazionale e territoriale Fiom, 31 delegati e 27 componenti dei direttivi delle fabbriche di Melfi, Termoli, Atessa, Mirafiori, Pomigliano e dell’indotto dichiararono la loro contrarietà alla decisione di fermare gli scioperi contro gli straordinari comandati, denunciando la decisione come un passo verso la resa nella opposizione al peggioramento delle condizioni di lavoro imposto nel gruppo automobilistico dall’accordo di Pomigliano del giugno 2010.
Il successivo 1° maggio, a Termoli, delegati delle fabbriche Fiat di Cassino, Termoli, Melfi e Atessa, aderenti quell’area in Cgil, all’Usb, allo Slai Cobas e alla Flmu Cub, costituivano un “Coordinamento lavoratrici e lavoratori della Fca nel Centro‑Sud”.
A novembre, il segretario regionale della Fiom Molise intervenne con un comunicato ufficiale, appeso nelle bacheche sindacali in fabbrica, in cui disconosceva un nuovo sciopero contro lo straordinario promosso dalla maggioranza dei delegati RSA Fiom presso la Fiat di Termoli.
Al Comitato centrale Fiom del 7 e 8 gennaio 2016 veniva comunicato che 16 delegati delle fabbriche Fiat di Melfi, Termoli e Atessa erano stati denunciati dai segretari generali della Fiom Molise e Basilicata davanti al Collegio Statutario Nazionale della Cgil per aver aderito a quel “Coordinamento lavoratrici e lavoratori della Fca nel Centro‑Sud”. Il 2 marzo il Collegio statutario Cgil emise una delibera che definì i 16 delegati “incompatibili” con ruoli di direzione e rappresentanza nel sindacato. Il 22 marzo la segreteria nazionale Fiom affermò in modo chiaro e inequivocabile la condivisione delle motivazioni della delibera, cioè l’incompatibilità fra cariche direttive e di rappresentanza nella Cgil e l’appartenenza a «forme associative o parasindacali in competizione con la Cgil o che ne rompono l’unità come soggetto contrattuale nei confronti delle controparti».
Ad aprile fu comunicato a Bellavita – portavoce nazionale dell’area di opposizione – la revoca del distacco sindacale.
Esitazioni e ritardi
Fu una parte minoritaria di “Il sindacato è un’altra cosa” in Fiom, ancor minore nelle altre categorie, quella che a giugno seguì nell’immediato Bellavita nel suo passaggio all’Usb.
Ma all’orizzonte si profilava già nitidamente l’epilogo della vicenda del contratto nazionale, con la dirigenza nazionale Fiom che si apprestava ad accettare i due CCNL separati di Fim e Uilm del 2010‑2012 e del 2013‑2015 per tornare a firmarne uno unitario, quello del 2016‑2019, considerato il peggiore per la categoria quanto meno dalla seconda metà degli anni ‘60. La firma di quel contratto nazionale spense ogni residua illusione circa la natura della Fiom nei non pochi che si erano ingenuamente illusi all’indomani dell’accordo di Pomigliano e portò altri gruppi di fabbrica a lasciare la Fiom e passare all’Usb. L’uscita dalla Fiom Cgil verso l’Usb avveniva però “a freddo”, in assenza cioè di un movimento di lotta operaia, anche parziale di una o di alcune categorie, e la generosa combattività di delegati delle fabbriche FIAT di Melfi e Termoli non può certo bastare a ribaltare la situazione.
Il nostro partito, dopo aver definito la Cgil un sindacato di regime sin dalla sua ricostituzione “dall’alto” col Patto di Roma del 1944, ma essersi battuto al suo interno per riportarla su posizioni di classe fino alla fine degli anni settanta, indica da allora la necessità per i lavoratori di uscirne per ricostruire il sindacato di classe “fuori e contro” di essa. Ciò – oltre che sulla base di trentanni di lotta interna e sulla scorta dell’analisi del suo corso degenerativo – in quanto testimoni del fatto che gruppi minoritari ma non trascurabili di lavoratori da allora presero a muoversi in quella direzione, formando di lì a poco dopo i sindacati di base.
Un momento adeguato per compiere un passo pratico in questa direzione, da noi individuata e indicata fin da allora, da parte di chi negli anni successivi ancora dentro la Cgil si batteva per il sindacalismo di classe, avrebbe dovuto essere la cosiddetta “stagione dei bulloni”, negli anni 1992‑1993, come lo stesso Bellavita ebbe a rilevare, salvo poi sostenere la tesi di una anomalia della Fiom di Sabattini (1994‑2002) e Rinaldini (2002‑2010) rispetto alla Cgil confederale.
Presumibilmente è questa erronea convinzione – figlia del suo orientamento politico riformista – alla base della condotta tenuta nei confronti della segreteria Landini in Fiom nei sui primi due anni. Da parte di quella che sarebbe divenuta l’area di opposizione interna, l’operato della dirigenza Fiom non doveva essere assecondato bensì denunciato per la sua equivocità ed inconseguenza pratica a fronte dell’offensiva FIAT, per avere la speranza di non lasciar dilapidare la forza operaia che riempì la piazza del 16 ottobre 2010 a Roma. Quel giorno invece Cremaschi e Bellavita stavano sul palco al fianco di Epifani durante il suo ultimo discorso da segretario generale – prima di andare in parlamento a votare a favore del “Jobs Act” – col primo dei due ad applaudire vistosamente il capo dei bonzi e a invitare alla calma i, pochi, contestatori.
L’azzeccato tempismo nell’uscita dalla Cgil in vista dell’ultimo passo – la firma del CCNL metalmeccanico a novembre 2016 – a compimento del pieno rientro della Fiom sulle posizioni mai realmente abbandonate del collaborazionismo sindacale va dunque inquadrato come una scelta contingente corretta che si pone però all’interno di un errore più grande – quello di non aver saputo riconoscere la necessità di combattere la dirigenza Fiom illudendosi sui risultati del suo contrasto con la dirigenza Cgil all’epoca del referendum di Pomigliano – e che si inserisce nell’errore ancor più generale e di fondo, circa la possibilità di condurre una battaglia per riportare la Cgil su posizioni di classe dopo la fine degli anni settanta e la nascita del sindacalismo di base, proprio della cosiddetta “sinistra sindacale”, che con l’uscita di Bellavita ha avuto una ulteriore prova del suo fallimento.
Gli ultimi 3 anni e mezzo hanno visto una crescita dell’Usb, col suo ingresso in un buon numero di fabbriche metalmeccaniche, alcune anche di grandi dimensioni.
Lettere interne all’Usb
Ma, com’è naturale, la condotta di Bellavita dentro l’Usb è stata segnata dalla stessa matrice politico-sindacale che aveva determinato le sue scelte in Cgil. Nei primi due anni un sostanziale silenzio circa la linea della dirigenza nazionale del sindacato, ad esempio non prendendo posizione nel secondo congresso del 2017 sul merito del regolamento che nemmeno menzionava la possibilità di presentare documenti di minoranza ma solo la proposta di emendamenti al documento unico (“L’Usb al suo secondo congresso nazionale - Un nuovo congresso a mozione unica”).
In quel congresso veniva approvata quella che i dirigenti nazionali di Usb definirono la “terza gamba del sindacato”, cioè della “Federazione del Sociale”, accanto alla struttura del Pubblico Impiego e a quella del Lavoro Privato. La questione era correttamente e con precisione inquadrata dal nostro partito nell’articolo dedicato al congresso, come i fatti successivi confermeranno e così pure le successive constatazioni di Bellavita e di militanti sindacali a lui vicini. La “terza gamba del sindacato” era indicata – fra altre importanti questioni – come uno strumento per fra entrare nell’organizzazione militanti politici affini al gruppo politico della dirigenza, dando a questa maggiore garanzia di controllo del sindacato (“La Federazione del sociale”).
Nell’ottobre scorso Bellavita si fece promotore di una “lettera aperta”, trasmessa all’Esecutivo Nazionale Confederale con richiesta di girarla al Coordinamento Nazionale Confederale di Usb, firmata da una quarantina di delegati, in cui si dichiarava l’insoddisfazione per il modo con cui era diretto e gestito il sindacato e la necessità di una sua profonda riforma. Con altri compagni a noi vicini nel sindacato firmammo la lettera, pur con alcune riserve, ad esempio quella per cui nel documento non si affrontava la questione dell’unità d’azione col resto del sindacalismo conflittuale.
La dirigenza rispose prontamente il 13 ottobre concedendo a una delegazione dei firmatari un incontro con alcuni membri dell’Esecutivo Nazionale Confederale, che si svolse il 4 novembre. Dell’incontro la delegazione diede, in successive riunioni dei firmatari, un giudizio negativo, ritenendo che da parte della dirigenza fosse stata confermata la chiusura ad ogni volontà di cambiamento nel senso indicato dalla lettera. Tale giudizio era palesemente confermato dalla lettera di accompagnamento con cui l’Esecutivo Nazionale finalmente trasmise – il 22 novembre – la “lettera aperta” al Coordinamento Nazionale Confederale, a seguito della quale i nostri compagni scrissero una bozza di commento da presentare ai firmatari della lettera aperta.
In essa scrivevamo: «[nella lettera di accompagnamento del 22 novembre] si afferma che “la disponibilità al confronto deve sempre avvenire nella salvaguardia della dinamica democratica della nostra organizzazione, che impone di tenere la discussione all’interno degli organismi statutari”. Ciò significa che se all’interno del Coordinamento Nazionale Confederale si apre uno scontro fra due o più posizioni politico-sindacali, di tale confronto e delle rispettive posizioni non deve essere resa notizia pubblica, nei verbali di votazione e nei testi che espongono le rispettive opinioni, bensì tutto deve restare chiuso entro quelle stanze, perciò lo stesso sindacato, al di fuori di quell’organismo, deve rimanere ignaro di cosa in esso si è discusso. Questo è esattamente ciò che accade dentro il nostro sindacato, in cui ogni organismo territoriale e nazionale agisce come un compartimento stagno. Questo è un metodo per impedire che nel sindacato si discuta liberamente e apertamente onde ostacolare in esso la trasmissione e diffusione di posizioni diverse da quelle del gruppo dirigente. È un argomento pretestuoso che denota l’ostilità al pluralismo dei nostri dirigenti».
E proseguivamo: «A plateale conferma dell’estraneità ed ostilità della dirigenza di Usb al pluralismo interno si afferma che: “Essere riusciti negli anni a garantire che la discussione rimanesse sempre dentro gli ambiti democratici che ci siamo dati ha permesso di far crescere la nostra organizzazione, evitando la costituzione di aree o gruppi di minoranza che è contrario non solo alla lettera ma anche allo spirito del nostro Statuto”. Per la prima volta la dirigenza del nostro sindacato afferma in modo esplicito di essere contraria alla esistenza di aree di minoranza all’interno del sindacato. L’unica linea sindacale ammessa dev’essere quella del gruppo dirigente».
Effettivamente, l’iniziativa di Bellavita e dei compagni al suo seguito dentro l’Usb aveva prodotto questo risultato importante: aver fatto affermare alla dirigenza per la prima volta esplicitamente e nero su bianco la sua irriducibile ostilità al pluralismo interno.
I nostri compagni ne concludevano la necessità di passare, forti di questo risultato, a un piano pubblico di opposizione. Ma la minoranza dei firmatari che parteciparono alle successive riunioni, per quanto non lesinassero strali alla dirigenza di Usb, di fatto non accettarono di compiere questo passo e, quindi, l’iniziativa promossa con la lettera aperta del 13 ottobre si chiuse senza sviluppi. Ciò che emergeva, ancora una volta, era la mancanza di volontà nel condurre una battaglia dentro il sindacato. Eppure, sia pure com’è naturale che sia partendo da una posizione minoritaria, le forze disponibili non erano esigue, considerato lo sviluppo di Usb degli ultimi anni nel settore metalmeccanico e il suo parallelo declino nel settore pubblico – in parte ben maggiore controllato dalla dirigenza nazionale – nel quale ultimo dal 2013 al 2018 gli iscritti sono passati da 19.324 a 17.417, un calo di 3.281 unità in sei anni, pari al 17%.
Un elemento che emergeva dalle argomentazioni dai delegati vicini a Bellavita era la mancanza di volontà a ripetere quanto fatto per anni dentro la Cgil, dalla quale tutti provenivano, e come apparisse loro forzato riproporre una opposizione interna in un piccolo sindacato come l’Usb. A nostro modo di vedere era vero l’opposto: l’elefantiaca Cgil era più difficile da cambiare di quanto non fosse un piccolo sindacato come l’Usb.
Ad ogni modo la nostra indicazione volta a condurre una battaglia a viso aperto e a fondo dentro ogni sindacato ritenuto passibile di approdare a posizioni di classe non riposa solo sulla valutazione delle sue capacità di successo immediato, che, per altro, non possono essere valutate aprioristicamente, prima cioè di aver esperito tale lotta in modo non episodico, e dipendono in larga misura dal corso generale della lotta di classe. La battaglia è finalizzata alla costruzione di un rapporto con la base del sindacato e alla maturazione della sua consapevolezza dei problemi generali del sindacalismo di classe in modo che nelle più favorevoli condizioni si giunga allo snodo della soluzione del dilemma “riconquista del sindacato o ricostruzione fuori e contro di esso”.
Una nuova lettera
Spentasi l’iniziativa della “lettera aperta” del 13 ottobre con l’ultima riunione svoltasi ai primi di gennaio, dopo due mesi, maturava la decisione di Bellavita di uscire dall’Usb.
Una nuova lettera, firmata da una settantina di delegati, era rivolta agli organismi dirigenti dell’Usb, questa volta però rendendola pubblica il 28 aprile. Vi si legge: “Abbiamo appreso nelle scorse settimane la decisione di Sergio Bellavita di cessare il proprio impegno sindacale in Usb. Ne abbiamo appreso le ragioni e crediamo che siano più che fondate (...) Molti di noi sono in USB nella convinzione di poter costruire concretamente le basi per un sindacato differente. Scelta, però, che oggi comincia a nutrire profondi dubbi (...) Abbiamo deciso di scrivervi per invitarvi a fare una riflessione seria e profonda sull’attuale situazione di Usb e sulle prospettive della nostra organizzazione. La crescita di questi ultimi 4 anni (...) nel settore privato ed in particolare nell’industria (...) non è per sempre. Sbagliato pensare di essere un sindacato autoreferenziale, per questo pensiamo che bisogna aprirsi al confronto con tutte le forze sindacali di base. Crediamo, inoltre, che bisogna cominciare a pensare Usb con un sistema organizzativo differente (...) Un sindacato che non consegna ai propri quadri ed iscritti il potere di decidere incarichi e responsabilità è destinato ad essere inadeguato rispetto ai compiti della fase (...) Per queste ragioni occorre un congresso straordinario e la ridefinizione di una nuova linea politica contrattuale e di ridisegnare il sistema organizzativo interno allo scopo di rendere trasparenti e verificabili gli incarichi e le responsabilità decise dal voto dei delegati e delle delegate dei diversi organismi».
Questo documento, che i nostri compagni hanno nuovamente firmato, ci è parso migliore del precedente per tre ragioni: perché richiamava esplicitamente la necessità di unirsi nell’azione al resto del sindacalismo di base; perché avanzava la richiesta di un congresso straordinario; infine perché si decideva di renderlo pubblico.
A seguito di questa nuova lettera era organizzata una riunione interna all’Usb, questa volta non con una delegazione bensì aperta a tutti i firmatari – alla presenza anche di Bellavita – a cui quindi i nostri compagni hanno potuto partecipare, con tre membri dell’Esecutivo Nazionale Lavoro Privato. Di questi, a parte uno storico esponente del gruppo dirigente dell’Usb, gli altri due erano elementi di più recente acquisizione: il primo il Coordinatore dell’Usb di Taranto, delegato al siderurgico, passato dalla Fiom all’Usb nel 2013, con una breve parentesi nella Fim; il secondo il Coordinatore dell’Usb di Trieste, ex segretario provinciale Fiom, approdato all’Usb seguendo le tracce di Bellavita, dopo la firma del Ccnl metalmeccanico del novembre 2016. Entrambi, al di sopra di una disponibilità al dialogo di facciata, si sono dimostrati ostili a tutti i contenuti avanzati nella lettera del 28 aprile, attaccandoli con argomenti disonesti e risibili.
L’unità d’azione col resto del sindacalismo di base, ad esempio, è stata scartata sulla base di episodi prettamente locali di Taranto e Trieste. All’intervento del nostro compagno che, fra gli altri punti, ha denunciato i due congressi “a mozione unica”, ancora il coordinatore triestino ha replicato che non ci sarebbe bisogno di presentare documenti alternativi in quanto Usb sarebbe un sindacato “inclusivo”!
D’altro canto, da parte dei firmatari ancora una volta è emersa una troppo incerta volontà di scontrarsi. Non pochi hanno palesato la preoccupazione del vuoto lasciato da Bellavita nella sua funzione di “funzionario”, per le sue capacità a seguire le vertenze, richiedendo quindi una sua adeguata sostituzione e sostegno da parte della “struttura” del sindacato. Comprensibile ma che poco ha a che vedere con i contenuti della lettera del 28 aprile: unità d’azione col sindacalismo di base; pluralismo interno; congresso straordinario. Altrettanto numerosi interventi da parte dei firmatari presenti hanno ribadito come per essi l’Usb – e probabilmente prima la Fiom – fosse “Bellavita” e solo negli ultimi mesi, a seguito della decisione di quest’ultimo di abbandonare il sindacato, avessero iniziato a conoscere e ad interessarsi dei suoi vertici.
Una minoranza si è mostrata più agguerrita ma nessuno ha raccolto l’indicazione del nostro compagno che ha posto quale obiettivo concreto per una battaglia interna il riconoscimento della piena libertà a costituire aree di opposizione.
Il quadro che è emerso dalla riunione è quello di un grado di combattività ancora inadeguato ad affrontare i compiti e la battaglia necessaria per la rinascita del sindacalismo di classe, che richiede in ogni sindacato la determinazione a lottare per i giusti indirizzi organizzativi e di azione, in modo aperto, organizzato e fino in fondo, cercando il coinvolgimento di delegati, militanti e iscritti, e perseguendo il coordinamento intersindacale fra queste diverse battaglie interne, col porre al centro la lotta per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale.
A questo scopo è nato il Coordinamento Lavoratrici e Lavoratori Autoconvocati per l’Unità della Classe, a cui i nostri compagni hanno portato fin dal principio il loro impegno attivo e assiduo.
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Sempre più internazionale la guerra in Libia
L’evoluzione della guerra in corso in Libia negli ultimi mesi si è caratterizzata per una intensificazione del processo di internazionalizzazione del conflitto. La presenza di truppe regolari turche e di milizie jihadiste filo‑turche smobilitate dal teatro di guerra siriano, ha permesso al Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al‑Sarraj di resistere agli ultimi tentativi di strappargli la capitale Tripoli portati avanti dalle truppe cirenaiche dell’Esercito Nazionale Libico guidate dal feldmaresciallo Khalifa Haftar.
I mercenari di Ankara...
Le truppe turche in Libia, secondo gli avversari, ammonterebbe a oltre 1.500 soldati; le milizie jihadiste, le quali al di là della verniciatura religiosa sono in tutto assimilabili a truppe mercenarie, viene stimata sui 10.000 effettivi, ai quali con ogni probabilità si aggiungeranno presto altri 3.300 uomini che si stanno addestrando nei campi siriani.
Le forze cirenaiche nelle ultime settimane hanno subito alcuni importanti rovesci che le hanno costrette a rinunciare, almeno per il momento, all’ambizioso progetto di assoggettare tutta la Libia al controllo delle autorità di Bengasi, portato avanti a partire dall’offensiva lanciata il 4 aprile del 2019 da Haftar.
... e quelli di Mosca
Altro elemento della internazionalizzazione del conflitto è la crescente presenza delle milizie mercenarie russe, della Wagner Group, vicina a Putin, e della Moran Security, diretta da un ex ufficiale del Kgb. Queste compagnie di ventura vantano ormai una lunga esperienza sul campo. Il Wagner Group è stato impiegato nella riconquista russa della Crimea. In seguito ha operato in Siria, a Palmira, a Homs e nel conteso governatorato di Deir ez‑Zor in cui le forze dell’esercito regolare di Damasco si sono affrontate con le milizie a maggioranza curda delle Syrian Democratic Forces, appoggiate dalle truppe di élite statunitensi. Si stima che in Siria fra il 2015 e il 2019 le perdite del Wagner Group siano state di oltre 300 morti e di almeno un migliaio di feriti.
Dal 2017 alcune centinaia di mercenari del Wagner Group sono stati ingaggiati in Sudan dal regime di Omar al‑Bashir e hanno collaborato con le forze di polizia nella repressione dei moti che nell’aprile del 2019 portarono alla deposizione del presidente sudanese.
La presenza di questa multinazionale di ventura è segnalata anche in Madagascar, in Mozambico e in Venezuela, dove ha garantito la sicurezza del presidente Nicolás Maduro e delle attività della compagnia petrolifera russa Rosneft.
Attualmente il Wagner Group avrebbe in Libia almeno un migliaio di uomini, anche se è possibile che siano molti di più.
La compagnia Moran invece è stata a lungo attiva nel Mar Rosso, nel Golfo di Aden e a largo delle coste della Somalia nella repressione della pirateria, ma è stata presente anche in Iraq, in Centrafrica, in Kenya e in Nigeria. Fra gli Stati committenti ha avuto anche gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia (per la quale ha svolto alcune missioni in Iraq nel primo decennio del secolo), anche se quest’ultima si trova nel fronte avverso nella guerra libica. Sul suo sito internet appaiono gli indirizzi delle sedi a Mosca, a San Pietroburgo, a Baghdad, nello Sri Lanka e a Canton.
La guerra nel capitalismo tende a diventare un ramo di industria come gli altri. Come in ogni altro mercato le imprese e gli Stati non sono tenuti a nessuna politica di programmazione di lunga durata e a nessuna fedeltà durevole in alleanze e intese, ambigue ed effimere per natura.
Scrive Gianandrea Gaiani su “Analisi Difesa” del 22 maggio: «All’ONU gli ambasciatori anglo‑americani citano il migliaio di contractors russi e omettano di citare i quasi diecimila mercenari jihadisti arruolati da Ankara in Siria».
Ma la componente mercenaria che combatte a fianco dell’Esercito Nazionale Libico – che comprese le milizie tribali arriva a 25.000 effettivi – può contare anche su mercenari di altri paesi: ci sono siriani, stimati in 215 uomini, un numero imprecisato di sudanesi, circa 1.000 della milizia Janjaweed, e ciadiani, pagati mille dollari al mese dagli Emirati Arabi Uniti.
La controffensiva tripolitana e turca
L’Esercito Nazionale Libico a fine gennaio ha lanciato un’offensiva in grande stile giovandosi degli ingenti rifornimenti di artiglieria pesante, armi e munizionamento provenienti sempre dagli Emirati Arabi Uniti e arrivati a destinazione tramite l’Eritrea. L’offensiva è avanzata dapprima lungo due direttrici, di Misurata e della capitale. Ma la controffensiva delle forze tripolitane e turche a metà aprile ha riconquistato le città di Sabrata e Sorman, fra gli ultimi avamposti delle forze nemiche nel tratto di costa dalla capitale al confine con la Tunisia.
Il 19 maggio conquistava l’importante base aerea di al‑Watiya. Una trattativa ha consentito il ritiro delle truppe di Haftar purché non ne danneggiassero le infrastrutture, che i vincitori ora possono utilizzare.
Non a caso il giorno prima della presa di al‑Watya è intercorsa una telefonata fra Putin e il presidente turco Erdoğan: pur nell’assenza di una convergenza di interessi immediati, da alcuni anni – specie dopo il tentativo di colpo di Stato in Turchia del 15 luglio del 2016 – Mosca e Ankara riescono a mettersi d’accordo per una spartizione e talora cogestione delle sfere d’influenza. Analogamente non sembra abbia suscitato dissapori l’arrivo a Bengasi di sei cacciabombardieri Mig 29 e di due Sukhoi Su‑24 provenienti dalla base aerea russa di Hmeymim in Siria. Riprova delle caratteristiche di un conflitto che si svolge a vasi comunicanti fra i teatri di guerra siriano e libico, sotto il controllo concordato russo-turco.
Nell’ultima decade di aprile le truppe lealiste si sono impossessate anche delle cittadine di al‑Asaba e Jandouba, per spingersi fino a 180 chilometri a sud di Tripoli per tagliare i rifornimenti alla base di al‑Jufra, perno e quartier generale cirenaico nella metà occidentale della Libia.
Le forze dell’Esercito Nazionale Libico in ritirata dai dintorni di Tripoli sono state esposte agli attacchi dei droni turchi. I Bayraktar TB2 e gli Anka‑s si sono rivelati capaci di distruggere una decina di sistemi di difesa antiaerea Pantsir di fabbricazione russa.
Nelle ultime operazioni i mercenari russi morti in battaglia sarebbero stati una trentina.
In seguito sarebbero arrivati altri aerei russi portandone il numero totale a 14 e suscitando le sdegnate reazioni statunitensi, indicanti la relativa difficoltà per Washington di inserirsi nel gioco libico.
L’avanzata delle truppe fedeli a Tripoli, sempre con il sostegno turco, segnava un altro successo assai significativo il 4 giugno impadronendosi di Tarhouna, liberando così la capitale dall’assedio.
In seguito le operazioni si sono spostate a oriente, a Sirte, che mentre andiamo in stampa subisce l’assedio da parte delle truppe tripolitane.
La Turchia potrebbe già chiedere il conto del suo decisivo aiuto ad al‑Sarraj. Ma occorre tenere conto di altri fattori del bilancio fra le potenze.
L’accordo russo-turco
Gli Stati Uniti, da una parte, non hanno interesse a rafforzare le mire espansioniste della Turchia, la quale, sia pure con forti ambivalenze, resta un importante alleato nella Nato, col secondo esercito più forte dopo il loro; dall’altra, non possono impegnarsi apertamente contro la Russia in terra libica, dato che la ciurma di Mosca, cioè quella di Haftar, gode dell’appoggio di Emirati, Arabia Saudita ed Egitto, che sono a loro volta i nemici dell’apparente arcinemico Iran.
Nelle ultime settimane ci sono stati quindi dei messaggi di riavvicinamento fra Washington e Ankara, che avevano subito una eclissi in seguito alla decisione turca di comprare gli S‑400, l’efficace sistema d’arma antiaereo fornito dalla Russia. Trump si è opposto a sanzioni alla Turchia per l’”incauto acquisto”, per evitare che Erdoğan cada nelle mani di Putin. Washington ha anche ritirato le truppe che nel Nord della Siria appoggiavano le forze a maggioranza curdo-siriana contro il cosiddetto Stato Islamico.
La situazione sembra destinata a una spartizione la cui stabilità potrebbe essere garantita nei rispettivi campi dalla presenza russa e turca. Dal lato della Tripolitania si profila così l’ingresso delle compagnie petrolifere turche e di società turche nei contratti per la ricostruzione del paese. A questi accordi si lega quello per lo sfruttamento di una “Zona Economica Esclusiva” turco-libica proclamata a novembre da Erdoğan e al‑Sarraj, ma non riconosciuta dagli altri paesi rivieraschi.
In questo contesto si inserisce l’episodio del 10 giugno quando navi militari turche hanno impedito a una fregata greca di perquisire un cargo d’armi partito dalla Turchia e diretto a Misurata. L’intervento della nave greca rientrava nell’ambito della missione Irini dell’Unione Europea di fare rispettare l’embargo di armi.
Sul piano della presenza militare turca si va prospettando l’occupazione di due basi: al‑Watiya, nei pressi del confine con la Tunisia, e il porto di Misurata. Analogamente alcuni osservatori danno per scontato che Mosca sia in procinto di stabilire una propria base militare in Cirenaica rafforzando così in maniera significativa la sua presenza nel Mediterraneo.
Le potenze che hanno maggiore influenza sui rapporti di forza interni alla Libia sono quindi Russia e Turchia, con la relativa emarginazione delle altre che avevano tentato di trarre profitto dal rovesciamento del regime di Gheddafi nel 2011.
La borghesia italica perde terreno...
La borghesia italiana è quella che vede maggiormente compromessi i propri interessi, consistenti nello sfruttamento del petrolio da parte dell’Eni. Nel gennaio scorso Haftar aveva chiuso i pozzi petroliferi, fra cui anche quelli sfruttati dall’Eni nel Fezzan, determinando il collasso della già ridotta produzione petrolifera libica. Per altro l’Italia ha estrema difficoltà a gestire la politica delle alleanze in un contesto in cui non può arrivare a rotture nette con i nemici dei suoi alleati. Se da una parte l’Italia appoggia al‑Sarraj, dall’altra ha tentato in varie occasioni di corteggiare Haftar, al fine di raggiungere una pace negoziata di cui Roma sarebbe stata la garante. Il tentativo segnato dall’arrivo a Roma di Haftar a colloqui col presidente del consiglio Giuseppe Conte a inizio gennaio fa parte di un tentativo destinato all’insuccesso.
L’Eni gestisce il gasdotto Greenstream, dal terminale di Mellitah, in Tripolitania, a Gela. Nello stesso tempo l’Eni fa affari con gli Emirati, schierati con Haftar e avversari della Turchia. Quest’ultima ha mire sulla piattaforma continentale di Cipro, in quel caso in opposizione agli interessi italiani.
Altri aspetti, pur in un bilancio indubbiamente negativo, potrebbero favorire la borghesia italica.
...ma vende armi all’Egitto
Al‑Sarraj, attuale vincitore sul campo, è ufficialmente alleato dell’Italia. Ma l’Italia ha un altro pezzo sulla scacchiera, l’Egitto, col quale fa ottimi affari, specialmente in campo militare. Nella prima decade di giugno il governo Conte ha dato il via libera alla consegna all’Egitto di due fregate di classe Fremm prodotte da Fincantieri, la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi, per un valore di 1,2 miliardi di euro. Ma non basta: le due navi fanno parte di una megacommessa di armi e sistemi d’arma per un valore complessivo stimato di 10,7 miliardi: lo 0,5% del Pil italiano! Di questa commessa fanno parte in tutto 6 fregate (altre 4 oltre le 2 in consegna), 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter Typhoon, un certo numero di aerei di addestramento M‑346 e un satellite da osservazione.
C’è da aggiungere che le due prime fregate erano destinate alla Marina Militare italiana e soltanto una forte pressione politica può averle dirottate in pronta consegna all’Egitto. Facile capire dove, di fronte a un così grosso affare, vadano a finire tutte le manfrine sul caso di Giulio Regeni: di fronte a una montagna di soldi fra borghesi si perdona tutto.
L’Italia quindi vende armi all’Egitto, che sostiene e rifornisce il feldmaresciallo Haftar, che a sua volta le usa contro al‑Sarraj, alleato dell’Italia.
Anche il Qatar è uno dei principali acquirenti di navi, sottomarini, missili ed elicotteri dall’Italia. Eppure il paese sul Golfo Persico, essendo grande sponsor della Fratellanza Musulmana è visto dall’Egitto come un arcinemico. Se andiamo a ben vedere però la contraddizione è soltanto apparente. Tenere il piede in due staffe è un elemento di forza e non di debolezza, se consente di restare nel gioco anche con un ruolo di secondo piano.
Bagliori di guerra nel Mediterraneo orientale
Anche nell’affare della vendita di armi all’Egitto non svanisce del tutto il tanfo di gas e di petrolio. Ci sono i giacimenti egiziani di gas in mare destinati a uno sfruttamento comune con Israele. È c’è anche il grande progetto di Eastmed, un gasdotto che dalle acque territoriali di Israele, passando per Cipro e la Grecia, arriverebbe alla coste italiane. Ma questo gasdotto sul fondo del Mediterraneo taglierebbe fuori la Turchia. Turchia che da tempo vorrebbe far suo il gas della zona economica speciale di Cipro. Nel febbraio del 2018 alcune unità della marina turca impedirono a una nave per ricerche petrolifere, la Saipem 12000, di entrare nelle acque territoriali di Cipro da Sud, benché la parte dell’isola occupata delle truppe turche dal 1974 si trovi a Nord!, costringendola a fare dietrofront sotto la minaccia di speronarla.
Nel Mediterraneo orientale si sta quindi accumulando nuovo materiale esplosivo. Al centro della disputa è la questione delle Zone Economiche Esclusive rispetto alle quali la Turchia sconta uno storico svantaggio a causa degli assetti stabiliti dopo la Prima Guerra mondiale. Mettere in discussione equilibri definiti nei trattati internazionali che sancirono la sconfitta dell’Impero Ottomano quasi un secolo fa, significa incamminarsi sulla strada che porta alla guerra.
La borghesia incede animata dalle peggiori intenzioni, inesorabile e ottusa, nel vicolo cieco ma obbligato del riarmo, in un groviglio inestricabile di alleanze sempre più instabili e che un giorno finiranno fatalmente col saltare nella conflagrazione generale.
Il Black Lives Matter è un movimento per i diritti umani e civili, che ha preso forma in seno alla comunità afro‑americana intorno al 2013, come reazione all’infame verdetto che concesse la piena assoluzione al capitano della milizia di quartiere che il 26 febbraio dell’anno prima a Sanford, in Florida, aveva sparato – certamente non per legittima difesa, come affermato invece dal Tribunale – al 17enne Trayvon Martin, uccidendolo sul colpo.
Sono in parte legate al BLM le manifestazioni che hanno riempito le strade delle grandi capitali europee negli ultimi giorni.
Le intenzioni di quella che iniziò come una campagna online erano, nel 2013 come oggi, smuovere le “coscienze” dell’opinione pubblica americana ed internazionale per denunciare gli episodi di “war on Blacks”, gli attacchi sistematici alla vita degli uomini di colore e la brutalità della polizia che agisce nella piena compiacenza della giustizia.
Le singole “strutture” locali che aderiscono al BLM e la moltitudine di organizzazioni che partecipano al network non rispondono ad alcun organo centrale, rifiuto che corrisponde a pregiudizi localistici, ma anche all’interesse di trattenere i finanziamenti provenienti dalle sottoscrizioni esterne.
Questo non ha impedito negli ultimi giorni un coordinarsi tra le strutture aderenti nell’organizzare le proteste, la richiesta di firme su petizioni, unificate sotto gli stessi slogan e rivendicazioni.
Ma quali sono queste rivendicazioni? Leggiamo sul sito del Black Lives Matter: «La missione è sradicare la supremazia bianca e costruire il potere locale per intervenire nella violenza inflitta sulle comunità Nere dallo Stato e da i suoi agenti. Combattendo e reagendo agli atti di violenza, creando spazio per l’immaginazione e l’innovazione Nera, e ponendo al centro la gioia Nera, otteniamo immediati miglioramenti nelle nostre vite».
Qui si chiamano a raccolta le comunità di colore, nella loro totalità interclassista, a difesa dall’attacco della “supremazia bianca”. È un movimento interclassista, quindi borghese, espressione di una minoranza razziale perseguitata, borghesi che vogliono riconosciuta dallo Stato dei bianchi la loro piccola fetta di potere locale, senza essere taglieggiati o massacrati dalla polizia.
Quindi il BLM ha poco da offrire al proletariato nero, oltre a “immaginazione e innovazione”.
Sia le richieste sia le vie da percorrere, talvolta deliranti, nel movimento spesso divergono tra loro. Ma ampiamente condivisi sono la critica al governo Trump; una riforma della giustizia; pene più severe per gli agenti di polizia violenti; il contenimento del sistematico razzismo; il definanziamento dei dipartimenti di polizia locali (nella città di Los Angeles il 53% della spesa va al dipartimento di polizia, valore in linea con quello delle altre città americane); l’appoggio alle imprese e ai piccoli esercizi di proprietà afroamericana.
Queste rivendicazioni popolari hanno attirato verso le manifestazioni anche molti giovani bianchi, piccolo borghesi e proletari, pronti ad esprimere la propria solidarietà alla causa dell’antirazzismo e il proprio malumore per il quadro americano nel suo complesso.
Dalle multinazionali dei media, Apple, Nike, Adidas ed altre, sono arrivate recentemente promesse di investimenti pluriennali nelle comunità di colore dove sventolano la bandiera del progressismo antirazzista in cambio di buoni affari.
Inevitabile che il malumore sociale e razziale cerchi di sfogarsi nella palude elettorale: si sente proclamare la necessità per le comunità di colore di portare a termine le pratiche di registrazione elettorale così da poter votare, alle prossime elezioni presidenziali, “blu” contro il tiranno Trump, colpevole di aver dato voce e protezione ai suprematisti bianchi. Insomma il Partito Democratico ha come obiettivo, non nuovo, quello di portare a casa quanti più voti dagli afro‑americani.
Senza continuare a spulciare le varie utopie di riforma sociale interne al movimento BLM, l’una più inverosimile dell’altra, oggi più che mai, si leva la necessità della teoria rivoluzionaria e del partito marxista, in America e non solo.
Ci associamo alla denuncia della condizione di povertà del proletariato di colore, violentemente colpito, prima, dalla crisi economica in corso del capitalismo mondiale, dopo, dalla pandemia del Covid‑19 – che ha visto negli USA circa un terzo delle sue vittime tra la popolazione afro‑americana – che ha segnato una impennata della disoccupazione, già storicamente molto alta nelle comunità di colore. Mancano i servizi essenziali, in particolare nel settore sanitario, la scuola, gli alloggi, ecc...
L’imperante ideologia democratica spinge il proletariato di ogni razza verso le trappole dell’interclassismo e del millantato progressismo. Solo se guidato dal suo organo di classe, il Partito Comunista Internazionale, abbattendo il capitalismo ed il suo Stato, il proletariato potrà liberarsi una volta per tutte dalla morsa della brutalità razzista, dalla sua violenza assassina e dalla miseria morale degli ottusi pregiudizi borghesi.
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Seduta del sabato |
– Introduzione del centro |
La questione militare - In Russia dopo il Febbraio |
Condizione della classe operaia in America Latina |
L’attività sindacale del partito |
Storia dell’India:la nascita del Bangladesh |
Il PCd’I nella guerra civile in Italia contro lo Stato e fascismo |
La rivoluzione ungherese del 1919 |
Seduta della domenica |
Lo sciopero in Francia |
La rivoluzione in Germania: Lenin e Rosa in "Programma Comunista" |
Il concetto e la pratica della dittatura: in Russia |
La rivolta in corso in USA |
Il corso della crisi economica mondiale |
Origine del Partito Comunista di Cina |
La Terza I.C. in Gran Bretagna |
Lo scontro in corso tra Stati e classi in Libia |
A causa del confinamento contro l’epidemia e della impossibilità di viaggiare abbiamo studiato gli accorgimenti per tenere ugualmente la riunione generale del partito in collegamento remoto via internet. Un gruppo di compagni ha predisposto gli apparati necessari, ne ha verificato la praticità di funzionamento e l’affidabilità e ne ha distribuito ai compagni per tempo le istruzioni d’uso, accessibili anche ai meno esperti in modo che tutti hanno potuto seguire agevolmente ogni fase e particolare del convegno.
Data la accresciuta partecipazione di compagni non italiani abbiamo inoltre approntato un altro gruppo di nostri i quali, preparatesi con largo anticipo, tramite un sistema di microfoni, provvedevano alla traduzione in simultanea in lingua inglese e in lingua spagnola sia del saluto introduttivo del centro e degli interventi durante la seduta organizzativa, sia dei numerosi rapporti poi esposti.
Il pieno successo di questo gran lavoro preparatorio ha ricevuto l’ammirazione e il plauso generali. Nonostante l’accresciuto uditorio e la diversità delle lingue l’intera riunione si è quindi svolta nel massimo dell’ordine e dell’efficacia, mentre anche i compagni più giovani e lontani hanno potuto entrare in contatto diretto col partito e apprezzare il suo inconfondibile, quanto per noi ovvio e naturale, modo di funzionamento, impersonale, anti‑democratico, disciplinato e centralizzato: in una parola comunista e organico.
Qui sotto, con seguito e fine al prossimo numero, diamo lo schema delle numerose relazioni, tutte perfettamente fedeli al nostro secolare programma rivoluzionario.
La rivoluzione ungherese del 1919
Con questo rapporto siamo arrivati a riferire della fine della Repubblica dei Consigli.
Tutti gli accadimenti sono contro la Repubblica proletaria: i socialdemocratici e i capi dei sindacati svelano il loro vero volto di traditori e strumenti della borghesia contro il potere dei Soviet; la controrivoluzione dei bianchi espropriati, aristocrazia e pretume, che si arma e contrattacca; le forze dell’Intesa accerchiano militarmente l’Ungheria e la invadono; i predoni di Versailles con il blocco economico ne decretano la morte per fame.
Il 15 luglio si tiene l’ultimo Comitato Esecutivo Centrale. La Repubblica dei Consigli deve fare i conti soprattutto con la penuria alimentare.
La crisi diventa anche politica a causa del tradimento dei socialdemocratici, sempre inclini a favorire la borghesia e a non applicare il programma comunista della dittatura proletaria. Sono stati letti alcuni passaggi del discorso di Béla Kun.
«La dittatura del proletariato conosce attualmente, in Ungheria, un periodo di crisi. Questa crisi è triplice: di potere, economica e morale. La crisi di potere si manifesta nelle esitazioni del potere centrale e dei poteri locali di fronte alla controrivoluzione; i poteri non danno più prova della fermezza che dovrebbe caratterizzare sempre la dittatura del proletariato (...) In Ungheria l’instaurazione della dittatura del proletariato non è stata il risultato di una lotta aspra per la presa del potere. La concomitanza di alcune fortunate circostanze di politica internazionale ha avuto il merito di portare il proletariato al potere (...) Ne è derivata l’idea secondo cui non esiste qui la necessità di proseguire la lotta di classe. Quest’idea, che spinge alla clemenza nei riguardi della borghesia, ha potuto pertanto diffondersi con facilità sortendo l’effetto di indebolire la coscienza di classe e la combattività del proletariato (...) Il compito della dittatura consiste nell’intimorire gli sfruttatori; si tratta di rendere impossibile, attraverso i mezzi di cui il proletariato dispone, ogni manifestazione controrivoluzionaria e di eliminare i nemici della rivoluzione proletaria (...) La borghesia deve tremare perché è soltanto con questo mezzo che è possibile evitare spargimenti di sangue».
Il 24 giugno 1919 è firmato il trattato di Versailles ma il 30 il governo di Bucarest rifiuta di ritirare le truppe rumene come promesso nella nota di Clémenceau del 13 giugno. I preparativi controrivoluzionari si intensificano. Il governo rumeno prepara un attacco per la fine di luglio.
Il 20 luglio le truppe dell’esercito rosso danno avvio a una offensiva contro l’esercito reale rumeno. Ma i controrivoluzionari ungheresi hanno fatto pervenire in anticipo i piani dell’offensiva al nemico. I socialdemocratici del centro e della destra collaborano completamente con Gyula Gòmbòs, membro del governo controrivoluzionario di Szeged. Questo l’11 luglio aveva scritto una lettera a Ferenc Julier, nuovo capo di stato maggiore dell’Esercito rosso ungherese: «Sii pronto in un certo giorno a cominciare la controrivoluzione e a solidarizzare con Horthy». Non desta meraviglia se il maresciallo Foch a due giorni dall’inizio dell’offensiva riceve questa nota: «Siamo convinti che l’offensiva ungherese è destinata a fallire fin dall’inizio (...) Komlós ci ha fatto avere per mezzo di emissari una copia dei piani di battaglia dell’Esercito rosso». Così tradito, l’Esercito rosso, dopo le vittorie della prima settimana, finisce in una trappola ed è costretto ad indietreggiare con perdite ingenti e sanguinose.
Il 19 luglio il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista lancia un appello ai lavoratori di tutto il mondo: «Il Comitato Esecutivo dell’Internazionale fa appello ai lavoratori e ai soldati cecoslovacchi, rumeni e iugoslavi. Compagni, cessate di svolgere il ruolo di carnefici coatti dei lavoratori ungheresi! Tendete una mano fraterna ai vostri fratelli, i soldati e i lavoratori ungheresi. I lavoratori del mondo intero si scostano con disprezzo da coloro che in questo momento importante mancano al proprio dovere. Lavoratori e soldati di Francia! La borghesia del vostro Stato va condannata energicamente per la campagna dei carnefici contro la Repubblica sovietica ungherese. Levate voci di protesta! Strappate il potere dalle mani dei più grandi malfattori che il mondo abbia mai conosciuto. Fate saltare di mano agli assassini il coltello che hanno abbassato sui vostri fratelli, i lavoratori ungheresi».
Ma lo sciopero non riesce e le manovre borghesi hanno successo. Tuttavia a Vienna il 21 luglio la maggioranza degli operai sfila manifestando per le strade, le grandi aziende industriali di Berlino cessano il lavoro, a Erfurt, a Kiel, a Norimberga, a Dusseldorf e anche ad Halle alcune aziende si fermano, in Italia, in Francia e in Inghilterra vi sono dei movimenti, lo sciopero scoppia anche nella capitale rumena e perfino Pécs scende in sciopero contro le truppe reali jugoslave d’occupazione.
Di questo sciopero abbiamo letto il bilancio che ne trae Lenin il 31 luglio 1919 al I Congresso di tutta la Russia dei Lavoratori dell’istruzione e della cultura socialista.
Il proletariato ungherese rimane quindi solo a lottare contro l’agitazione disfattista dei socialdemocratici. Capi del sindacato e persino Commissari del popolo socialdemocratici cominciano a trattare con le missioni militari dell’Intesa, alle spalle del Consiglio governante, in cambio di qualche vagone di alimenti. Dichiarano apertamente che, se il proletariato rinunciasse al Governo dei Consigli, il blocco sarebbe tolto e tornerebbe il benessere e l’abbondanza per la classe operaia.
L’ultima offensiva dell’Armata Rossa ungherese, in contemporanea con lo sciopero internazionale, nonostante l’inferiorità rispetto al nemico, ottiene un iniziale successo: attraversa il Tibisco facendo arretrare le divisioni avversarie e occupa alcune decine di chilometri di territorio. Ma lo Stato Maggiore rumeno, a conoscenza del piano d’attacco di Julier, lancia il contrattacco che colpisce il I Corpo d’armata ungherese e annienta la Brigata Internazionale, che vede la metà dei suoi effettivi catturata dal nemico. In breve l’Armata Rossa è costretta a riattraversare il Tibisco, esposta ad ulteriori attacchi rumeni.
Il 26 luglio le potenze dell’Intesa fanno appello alla reazione ungherese per rovesciare la Repubblica dei Consigli. I comunisti tentano di mobilitare la classe operaia di Budapest, ma i socialdemocratici di destra impongono le dimissioni del governo Béla Kun, con la illusoria pretesa che la composizione di un governo sindacale avrebbe permesso di conservare le conquiste sociali più importanti.
Il 28 luglio Béla Kun telegrafa al rappresentante ungherese a Mosca Endre Rudnyánsky: «Imputo a una completa mancanza di cooperazione il fatto che noi siamo stati battuti dalle truppe romene sul fronte della Bessarabia (...) Temo che quanto prima i romeni e i cechi scatenino un attacco concentrico, che per noi vorrebbe dire la fine. Non è vero che gli elementi nazionalistici abbiano disertato il nostro esercito: a parte alcuni ufficiali, nell’esercito non ci sono nazionalisti. L’avanguardia operaia, con me alla testa, spinge con successo l’avanguardia politica a sinistra. Tuttavia ciò non servirà a niente se, per alleggerirci, non sarà lanciato un attacco contro la Bessarabia, in modo tale che i terroristi romeni siano minacciati nel modo più grave possibile. Attiro l’attenzione di Lenin sul fatto che il nostro territorio è così piccolo, che non c’è spazio per una ritirata tattica».
Lenin in risposta a Kun: «Conosciamo la difficile e pericolosa situazione dell’Ungheria e facciamo tutto quello che possiamo. Ma un aiuto immediato è ora materialmente impossibile. Sforzatevi di tener duro quanto più a lungo potete. Ogni settimana è preziosa. Accumulate provviste a Budapest, rafforzate la città».
Il 29 luglio Béla Kun invia il seguente disperato appello tramite l’ufficio telegrafico di Csepel: «Ai proletari di tutti i paesi! I governi borghesi delle potenze dell’Intesa, con la forza delle armi e della fame, vogliono costringerci di nuovo sotto il giogo del capitalismo...».
Il 1° agosto Béla Kun è a Királyhida, sulla frontiera austriaca, dove s’incontra segretamente con i socialtraditori Böhm, Weltner e Peyer, che a Vienna sono in contatto con l’Intesa, per verificare se vi siano ancora margini per le trattative.
Lo stesso giorno il Consiglio Rivoluzionario di Governo si riunisce per l’ultima volta e Kun propone di difendere Budapest a oltranza con le milizie operaie, ma il loro comandante, il socialdemocratico József Haubrich, sostiene che sarebbe solo un inutile spargimento di sangue. Kun accetta la proposta di Weltner: dimissioni del governo e passaggio dei poteri a un gruppo di dirigenti sindacali incaricati di trattare la pace. La direzione del Partito e il Consiglio Rivoluzionario danno le dimissioni.
È così che, a 48 ore dall’entrata delle truppe rumene a Budapest – che nel frattempo hanno sfondato le difese ungheresi a Miskolc e Szolnok arrivando a 80 chilometri dalla capitale – si costituisce il governo sindacale con alla testa Peidl. Governo che sopprime il potere della dittatura del proletariato e cominciano gli arresti con la parola d’ordine “paghino i colpevoli!”.
Ma la sua esistenza è molto breve: il 6 agosto un colpo di Stato rovescia questo governo per rimpiazzarlo con quello presieduto da István Friedrich, dietro il quale trama l’Arciduca Joseph, con l’obiettivo del ritorno della monarchia. L’Arciduca invia il 12 agosto un telegramma a Clémenceau per comunicargli che il governo da lui sostenuto si impegna ad annientare il bolscevismo.
La mancata rivoluzione in Germania: il giudizio del nostro partito
“Il Programma Comunista” volle rendere omaggio a Rosa Luxemburg sia ricordando, nella giusta prospettiva, la sua battaglia teorica e pratica sia riportando testi integrali o estratti della grande rivoluzionaria.
Nel 1960 sui numeri 6 e 7 pubblica “La crisi catastrofica della Internazionale Socialista nella guerra del 1914 - Le posizioni di Rosa Luxemburg e di Vladimiro Lenin nella battaglia contro il tradimento opportunista e per la nuova Internazionale”.
L’articolo consta di una premessa, seguita dalla traduzione della “Circolare del gruppo ‘Die Internationale’ sulle questioni vitali del socialismo”, testo questo, che Rosa inserì a conclusione della “Junius-Brochure”, preparatorio alle “Tesi sul Socialismo e la Guerra”, anch’esse tradotte e da noi riportate per intero nel 1960.
Quindi, preceduto anch’esso da una introduzione, l’articolo di Lenin del 1° ottobre 1916 in risposta all’opuscolo della Luxemburg. Vi si riconosce la vigorosa posizione internazionalista. Ma, come sempre, lo sforzo di Lenin è per eliminare ogni possibilità di guasto alla teoria o anche solo di interpretazioni equivoche di una tesi giusta, difetti che si potrebbero riflettere in veri e gravi errori pratici. Il rigore teorico è per Lenin il presupposto del rigore spietato dell’azione rivoluzionaria
E non v’è dubbio che la Luxemburg, a volte per mettere alla corda l’avversario portando all’estremo le sue tesi, a volte per un insufficiente sviluppo della propria argomentazione, lascia sussistere nel suo opuscolo – così vibrante di passione e di sdegno rivoluzionario – alcuni equivoci, pericolosi nei confronti della delimitazione dal “centrismo”, sulle lotte nazionali e sulla “difesa della patria“. Ma siamo, pur nella polemica, ad alta quota e fra rivoluzionari che affinano le armi teoriche e pratiche della battaglia di classe: fuori della palude dell’immediatismo concretista.
È importante sottolineare che è molto probabile che Lenin mentre scriveva l’articolo non avesse ancora letto la Circolare.
La Premessa riassume e analizza le rispettive posizioni di Rosa e di Lenin, e la Circolare in sé, che, seppur nella sua brevità, si dimostra sulla giusta strada del marxismo.
Leggiamo dalla Premessa.
«Nella data infame del 4 agosto i parlamentari dei partiti socialisti a Berlino e a Parigi votarono per la guerra e per i crediti militari al governo. Una ventata paurosa di smarrimento travolse il proletariato europeo, avviato a massacrarsi sui fronti nella prima distruttrice guerra imperialista mondiale.
«Scarse e soffocate le prime resistenze nel grande partito tedesco, considerato nella seconda Internazionale come guida del proletariato socialista mondiale. È noto che lo stesso Carlo Liebknecht, forzato dalla disciplina, votò nolente il maledetto sì.
«All’estero si ebbero molto tardi le prime notizie di una resistenza nel seno del socialismo germanico. Una opposizione alla politica del nazionalpatriottismo si era organizzata nei primi mesi del 1915.
«Si formò un gruppo “L’Internazionale” per il quale Rosa Luxemburg scrisse, sotto lo pseudonimo di “Junius“,un opuscolo (noto come “Junius-Brochure”) reso pubblico solo nel gennaio 1916 con stampa illegale, data la inflessibile censura vigente.
«Lenin pubblicò, mentre era ancora in Svizzera, una critica dell’opuscolo di Junius, che nel tono vivace non toglie che egli non manifestasse la sua solidarietà al gruppo più deciso dei rivoluzionari tedeschi. È di molto interesse lo studio dei due testi (...)
«Le Tesi erano state scritte dalla Luxemburg nella primavera del 1915 come “Direttive sul compito della Socialdemocrazia” (com’è noto, tale era la denominazione ufficiale di quasi tutti i Partiti socialisti in Europa) e come espressione programmatica del punto di vista del gruppo “Die Internationale”, la corrente di Sinistra del Partito tedesco di cui, con Liebknecht, Mehring, Zetkin, essa era l’esponente e l’animatrice più in vista. Il corpo di tesi, pubblicato clandestinamente, era stata fatto circolare nel Partito (dal quale il gruppo non si era formalmente ancora diviso), e fu poi messo a base dell’incontro fra diversi gruppi di opposizione di sinistra, non tutti ideologicamente omogenei, noto come la Reichskonferenz (conferenza nazionale) e tenuto nel gennaio 1916: ma era già stato reso noto dai delegati tedeschi alla conferenza internazionale di Zimmervald (5‑8 settembre 1915). Infine, la Luxemburg lo pubblicò a conclusione della sua”Junius Brochure” nell’aprile 1916 (...)
«I due testi (Le Tesi e la Circolare o Introduzione alle Tesi) appartengono ormai alla storia; il loro esame ed il loro commento esigono la massima attenzione. La Circolare (di cui, come detto sopra, riporteremo il testo integrale), sebbene d’importanza più limitata, è interessante come sforzo di delimitare la corrente di Sinistra da ogni formazione eterogenea di falsa ed oscillante opposizione alla politica ufficiale del Partito (...)
«Lenin dissente da Junius in sostanza su tre punti. Il primo riguarda l’azione politica nella lotta contro i traditori e per la costituzione della nuova Internazionale; gli altri due concernono questioni di principio, che non sarebbero chiare nelle tesi della Luxemburg. Sono argomenti della massima importanza. Lenin si richiama alla dialettica marxista, e pochi possono non riconoscere quanto fosse potente nelle sue mani. Dal punto di vista corrente – senza nemmeno pensare ai turpi “marxisti leninisti” e di oggi che sono al livello di quelli che nel 1914 votarono per la patria, e nel 1919 scannarono Carlo e Rosa – sembrerebbe che nel primo punto teorico Lenin fosse a destra, nel secondo a sinistra di Rosa. Ma guai a fermarsi qui.
«Primo punto di dottrina. Rosa avrebbe errato a dire che nel 1914 era chiusa l’era delle guerre “nazionali”. Era giusto, Lenin dice, se si fa relazione agli Stati in guerra, tutti imperialisti e briganti allo stesso grado, ma non è giusto se si nega il diritto di ribellione e di separazione dallo Stato oppressore delle nazionalità non autonome statalmente. Lenin cita Turchia, Cina e Persia, a cui certo Rosa non si riferiva, come egli stesso ammette. Egli anticipa le tesi nazionali dei congressi di Mosca sull’Oriente (...)
«Nel secondo punto, Lenin rivendica – non per la sola Russia ma anche per la Germania, come per qualunque altro paese belligerante, andrebbe fatto notare alle carogne falsane di oggi – la tesi essenziale del bolscevismo e della Internazionale Comunista, ossia la condanna di ogni difesismo della patria, anche invasa dal nemico, e il disfattismo rivoluzionario che augura la disfatta della borghesia indigena, e con la insurrezione la affretta e la utilizza.
«Su questo punto del leninismo che è il massimo e lo splendido, in che avrebbe Junius mancato? Lenin cita un brano polemico con i traditori che dissero di non avere potuto abbandonare la patria nell’ora del pericolo. Secondo Rosa nel calore della confutazione il voto dei crediti di guerra non fu un servigio reso alla patria, il cui avvenire non era nella vittoria dei Kaiser feudale ma in una repubblica pantedesca di popolo. Non era formula felice, e Lenin fu ferito dal fatto che i socialpratioti russi vi specularono. Tuttavia non vediamo in Rosa l’errore di dottrina quanto un non felice moto polemico, che va giudicato rivivendo le asprezze del tempo e del luogo.
«Certo è tuttora patrimonio del marxismo rivoluzionario intangibile quella che fu la massima parola di Lenin; non difesa della Patria ma sabotaggio dello Stato in guerra dall’interno, senza temere di favorire il nemico (...)
«Facciamo altra piccola nota sul punto iniziale di azione contro i traditori da rovesciare fuori dalla Internazionale. Dalla fine del 1916 Lenin li classifica in due schiere; la destra socialdemocratica, manutengola e sicaria della borghesia, e il centro, che personifica in Kautsky, forse ancora più pericoloso per la giusta posizione rivoluzionaria del proletariato.
«Alla memoria di Rosa non occorrono difensori, ma a noi pare che l’accusa qui non sia giusta. Forse Lenin aveva letto l’opuscolo ma non conosceva il testo che segue e fu premesso alle tesi. Basta rileggere la parte che fieramente critica il concetto di “opposizione” ed invoca non un fronte unico ma una vera unità omogenea di principii e di azione, per vedere come già allora la Luxemburg prevedeva che si rompesse tra centro e sinistra e non tra destra e centro, molti e molti anni prima delle celebri discussioni della questione tedesca in seno alla Terza Internazionale».
Il concetto e la pratica della dittaura: Lenin 1922, la NEP, i sindacati
Il ruolo dei sindacati, già complicato nello Stato del proletariato, con la NEP lo diviene ancora di più. In data 4 gennaio 1922 abbiamo di Lenin, un “Progetto di tesi sulla funzione e i compiti dei sindacati nelle condizioni create dalla Nuova Politica Economica”.
«Finché esistono le classi, la lotta di classe è inevitabile. Durante il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo è inevitabile l’esistenza delle classi, e il programma del PCR afferma, in modo assolutamente preciso, che nel passaggio dal capitalismo al socialismo stiamo facendo appena i primi passi (...) Ne deriva che nel momento attuale non possiamo in nessun modo rinunziare alla lotta mediante gli scioperi, non possiamo ammettere in linea di principio una legge che sostituisca agli scioperi la mediazione obbligatoria dello Stato. D’altra parte (...) in uno Stato proletario di tipo transitorio, qual’è il nostro (...) il metodo normale di risolvere i conflitti tra lavoro e capitale, tra salariati e imprenditori, deve diventare sempre più spesso il ricorso diretto dei lavoratori agli organi dello Stato (...)
«Si è visto che l’iscrizione forzata di tutti gli operai, senza eccezione, ai sindacati non corrisponde né al grado di socializzazione dell’industria effettivamente raggiunto, né al grado di sviluppo delle masse (...) È necessario tornare con la massima risolutezza, per un periodo abbastanza lungo, all’adesione volontaria (...)
«Tra i vari compiti dei sindacati c’è una serie di contraddizioni. Da una parte, il metodo di azione principale è la persuasione, l’educazione; dall’altra, poiché partecipano al potere statale, essi non possono rifiutare di partecipare anche alla coercizione (...) Le contraddizioni summenzionate provocheranno inevitabilmente conflitti, disaccordi, attriti, ecc. È necessaria una istanza superiore abbastanza autorevole per risolverli immediatamente. Tale istanza è il partito comunista (...) l’Internazionale comunista».
L’espressione “edificazione del socialismo”, che non ci piace per nulla, e anche quella di “passaggio al socialismo”, sono state poi utilizzate dalla controrivoluzione stalinista per sostenere che in Russia si era già nel socialismo, anche se con alcune parti ancora “in costruzione”: la dottrina del socialismo in un solo paese. Tali espressioni in Lenin hanno significato politico, non economico. Ha infatti sempre ribadito che il primo passo che la Russia poteva compiere verso il socialismo consisteva nel capitalismo di Stato, accanto al quale sussistevano in Russia anche tutte le forme anteriori, dalla grande alla piccola proprietà privata e ancora precedenti. Altro che socialismo già realizzato!
Ovviamente per Lenin ciò era possibile solo grazie all’esistenza dello Stato proletario e al controllo degli operai armati, in attesa che a breve il proletariato dei paesi di capitalismo più sviluppato conquistasse il potere. Senza di ciò, il nostro aveva ben chiaro che la prima rivoluzione vittoriosa del proletariato sarebbe stata sconfitta.
Per i borghesi di tutte le scuole e di tutti i partiti invece la NEP equivale a uno o più passi indietro dal comunismo, l’ammissione del suo fallimento e della sua impraticabilità.
Su “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi” leggiamo: «Nella mente di Lenin e nell’azione del partito bolscevico è chiaro che il socialismo ha due condizioni: il grado di sviluppo delle forze produttive e il grado di sviluppo della rivoluzione nei paesi borghesi avanzati. Le forze produttive non si alzano da un livello patriarcale o medievale senza un meccanismo economico che porti all’industria i prodotti agricoli, e viceversa. Questo trasporto (...) non si può fare che nelle forme del commercio capitalista (...) Ove è piccola produzione ivi è scambio mercantile, ivi è capitalismo, ivi non è socialismo. Ma siccome si muore senza quel doppio trasporto, ecco che, cessando di vietarlo, si deve lasciarlo giocare nelle forme borghesi. Volgarmente: o mangiare questa minestra o saltare dalla finestra».
La difficoltà stava nel controllare, da parte dello Stato e del partito, l’inevitabile riformarsi della piccola borghesia commerciale, pericolo che la NEP avrebbe alimentato. Non c’era alternativa per tentare di conservare il potere. Le due esigenze, di favorire il libero commercio e di controllare la borghesia, con la conseguente pianificazione, pur essendo contraddittorie dovevano essere assolte contemporaneamente.
Quanto alla funzione dei sindacati ribadiamo che nello Stato del proletariato saranno proibiti i sindacati delle categorie non proletarie, mentre i sindacati dei lavoratori, accanto alle nuove funzioni di gestione ed amministrazione dell’economia, avranno sempre quelle proprie, parallele ma non identiche all’azione del partito e dello Stato: difendere le condizioni di vita della classe lavoratrice. Tutto ciò fino a quando esisteranno il lavoro salariato e il capitalismo di Stato, fino a quando lo Stato della dittatura del proletariato non si estinguerà per lasciare posto al comunismo.
La piramide del potere proletario in Russia, partendo dal basso, è questa: comitato di fabbrica, all’interno del quale si costituisce la frazione comunista, sindacati, soviet, Partito.
Nel I Congresso dei sindacati, nel gennaio 1918, ai menscevichi che sostenevano l’indipendenza dei sindacati, Tomskj rispose giustamente che «gli interessi settoriali di gruppi di lavoratori devono essere subordinati agli interessi dell’intera classe». Per i bolscevichi quindi i sindacati dovevano essere subordinati al governo sovietico, in quanto essi stessi parte dell’amministrazione; nessuna neutralità o indipendenza. Questo non significa che i sindacati potessero essere statizzati, come quando i soviet pretendevano di sottoporli ai loro ordini. La formula di “cinghia di trasmissione” sta a significare un sistema di reciproche trasmissioni di influenza, nel riconoscimento del ruolo di motore-cervello del partito.
La polemica di Trotski contro i menscevichi, fautori del “lavoro libero”, per la militarizzazione dei sindacati, pur legittimata dalla necessità dell’organizzazione dei cosiddetti eserciti del lavoro, viene ad urtare nei limiti fisiologici e materiali delle forze produttive, di un proletariato prostrato da una guerra imperialista e poi da una guerra civile.
Al X Congresso del Partito nel marzo 1921 furono presentate 3 risoluzioni: una di Trotski e Bucharin chiedeva la “sterilizzazione dei sindacati”; una della cosiddetta Opposizione Operaia chiedeva l’affidamento ai sindacati dell’intera amministrazione economica. La prima insisteva sulla necessità di un inquadramento obbligatorio dei lavoratori per accrescerne la produttività, la seconda fu giustamente accusata di anarco-sindacalismo: i sindacati non possono che seguire in ritardo e a stento la chiarezza di visione e le posizioni del partito comunista, e se lasciati a se stessi dal partito non possono che tornare sotto l’influenza di concezioni piccolo-borghesi. La terza mozione era quella di Lenin ed altri 9 membri del partito.
Su “Comunismo” n. 8, pag. 32 e 33, leggiamo: «La posizione di Lenin è compresa nella cosiddetta “piattaforma dei dieci”. Essa non è una generica equilibratura tra Trotski e l’Opposizione Operaia, perché i rilievi, vigorosi e sferzanti che esprime nei confronti del primo non fanno che riconfermare il punto 5 del programma del 1912, che prevede il trasferimento ai sindacati di tutta l’amministrazione dell’economia, ma escludono l’opportunità della statizzazione come misura capace di contribuire a migliorare la situazione economica della Russia.
«Nei confronti della Opposizione Operaia al contrario Lenin ribadisce la necessità di principio e di fatto della più stretta subordinazione dei sindacati al governo, secondo l’esigenza della centralizzazione (...)
«È necessario che i sindacati svolgano le loro funzioni che non potrebbero adempiere se fossero assorbiti dallo Stato. Essi devono fornire – secondo Lenin – alla dittatura del proletariato esercitata dal Partito una larga base sociale, la cui necessità è dettata dal carattere contadino del paese. La classe al potere, il proletariato, è una minoranza del paese e deve essere efficacemente organizzata per potere esercitare una ferma influenza politica sulla grande maggioranza. I sindacati sono e devono essere la più larga organizzazione volontaria di lavoratori industriali. Assorbiti dallo Stato diventerebbero una pura macchina burocratica. Mentre i sindacati devono diventare “scuola di comunismo” per i loro 7 milioni di aderenti. I comunisti non devono tentare di imporsi ai sindacati attraverso nomine governative, ma adoprarsi per essere accettati come dirigenti della massa dei lavoratori iscritti ai sindacati sulla base dei loro meriti e della loro capacità di direzione. Solo allora potranno sperare di trasformare i sindacati in scuola di comunismo per l’intera classe. Una lezione di dialettica valida ieri ed oggi».
(Continua nel prossimo numero)
Resoconto della riunione di Roma
24‑26 gennaio
[RG 136]
Attività sindacale
Abbiamo trattato della attività sindacale nel periodo dall’ottobre dell’anno scorso.
Nel Coordinamento intersindacale
Nella riunione del “gruppo di lavoro” del Coordinamento lavoratrici e lavoratori autoconvocati per l’unità della classe svoltasi il 5 ottobre a Firenze, a fronte dello sciopero generale proclamato da un parte del sindacalismo di base (Cub, SI Cobas, Adl Cobas, Sgb), si decise di non chiedere all’interno dei sindacati di base di proclamare uno sciopero generale unitario. Si è infatti valutato che la reiterazione della esclusione da parte delle dirigenze sindacali promotrici dello sciopero dell’altra parte del sindacalismo di base – Usb e Confederazione Cobas – rendeva difficile, in una situazione di generale passività dei lavoratori, una campagna in seno ai sindacati non invitati volta ad promuoverne l’adesione che trovasse il favore dei delegati, i quali facilmente avrebbero fatto loro l’argomentazione della dirigenza che addita agli altri sindacati la causa del fallimento dell’azione unitaria. Invece la responsabilità della mancata proclamazione di uno sciopero generale unitario di tutto il sindacalismo conflittuale è di tutte le dirigenze, nessuna delle quali vuole una simile azione.
Inoltre, si valutava come la condizione di passività della classe lavoratrice avrebbe inficiato il successo dello sciopero generale anche se fosse stato proclamato unitariamente dal sindacalismo conflittuale. L’arma dello sciopero va difesa anche con un suo serio utilizzo e da parte del CLA si è manifestata la corretta volontà di distinguersi dall’abusato costume delle dirigenze del sindacalismo di base di convocare scioperi generali che non possono certo dirsi tali, con troppo esile partecipazione dei lavoratori. Se è da denunciare la condotta propria di un sindacato di regime quale la Cgil, che non convoca uno sciopero generale dal 12 dicembre 2014, altrettanto non è ammissibile che questa arma di lotta venga usata ogni anno e, quasi sempre una volta all’anno, in un modo del tutto rituale e senza alcuna ambizione che possa realmente incidere sugli obbiettivi e sul corso della lotta fra le classi.
Fatte queste considerazioni il Coordinamento ha deciso di agire su un altro terreno, promuovendo esso stesso una iniziativa, ed invitandovi tutte le organizzazioni del sindacalismo conflittuale. Non si è trattato della convocazione di uno sciopero, giacché tale azione non è alla portata attuale del Coordinamento né esso vuole sostituirsi alle organizzazioni sindacali, bensì di una manifestazione e di un’assemblea sul tema della sicurezza e della salute sul posto di lavoro e nel territorio.
L’invito è stato recapitato a 108 indirizzi di strutture nazionali e territoriali del sindacalismo conflittuale: Cub, SI Cobas, Confederazione Cobas, Usb, Sgb, Orsa, Cat, Usi, Cobas Sanità Università Ricerca, Slai Cobas, Opposizione Cgil. L’iniziativa è stata convocata a Torino il 7 dicembre, anniversario del grave incidente occorso all’acciaieria delle Thyssen Krupp nella quale morirono arsi vivi 7 operai.
Si è trattato della prima iniziativa pubblica nazionale del Coordinamento. L’esito è stato soddisfacente, nella misura di ciò che è oggi questo organismo, con oltre un centinaio di presenti al presidio e all’assemblea. I sindacati che hanno portato loro rappresentanze sono stati, in ordine numerico: la Cub, il SI Cobas, la Confederazione Cobas, lo Slai Cobas, i Cobas Sanità Università Ricerca (scissione di categoria dalla Confederazione Cobas).
Presenti, inoltre, il Coordinamento lavoratori dell’alto‑vicentino “Voci Operaie”, il gruppo “Operai Autorganizzati FCA” di Torino, il “Comitato per la difesa della Salute nei luoghi di lavoro e nel territorio” di Sesto S. Giovanni (Mi) e militanti dell’Usb, del Cat, dell’Orsa, dell’Usi e dell’Opposizione Cgil. Di quest’ultima erano presenti i compagni aderenti al Coordinamento che ne costituiscono una parte importante.
Il Coordinamento ha tenuto a Firenze l’11 gennaio una sua assemblea nazionale.
Il sabato successivo, il 18, il Coordinamento ha partecipato con una ventina di suoi componenti alla manifestazione a Prato in difesa dei lavoratori multati per “blocco stradale” dopo che il loro picchetto era stato sgomberato dalla polizia. È stato redatto e distribuito un apprezzato volantino. La manifestazione di Prato è andata nella direzione auspicata dal Coordinamento perché ha visto la partecipazioni di delegazioni, per quanto ridotte, di gran parte del sindacalismo conflittuale: Opposizione Cgil, Confederazione Cobas, Cub, Usb, oltre al SI Cobas che ne era promotore. Non è che questo carattere della manifestazione sia stato frutto dell’influenza del Coordinamento, che però ne ha certamente beneficiato.
Nella opposizione interna all’Usb
Nell’agosto scorso i nostri compagni avevano promosso con altri delegati di Usb un appello per un’assemblea nazionale degli iscritti, volta a coinvolgere la base del sindacato nelle decisioni circa eventuali mobilitazioni generali nell’autunno, che poi da parte di Usb non vi sono state. L’appello aveva ricevuto una novantina di adesioni e, come già accaduto in passato, e quindi come prevedibile, era stato ignorato dalla dirigenza.
Questa iniziativa era stata presa in seguito ad alcune informazioni secondo le quali vi erano degli scontri interni agli organismi dirigenti del sindacato, tali da poter favorire una simile nostra azione. Invece, nulla trapelò nelle settimane in cui facemmo circolare e poi rendemmo pubblico l’appello. Questo, tranne alcune eccezioni, ha raccolto adesioni quasi tutte fra militanti del sindacato che già in passato avevano preso posizione contro la dirigenza.
A metà settembre, però, per iniziativa del Coordinatore nazionale del settore industria di Usb, è stata fatta circolare internamente al sindacato una “lettera aperta”, rivolta al Coordinamento Nazionale Confederale di Usb. In essa si affermava che «senza una profonda e necessaria riforma del nostro sindacato, la crescita registrata negli ultimi tempi rischia di andare rapidamente dispersa» e si denunciava la mancanza di regole chiare di funzionamento interno, di definizione degli incarichi e delle funzioni, nonché di un clima favorevole al dialogo e alla pluralità interni.
Il problema delle regole di funzionamento è grave dentro Usb e la dirigenza, a livello nazionale, territoriale e di categoria, fa quello che vuole pur di imporre la sua linea e combattere quelle avversarie.
Dopo aver raccolto una sessantina di adesioni di delegati la lettera è stata inviata a metà ottobre all’Esecutivo Nazionale Confederale con la richiesta di un incontro.
Rispetto all’appello promosso da noi e da altri delegati ad agosto – e a tanti altri in passato – questa lettera aperta non è stata resa pubblica, andando incontro ad una delle pretese regole invocate dalla dirigenza nazionale, che le discussioni interne non trapelino all’esterno del sindacato. Questo è un modo, da un lato, per mostrare all’esterno una omogeneità e una forza che non corrispondono alla reale condizione del sindacato, dall’altro, e soprattutto, per ostacolare la circolazione e diffusione di indirizzi contrari a quelli della dirigenza nazionale.
Alla riunione concessa dall’Esecutivo per il 4 novembre ha partecipato una delegazione ristretta definita dal gruppo di dirigenti promotori della lettera ed è stata rigettata la nostra proposta: che essa fosse allargata quanto possibile, ponendo come unico criterio la volontarietà a farvi parte, e al massimo eventualmente limitando i compagni con diritto di prendere la parola.
L’incontro con l’Esecutivo è stato giudicato dalla delegazione del tutto insoddisfacente in una riunione dei firmatari della lettera aperta tenutasi pochi giorni dopo, a cui abbiamo partecipato.
Il 22 novembre l’Esecutivo ha finalmente inviato la “lettera aperta” al Coordinamento Nazionale Confederale e lo ha fatto con una lettera di accompagnamento che confermava il giudizio negativo rispetto all’incontro del 4.
Nonostante l’evidente indisponibilità della dirigenza a dialogare sulle questioni avanzate dalla lettera aperta, i suoi promotori hanno mantenuto un atteggiamento poco determinato e non conseguente con l’intenzione di battersi seriamente dentro il sindacato per gli obiettivi proclamati e contro le storture denunciate. Tant’è che si è riusciti ad organizzare una nuova riunione solo per il 23 dicembre. Anche a questa riunione abbiamo partecipato. Vi si è deciso di compiere un passo fondamentale e a nostro avviso necessario: rendere pubblica la lettera e la nostra azione. I nostri compagni hanno scritto una bozza di documento da inviare ai firmatari della “lettera aperta” in cui si chiedeva loro se condividono la scelta di rendere pubblico il dissenso e di mantenere la firma al documento.
Ma anche dopo questa decisione non è cambiato l’atteggiamento lassista di quello che dovrebbe essere il gruppo dirigente della iniziativa d’opposizione, ragion per cui sinora non sono stati compiuti passi in avanti pratici.
(Fine del resoconto di Roma)
PAGINA 7
12. Louis‑Auguste Blanqui
Prima parte
(Continua dal numero scorso il capitolo esposto alla riunione generale a Genova nell’ottobre 2017)
Blanqui e Buonarroti, insieme ad altri repubblicani, furono incaricati della difesa al “processo d’aprile” nel 1835, intentato a 121 accusati per i fatti dell’anno precedente, ed in particolare l’insurrezione di Lione. Blanqui conosceva ovviamente Buonarroti ed il suo famoso scritto, e ne condivideva le posizioni: era sicuramente un babuvista. Era però convinto che fosse necessario andare oltre quelle tradizioni e superare la mitologia robespierrista, presente fino all’ultimo nel grande Filippo Buonarroti. Abbiamo già detto che il principale collaboratore di quest’ultimo, Voyer d’Argenson, comprendeva l’importanza delle associazioni operaie anche più del vecchio rivoluzionario. I giovani collaboratori di Buonarroti e d’Argenson, Vignerte, Lebon e Laponneraye, la pensavano come Blanqui. Laponneraye in uno scritto del 1833 critica Robespierre e Saint‑Just: «La nazione francese aveva meno bisogno di feste religiose che di istituzioni sociali. Se, in luogo delle feste dell’Ente supremo, Robespierre avesse dato ai suoi concittadini un codice di leggi in cui la proprietà fosse stata costituita su nuove basi (...) è da presumersi che la reazione termidoriana non si sarebbe scatenata (...) Robespierre avrebbe risvegliato simpatie ben più vive toccando gli interessi materiali, con una riforma sociale, che non rivolgendosi alle pure speculazioni dell’anima con il nuovo culto. Questi uomini prodigiosi hanno fallito. Che la nostra ammirazione per essi non ci accechi al punto di crederli infallibili».
C’è chi ha parlato di un’influenza sansimoniana su Blanqui. In realtà egli usa temi e termini sansimoniani usati anche da Buonarroti, d’Argenson e Teste, e molto usati in generale in quegli anni. Abbiamo già detto che Buonarroti cercò dei contatti con i sansimoniani, per accorgersi subito della loro totale estraneità ad una visione di classe, al posto della quale c’era una fede in un progresso graduale ed infinito consistente nell’industrializzazione, e ovviamente privo di scosse e rotture rivoluzionarie. Ovviamente Blanqui non ha nulla a che spartire con i sansimoniani come con altre utopie; riguardo a questi temi e a questi anni scriverà diversi anni dopo: «Sansimoniani, fourieristi, positivisti, hanno tutti dichiarato guerra alla rivoluzione accusata di negativismo incorreggibile. Per una trentina d’anni le loro prediche hanno annunciato all’universo la fine dell’era della distruzione e l’avvento del periodo organico nella persona dei loro rispettivi messia. Rivali per il resto, le tre sette erano concordi soltanto nelle diatribe contro i rivoluzionari, peccatori incalliti che rifiutavano di aprire i loro occhi alla nuova luce e le loro orecchie alla parola di vita. Cosa notevole che basta a stabilire la distinzione, i comunisti non hanno cessato di costituire l’avanguardia più audace della democrazia, mentre i seguaci di ipotesi hanno rivaleggiato in bassezza davanti a tutti i governi retrogradi e mendicato le loro buone grazie insultando la repubblica. Il comunismo è l’essenza, il midollo della rivoluzione, mentre le nuove religioni non ne furono altro che nemiche, proprio come la vecchia».
Ai tempi del “processo d’aprile” risale la formazione della “Società delle Famiglie”, secondo lo storico Maurice Dommanget fondata da Barbès nel 1835, ma per ammissione di Blanqui, che dichiara di esserne entrato a far parte più tardi, fondata nel luglio 1834 da Hadot-Desages. I repubblicani erano nuovamente costretti alla clandestinità, ma la “Società delle Famiglie”, e ancora di più la successiva “Società delle Stagioni”, erano qualcosa di diverso dalle precedenti società segrete: erano il tentativo, con limiti inevitabili, di creare il partito rivoluzionario del proletariato, riallacciandosi, in questo, alla “Cospirazione per l’eguaglianza” di Babeuf. Nella “Società delle Famiglie” è segreta, per ovvi motivi, la struttura dell’organizzazione, ma a differenza delle vecchie società segrete, tutti i componenti conoscono i metodi, gli scopi finali e la dottrina politica.
Nel formulario per l’ammissione alle Famiglie leggiamo: «Domanda: chi sono gli aristocratici? Risposta: sono gli uomini del denaro, banchieri, fornitori, monopolisti, grossi proprietari, aggiotatori, in una parola gli sfruttatori che s’ingrassano alle spalle del popolo. Domanda: in nome di quale diritto governano? Risposta: in virtù della forza. Domanda: quali devono essere i diritti dei cittadini in un paese ben governato? Risposta: il diritto all’esistenza, il diritto all’istruzione gratuita, il diritto di partecipazione al governo; i suoi doveri sono: la dedizione verso la società e la fraternità verso i suoi concittadini». Continuiamo a leggere: «Ogni membro ha il compito di diffondere con tutti i mezzi possibili le dottrine repubblicane (...) Ogni membro, entrando nell’Associazione, fornisce una quantità di polvere da sparo proporzionata alle sue possibilità economiche (...) Nell’Associazione non c’è niente di scritto. Tu sarai conosciuto solo con il nome di battaglia che sceglierai. In caso di arresto, non bisogna mai rispondere al giudice istruttore. Il comitato è sconosciuto, ma al momento del combattimento è tenuto a farsi conoscere. È espressamente proibito scendere nella pubblica piazza [per la lotta] se il comitato non è alla testa dell’Associazione. Durante il combattimento i membri devono obbedire ai loro capi seguendo tutto il rigore della disciplina militare».
Scrive il Danvier: «Non più Bons Cousins, né diplomi, né triangoli massonici, ma segrete milizie pronte ad insorgere, laboratori per la fabbricazione di polvere da sparo, attivo rapporto con la classe operaia».
Nucleo dell’associazione era la Famiglia, composta da un minimo di 5 a un massimo di 12 membri. Scrive Dommanget: «Tale Famiglia si riuniva sotto la presidenza di un capo designato dal centro. Questa riunione era il solo atto ufficiale, se lo si può definire tale, della Société, poiché le riviste, le assemblee numerose e gli ordini del giorno erano soppressi. Cinque o sei Famiglie formavano una Sezione (50 persone circa) comandata da un capo sezione; due o tre sezioni formavano un Quartiere, con un comandante di quartiere alla testa. A loro volta, i capi quartiere dipendevano da un agente rivoluzionario il quale era membro di un Comitato segreto che controllava l’associazione e non era tenuto a farsi conoscere che al momento dell’insurrezione. Nulla doveva restare scritto».
Nel 1835 la “Société des Familles” aveva oltre mille aderenti, soprattutto operai e studenti, ma anche membri della Guardia Nazionale, artigiani, negozianti e proprietari; ed anche uomini tra i reggimenti di stanza a Parigi, che procuravano munizioni e armi, anche se in quantità insufficiente.
Il 10 marzo 1836 la polizia fece irruzione in un locale dove si produceva polvere da sparo, e i giorni seguenti in varie case tra cui la casa di Barbès, dove fu arrestato insieme a Blanqui. Anche in questo caso vi fu una delazione. Scriverà anni dopo Blanqui: «Tutto si preparava per un colpo di mano, allorché uno degli agenti di fiducia del comitato, Lucas, andò a vendere quel che sapeva alla polizia (...) La razzia fu completa. Uomini e mezzi, tutto cadde in mano al nemico. Solo i militari sfuggirono al disastro, ignorando il denunciatore le relazioni con l’esercito. Tuttavia, in base ad alcune indicazioni, il governo, spaventato, fece precipitosamente partire la guarnigione di Parigi e deportare in Africa il 22° di linea».
Blanqui, Barbès ed altri furono condannati a due anni di prigione, ma ne scontarono circa otto mesi a causa di un’amnistia, nel maggio 1837, in occasione delle nozze del duca d’Orléans. Restavano due anni di sorveglianza, che trascorse insieme alla moglie, e che furono il periodo più tranquillo della sua vita, considerando che su 76 anni di vita ne trascorse in carcere oltre 33, venendo quindi conosciuto come “l’Enfermé”, il prigioniero. Il procuratore generale Frank-Carré al processo del 27 giugno 1839 contro gli esponenti delle “Stagioni” dice: «La Società delle Stagioni non è come la Società dei Diritti dell’Uomo con i suoi archivi e i suoi controlli; né come le Famiglie, con le note di presentazione e le liste. Da nessuna parte, nessuno scritto che possa indicare di quali uomini si componesse il personale delle sue Settimane e dei suoi Mesi è stato trovato o sequestrato».
Torniamo allo storico Danvier: «I difetti delle Famiglie, l’imprudenza, le maglie troppo larghe, erano risultati evidenti dopo l’Affare delle Polveri. Nelle Stagioni non si scrivono verbali né si conservano documenti o liste di nomi. La struttura organizzativa è per lo più simile a quella delle Familles ma vi è una maggiore attenzione al comportamento dei militanti e le maglie dell’organizzazione sono molto strette. Base della Société è la Settimana, composta di sei uomini che conoscono solo il loro capo, la “Domenica”. Quattro Settimane formano un Mese, comandato da un capo detto Luglio, che conosce solo le quattro Domeniche poste sotto i suoi ordini. Tre mesi, ossia 87 uomini, formano una Stagione comandata da un capo detto Primavera, il quale ha relazioni solo con i Lugli. Quattro Stagioni formano un Anno, comandato da un Agente rivoluzionario».
Nel 1839 le Stagioni arrivarono a circa 1.000 aderenti in gran parte operai, a differenza delle Famiglie. Marx sulla Nuova Gazzetta Renana dell’aprile 1850 scrive che carbonerie e massonerie «trovarono un pericoloso concorrente nelle società segrete proletarie, il cui scopo non era l’insurrezione immediata, ma l’organizzazione e lo sviluppo del proletariato. Già nel 1839 l’insurrezione assume un carattere decisamente proletario e comunista (...) La Société des Saisons, con la quale Barbès e Blanqui organizzarono l’insurrezione del 1839, era già formata esclusivamente di proletari».
Nel formulario di ammissione alla Società delle Stagioni leggiamo: «Poiché lo Stato sociale è corrotto, per passare a uno Stato sano sono necessari rimedi eroici; il popolo avrà bisogno per un certo periodo di tempo di un potere rivoluzionario (...) Bisogna sterminare la monarchia e tutte le aristocrazie, mettere al loro posto la repubblica, cioè il governo dell’eguaglianza; ma, per passare a questo governo, è necessario un potere rivoluzionario».
C’è poi un documento sequestrato al sarto Louis-Pierre-Rose Quignot, membro delle Stagioni, più volte arrestato, che è un resoconto di temi trattati nelle riunioni di questa associazione: «È incontestabile che dopo una rivoluzione operata a profitto delle nostre idee, dovrà essere creato un potere dittatoriale col compito di dirigere il movimento rivoluzionario. Troverà necessariamente il suo diritto e la sua forza nel consenso della popolazione armata, che agendo per uno scopo di interesse generale, di progresso umano, rappresenterà palesemente la volontà rischiarata della grande maggioranza della nazione. Prima cura di questo potere sarà di organizzare le forze rivoluzionarie, far insorgere con tutti i mezzi l’entusiasmo del popolo in favore dell’eguaglianza, reprimere i nemici che la tempesta popolare non avrà inghiottito durante il combattimento. Si paleseranno i grandi bisogni, lunghe sofferenze chiederanno di essere sollevate, bisognerà dare immediata soddisfazione materiale al popolo; motivi d’equità e di politica renderanno la cosa assolutamente necessaria».
«Per essere forte, perché la sua azione sia rapida, il potere dittatoriale dovrà essere concentrato nel più piccolo numero d’uomini possibile; un solo uomo potrebbe creare sospetti, diffidenze e, d’altronde, dove trovare un cittadino tanto degno di considerazione, tanto popolare? Diviso tra un gran numero, perderebbe troppo del suo merito, mancherebbe di prontezza; si manifesterebbero contrasti, in una parola, sarebbe debole. Il triumvirato sembrerebbe essere la combinazione più felice. Questi uomini capaci, energici, amici del popolo, da lui conosciuti o almeno dai suoi capi‑colonna, riceveranno il mandato rivoluzionario più esteso dalla popolazione armata che li sosterrà con tutta la sua forza nella loro opera distruttrice e riorganizzatrice. Tutte le leggi saranno sospese; si provvederà immediatamente ai diversi servizi pubblici (...) Abbattere la vecchia società, distruggerla dalle fondamenta, rovesciare i nemici interni ed esterni della Repubblica, preparare le nuove basi di organizzazione sociale e condurre infine il popolo dal governo rivoluzionario a quello repubblicano regolare. Tali saranno le attribuzioni del potere dittatoriale e i limiti della sua durata».
Torniamo a Danvier: «L’affiliazione operaia era fatta tenendo conto dell’attività professionale. Vi furono così Stagioni composte essenzialmente da lavoratori del cuoio, altre da carpentieri, fabbri, cappellai, calzolai, tipografi ecc. Quali rapporti intercorressero tra professione e azione politica non sappiamo con certezza. Una cosa è comunque significativa: i grandi scioperi a Parigi del settembre 1840 iniziarono con l’azione dei sarti, ossia una delle componenti più numerose e decise delle Stagioni, risorte dopo la sconfitta e riorganizzate in Association des Travailleurs Egalitaires». Tale associazione era molto simile alle Stagioni: ciò che cambiava era la terminologia, ma non la richiesta di un potere dittatoriale transitorio.
C’era anche una Società Democratica Francese, di cui sappiamo poco, formata da francesi, tedeschi e svizzeri rifugiatisi a Londra dopo la fallita insurrezione. Questa Società ha lasciato un rapporto del novembre 1839, con gli stessi temi delle Stagioni. Si parla della necessità di un governo dittatoriale provvisorio di durata imprevedibile e di una economia pianificata: «Per dare più rapidamente e completamente ai lavoratori il benessere che attendono dalla rivoluzione, si dovranno costruire edifici che si potranno chiamare ateliers nationaux, dove i lavoratori saranno occupati ogni giorno per un periodo di tempo ragionevole, otto ore per esempio, e saranno retribuiti egualmente».
A Parigi nel 1839 c’erano 150.000 lavoratori disoccupati, e quelli che avevano la fortuna di avere un lavoro, che poteva arrivare fino a 15 ore al giorno, vedevano il salario diminuire costantemente. Dall’anno precedente c’era una grave crisi economica, a cui seguì una crisi politica tra il re e il parlamento. La Società delle Stagioni crede sia il momento di passare all’insurrezione, che prepara con accuratezza, ma sopravvalutando le proprie forze. Ci sono ovviamente dei provocatori legati alla polizia, che spingono verso l’insurrezione per poi schiacciarla con forza, in una sorta di guerra di classe preventiva da posizioni di preminenza. Si verificano gravi divisioni all’interno della Società delle Stagioni, come quella tra componente politica e componente militare, quest’ultima legata in parte alle Falangi Democratiche, create da militari dopo l’arresto dei capi delle Famiglie. Blanqui cerca di ricucire i rapporti interni e di ripensare la scelta dell’insurrezione, che però finisce per assecondare data l’impossibilità di fermare il corso degli eventi.
Scrisse poi Lacambre, membro delle Stagioni: «Blanqui era il solo e unico capo delle Stagioni. Barbès era semplicemente membro di quel che si chiamava comitato, nel quale Blanqui aveva raggruppato alcuni uomini dei quali aveva bisogno per l’organizzazione (...) Barbès era stato impiegato per via dei suoi soldi e unicamente per pagare armi e munizioni. Martin-Bernard, Netré, Meillard, ecc., erano in realtà gli organizzatori subalterni che mantenevano all’erta, convocavano le riviste e avevano sottomano le quattro stagioni, i mesi, le settimane.”
Ancora Danvier: «Blanqui, capo delle Stagioni, è anche l’artefice del piano insurrezionale. Si occupa dei minimi dettagli, individua le armerie, i ponti, le caserme, i ministeri con tutte le relative entrate secondarie, le carceri militari, i commissariati di polizia. Si occupa con meticolosità di tutto, compreso il soccorso sanitario. Sa che l’impresa non è facile, che il suo fallimento rimanderebbe indefinitamente il raggiungimento dello scopo e condizionerebbe pesantemente l’esistenza del partito. Il piano insurrezionale può essere così riassunto: marciare sulla prefettura e occuparla; porre guardie e barricate ai ponti; trasformare la sede della prefettura in una specie di campo trincerato; fare della Cité il centro della resistenza organizzata e di là spedire colonne in tutte le direzioni. Da un punto di vista militare, il piano permetteva di guadagnar tempo, battere il nemico sul piano psicologico, preparare l’offensiva con l’appoggio determinante delle masse. Il 12 maggio, all’inizio, le cose sembrarono andar bene per gli insorti, poi la grave defezione da una parte e la sostanziale indifferenza delle masse dall’altra, decretarono la tragedia».
Il procuratore Mérilhou, al processo, dice: «Si comprende tutto ciò che ci sarebbe stato di grave nella posizione del pubblico potere se non avesse più avuto il suo centro operativo al quale affluiscono i rapporti particolari da ogni punto della città e che, di rimando, può parimenti trasmettere i suoi ordini, estendere la sua sorveglianza, dare a ciascuno di quei punti le sue direttive. In questo piano d’attacco c’era un interesse militare importante. Con il possesso di questi due punti, dei ponti e dei lungosenna che li uniscono, gli insorti si assicuravano i mezzi per sostenersi reciprocamente e ritirarsi gli uni sugli altri; tagliando il corso del fiume e difendendone i dintorni rendevano per un istante difficilissime le comunicazioni necessarie alla repressione del movimento». Blanqui mette in atto anche un buon sistema di barricate, che tiene conto degli insegnamenti delle precedenti insurrezioni.
Ma la sera del 13 è tutto finito. All’Appello insurrezionale rispondono appena 500 uomini, ai quali se ne unirono poi non più di 300. La sconfitta fu dovuta, più che allo scontro impari con la truppa, al comportamento dei proletari, divisi tra l’indifferenza e la collaborazione con la repressione. Buchez, il fondatore della carboneria francese, corse a prendere posto nella Guardia Nazionale per sparare «contro i cani hébertisti e babuvisti». Con i membri delle Stagioni combatterono anche diversi rivoluzionari italiani, svizzeri e dalmati.
E soprattutto i tedeschi membri della Lega dei Giusti, che nel 1847 prese il nome di Lega dei Comunisti. La Lega dei Giusti non era molto differente dalle Stagioni, e anche essa contava su un migliaio di uomini. Leggiamo cosa scrive Engels a riguardo: «Dall’associazione segreta democratica repubblicana dei Proscritti, fondata a Parigi nel 1834 da profughi tedeschi, si separarono nel 1836 gli elementi estremi, per lo più proletari e fondarono la nuova Lega dei Giusti, anch’essa segreta (...) Originariamente essa era una propaggine tedesca del comunismo operaio francese, legata a reminiscenze babuviste, che si sviluppò in quello stesso tempo a Parigi (..) Gli scopi erano gli stessi di quelli delle società segrete allora esistenti a Parigi. Si trattava di un’associazione per metà di propaganda e per metà di cospirazione, e si considerava pur sempre Parigi come punto centrale dell’azione rivoluzionaria, benché non si escludesse la preparazione di eventuali colpi di mano in Germania. Ma, siccome Parigi restava il campo di battaglia decisivo, la Lega non era in realtà molto più che la diramazione tedesca delle società segrete francesi, specialmente della Société des Saisons, diretta da Blanqui e Barbès, con la quale esisteva una intima connessione. I francesi insorsero il 12 maggio 1839: le sezioni della Lega marciarono con loro e quindi furono coinvolte nella comune disfatta».
Negli atti della Lega dei Comunisti del 1847 leggiamo parole sicuramente condivisibili da Blanqui: «Proletari di tutti i Paesi, uniamoci pubblicamente dove la legge lo permette, perché le nostre azioni non temono la luce, invece segretamente dove l’arbitrio degli oppressori ce lo vieta».
Louis Blanc, nel testo nominato, stroncò totalmente il tentativo insurrezionale del 1839: «Bisogna far notare a quali tristi, deplorevoli conseguenze si condannino gli uomini che, avendo più fede nelle vittorie della forza che nelle pacifiche e inevitabili conquiste dell’intelligenza, fanno del progresso dell’umanità un affaire de coup de main, una avventura (...) Occorre saggezza, tempo: anche la pazienza è una virtù repubblicana».
Che la pazienza sia una virtù rivoluzionaria, è l’unica cosa su cui siamo d’accordo con Louis Blanc, ma dobbiamo anche dire che il termine è usato in maniera decisamente diversa. Ovviamente le “pacifiche e inevitabili conquiste dell’intelligenza”, contrapposte all’uso della forza, manifestano l’accodarsi di Blanc al sansimonismo e al positivismo, la lontananza da ogni prospettiva rivoluzionaria e lo schierarsi a fianco della propria borghesia. Lo storico dell’Unione Sovietica Volgin, che evidentemente voleva essere più realista del re, critica Blanqui dicendo che peccava di fede nella “ineluttabilità del comunismo”. Ineluttabilità e necessità non sono la stessa cosa; il secondo termine non era molto chiaro neanche a Blanqui, ma sicuramente il primo ha un forte odore di positivismo e di sorti magnifiche e progressive. Scrive Blanqui: «Noi non crediamo alla fatalità del progresso, questa dottrina dell’imbastardimento e dell’accovacciarsi». Tra il comunista Blanqui e il nazional-comunista Stalin non abbiamo certo dubbi da quale parte stare.
Scrive ancora Blanqui nel 1851: «Le armi e l’organizzazione, ecco l’elemento decisivo del progresso, il mezzo serio per finirla con la miseria. Chi ha del ferro ha del pane. Davanti alle baionette si cade in ginocchio e chi non ha armi viene spazzato via come polvere. La Francia piena di operai in armi, ecco l’avvento del socialismo. In presenza degli operai armati, ostacoli, resistenze, impossibilità, tutto sparirà. Ma per i proletari che si divertono con ridicole manifestazioni nelle strade piantando alberi della libertà o con le sonore frasi avvocatesche, vi sarà prima l’acquasanta, poi le offese, infine la mitraglia, sempre la miseria!».
Ancora Danvier: «Blanqui ritiene che tale minoranza rivoluzionaria, elemento determinante del processo di trasformazione, può essere, a seconda delle circostanze, organizzazione di propaganda rivoluzionaria e di prudente reclutamento, avanguardia politica, formazione militare sul piano politico. La forza di questa “minoranza attiva” è proporzionale alla capacità e alla possibilità di esprimere fedelmente, se non le aspirazioni, quantomeno gli interessi immediati degli sfruttati. Tale concezione non ha nulla a che vedere con il “putschismo” ed è, per Blanqui, l’unica possibile in epoche caratterizzate dalla passività delle masse popolari».
Blanqui viene arrestato 5 mesi dopo la fallita insurrezione grazie ad una spia, ed il 12 gennaio 1840 inizia il processo contro di lui ed altri 30, processo in cui la corte tenta di dividere gli accusati allargando la spaccatura già esistente tra Blanqui e Barbès. Tale spaccatura era dovuta più che a divergenze politiche, a questioni personali, di carattere e di temperamento. Blanqui, Barbès e Martin-Bernard sono condannati a morte, condanna poi commutata in ergastolo, e portati al Mont Saint-Michel, ex monastero trasformato in carcere speciale. Curiosamente coloro che credono all’esistenza dell’inferno, collocandolo in vari luoghi, quasi mai lo riconoscono quando capita loro di vederlo con i propri occhi. Tale era Mont Saint-Michel. I prigionieri venivano picchiati e torturati fisicamente e psicologicamente, anche con finte esecuzioni; d’inverno venivano tenuti nei locali più freddi e umidi, d’estate in baracche arroventate dal sole; il vitto era formato il più delle volte da carne putrefatta e purè ai vermi.
Nel 1841, all’età di 28 anni, morì la moglie di Blanqui, che si era trasferita nelle vicinanze del carcere per stargli vicino. Fu un colpo durissimo per quest’uomo che Victor Hugo nel 1848 definì un mostro senza affetti e senza cuore. D’altronde Victor Hugo, grande scrittore e romanziere, era anche un piccolo borghese, in questo caso un borghese piccolo piccolo, e condivideva la visione della propria classe, e quindi la paura del comunismo.
All’inizio del 1844 Blanqui fu trasferito al carcere di Tours per motivi di salute; sembrava che stesse per morire per cui, per evitare di creare un martire, nel dicembre dello stesso anno il re firmò la grazia per “l’Enfermé”. Blanqui, immobilizzato a letto da dieci mesi, risponde così: «Non solamente non accetto e non voglio la grazia, ma preferisco, crudelmente malato come sono, essere ricacciato in una segreta, piuttosto che ritornare libero senza i miei compagni». La grazia non può comunque essere rifiutata da un detenuto, ed egli esce dal carcere solo nell’ottobre 1845 quando, sorprendentemente, si è ormai ripreso. Viene mandato a Blois in libertà vigilata.
Qui nel novembre 1846, in seguito ad una sommossa, sono arrestati gli esponenti di una società segreta, la “Goguette des fils du diable”, società creata, sembra da quel poco che ne sappiamo, da icariani dissidenti dal loro capo Cabet, e incoraggiati da Blanqui. Nell’aprile del 1847 Blanqui è processato con l’accusa di essere a capo di questa società segreta comunista, ma non emergendo nessuna prova, è assolto e il 1° giugno torna libero, anche se sempre sotto stretta sorveglianza. Cabet, comunista utopista, entra ora, insieme agli altri utopisti, nella schiera già descritta da Blanqui dei nemici del proletariato e del comunismo. Cabet in questa vicenda si pronuncia contro i “comunisti rivoluzionari” che danneggiano il pacifico sviluppo e la pacifica conquista perorati dagli icariani.
Scrive Marx ne “Le lotte di classe in Francia”: «Mentre l’utopia, il socialismo dottrinario, il quale subordina il movimento complessivo a uno solo dei suoi momenti, al posto della produzione sociale comune mette l’attività cerebrale del singolo pedante, e soprattutto fantastica di eliminare la lotta delle classi e le sue necessità mediante piccoli artifici o grandi sentimentalismi; mentre questo socialismo dottrinario, il quale in fondo non fa che idealizzare la società attuale, ne trae un’immagine senz’ombra e vuole attuare il proprio ideale contro la realtà di essa; mentre questo socialismo viene abbandonato dal proletariato alla piccola borghesia; mentre la lotta dei diversi capi socialisti tra loro rivela che ciascuno dei cosiddetti sistemi non è altro che la pretenziosa sottolineatura di uno dei punti della trasformazione sociale a preferenza degli altri, il proletariato va sempre più raggruppandosi intorno al socialismo rivoluzionario, al comunismo, pel quale la borghesia stessa ha inventato il nome di Blanqui. Questo socialismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, della dittatura di classe del proletariato, quale punto di passaggio necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali».
(Continua)