Partito Comunista Internazionale
il Partito Comunista Internazionale N. 431 - Anteprima

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Aggiornato al 22 dicembre 2024

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DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Il Kenya di oggi: Le attuali proteste antigovernative
Brics: Non sarà un mondo multipolare a sanare le piaghe del capitalismo
– L'inevitabile declino dell’imperialismo francese
Femminicidio
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Per il sindacato di classe
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Le proteste antigovernative in Kenya

Uno spettro si aggira per il Kenya. Il governo del presidente William Ruto - un convinto servitore del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale - sta cercando di imporre tasse assai esose alle masse lavoratrici. La protesta è dilagata rapidamente con manifestazioni in molte città che hanno visto per protagonisti giovani proletari che si sono posti contro il governo con radicale determinazione. I lavoratori kenioti chiedono ora uno sciopero generale.

Il Presidente Ruto ha chiamato l’esercito dopo che una formidabile massa umana ha invaso le strade per opporsi alle sue severe misure di austerità. In un primo discorso televisivo, Ruto ha etichettato i manifestanti come "traditori" e "pericolosi criminali", giurando di trattare ogni minaccia come un pericolo esistenziale per la Repubblica.

Martedì 25 giugno, i manifestanti contrari al disegno di legge sulla finanza hanno circondato l’edificio del Parlamento a Nairobi, nel tentativo di paralizzare l’economia e costringere Ruto, ad abbandonare il suo progetto di imporre oltre 2 miliardi di dollari di nuove tasse sui lavoratori e sui poveri delle aree rurali.

Il disegno di legge segue un periodo di instabilità economica in cui il Kenya, un paese neanche troppo povero rispetto all’area geografica in cui è inserito, ha vacillato sull’orlo del baratro finanziario. Una vendita di obbligazioni da 1,5 miliardi di dollari a febbraio ha temporaneamente salvato il governo, permettendogli di pagare un’altra rata del debito in scadenza.

La situazione del Kenya è diventata così grave che il nuovo debito viene accumulato per pagare quello vecchio a tassi di interesse sempre più alti. Il 30% del bilancio del governo viene speso per il servizio del debito. Entrano in gioco il FMI e la Banca Mondiale, con i loro "aiuti" sotto forma di prestiti, apparentemente per aiutare il Kenya a ripagare i suoi creditori parassiti. Ma il trucco è che questi debiti devono essere ripagati trattando i proletari kenioti come mucche da mungere.

Seguendo i dettami del FMI, il Parlamento ha proposto il Finance Bill 2024, un pacchetto di brutali misure di austerità che ha scatenato le proteste. Il disegno di legge mira a raccogliere 2,7 miliardi di dollari di tasse aggiuntive per ridurre il deficit di bilancio facendolo passare dal 5,7% del PIL al 3,3%, nella prospettiva di ripianare il debito pubblico del Kenya che è pari al 68% del PIL. Di fronte alle sfide economiche e all’incertezza sull’accesso ai mercati dei capitali, il Kenya si è rivolto al FMI, che ha chiesto al governo di aumentare le entrate per ottenere maggiori finanziamenti. Il disegno di legge prevede imposte indirette su beni di prima necessità come pane, olio vegetale, zucchero, cioè i beni di primaria necessità per la fascia più povera della popolazione. La cosa più esasperante è l’introduzione di "eco-tasse", che includono una "eco-imposta" sui pannolini igienici e sugli assorbenti mestruali, una cinica beffa che ha scatenato l’indignazione delle giovani donne keniote. Inoltre, la manovra prevede un aumento delle tasse sulle transazioni finanziarie.

Di fronte a queste nuove tasse che mettono ulteriormente a dura prova le loro già scarse finanze, i lavoratori kenioti sono scesi in piazza. I social media sono diventati rapidamente una piattaforma per condividere il loro sentimento di rabbia e coordinarsi nelle azioni di protesta. Senza un leader centrale o un partito capace di assumere la direzione della protesta, i giovani di tutto il Paese si sono sollevati per puro istinto di classe: una prassi senza teoria, ma naturalmente spontanea. Il governo ha risposto con la violenza poliziesca che ha fatto largo uso di armi da fuoco contro i giovani proletari in rivolta, tanto che almeno 20 di loro sono morti e parecchie centinaia sono rimasti feriti. Molti di loro sono caduti martedì 25 giugno durante l’attacco all’edificio del parlamento che è stato devastato e dato alle fiamme. A questo si aggiunge il pesante clima di intimidazione da parte della polizia e la chiusura di Internet e con l’arresto di centinaia di persone nelle ultime settimane, nel tentativo di schiacciare il movimento. Ruto e i suoi scagnozzi hanno rapito diversi blogger, attivisti e influencer dei social media, nella speranza di intimidire i manifestanti ma con scarso successo.

Quelle che erano iniziate come piccole proteste a Nairobi martedì scorso, si sono trasformate in un movimento nazionale mercoledì, quando le manifestazioni si sono diffuse nelle principali città e in molti centri minori in seguito alla seconda lettura della legge finanziaria. La giornata si è conclusa tragicamente con l’uccisione da parte della polizia di un altro manifestante di 29 anni, alimentando le richieste di un blocco nazionale mercoledì. I cittadini chiedono ora uno sciopero generale, oltre a manifestazioni programmate e potenziali azioni spontanee.

Inizialmente, il governo ha risposto con la repressione, dispiegando cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e arrestando centinaia di persone. Tuttavia, queste tattiche non sono riuscite a reprimere le masse. Il numero delle proteste è cresciuto nel corso della serata, nonostante la violenza poliziesca. Sono circolati video che mostravano prigionieri che cantavano nelle loro celle. Molti slogan esprimevano l’odio profondo per l’élite al potere. Sui cartelli si leggeva: "Ruto è un ladro!". "Ruto deve andarsene!" "Svegliatevi, ci stanno derubando!". Le masse sono perfettamente consapevoli del fatto che il Kenya è il perno degli interessi strategici dell’imperialismo statunitense in Africa orientale e che i loro leader sono solo burattini dell’imperialismo e agenti del capitale.

La maggior parte dei kenioti è incredibilmente giovane e questa energia giovanile è la forza trainante delle proteste. Anche se questa generazione non ha ricordi diretti dell’austerità imposta dal FMI negli anni ’80 e ’90, c’è la sensazione palpabile per impedire che si ripeta lo stesso copione dell’austerity a spese della classe lavoratrice.

Il FMI è un drago che accumula il suo tesoro di sangue e che chiama i capitali internazionali ad accorrere quando avrà scelto una nuova vittima. Questa procedura è fin troppo rinomata. Si potrebbero ricordare molti Paesi dell’America Latina, dell’Africa del Nord come di quella subsahariana ecc.

Inizialmente, molti parlamentari arroganti hanno respinto le proteste, guadagnandosi il soprannome di "MPigs". Un parlamentare ha persino affermato che le immagini delle manifestazioni che circolavano sui social media erano solo creazioni di Photoshop.

Quando il panico si è diffuso, il governo ha cercato di fare delle concessioni, introducendo una serie di emendamenti. Ha eliminato le tasse sul pane e sull’olio vegetale e ha assicurato al pubblico che le "ecotasse" si sarebbero applicate soltanto ai beni di importazione finite col pretesto che il paese produce in proprio molti di questi prodotti. Ma è stato troppo poco e troppo tardi.

Le masse scese in piazza, dopo avere intuito la portata potenziale della loro forza, sono ora più sicure che mai. Sia la repressione che le concessioni sono servite solo ad alimentare ulteriormente il movimento.

Le tattiche del governo sono state inutili contro i giovani manifestanti che non hanno nulla o poco da perdere. I politici kenioti avevano dato per scontato che i giovani fossero apatici e poco propensi a mobilitarsi e una scadente letteratura li descriveva come individualisti ed egoisti dopo il crollo delle reti solidali retaggio delle relazione del Kenya che non aveva ancora conosciuto il capitalismo. A tenere in piedi questa narrazione di comodo il fatto che le giovani generazioni di proletari si tenessero lontane dagli stanchi riti della democrazia parlamentare. Ad esempio alle elezioni del 2022, quelle che hanno portato Ruto al potere, meno del 40% degli elettori registrati erano giovani, nonostante l’età media in Kenya fosse inferiore ai 20 anni e il 65% della popolazione avesse meno di 35 anni.

Queste vibranti azioni della giovane classe operaia keniota, anche se forse prive dell’educazione rivoluzionaria delle generazioni passate, riecheggiano lo spirito descritto a suo tempo Lenin: «Ma, inutile dirlo, le masse imparano dalla vita e non dai libri, e perciò certi individui o gruppi esagerano costantemente, elevano a teoria unilaterale, a sistema tattico unilaterale, ora una ora un’altra caratteristica dello sviluppo capitalistico, ora una ora un’altra “lezione” di questo sviluppo».

Questa "interazione tra tutte le classi" si manifesta nel momento in cui la classe operaia keniota si rivolta contro un moderno Golia. Tuttavia, i lavoratori consapevoli avranno sempre una collina contro cui combattere. Marx afferma nella “Ideologia tedesca” che: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè, la classe che è la forza materiale dominante della società è allo stesso tempo la sua forza intellettuale dominante. La classe che ha a disposizione i mezzi di produzione materiale, di conseguenza, controlla anche i mezzi di produzione mentale, cosicché le idee di coloro che non hanno i mezzi di produzione mentale sono nel complesso soggette ad essa... per esempio, durante il periodo in cui l’aristocrazia era dominante, erano dominanti i concetti di fedeltà all’onore, eccetera, durante il dominio della borghesia i concetti di libertà, uguaglianza, eccetera».

La classe dirigente ha commesso un errore fatale, confondendo il distacco con l’apatia. Con un tasso di disoccupazione che raggiunge il 35% tra i 18 e i 35 anni, molti giovani kenioti hanno poche speranze per il futuro. Il messaggio dei manifestanti kenioti è chiaro: avendo poco da perdere, si rendono conto di avere tutto un mondo da conquistare.

L’anno scorso, Raila Odinga, un influente oligarca keniota, ha annullato l’opposizione di massa a Ruto sulla legge finanziaria per l’anno precedente, il 2023, quando il movimento ha rischiato di incrociarsi con le richieste di sciopero dei dipendenti pubblici. Odinga appartiene allo 0,1% più ricco della popolazione keniota, che possiede più ricchezza del restante 99,9% (oltre 48 milioni di kenioti). Il governo sostiene che le nuove misure fiscali sono necessarie per finanziare i programmi di sviluppo e ridurre il debito pubblico. Tuttavia, in tutto il Paese, centinaia di migliaia di insegnanti e operatori sanitari, che hanno scioperato ripetutamente negli ultimi cinque anni contro i bassi salari e i contratti di lavoro precari, esprimono il loro netto disaccordo.

Il nostro partito ha già parlato degli scioperi del 2012 dei lavoratori della sanità keniota nel numero 352 di “Il Partito Comunista” «La lotta generale indetta dal sindacato Kenya Health Professionals Society, partita la domenica del 1° marzo, viene già boicottata dall’associazione di categoria il martedì. Dopo aver ricevuto dal tribunale l’ingiunzione alla ripresa del lavoro, una riunione interna della dirigenza sindacale decide di smettere lo sciopero in attesa della convocazione del Governo. Ma i lavoratori del Moi Teaching Hospital scendono immediatamente in lotta, e marciano lungo le vie della città protestando contro le pessime condizioni di lavoro e per l’applicazione dell’accordo. Via via tutti i lavoratori degli altri ospedali cittadini fraternizzano e proseguono la lotta. Lo sciopero si estende alla provincia sulla costa e di nuovo a tutto il paese, fuori dal controllo sindacale. I lavoratori, in maggioranza donne, denunciano il tradimento della direzione sindacale. Queste loro dirette dichiarazioni: “Non siamo stati consultati e nessuna questione è stata messa sul tappeto: hanno saputo fare solo promesse. Non torniamo indietro senza la sicurezza del mangiare in tavola. Nemmeno crediamo che l’accordo in realtà ci sia; le trattative non ci hanno fatto guadagnare nulla e ci sentiamo ingannate. Per questo continueremo con lo sciopero fino a quando tutte le nostre richieste saranno soddisfatte. Non vogliamo più promesse, vogliamo risultati immediati e tangibili”».

In questi giorni, nel porto di Mombasa, seimila lavoratori potrebbero bloccare i piani di privatizzazione di Ruto, portando la regione a una situazione di stallo. Migliaia di lavoratori dell’aviazione, compresi quelli della Kenya Airways, potrebbero bloccare lo spazio aereo del Kenya. Milioni di lavoratori del tè, del caffè e di altri settori agricoli nelle aree rurali potrebbero paralizzare la campagna in un Paese in cui il 60% delle entrate proviene dal settore agricolo.

Nonostante il movimento in corso, i sindacati stanno diventando il principale freno per i lavoratori che si uniscono alle proteste anti-austerity con le loro rivendicazioni. I sindacati si rifiutano di mobilitare le decine di migliaia di lavoratori impiegati nei settori manifatturiero, alimentare, chimico, plastico e metallurgico della zona industriale di Nairobi. L’Organizzazione centrale dei sindacati (COTU), che è composta da 36 sindacati e rappresenta più di 1,5 milioni di lavoratori, ha alle spalle una storia di scioperi, proteste e repressioni, tra cui quella di 4.000 medici all’inizio di quest’anno.

Francis Atwoli, il segretario generale del COTU, ha difeso la legge finanziaria, affermando che "la gente viene tassata ovunque e, in effetti, se paghiamo le tasse e il denaro viene utilizzato in modo corretto, eviteremo il debito.

L’atteggiamento "Lasciamoli mangiare la torta!" dei presunti rappresentanti dei lavoratori verso il governo non potrebbe essere più azzeccato.

Il Presidente Ruto si sta preparando a imporre ulteriori misure di stato di polizia, come l’ Assembly and Demonstration Bill del 2024, che limita i luoghi in cui possono avvenire le proteste e impone multe draconiane per le "violazioni" fino a 770 dollari, equivalenti a mezzo anno di stipendio medio.

Tuttavia, dopo le manifestazioni della scorsa settimana, il governo ha ammorbidito la sua posizione, con Ruto che ha appoggiato le raccomandazioni di eliminare alcune nuove tasse, tra cui quella sul possesso di automobili, sul pane e la tassa ecologica sui beni prodotti localmente. Il Ministero delle Finanze ha dichiarato che tali concessioni avrebbero causato un buco di 200 miliardi di scellini kenioti (1,56 miliardi di dollari) nel bilancio 2024/25 e avrebbero reso necessari tagli alla spesa.

I manifestanti e i partiti di opposizione hanno affermato che le concessioni sono insufficienti e vogliono che il disegno di legge venga abbandonato. E il governo borghese sta iniziando ad ascoltare il recente tumulto nazionale, con la stessa grazia con cui ha ucciso i lavoratori.

«Dopo aver riflettuto sulla conversazione in corso sul contenuto della legge finanziaria 2024 e dopo aver ascoltato con attenzione il popolo keniota, che ha dichiarato a gran voce di non voler avere nulla a che fare con questa legge finanziaria 2024, ammetto che non firmerò la legge finanziaria 2024", ha dichiarato il Presidente Ruto durante un discorso televisivo mercoledì. "Il popolo ha parlato", ha detto Ruto. "In seguito all’approvazione del disegno di legge, il Paese ha sperimentato un’ampia espressione di insoddisfazione nei confronti del disegno di legge così come è stato approvato, sfociata purtroppo nella perdita di vite umane, nella distruzione di proprietà e nella profanazione delle istituzioni costituzionali».

Questo passo indietro arriva dopo che Ruto ha sostenuto la controversa riforma fiscale di fronte all’opposizione dell’opinione pubblica. Tuttavia, Rotu sembra aver dimenticato, o almeno non riconosciuto, che questo avviene dopo che le proteste di massa sono diventate violente il giorno prima, causando 23 morti.

Ora gli occhi del mondo sono puntati sul Kenya, dove la lotta tra la classe operaia e l’élite borghese al potere si svolge in tempo reale. Mentre il fervore rivoluzionario cresce, i lavoratori kenioti, in particolare i giovani, si trovano in un momento critico. Il messaggio dalle strade è chiaro: non avendo più nulla da perdere, sono pronti a lottare per un futuro libero dalle catene dell’austerità e del debito.

La battaglia per il futuro del Kenya è tutt’altro che conclusa e, man mano che la storia si dipana, il coraggio e la determinazione dei suoi lavoratori ispireranno senza dubbio i movimenti proletari di altre parti del mondo. Lo spettro che infesta il Kenya è un chiaro appello alla classe operaia internazionale: i proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene; hanno un mondo da conquistare.


Kenya - Qui e ora

Il Kenya rappresenta oggi uno dei paesi più avanzati nello sviluppo capitalistico dell’Africa. Dopo la crisi finanziaria globale del 2008, che ha visto la crescita del PIL del Kenya scendere all’1,6%, il Paese ha sperimentato una robusta ripresa economica, con una media di crescita annua del PIL del 5,4% dal 2015 al 2023. L’inflazione, salita al 14% nel 2011, si è stabilizzata negli ultimi anni, attestandosi in media intorno al 6% nel 2023. Questa relativa stabilità è dovuta a fattori interni e internazionali.

L’economia di esportazione del Kenya è incentrata sulla produzione agricola. Nel 2023, le principali voci di esportazione comprendono il tè (19%), i prodotti agricoli (18%), i manufatti (16%) e il caffè (5%). Il valore delle esportazioni di tè, un pilastro tradizionale, continua a crescere, anche se a un ritmo più moderato del 12% annuo. Inoltre, l’aumento delle esportazioni di fiori e prodotti freschi ha rafforzato il settore agricolo, contribuendo alla resistenza e allo sviluppo economico del Kenya.

Anche l’attenzione del governo keniota allo sviluppo delle infrastrutture, alla tecnologia e alle energie rinnovabili ha favorito la crescita economica. Gli investimenti nella ferrovia a scartamento normale e nell’espansione del porto di Mombasa hanno migliorato l’efficienza logistica e commerciale. Allo stesso tempo, il fiorente polo tecnologico di Nairobi, soprannominato "Silicon Savannah", ha posizionato il Kenya come leader dell’innovazione digitale in Africa.

Le iniziative di sviluppo cinesi, in particolare nell’ambito della Belt and Road Initiative, hanno avuto un impatto profondo sulle infrastrutture del Kenya. Tra i progetti più significativi c’è la costruzione della ferrovia a scartamento standard, che collega Nairobi alla città portuale di Mombasa, migliorando in modo significativo l’efficienza del commercio. Inoltre, le imprese cinesi stanno sviluppando reti stradali e progetti energetici di importanza cruciale, fornendo capitali e competenze indispensabili per promuovere i progressi infrastrutturali del Kenya.

Anche gli Stati Uniti sono stati un partner fondamentale per lo sviluppo del Kenya. Gli Stati Uniti hanno contribuito a vari settori, tra cui la sanità, l’istruzione e l’energia, attraverso programmi come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e l’iniziativa Power Africa. Gli investimenti americani sono stati fondamentali per promuovere progetti di energia rinnovabile, in particolare geotermica ed eolica, in linea con l’obiettivo del Kenya di raggiungere l’accesso universale all’energia entro il 2030.

A livello nazionale, il Kenya ha visto l’ascesa di una solida classe di capitalisti locali che guidano la crescita economica. Importanti imprenditori e aziende kenioti, in particolare nei settori bancario, delle telecomunicazioni e dell’agricoltura, hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo del Paese. Aziende come Safaricom, Equity Bank e KCB Group sono importanti datori di lavoro e attori fondamentali nel promuovere l’inclusione finanziaria e l’innovazione tecnologica. Questi capitalisti nazionali sono stati determinanti nel plasmare la traiettoria economica del Kenya, promuovendo un settore privato che integra gli investimenti stranieri e guida la crescita economica del 5% annuo.

Tuttavia, il proletariato keniota non partecipa ai dividendi del capitale. Al contrario, deve affrontare una riduzione del potere d’acquisto dei salari a causa dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Tra il 2020 e il 2022, i salari effettivi hanno subito un calo costante, con una diminuzione media del 2,7%. Questa tendenza è proseguita con l’impennata dei tassi d’inflazione nel 2022, con un’inflazione media dell’8,7% tra giugno 2022 e giugno 2023, con un picco del 9,6% nell’ottobre 2022, il livello più alto dal 2017. Uno sconcertante 77% dei lavoratori guadagna al di sotto del salario minimo, e i lavoratori medi spendono il 60% del loro reddito solo per il cibo.

I lavoratori sono costretti a impegnarsi in una lotta serrata per la sopravvivenza economica, acquisendo una preziosa esperienza nella lotta anticapitalista. Questa lotta, che inizia a livello locale e all’interno di settori specifici, deve evolvere in un fronte unico dal basso della classe operaia.

L’attuale ondata di proteste e scioperi testimonia la crescente disponibilità all’azione dei lavoratori kenioti. Si stanno sollevando contro le politiche oppressive di austerità e sfruttamento imposte dai capitalisti locali e internazionali. Questo movimento non si limita a opporsi a politiche specifiche, ma a questioni di ampio respiro: i movimenti internazionali si stanno avvicinando sempre di più a sfidare le fondamenta di un sistema che privilegia il profitto rispetto ai bisogni umani.


Non fidatevi di loro!

Questo governo capitalista, come tutti i suoi predecessori e tutti i suoi figli, ignora spudoratamente gli interessi della classe operaia, scaricando invece su di essa gli oneri del capitalismo. Ruba il prodotto del loro lavoro e poi li incolpa degli inevitabili fallimenti del sistema. Il peso colossale del capitale nazionale e internazionale grava sulle spalle dei lavoratori e questo non cambierà, indipendentemente da chi sia al potere. I cambiamenti economici a breve termine sono reazioni alla fiducia degli investitori nel modo in cui l’amministrazione serve l’élite capitalista.

L’inarrestabile crisi del capitalismo alimenta continui assalti alla classe operaia, che persisteranno a prescindere dalle vuote promesse del governo o dalle affiliazioni di partito. I membri del Parlamento non sono altro che guardiani degli interessi capitalistici, che si arricchiscono fintanto che non offuscano la facciata del sistema in modo troppo evidente. Nel frattempo, lo sfruttamento della classe operaia, la stragrande maggioranza della società, rimane incontrastato fino a quando il proletariato non entra in lotta.

La classe operaia incomincia a conoscere questa verità attraverso la sua azione di lotta, ma non ha ancora raggiunto un grado di organizzione sufficiente per prendere il potere. I lavoratori costruiscono e ricostruiscono il mondo ogni giorno, esercitando un potere immenso che ha il potenziale di immaginare e creare un mondo libero da sfruttamento, povertà, denaro, categorie mercantili, crisi economiche, Stato e guerre. Tuttavia, per realizzare questa visione è necessario rovesciare il capitalismo, instaurare la dittatura rivoluzionaria del proletariato e spianare la strada a una società comunista, in cui i contributi siano basati sulle capacità di ciascuno e siano soddisfatti i bisogni di tutti. Il comunismo sradicherà la sovrapproduzione dilagante, gli sprechi e la devastazione ecologica causati dal capitalismo, sostituendoli con una produzione razionale che serva veramente l’umanità senza la vuota retorica della sostenibilità "verde".

Il comunismo porrà fine alla povertà, alla divisione in classi della società e alla guerra, ma questo non potrà essere ottenuto votando per qualsiasi partito, specialmente quelli mascherati da comunisti o socialisti. Il cambiamento effettivo avverrà solo quando la classe operaia, guidata dal Partito Comunista Internazionale, prenderà il potere per via rivoluzionaria.









Brics
Non sarà un mondo multipolare a sanare le piaghe del capitalismo

Dal 22 al 24 ottobre si è tenuto nella città russa di Kazan il XVI vertice dei capi di Stato dei paesi BRICS, acronimo con il quale vengono indicate le principali economie emergenti del mondo. Parliamo di un raggruppamento di Stati che rappresenta il 40% della popolazione e il 35% del Pil mondiale. Si stima controlli il 42% della produzione mondiale di petrolio. Con 10,4 trilioni di dollari, il 21,6% del commercio globale, alla fine del 2023 sono al secondo posto dopo l’Unione Europea.

Ma cosa sono davvero e cosa rappresentano? Essi nascono nel 2009, con l’unione dei primi 4 Stati fondatori – Brasile, Russia, India e Cina (BRIC) – ai quali un anno dopo si è aggiunto il Sud Africa (BRICS), arrivando in seguito, da inizio 2024, a 10 paesi, i BRICS+, con l’aggiunta di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran, mentre l’Argentina con l’elezione di Milei nel novembre 2023 si è per ora ritirata dal progetto in quanto ancora impegnata nelle trattative con l’FMI in merito alle condizioni di restituzione del debito che ammonta a circa 45 miliardi di dollari.

L’allargamento di questa “alleanza” sembrerebbe rivolta a promuovere un’economia in competizione con quella dell’imperialismo in declino degli Stati Uniti e dei suoi alleati, attraverso l’utilizzo nelle transazioni internazionali di una moneta da sostituire al dollaro e la fondazione di una banca alternativa al FMI ed alla Banca mondiale, la Nuova Banca di Sviluppo (NDB, New Development Bank).

La strategia si riassume in alcuni obiettivi principali: una maggiore collaborazione fiscale e doganale tra i paesi membri, maggiore influenza sulla scena finanziaria internazionale e cooperazione tra i sistemi bancari degli Stati aderenti.

La NDB, che concede prestiti alle economie emergenti, soprattutto nei settori dell’edilizia, delle infrastrutture e dell’approvvigionamento energetico, è stata creata nel luglio 2014 in occasione del 6° vertice di Fortaleza, in Brasile, ed eroga finanziamenti dalla fine del 2016. I cinque paesi fondatori hanno ciascuno una quota uguale di capitale che, insieme a quella degli altri membri, Bangladesh, Emirati Arabi, Egitto ed Uruguay, raggiunge i 50 miliardi di dollari. Nessun membro ha il diritto di veto. Attualmente le attività ammontano a 30 miliardi di dollari e finanziano un centinaio di progetti, col proposito di arrivare a 350 miliardi entro il 2030, superando il FMI, che gestisce 110 miliardi e la Banca mondiale con 98.

La realizzazione di tale prospettiva è anche attestata da un recente studio della Goldman Sachs sulla crescita globale al 2075, che vede i paesi BRICS+ in netta espansione rispetto all’Occidente.

L’attuale presidente dell’associazione Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile, che resterà in carica fino al 2025, ha più volte dichiarato che «la bolla dell’indebitamento dei paesi sviluppati, che ammonta a 87 mila miliardi di dollari, è una pesante zavorra e un blocco allo sviluppo dei paesi emergenti e dei paesi più poveri». La soluzione del problema è chiara: «gli aumenti dei tassi di interesse nei mercati internazionali e gli eccessivi deprezzamenti delle valute dei paesi emergenti alimentano un circolo vizioso di indebitamento. La discrepanza tra debito in valuta forte e reddito generato da progetti locali crea un freno agli investimenti e allo sviluppo».

Il problema potrebbe essere superato concedendo al NDB il 30% dei suoi finanziamenti in valute locali.
Questo consentirebbe espandere l’influenza dei capitalismi emergenti a danno dell’imperialismo egemone nel mercato internazionale, il tutto all’interno delle regole di mercato, nulla spostando nelle leggi del capitalismo e nelle loro devastanti conseguenze.

Al vertice di Kazan, sotto la presidenza di Vladimir Putin, hanno partecipato, oltre agli Stati membri, un gruppo di candidati-osservatori di 36 paesi. Il vertice ha trattato, oltre ai temi economici e finanziari, le questioni aperte sulla scena internazionale, riassunti infine in 134 punti su 43 pagine.

Xi Jinping, Narendra Modi ed Erdoğan (la Turchia è l’unico paese Nato a chiedere di voler aderire) non hanno mostrato difficoltà a stringere la mano a Putin, dissociandosi dall’ordine di “isolare la Russia” emanato da Washington. Intimazione questa passivamente recepita dalla UE, con le eccezioni di Ungheria e Slovacchia, che si è dimostrata un disastro per le economie europee invece che per la Russia, con la Germania in recessione anche per il rincaro delle materie prime, e a favore dell’economia statunitense, che ha sostituito, in parte, la Russia come fornitrice di gas naturale.

Si conferma che tutte le alleanze tra Stati borghesi sono fittizie e determinate dalle volatili necessità del momento.
Oggi molti paesi non intendono rompere con la Russia per il suo peso strategico e come fornitori di materie prime, energia ed anche armi. La partecipazione del segretario generale dell’Onu António Guterres è stato un ulteriore segnale di uno spostamento della linea politica di quella mondiale organizzazione di ladroni.

Anche nella questione ucraina è stata appoggiata la richiesta di Cina e Brasile di una conferenza internazionale con partecipazione della Russia e dell’Ucraina, già respinta da Zelensky in quanto non prevedeva il mantenimento dell’integrità territoriale ucraina.

Sul Medio Oriente si è condannato Israele ed espressa preoccupazione per l’estensione della guerra in Libano, del quale è da «mantenere l’integrità territoriale», «cessando gli attacchi al personale Unifil».

Dopo l’invasione dell’Ucraina e mentre monta la crisi internazionale di guerra con il massacro di Gaza, il vertice di Kazan ha dato un’ulteriore accelerazione al progetto dei BRICS, che si propongono sempre più come alternativa agli equilibri internazionali del post seconda guerra mondiale.

Però, nonostante i toni distesi e concilianti sulla pace, su un mondo “multipolare” più giusto e di maggiore equità per i capitalismi emergenti, i BRICS, trainati da Pechino e da Mosca, non possono non tendere a sostituirsi all’egemonia statunitense, loro vero obbiettivo.

All’interno del gruppo si trovano India e Brasile che non sempre mantengono le medesime posizioni antioccidentali di Russia e Cina. Fra Cina e India permane una rivalità storica e strategica fatta di contese territoriali che hanno portato soltanto 4 anni fa a scontri lungo il confine himalayano con diversi morti da ambo le parti. Allo stesso tempo i due paesi sono in competizione strategica nell'Oceano Indiano. Delhi, che ambisce a competere con la fabbrica del mondo cinese, è membro del Quad, una alleanza strategica con Stati Uniti, Giappone e Australia il cui scopo principale è contrastare una eventuale egemonia di Pechino nell'Indo-Pacifico.

La possibile espansione aggiungerebbe nuove criticità. L'ingresso dell'Iran con l'Arabia Saudita in attesa, porterà inevitabilmente a nuove tensioni nel gruppo per le sempre più complesse questioni mediorientali come dimostrano i fronti opposti nell'ultimo abisso siriano dove i capitalismi regionali, e non solo, impiegano forze per procura.

Se per i borghesi è un groviglio inestricabile, per il marxismo rivoluzionario la questione è semplice: all'interno di qualsiasi alleanza nel capitalismo la competizione tra Stati borghesi li porta inevitabilmente verso lo scontro, commerciale e militare. Le medesime regole del mercato del capitale e della concorrenza valgono in occidente come in oriente.

Anche l’Europa si è creata una propria banca e una unione normativa e doganale per meglio affrontare la concorrenza nel mercato mondiale, ma questo non ha evitato che ogni nazione rivendicasse i suoi interessi. La concorrenza fra le singole borghesie è ineliminabile e non potrà mai consentire una pace duratura per l’umanità. In fase di crisi economica la competizione non riesce più ad essere pacifica.

Tanto meno potrà liberare dalla schiavitù salariata la classe operaia, il cui sfruttamento resta brutale ad est come ad ovest, a nord come a sud, nei capitalismi vecchi o giovani. Nei paesi dei BRICS+ più avanzati, come Cina e India, Brasile e Russia, le differenze sociali restano invariate, proprio come in Europa o in USA e i lavoratori sono chiamati a sostenere per il “bene del paese” grandi sacrifici. Domani saranno chiamati ad immolarsi nella guerra generale che il capitalismo sta maturando.

Non sarà un mondo multipolare, l'ennesima fandonia atta a illudere i lavoratori, a sanare le piaghe del capitalismo ma la lotta di classe sempre più estesa e unita tra i lavoratori occidentali e dei paesi BRICS+, per le proprie rivendicazioni economiche prima e per la costituzione dello Stato della dittatura comunista poi.







L'inevitabile declino dell'imperialismo francese

La borghesia francese vanta una tradizione gloriosa e infame. Nel 1789 ebbe il coraggio di tagliare la testa al monarca pur di schiantare lo Stato erede di un modo di produzione ormai scomparso; cento anni dopo si coprì di infamia nel soffocare la Comune di Parigi.

Dopo di allora la borghesia francese investì energie e risorse nell’imperialismo finanziario e coloniale. Il terrore di gestire una classe operaia che aveva nel sangue i geni della rivolta e della rivoluzione spinse i borghesi ad esportare lo sfruttamento del Capitale. In un patto non scritto la Francia trafficava nel mondo intero come spalla dell’imperialismo britannico, nemici nella competizione, amici nel saccheggio.

Nella prima guerra mondiale uscì vincitrice sul campo di battaglia, ma sconfitta nell’arena mondiale degli imperialismi. Quella prima guerra segna due punti importanti. In Francia nelle trincee occorse il pugno di ferro per riportare l’ordine patriottico. Mitragliatrici e fucili furono rivolti contro i proletari in divisa, migliaia di arresti e centinaia di fucilazioni. In altri Paesi le cose sono andate meglio, per noi, proletari e comunisti, in Russia e in Germania la rivolta spezzò le catene dell’ordine costituito e le borghesie dovettero chiedere la pace.

Il ricordo della rivolta militare, la difficile situazione sociale e gli scioperi avevano rovinato l’esercito francese, non più pronto per una guerra imperialista. La dottrina militare è difensiva sul fronte interno, si costruiscono gigantesche fortezze sapendo che i coscritti non saranno più disposti ad affrontare la vita in trincea: solo promettendogli una guerra facile e senza morti è possibile una chiamata alle armi.

Il secondo punto riguarda la sua capacità imperialista di prolungare in maniera autonoma il suo saccheggio coloniale e finanziario. La prima guerra mondiale ne è lo spartiacque, da una condivisione subalterna con la Gran Bretagna diviene sempre più necessario per la borghesia francese appoggiarsi anche ai più forti: USA e Germania.

La disfatta del 1940 è il suggello di una borghesia vigliacca, che precede di 3 anni quella italiana. Cala le braghe e chiede l’aiuto degli altri imperialismi. Nello stesso anno la paura di uno sciopero militare e di una rivolta è tale che alla fine non si combatte. Fra i coscritti il ricordo degli immensi massacri è vivo e presente.

Le colonie sono affidate dove possibile a chi ne è capace. Condomini USA-Gran Bretagna-France libre per gestire buona parte dell’Africa, Condominio Franco Giapponese per gestire l’Indocina, il nord Africa sotto il controllo indiretto della Germania. Nelle regioni del nord capitale tedesco e francese collaborano nell’economia di guerra.

Nel dopoguerra la politica della borghesia francese e del suo Stato non cambia, i timidi tentativi di azione indipendente, magari con il vecchio leone spelacchiato inglese, sono solo velleitari, come a Suez nel ‘56.

Alla borghesia francese un aiuto inaspettato, che mitiga la sudditanza all’imperialismo USA vincitore assoluto della Seconda guerra mondiale, arriva dalle maledette, senza onore e senza storia borghesie delle ex colonie. Queste borghesie autoctone, appena arrivate al potere chiedono protezione al vecchio padrone per mantenere il dominio di classe. Hanno fatto una rivoluzione a metà, hanno preso il potere e per conservalo hanno venduto nuovamente il loro paese al padrone di prima.

La storia della Francia post-coloniale è vergognosa, è la France-a-fric.

Sotto l’egida del supermiliardollaro negli anni del dopoguerra, la borghesia francese ha mantenuto un livello di splendore che non corrisponde alla sua reale capacità industriale, in declino storico legato alla caduta tendenziale del saggio di profitto.

Gli studi condotti dal nostro partito mostrano un rallentamento dell’aumento dell’indice di produzione industriale. Questa è la legge storica e inevitabile del capitalismo. Per la Francia nel lungo periodo che va dal 1913 al 1973, l’aumento medio è stato del 3,2%, scendendo all’1,3% nella parentesi tra il 1973 e il 2007. Con l’ultima crisi, quella del 2008-20, che sembra non avere fine, l’aumento è a zero.

L’imperialismo finanziario senza una forza armata che possa proteggere e rivendicare i crediti e gli interessi di rapina non è possibile. Questo spiega la forza militare e le enormi spese per mantenerlo. Le scelte fatte tutti i giorni dai governi di destra e sinistra le vediamo, ad esempio, la riduzione della spesa sanitaria per aumentare la spesa militare.

Nello stesso tempo le banche francesi sono quelle più esposte nell’industria degli armamenti, BNP Paribas, Credit agricole, Societé Generale e Groupe BCE hanno dichiarato di avere investito oltre 37 Miliardi di euro nell’industria militare. Secondo fonti SIPRI la Francia è il secondo esportatore di armi, al pari della Russia.

La classe borghese in Francia concede qualche briciola al proletariato, sperando che queste siano sufficienti a non avere la guerra di classe in casa.

Il ridimensionamento della reale grandezza francese sullo scacchiere internazionale pone seri problemi. Tutte le potenze occidentali assistono impotenti allo sviluppo del capitale nei paesi giovani, un tempo chiamati emergenti. La Cina, con la forza dell’artiglieria pesante delle sue merci e dei suoi capitali, prende il suo posto nel mondo e spinge fuori i decrepiti capitalismi occidentali. Nella stessa Africa le borghesie nazionali fanno a meno del vecchio consigliere protettore.

La borghesia francese, riducendosi le capacità di saccheggio, ha meno soldi per corrompere il proletariato. Come sempre al proletariato è presentato il conto: innalzamento dell’età pensionabile e guerre di rapina.

Il ridicolo carnevale delle commedie parlamentari nasconde giochi di palazzo, alleanze e ricerca di nuovi equilibri fra bande borghesi di una nazione che perde peso economico e politico di anno in anno, incalzata da potenze ormai più robuste. Le sceneggiate elettorali rappresentano la necessaria bugia a distrarre i lavoratori dai loro reali interessi di classe. Si illudono fra il pericolo delle destre e una nuova avventura militare in Europa.

Siamo internazionalisti, noi comunisti: che salti l’ordine borghese, il proletariato non si faccia ingannare da promesse e tartine sempre più misere spalmate di burro rancido. La nazione non va difesa, l’unione di tutti i lavoratori, in patria così come attraverso le frontiere, è l’unica prospettiva contro sfruttamento e guerra.

I gendarmi in ogni paese vestono da manichini cattivi, con pose marziali e muscoli gonfiati, servono a spaventare il proletariato ma sono muscoli flaccidi, di Stati che non hanno nulla da proporre per il futuro, di imperialismi grandi e piccoli, giovani o morenti, ma tutti assetati di sangue proletario.









Femminicidio

Recentemente in molti paesi abbiamo assistito a proteste di piazza contro i femminicidi. Questi movimenti sono scollegati dall’analisi materialista, soggiogati alla ideologia del capitale non possono portare a far cessare questo flagello, che oggi, come nel corso della storia, miete quasi 90.000 vittime ogni anno.

La posizione del partito è che l’emancipazione delle donne è possibile solo con l’emancipazione della classe operaia.

Ciò non toglie che già da oggi tutti i lavoratori, indipendentemente dal genere, devono lottare insieme per combattere il patriarcato. La lotta contro l’oppressione delle donne sotto il capitale è una parte insostituibile del movimento operaio e comunista.

È necessario che il partito analizzi e conosca le basi materiali e storiche del problema.

Nei sindacati le donne lavoratrici si trasformeranno in avanguardia nelle lotte, nell’istruzione, nelle organizzazioni di solidarietà di classe, nelle strutture di soccorso sociale per le donne.

La rivoluzione nel suo corso viene a distruggere il patriarcato. La rivoluzione mondiale è un traguardo che noi, umanità intera, possiamo raggiungere trasformando i lavoratori di tutte le razze e di tutti i generi in una classe in lotta, aprendo così la strada al comunismo, in un conflitto di classe, non di genere!

Una delle conseguenze del patriarcato è che i maschi, dopo aver violentemente rovesciato il primitivo ordine sociale comunista e stabilito il proprio potere, si sono arrogati anche il diritto di morte sulle donne, le compassionevoli custodi del matriarcato. Mentre l’assassinio della madre era considerato il peggior peccato nelle società comuniste primitive, i maschi hanno poi ucciso la donna per impedirle di esprimersi come essere umano, di prendere decisioni sul proprio corpo e sulla propria vita.

Secondo il Global Survey on Women delle Nazioni Unite, nel 2022 sono state uccise nel mondo circa 89.000 donne. Mentre gli omicidi sono diminuiti i femminicidi continuano ad aumentare. Circa 48.800 di questi nel 2022 sono stati commessi da partner o familiari. Molte delle donne sono costrette a dormire nell’angoscia sotto lo stesso tetto dei loro futuri assassini. Più di un quarto delle donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni in tutto il mondo ha subito violenze fisiche o sessuali. Non potendo sentirsi al sicuro per strada o persino nelle proprie case, le donne soffrono di patologie fisiche e mentali legate allo stress; la depressione è più alta del 50% nelle donne rispetto agli uomini e il disturbo post-traumatico è due volte più comune nelle donne.

La stragrande maggioranza di questi omicidi avviene ai danni di donne della classe operaia. In misura maggiore di quelle provenienti da Paesi poveri. Ma i capitalisti, che hanno bisogno di manodopera a basso costo, sono i primi a sfruttare e a impoverire le donne dei loro stessi paesi.

Per le donne della classe operaia è sempre più difficile mettere il pane in tavola, talvolta si debbono indebitare per pagare l’istruzione e la salute dei figli. Diventano così vulnerabili, ricattabili e indifese allo spargimento di sangue.

Come ha scritto Engels, in casa la donna diventa l’operaia e l’uomo sfruttato viene ricompensato con il dominio su di lei, facendosi parte della gerarchia patriarcale degli uomini. Che per questo si ritengono in diritto di togliere la vita alle donne e se ne giustificano a vicenda. Anche dove lo Stato borghese ha cessato di proteggere gli assassini con leggi e cavilli, l’ambiente patriarcale continua a sostenere infinite forma di violenza morale, sessuale e fisica e fa sì che il patriarcato si mantenga come un cancro tra le classi.

Nelle guerre che anche oggi stanno lacerando il mondo il corpo delle donne è nuovamente offerto come premio ai soldati e lo stupro è dichiaratamente impiegato come strumento di terrore e di guerra. Ne micidiali necessità del capitale, in espansione o in crisi mortale, si manifestano nel costringere i maschi a diventare soldati e le donne a generare figli, futuri soldati o manodopera a basso costo.

Eppure, nel presente ordine patriarcale le organizzazioni che si propongono di prevenire la violenza sulle donne si rivolgono ai legislatori e ai governanti dello Stato borghese.

Negli ultimi vent’anni il numero di organizzazioni femminili è aumentato, ma il numero di femminicidi non è diminuito. Con l’eccezione di un leggero calo in Europa, gli omicidi di donne per motivi di genere continuano ad aumentare in tutto il mondo.

La illusione di un trattamento meno crudele viene spacciata dall’Occidente al resto del mondo come realizzabile, il privilegio di cui godrebbero la borghesia e la piccola borghesia e forse un piccolo gruppo di lavoratori con un buon reddito in Europa e in una parte molto ridotta del Nord America. In realtà, tutto si riduce ad attendersi che i parlamenti deliberino qualche anno in più di prigione per gli assassini: ogni giorno in tutto il mondo, mentre le donne aspettano giustizia davanti ai tribunali, altre 243 sono uccise.

L’angoscia generata inevitabile dalle crisi economiche e dalle guerre porterà a molti altri omicidi. Complessivamente l’80% delle vittime di omicidio sono uomini e il 20% donne; gli uomini sono più spesso uccisi fuori casa, le donne in casa. Uomini e donne sono uccisi per lo più da maschi. È l’educazione e la propaganda patriarcale e capitalista che rende gli uomini così vinti e disperati e a trascinare una esistenza di ossessioni. Queste velenose ubbie più si impadroniscono della classe operaia con il peggioramento delle condizioni sociali. Finché i lavoratori non vedranno la possibilità di por fine alla guerra e alla povertà, finché i conflitti di genere, razziali e religiosi continueranno all’interno della classe, i femminicidi e la violenza patriarcale non avranno fine.

Nei sindacati le donne dovrebbero incontrarsi regolarmente, insieme agli altri lavoratori, eterosessuali o LGBT, per discutere come condurre la lotta in difesa contro ogni discriminazione fondata sul genere. Nella battaglia che condurranno insieme – con i metodi della classe, non con quelli ingannevoli di collaborazione di classe del femminismo borghese – gli uomini della classe operaia saranno alla fine in grado di camminare fianco a fianco con le donne.

Non piangere su singoli omicidi e far solo rumore, ma inserire fra le richieste degli scioperi operai di massa la difesa delle donne accanto a quelle contro le dure condizioni di lavoro. La classe non cadrà nella divisione borghese fra i generi, la razza e la religione, divisione che lascia le donne indifese e trasforma gli uomini in assassini. Mettere i lavoratori gli uni contro gli altri è necessario per difendere il capitale.

Come Partito Comunista Internazionale, sappiamo che la liberazione delle donne, come di tutti gli altri gruppi oppressi direttamente e indirettamente dal capitale, può avvenire solo attraverso il comunismo, cioè attraverso la liberazione della classe operaia.

Ma noi comunisti non ci siamo mai limitati alla semplice osservazione della storia: è fondamentale per la vittoria finale della classe operaia opporsi sempre ad ogni sofferenza dell’umanità proletaria, col partito che accompagna e dirige il movimento verso il suo obiettivo rivoluzionario finale.