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Comunismo n.17 - gennaio-aprile 1985
–Prefazione
 Comunismo e Guerra (Continua dal numero scorso): Aree e tempi storici. Il 1871 in Europa [RG30]: Guerre di Classi e Guerre di Stati - La guerra “difensiva” della Prussia - Agenti di Bismarck? - Lo svolto storico del ‘71 - Aree Geo-politiche - Russia bastione del feudalesimo - Preparazione diplomatica alla guerra europea - Engels su Guerra e Rivoluzione - Per l’indipendenza del partito in Francia - Engels pacifista? - Lezioni delle controrivoluzioni - Ritardo di decenni (continua)
Impotenza capitalista di fronte ai flagelli della fame e della disoccupazione
Appunti per la storia della Sinistra (Continua dal numero 15): Le cause della controrivoluzione: Il problema della tattica - La prevista sintesi socialdemocrazia-fascismo - La ”bolscevizzazione” - La ”unità di classe” maschera dell’opportunismo (continua)
Dall’Archivio della Sinistra:
   - Dichiarazione della Sinistra sulla questione della tattica sindacale al V Congresso dell’I.C. - giugno-luglio 1924 [ È qui ].
     




Prefazione

In questo numero della nostra rivista prosegue la trattazione, iniziata nel numero scorso, del tema “Comunismo e Guerra”. Il testo qui pubblicato riunisce una parte dei rapporti presentati alla nostra ultima riunione generale di partito e prende in esame il periodo 1871-1890: due decenni ricchi di avvenimenti internazionali direttamente collegabili alla questione dell’atteggiamento dei marxisti di fronte alla guerra, in relazione all’area geopolitica europea, di cui Engels fu spettatore diretto e del quale vengono evidenziati commenti e indicazioni, avvenimenti che non possono essere disattesi solo perché si riferiscono ad una situazione storicamente diversa da quella che stiamo vivendo e dagli scenari internazionali che stanno preparando il terzo macello imperialistico.

Come sempre in ogni nostra trattazione è importante evidenziare come i capisaldi teorico-programmatici che devono guidare gli indirizzi tattici del Partito non sono prerogativa di fasi storiche particolari, ma componenti integrate e immodificabili di un bagaglio dottrinale scientifico, il marxismo rivoluzionario, nato, come scritto e detto infinite volte, di “getto”, in un solo blocco, nel preciso momento storico che ne imponeva l’apparire come espressione teoretica del movimento anticapitalistico del proletariato internazionale e, in ultima istanza, come una strada di emancipazione dell’intera umanità. È nostra tesi centrale che le risposte ai quesiti dell’oggi e soprattutto a quelli che porrà il futuro, sono già contenute nelle lezioni tratte dal Partito dagli avvenimenti passati, essendo il programma d’azione rivoluzionaria del Partito nient’altro che un compendio di atteggiamenti e indicazioni d’azione derivate dagli accadimenti storici e dalle situazioni sociali. Questo spiega come in tutti i nostri lavori lo “scavo del passato” abbia parte preponderante rispetto all’analisi delle situazioni contingenti, di fronte alla quale viceversa si inchinano ossequiosi tutti gli inseguitori dell’”azione subito”, della “politica del fatto concreto”, del “dire qualcosa di operativo oggi”, ai quali il riferimento al passato non può che apparire come una inutile e pedante perdita di tempo.

Altro scavo nel passato che è ormai patrimonio pluridecennale della nostra piccola organizzazione è il lavoro sulla “Storia della Sinistra”, di cui compaiono in questo numero una serie di appunti sulle questioni collegate al V Congresso dell’Internazionale Comunista.

Non meno importanti i testi e i discorsi pubblicati nel nostro “Archivio”, sempre legati alle questioni trattate nei rispettivi rapporti, non essendo altro questo nostro lavoro che “una organica costruzione di materiali tratti da prove e ricognizioni antichissime, messi alla dura prova della continuità e della coesione”.

Questo incessante ripercorrere le battaglie, le azioni, le sconfitte del movimento comunista del passato ha come scopo l’affinamento continuo e sistematico delle armi, oggi, e non per nostra “scelta”, soltanto teoriche, con cui demistificare e smascherare l’avversario di classe, anzi le foltissime schiere di avversari che in mille modi difendono il verbo dell’eternità del sistema capitalistico anche di fronte ai suoi clamorosi e riconosciuti fallimenti. È il caso del rapporto dedicato alla tremenda questione della sovrappopolazione relativa in cui si evidenzia, anche qui ricalcando le contraddittorie fasi dello sviluppo capitalistico sulla base dei testi classici marxisti, l’impossibilità del capitalismo di porre soluzione al primordiale problema dell’alimentazione e dell’equilibrio vitale tra specie umana e risorse naturali. Il capitalismo tende, senza esito definitivo, a risolvere la sua grande contraddizione tra bisogno di accrescere il numero dei proletari senza riserve e l’impossibilità cronica di sfamarli, attraverso il loro macello nelle periodiche guerre mondiali.

Come si vede, argomenti tutti collegati e collegabili, che nulla hanno di “specialistico” e che non esprimono il bisogno di soddisfare speculazioni intellettualistiche o esibizioni professorali di “esperti”, come è in uso nei convegni, consessi e congressi di partiti e associazioni borghesi e opportunisti che plasmano a ritmi frenetici e ossessivi una sempre più plastica e rincoglionita “opinione pubblica”.

Sono il risultato, questi rapporti – lo ricordiamo ai lettori e simpatizzanti che seguono la nostra stampa – di un oscuro lavoro di un pugno di militanti che disperatamente, tra mille difficoltà, non ultima la resistenza alle pressioni di un ambiente esterno asfittico e deprimente, cercano di mantenersi saldamente collegati e legati al filo continuo del marxismo rivoluzionario, secondo un metodo di lavoro di Partito, conservato con tenacia da ormai più di trent’anni, da quando cioè la nostra microscopica organizzazione si ricompose su solide basi teoriche, nei primi anni ’50, reagendo allo scompiglio immane e terribile provocato nel movimento comunista internazionale dalla disfatta controrivoluzionaria dello stalinismo, la stessa di cui cerchiamo ancora oggi di ripercorrere proficuamente le tappe della nostra “Storia della Sinistra”. Questi rapporti sono il risultato di una intensa e appassionata attività di lavoro e di ricerca che non scade mai nell’accademia e nello storicismo fine a sé stesso, ma che sempre è sotteso dalla volontà di meglio scolpire e definire un armamentario ultrasecolare di posizioni teoriche e programmatiche e di indicazioni tattiche tese a tradurre in prospettive d’azione i principi del vero comunismo rivoluzionario.

È un patrimonio teorico, un metodo di lavoro, che in quegli anni ci fu trasmesso da militanti che vissero le vicissitudini grandiose e terribili del comunismo internazionale, temprati dalla milizia di un periodo in cui l’impegno del compagno non era solo quello del diligente estensore di articoli e rapporti, ma lo slancio del combattente, la cui azione aveva attraversato indenne tutti i momenti più bui della tremenda ondata controrivoluzionaria che travolse e distrusse il movimento comunista mondiale. Oggi, dopo vicissitudini interne infinitamente più ridotte di importanza, ma che hanno distrutto una organizzazione che, pur nella sua debolezza quantitativa, si era data una non trascurabile rete nazionale e internazionale, non neghiamo non solo di essere ancora più insignificanti sul piano sociale immediato, ma di non avere più tra di noi nessuno di quella generazione di militanti che allora ritesse il filo dell’autentico marxismo rivoluzionario e lo trasmise alla piccola schiera su quel filo ancora disposta a marciare. Ciononostante troviamo la forza nella convinzione di essere rimasti i soli a proseguire in quella direzione e a propugnare un metodo di lavoro non individuale o personalistico, nemmeno quando emanava da singoli grandi militanti, ma collettivo, sociale, anonimo.

Un metodo di lavoro di Partito, di un solo Partito, il Partito Comunista Internazionale che, nonostante tutto, sopravvive in un infinitesimo nucleo di compagni sorretti dalla convinzione, scevra da ogni velleitarismo e presunzione, che quando venisse a spezzarsi e a scomparire anche questa esile compagine organizzativa si allontanerebbe indefinitamente nel tempo la possibilità che l’azione spontanea delle masse proletarie spinte ad agire dall’esplodere delle contraddizioni capitalistiche, si incontri nuovamente con l’espressione organizzata dei loro interessi storici. Un metodo di lavoro che rifugge da “esperienze” di singoli o, peggio, di “gruppi”, e trova il suo punto culminante nelle riunioni generali della nostra piccola organizzazione, di cui questa rivista è espressione, e in cui il risultato del lavoro collettivo dei militanti viene esposto in rapporti che non esprimono opinioni personali, ma considerazioni politico-storico-teoriche desunte dai fenomeni sociali alla luce della teoria marxista e del nostro metodo d’indagine materialistico-dialettico, né mai hanno la pretesa di essere “definitivi” in argomento, da qui il nome che abbiamo ad essi dato di “semilavorati”. Anche in queste riunioni si riflette il nostro metodo centralistico organico per cui non si confrontano “opinioni” e non si dibatte né si “decide” nulla sul piano programmatico, né si distribuiscono patacche o, come si dice oggi, “responsabilità”, ma semplicemente si espone, tra la fraterna attenzione dei compagni, il risultato di lavori collettivi, che vogliono esprimere al massimo delle nostre indubbiamente infime capacità la totale nostra sottomissione alla “dittatura dei principi del comunismo” e, più in generale, la corretta continuità verso un’azione rivoluzionaria che abbraccia ormai un secolo e mezzo di battaglie e che si concluderà soltanto nel trionfo della rivoluzione proletaria, nella società senza classi, nel COMUNISMO.

«Un tale procedimento – scrivevamo nel ’54 nell’introduzione ad uno dei tanti rapporti di quel periodo – è veramente adatto al partito marxista e si stacca di netto da quelli democratici e scimmiottatori del fare borghese, in cui a caldo sulle relazioni e le conclusioni si vota, si approva, si disapprova. Nulla reca di utile un dibattito in cui a quanto è apportato da un relatore, fosse anche il meno scozzonato di tutti, dopo una preparazione di mesi, fanno seguito immediati “interventi” ad impressione di chi ha per la prima volta udito e vagliato, giusta la scema parola di moda. Determinista è colui che non interviene mai, e di quelli che improvvisando quattro frasi credono veramente di plasmare decisioni più o meno storiche, si limita a sorridere. Noi contiamo per la via che abbiamo intrapresa di giungere veramente ad un metodo di lavoro impersonale, all’altezza della potente originalità storica della nostra dottrina, che dette agli analfabeti la prima parte. I nostri personaggi non hanno nome, non compaiono in effige, e dalla bocca di questa non esce il “fumetto” – caratteristico della agonizzante maniera borghese – con scritta dentro una qualche fesseria – o democratico intervento del “soggetto”.

«Senza avere da sbandierare successi clamorosi o da prendere pose da salvatori dell’universo, continuiamo questo lavoro, senza lasciarci disturbare da sussurri da marciapiede, e conservando il nostro metodo integro ed esente da acrobazie organizzative o tattiche stagionali, alle cui equivoche “esperienze” (parola di moda infra ed Oltralpe per i professionisti del politicare, e che nulla ha a che fare con il modo di procedere del comunismo proletario) lasciamo che, ben fuori dalle nostre porte, si abbeveri il povero personale umano che purtroppo non è venuto ancora a meno e che di tanto si pasce».

 

 

 


Comunismo e Guerra
(continua dal numero precedente)

Aree e tempi storici: Il "1871"in Europa 
Esposto alla riunione di Firenze, settembre 1984 [RG30]

Guerre di Classi e Guerre di Stati

La questione del rapporto fra avvenimenti di guerra fra Nazioni e Rivoluzione fu all’ordine del giorno della Prima Internazionale, che assistette a continue guerre di sistemazione nazionale: guerra del 1859 della Francia e del Piemonte contro l’Austria; del 1864 di Prussia e Austria contro la Danimarca; del 1866 di Prussia e Italia contro l’Austria e la Germania del Sud; del 1870 fra Francia e Germania; oltre alla guerra di secessione americana del 1861-65, con gli Stati industriali del Nord in guerra con gli Stati del Sud, agricoli e schiavisti.

Il marxismo fin dall’inizio poggiò la sua indagine su precise considerazioni. Prima di tutto, nessun cedimento a pretesi principi morali o pretese categorie a priori tipo Patria, Pace, Nazione, ecc.; l’indagine della nostra scuola poggiò sui caratteri e funzioni delle classi, dei partiti e degli Stati, aventi una propria e determinata dinamica il cui svolgersi storico va inteso non partendo da esaltazioni morali ma col metodo del determinismo economico. Con questi presupposti, i marxisti hanno sempre apprezzato la diversità delle “varie” guerre, secondo le particolari conseguenze e scioglimenti degli avvenimenti militari, sempre affermando che alle diverse soluzioni non solo delle grandi guerre interessanti tutti i continenti, ma di qualunque guerra, anche la più limitata, hanno corrisposto e corrisponderanno diversissimi effetti sui rapporti delle forze sociali e sulle possibilità di sviluppo dell’azione di classe.

Oltre a queste considerazioni, la dottrina marxista dovette contrapporsi anche alle varie pretese e impostazioni piccolo borghesi, per più versi tendenti a mistificare l’urto delle classi con quello degli eserciti, o a surrogare la classe, l’azione di classe ed il partito di classe con l’azione esemplare, tipico ricorso degli anarchici.

     «Lo schema borghese è questo: idea - forza armata - interesse di classe. Lo schema del rivoluzionario proletario ingenuo è: idea proletaria - forza armata proletaria - interesse di classe proletario. Lo schema del dialettico marxista è invece: reale interesse di classe proletario - lotta di classe proletaria - e due derivazioni parallele: organizzazione in partito di classe e teoria rivoluzionaria; conquista ed esercizio armato del potere proletario (...) Questo non vuole però dire che alla guerra civile tra le classi che si contendono il potere si surroghi l’urto militare degli Stati e degli eserciti. Il fatto determinante dello sviluppo sociale resta la lotta tra le classi, accesa ovunque in tempi successivi, e senza di questa non potremmo spiegarci lo svolgersi stesso delle guerre, col nuovo carattere generale e di massa del militarismo moderno» (Guerra e Rivoluzione, Battaglia Comunista, n.10/1950).

Con questa chiara impostazione di base, il marxismo ha sempre distinto tra guerra e guerra, e talvolta ha usato i termini popolareschi di guerra “giusta” o “difensiva”, per designare sbrigativamente una guerra che appoggiava e di cui credeva utile il successo per il corso rivoluzionario; in realtà si poneva solo il problema storico: questa data guerra interessa il proletariato? e, come Lenin scrisse nettamente, è conforme agli interessi del proletariato?

Le guerre europee fino al 1870 furono considerate dai marxisti come guerre progressive svolgendosi in un’area ed in un’epoca in cui il ciclo della rivoluzione borghese non era ancora chiuso, tanto che si aveva la possibilità che la lotta rivoluzionaria del proletariato, partecipando al moto borghese, traesse una decisiva spinta verso il suo obiettivo finale, la rivoluzione ininterrotta che non ha come postulato un regime democratico borghese, che pure resta un passo avanti storico rispetto a regimi assolutistici feudali. Il nascente movimento comunista neanche però in questo periodo cedette di fronte alla categoria Nazione, ed ogni pretesa nazionale fu considerata materialisticamente dal punto di vista dell’interesse internazionale del movimento rivoluzionario:

     «Spesso si sente dire (...) che l’atteggiamento negativo di Marx verso il movimento nazionale di alcuni popoli, per esempio dei cechi nel 1848, confuta la necessità - dal punto di vista del marxismo - di riconoscere l’autodecisione delle nazioni. Ma questo è falso, perché nel 1848 esistevano dei motivi storici e politici per distinguere le nazioni “reazionarie” da quelle democratiche rivoluzionarie. Marx aveva ragione condannando le prime e sostenendo le seconde. Il diritto di autodecisione è una delle rivendicazioni della democrazia che, naturalmente, deve essere subordinata agli interessi generali di quest’ultima. Nel 1848 e negli anni successivi questi interessi generali consistevano in primo luogo nella lotta contro lo zarismo» (Lenin, La rivoluzione socialista e l’autodecisione, gennaio-febbraio 1916).


La guerra “difensiva” della Prussia

Anni decisivi per il movimento proletario fu il biennio 1870-71, con la guerra franco-tedesca. Marx ed Engels applicarono a questa lo stesso metro di indagine sperimentato per gli avvenimenti precedenti. La guerra, fenomeno che si accompagna inseparabilmente alla società classista, e in modo del tutto particolare alla società capitalistica, va indagata rifuggendo il punto di vista antistorico: la guerra è la guerra, tutte sono da misurare con lo stesso metro; ogni guerra invece ha i suoi definiti presupposti e le sue conseguenze, da cui dipende l’atteggiamento che di fronte ad essa la classe operaia deve assumere.

Dopo la vittoria prussiana a Sadowa del 1866, Marx ed Engels dovettero amaramente constatare che una rivoluzione democratica nazionale tedesca era da escludersi per la viltà della borghesia e per la debolezza del proletariato, pertanto, la Grande Prussia cementata “dal ferro e dal sangue” offriva alla lotta del proletariato prospettive più favorevoli di quelle che gli avrebbe potuto offrire il ritorno (del resto, impossibile) della dieta della Confederazione Germanica con i suoi intrighi meschini. La Grande Prussia, pur non essendo cosa gradita o entusiasmante, era un dato di fatto che offriva alla classe operaia tedesca condizioni di lotta più favorevoli di quelle offerte dallo sciagurato sistema della dieta Confederale.

L’atteggiamento di Marx e di Engels di fronte alla guerra del 1870 fu la naturale prosecuzione di queste considerazioni. Ininfluenti le cause immediate della guerra, sulle quali non era possibile dare un giudizio univoco, Marx ed Engels riconobbero subito negli avvenimenti che la politica bonapartista di guerra era diretta contro l’unità nazionale tedesca e che pertanto la Germania si trovava in stato di difesa.

Dirà L’Indirizzo che il 23 luglio 1870 fu diramato dal Consiglio Generale dell’Internazionale: «Il complotto di guerra del luglio 1870 non è che un’edizione riveduta e corretta del colpo di Stato del novembre 1851», plaudiva poi alla coraggiosa opposizione alla guerra della sezione francese che la bollava come dinastica, per affermare che «Qualunque possa essere il corso della guerra fra Luigi Bonaparte e la Prussia, a Parigi è già suonato il ritocco funebre del Secondo Impero. Esso finirà come è cominciato: con una parodia». Ma non si doveva dimenticare che proprio i governi e le classi dominanti europee avevano reso possibile al Bonaparte di rappresentare per diciotto anni la farsa crudele della restaurazione dell’Impero. «Da parte della Germania la guerra è una guerra di difesa», scandiva l’Indirizzo proseguendo però con un deciso attacco alla politica prussiana: «La Prussia ha mai sognato, sia pure per un istante solo, di contrapporre alla Francia schiava una Germania libera? Proprio il contrario». Da due regimi bonapartisti che si contrapponevano divisi dal Reno non poteva che derivare la guerra.

Poi l’invito agli operai tedeschi tanto conosciuto:

     «Se la classe operaia tedesca permette alla guerra presente di perdere il suo carattere strettamente difensivo e di degenerare in una guerra contro il popolo francese, tanto una vittoria quanto una sconfitta saranno ugualmente disastrose». L’Indirizzo ricordava le dimostrazioni di operai tedeschi e francesi contro la guerra, che permettevano di non temere un esito così funesto: «Il 16 luglio un’assemblea di massa di operai a Brunswick si è dichiarata perfettamente d’accordo col manifesto di Parigi; ha respinto sdegnosamente l’idea dell’antagonismo nazionale contro la Francia e concluso le sue risoluzioni con le seguenti parole: Noi siamo nemici di tutte le guerre, ma soprattutto delle guerre dinastiche (...) Con profondo rammarico e con dolore ci vediamo costretti a sottostare a una guerra di difesa, come ad una sciagura inevitabile. Ma nel tempo stesso chiediamo a tutta la classe operaia della Germania di rendere impossibile d’ora in poi la ripetizione di un così enorme disastro sociale, rivendicando per i popoli stessi la facoltà di decidere della pace e della guerra e facendoli padroni dei loro destini».

Si rilevava come sullo sfondo di quella lotta suicida spuntava la torva figura della Russia e, infine, che «Quali che siano le simpatie alle quali i tedeschi possano giustamente pretendere in una guerra di difesa contro una aggressione bonapartista, essi le perderebbero immediatamente se permettessero al governo prussiano di invocare o anche soltanto di accettare l’aiuto del cosacco».

Non c’era dubbio che, in generale, nelle masse popolari tedesche, così come nella massa del proletariato tedesco predominava il desiderio di respingere a mano armata l’aggressione bonapartista che minacciava l’esistenza della nazione tedesca. Le dinastie della Germania meridionale furono trascinate da una corrente nazionalista mentre i soldati di riserva e delle milizie nazionali accorrevano alle armi; pure le autorità ufficiali della Confederazione della Germania settentrionale si affrettarono a dichiarare guerra alla Francia, una guerra strettamente difensiva contro il governo francese non contro il popolo francese. Il parlamento tedesco settentrionale si riunì il 19 luglio in seduta straordinaria ed approvò alla unanimità i richiesti crediti di guerra, 120 milioni di talleri.

Si astennero solamente Liebknecht e Bebel, rappresentanti degli eisenachiani, perché considerarono un loro consenso al governo prussiano, che con i suoi intrighi dal 1866 in poi aveva preparato la guerra, ugualmente criminale e scellerato quanto dare una qualsiasi approvazione alla politica di Bonaparte. Liebknecht e Bebel incontrarono una decisa opposizione nella loro stessa frazione, soprattutto da parte della sua direzione, il comitato di Brunswick che obiettò come quell’astensione non fosse un atto di politica pratica, ma una semplice dimostrazione morale che, per quanto potesse essere giustificata in sé, non corrispondeva alle esigenze della situazione. Proprio in quanto non si poteva fermare né Bonaparte né Bismarck, bisognava stabilire quale causa era la peggiore e quale vittoria sarebbe stata la più funesta. Il disaccordo fra Liebknecht e Bebel da una parte che dirigevano il Volksstaat di Lipsia, organo degli eisenachiani ed il comitato di Brunswick si rifletté sull’indirizzo oscillante del Volksstaat, per poi coinvolgere Marx e Engels ai quali si rivolse il comitato di Brunswick per averne appoggi e consigli.

Marx, subito dopo l’inizio della guerra, aveva già scritto il 20 luglio ad Engels in termini crudi e netti sul procedere degli avvenimenti. Dopo aver sbeffeggiato gli sciovinisti repubblicani francesi, Marx così continuava: «I francesi hanno bisogno di bastonate, se vincono i prussiani, la centralizzazione del potere statale gioverà alla centralizzazione della classe operaia tedesca. La preponderanza tedesca, inoltre, sposterebbe il centro di gravità del movimento operaio europeo-occidentale dalla Francia in Germania (...) il che significherebbe la preponderanza della nostra teoria su quella di Proudhon». Ma quando Marx ricevette la richiesta del comitato di Brunswick si rivolse al generale Engels che, come modestamente sempre fece per le cosiddette questioni militari e di politica estera, dovette sbrogliare nei particolari la tattica del giovane movimento proletario tedesco. Engels, che il 31 luglio aveva scritto a Marx: «La mia fiducia nei risultati militari dei tedeschi cresce di giorno in giorno. Siamo noi che abbiamo vinto la prima seria battaglia», rispose il 15 agosto agli interrogativi di Marx:

     «Secondo me il caso sta in questi termini: la Germania è stata costretta da Badinguet [Bonaparte] a una guerra per la sua esistenza come nazione. Se essa soccombe nella lotta contro Badinguet, il bonapartismo è consolidato per anni e la Germania è finita per anni, forse per generazioni. E allora non c’è neanche da pensare a un movimento operaio tedesco autonomo, la lotta per creare l’esistenza nazionale assorbirà tutto, allora, e nel migliore dei casi gli operai tedeschi andranno a finire a rimorchio di quelli francesi. Se vince la Germania, il bonapartismo francese è ad ogni modo finito, l’eterno litigio per la creazione dell’unità tedesca è eliminato, gli operai tedeschi potranno organizzarsi su scala ben diversamente nazionale che non prima, e quelli francesi avranno certo un campo più libero che non sotto il bonapartismo qualunque sia il governo che gli succederà (...) Che un partito politico tedesco in queste circostanze, possa predicare, à la Wilhelm (Liebknecht), l’ostruzionismo totale e porre considerazioni secondarie di ogni genere al di sopra della considerazione principale, mi sembra impossibile».

Engels condannava con una asprezza pari a quella di Marx lo sciovinismo francese, che si faceva sentire fin negli ambienti repubblicani e anche proletari. La grandeur veniva una volta di più staffilata:

     «Badinguet non avrebbe potuto fare questa guerra senza lo sciovinismo della massa della popolazione francese, dei borghesi, piccoli borghesi, contadini e del proletariato edilizio imperialista, haussmanniano, proveniente dal ceto contadino, che Bonaparte ha creato nelle grandi città. Fintantoché questo sciovinismo non sarà colpito alla testa e come si deve, la pace fra Germania e Francia è impossibile. Ci si poteva aspettare che questo lavoro sarebbe stato assunto da una rivoluzione proletaria, ma dal momento che c’è la guerra, ai tedeschi non rimane altro che farlo loro stessi e subito».


Agenti di Bismarck?

Quanto alle “considerazioni secondarie”, al fatto cioè che la guerra era capitanata da Bismarck e dalla corte prussiana che se l’avesse condotta con successo ne avrebbe tratto un indubbio vantaggio, considerazioni che avevano pesato nel comportamento di Liebknecht e Bebel, non erano che il risultato della meschinità della borghesia tedesca, spiacevole certo ma fatto incontestabile.

     «Ma sarebbe assurdo per questa ragione elevare l’antibismarckismo a unico principio direttivo. Primo, Bismarck ora, come nel 1866, fa sempre un pezzo del nostro lavoro; a modo suo e senza volerlo, ma lo fa. Ci procura un terreno più libero di prima. E poi non siamo più nell’anno 1815. I tedeschi meridionali entreranno ora necessariamente nel Reichstag e in questo modo si crea un contrappeso al prussianesimo... In genere voler annullare, à la Liebknecht, tutta la storia dal 1866 in poi, perché non piace a lui, è una scemenza».

Le conclusioni finali di Engels, tratte dall’esame della situazione per la politica degli operai tedeschi, si possono così riassumere: unirsi al movimento nazionale, in quanto e fin tanto che si limiti alla difesa della Germania; mettere in evidenza nello stesso tempo la differenza fra gli interessi nazionali tedeschi e gli interessi dinastici prussiani, cosa che ancora una volta i lassalliani avevano mancato approvando semplicemente i crediti di guerra e confondendosi con la maggioranza borghese, senza differenziare la loro posizione socialista; opporsi all’annessione dell’Alsazia e della Lorena; appena a Parigi fosse al potere un governo repubblicano non sciovinista, adoperarsi per arrivare a una pace onorevole con esso; insistere continuamente sull’unità di interessi fra gli operai tedeschi e francesi, che non avevano approvato la guerra e che non combattevano fra loro.

Marx, d’accordo con il compagno amico, rispose in questo senso al comitato di Brunswick che però non ebbe tempo di riaccordarsi con Liebknecht e Bebel per il procedere impetuoso degli avvenimenti di guerra.

La battaglia di Sedan (2 settembre 1870) mandò in frantumi il trono di Bonaparte che fu catturato dai prussiani, mentre a Parigi sorse una repubblica borghese con un “governo di difesa nazionale”; era la fine della guerra di difesa tedesca.

Le tendenze libertarie ed anarchiche tentarono di gettare una luce sinistra sulle posizioni di Marx ed Engels nel 1870, tentando di presentare i due come “agenti di Bismarck” ed inguaribili filotedeschi, ma l’effetto scandalistico di quelle citazioni è nullo e sono invece buon esempio del metodo materialistico deterministico con il quale la nostra scuola ha indagato ed indaga sugli avvenimenti di guerra.

Scrivemmo nel Filo del Tempo La guerra rivoluzionaria proletaria, Battaglia Comunista, n.12/1950: «Fare dell’antibismarckismo un principio, significa barattare con uno stupido idealismo ed eticismo il metodo del comunismo critico che trova le cause positive dei fatti storici, ed il cui primo versetto dice: non vi fu cosa più inumana feroce ed infame del formarsi del capitalismo, ma tale processo non solo fu necessario, nel senso che costituì la premessa per lo sviluppo al socialismo, bensì nei tempi e nei luoghi in cui fosse ancora in corso, e se da noi dipendesse, noi proletari e socialisti, noi lo dovremmo aiutare».

Il re di Prussia, come capo della Confederazione della Germania Settentrionale, aveva dichiarato più volte e solennemente che non combatteva il popolo francese ma solo il governo dell’Imperatore ed adesso a Parigi il nuovo governo repubblicano si diceva disposto a pagare ogni possibile somma per le riparazioni di guerra. C’era Bismarck però che chiedeva una cessione di territorio e per l’Alsazia–Lorena continuò la guerra, che ormai solo sarcasticamente si poteva dire di difesa. E come Bonaparte, Bismarck mobilitò le mezze classi perché, con i loro entusiasmi nazionalisti ed annessionisti, facessero ritornare il re di Prussia sui suoi “solenni” propositi.

Le diane patriottiche si levarono alte e le fanatiche mezze classi reclamarono “confini protetti”, guerra di conquista, Germania sicura e potente. E perché apparisse che gli “unanimi voti del popolo tedesco” erano assolutamente unanimi, furono repressi con violenza tutti i segni di opposizione. Il 5 settembre 1870, il comitato di Brunswick diramò un appello per invitare gli operai tedeschi ad organizzare assemblee e dimostrazioni contro l’annessione dell’Alsazia e della Lorena e per una pace onorevole con la Repubblica francese. L’appello riprendeva brani della lettera di Marx al comitato. Si prevedeva con estrema esattezza che l’annessione avrebbe avuto come conseguenza l’inimicizia a morte fra Germania e Francia, l’egemonia europea della Russia zarista e si definiva la pace come un semplice armistizio.

Il 9 settembre i firmatari dell’appello furono arrestati dall’autorità militare e gettati nella fortezza di Lotzen. Lo stesso giorno, il Consiglio Generale dell’Internazionale redasse il suo secondo Indirizzo che metteva in chiaro l’evolversi della situazione. L’Indirizzo faceva notare quanto presto si era avverata la precedente previsione che la guerra suonava la morte del Secondo Impero, ma anche come erano fondati i suoi dubbi che la guerra tedesca conservasse il carattere di guerra difensiva. La camarilla militare prussiana si era decisa per la conquista e tramavano per “liberare” il re di Prussia dai suoi impegni:

     «I direttori di scena dovevano esibirlo nella parte di colui che cede riluttante al comando irresistibile della nazione tedesca. Essi dettero immediatamente questa parola d’ordine alla classe media tedesca liberale, coi suoi professori, coi suoi capitalisti, coi suoi borgomastri e pennaioli. Questa classe media, che nelle sue lotte per la libertà civile dal 1846 al 1870 aveva dato un esempio inaudito di irresolutezza, di incapacità e di vigliaccheria, si sentì naturalmente assai lusingata di rappresentare sulla scena europea la parte di ruggente leone del patriottismo tedesco. Rivendicò la propria indipendenza civica affettando di imporre al governo i segreti disegni di questo stesso governo. Fece ammenda della sua lunga e quasi religiosa fede nell’infallibilità di Luigi Bonaparte, reclamando ad alta voce lo smembramento della repubblica francese».

L’Indirizzo proseguiva con una requisitoria contro i propositi di annessione, che era un assurdo far delle considerazioni militari il principio secondo il quale si devono stabilire i confini delle nazioni, perché ogni linea militare è necessariamente difettosa e può venire migliorata sempre con l’annessione di un territorio avanzato. L’annessione della Alsazia e della Lorena avrebbe infine gettato la Francia in braccio allo zarismo, con effetti funesti: «Credono davvero i patrioti teutonici che si assicurino la libertà e la pace alla Germania gettando la Francia in braccio alla Russia? Se la fortuna delle sue armi, all’arroganza del successo e l’intrigo dinastico porteranno la Germania a una rapina di territorio francese, le rimarranno aperte solo due vie. O dovrà diventare, ad ogni rischio, strumento dichiarato dell’espansionismo russo o, dopo una breve tregua, si dovrà preparare di nuovo a una guerra “difensiva”, e non a una delle guerre “localizzate” di nuovo conio, bensì a una guerra di razze, contro le razze alleate degli slavi e dei latini».

L’Indirizzo così proseguiva: «La classe operaia tedesca ha appoggiato risolutamente la guerra, che non aveva la possibilità di impedire, come guerra per l’indipendenza della Germania e per la liberazione della Francia e dell’Europa dall’incubo del Secondo Impero. Sono stati gli operai industriali tedeschi che, assieme agli operai agricoli, hanno fornito i nervi e i muscoli di eserciti eroici, lasciando dietro di sé le loro famiglie quasi prive del pane. Decimati dalle battaglie, essi saranno ancora una volta decimati dalla miseria nelle loro case. A loro volta essi ora si fanno avanti per esigere “garanzie”; garanzie che i loro sacrifici immensi non siano stati fatti invano, garanzie d’aver conquistato la libertà, e che la vittoria riportata sugli eserciti di Bonaparte non si trasformi in una sconfitta del popolo tedesco, come nel 1815. E la prima di queste garanzie che essi esigono è una pace dignitosa per la Francia e il riconoscimento della repubblica francese».

L’Indirizzo rinviava all’appello del comitato di Brunswick e osservava che sventuratamente non si avevano possibilità sul suo successo immediato, ma che la storia avrebbe provato come gli operai tedeschi non erano della stessa pasta della classe media tedesca. Gli operai avrebbero compiuto il loro dovere.

Infine l’Indirizzo esaminava la situazione da parte della Francia, con una repubblica che aveva solamente preso il posto di un trono vacante:

     «La classe operaia francese si muove dunque in circostanze estremamente difficili. Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia. Gli operai francesi devono compiere il loro dovere di cittadini; ma nello stesso tempo non si devono lasciar sviare dalle memorie nazionali del 1792, come i contadini francesi si lasciarono ingannare dai souvenirs nazionali del primo Impero. Essi non devono ricapitolare il passato, ma costruire il futuro. Migliorino con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per lavorare alla organizzazione di classe. Ciò darà loro nuove forze erculee, per la rinascita della Francia e per il nostro compito comune, l’emancipazione del lavoro. Dalla loro forza e dalla loro saggezza dipendono le sorti della repubblica».


Lo svolto storico del ‘71

Erano ormai gli avvenimenti in Francia a fornire le lezioni storiche più vive alla teoria rivoluzionaria. Con i rovesci militari era crollato il Secondo Impero e ne giovavano gli operai francesi. Ma subito si trovarono in condizioni difficili: alla repubblica partecipavano come capi il sottobosco equivoco della opposizione a Bonaparte, dai monarchici orleanisti ai repubblicani borghesi agli sbirri della repressione antioperaia del 1848. Il proletariato parigino aveva plaudito alla disfatta di Napoleone il Piccolo ma non era ancora indifferente alle sorti della nazione, non era abbastanza maturo per scorgere nella pienezza tutti i suoi compiti.

Marx vide le difficoltà e a quella data non invoca lo scatenamento della guerra civile, «mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi», ma ammonisce gli operai francesi che «non devono lasciarsi sviare dalle memorie nazionali del 1792». L’Indirizzo si chiude rivolgendosi ai lavoratori di tutti i paesi: «se gli operai dimenticheranno il loro dovere, se resteranno passivi, la presente terribile guerra sarà soltanto l’annunciatrice di conflitti internazionali ancora più mortali e porterà in ogni paese a nuovi trionfi dei signori della spada, della terra e del capitale sugli operai».

Il 28 gennaio 1871, Parigi accerchiata dagli eserciti prussiani e sfinita dalla fame, capitolò ma – come scriverà Engels il 18 marzo 1891 nel ripresentare, vent’anni dopo, i tre Indirizzi del Consiglio Generale dell’Internazionale – con un onore senza precedenti nella storia delle guerre: la Guardia Nazionale mantenne le sue armi e i suoi cannoni, di fronte ai vincitori si considerò solo in stato di armistizio, e questi non osarono entrare trionfalmente nella città vinta.

Le elezioni per l’Assemblea nazionale dettero una maggioranza monarchico-reazionaria che elesse presidente della repubblica l’intrigante Thiers che a suo tempo aveva duramente parlato contro l’avventura militare di Bonaparte. E Thiers, dopo che l’Assemblea nazionale ebbe accettato le condizioni preliminari di pace, ebbe come primo pensiero di disarmare Parigi; per quel borghese fino al midollo, come per i “rurali” dell’Assemblea, Parigi in armi non significava altro che la rivoluzione che minacciava il dominio delle classi abbienti. Thiers tentò di disarmare, il 18 marzo, la Guardia Nazionale, ma il colpo andò a vuoto e Parigi scese in campo per difendersi, la guerra civile era così scoppiata. Il 26 marzo fu eletta e il 28 marzo proclamata la Comune di Parigi.

     «Il primo scatto dei lavoratori di Parigi contro la repubblica borghese si deve alla scoperta che i nuovi esponenti della classe dirigente trescano col prussiano. Si insorge contro di loro col termine infamante, divenuto storico, di capitulards. Al loro tentativo di disarmare dei cannoni la guardia nazionale, che non è ancora una guardia operaia, scoppia l’insurrezione. Marx comprende in pieno il movente di essa: ricorda che i documenti che i Trochu, i Faure, i Thiers lasciarono nella fuga a Versailles provavano il commercio col nemico. La storia non aveva ancora dipanata la matassa di incontro fra le esigenze nazionali e quelle classiste, i partiti socialisti del tempo seguivano dottrine inadeguate, ma il proletariato comprese che la borghesia di Francia, manovrando per salvare dalla rovina il suo privilegio, non esitava a prendere gli ordini e i soldi del suo amico di classe Bismarck, offrendogli fra i patti di armistizio l’impegno a disperdere la canaglia rivoluzionaria di Parigi. Alla fine della lotta i federati cadono, nello sforzo titanico di fronteggiare borghesi francesi ed esercito tedesco, ma resta alla storia della rivoluzione operaia, insieme al primo esempio storico della sua rossa dittatura, la definitiva liberazione nazionale, il cui peso fino a quello svolto era pienamente riconosciuto dalla teoria marxista» (Socialismo e nazione, Battaglia Comunista, n.9/1950).

Scriverà Marx nel terzo Indirizzo del Consiglio Generale dell’Internazionale, il 30 maggio 1871:

     «Il fatto che dopo la guerra più terribile dei tempi moderni l’esercito vincitore e l’esercito vinto fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti non indica, come pensa Bismarck, lo schiacciamento finale di una nuova società al suo sorgere, ma la decomposizione completa della società borghese. Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti».

Le conclusioni storiche di Marx erano nette: lo sbocco dell’insurrezione proletaria non poteva essere una guerra fra comunardi e l’esercito prussiano, lo sbocco doveva uscire dallo scontro, all’ultimo sangue, tra il governo borghese di Versailles e i proletari insorti di Parigi; trucidati questi perché tutti i governi della borghesia di tutte le bandiere si allearono nella controrivoluzione, come sempre, da allora, quando una rossa minaccia si leva, avvenne ed avverrà. Staffilerà Marx:

     «Quando mai prima d’ora la storia ha offerto lo spettacolo di un vincitore che corona la sua vittoria trasformandosi non soltanto in gendarme, ma in bravo prezzolato del governo vinto?».

Con lo schiacciamento della Comune si chiude in Europa il ciclo delle guerre nazionali borghesi come guerre progressiste, l’epoca in cui era ancora possibile una alleanza di battaglia tra gli operai e le forze borghesi rivoluzionarie insorte per l’indipendenza e la libertà, e come Lenin riprenderà magistralmente di fronte al socialpatriottismo dilagante della Prima Guerra Mondiale, da allora nessuna guerra può più essere chiamata “rivoluzionaria” come quelle a fini liberali e nazionali strettamente connesse alle lotte insurrezionali borghesi del periodo 1789-1871. Scriverà Lenin nel luglio-agosto 1915 in Il Socialismo e la guerra):

     «La grande Rivoluzione francese ha iniziato una nuova epoca nella storia dell’umanità. Da allora fino alla Comune di Parigi, dal 1789 al 1871, un particolare tipo di guerra è costituito dalle guerre a carattere borghese progressivo, di liberazione nazionale. In altre parole, il principale contenuto ed il significato storico di queste guerre è stato l’abbattimento e la distruzione dell’assolutismo e del feudalesimo, l’abbattimento dell’oppressione straniera. Esse sono state, perciò, guerre progressive e tutti gli onesti democratici rivoluzionari, nonché tutti i socialisti, durante tali guerre simpatizzarono sempre per il successo di quel paese (cioè di quella borghesia) che contribuiva ad abbattere o minare i pilastri più pericolosi del feudalesimo, dell’assolutismo e dell’oppressione di popoli stranieri. Per esempio, nelle guerre rivoluzionarie della Francia c’era anche un elemento di rapina e di conquista di terre straniere da parte dei francesi, ma ciò non cambia affatto il significato storico fondamentale di quelle guerre, le quali distruggevano e scuotevano il feudalesimo e l’assolutismo in tutta la vecchia Europa feudale. Nella guerra franco-prussiana, la Germania depredò la Francia; ma ciò non cambia il significato storico fondamentale di quella guerra, che ha liberato il popolo tedesco, cioè un popolo di decine di milioni di uomini, dal frazionamento feudale e dalla oppressione di due despoti: lo zar russo e Napoleone III».

E in Le rivoluzioni multiple, del maggio 1953, scrivemmo:

     «Nell’area europea occidentale (Francia, Germania, Italia, paesi minori) la lotta borghese contro il feudalesimo va dal 1789 al 1871, e nelle situazioni di questo corso si pone l’alleanza del proletariato coi borghesi quando lottano con le armi per rovesciare il potere feudale mentre già i partiti operai hanno rifiutato ogni confusione ideologica colle apologie economiche e politiche della società borghese».

Il 1871 vede quindi scritta a tutte lettere una formidabile tesi tattica, quella della trasformazione della guerra nazionale in guerra civile; dall’epoca della Comune fino alla distruzione del capitalismo in Europa esistono due alternative: o i proletari obbediscono al disfattismo di ogni guerra, o, come Engels scrisse profeticamente nella prefazione del 1891 «penderà quotidianamente sul nostro capo la spada di Damocle di una guerra, nel primo giorno della quale tutte le alleanze ufficiali tra i principi andranno disperse come pula; di una guerra di cui nulla è certo eccetto l’assoluta incertezza del suo esito; di una guerra di razze, che sottoporrà l’Europa intera alla devastazione da parte di quindici o venti milioni di uomini armati, e che non imperversa già solo perché persino il più forte dei grandi Stati militari teme la totale impossibilità di calcolarne il risultato finale».

La guerra profetizzata da Marx e da Engels fra le razze dei tedeschi e quelle degli slavi e dei latini, verrà nel 1914 e verrà il crollo in verticale della Seconda Internazionale i cui partiti aderirono al guerrasantismo e all’unionsacrismo ad un tempo, adesione che rinnegava totalmente la sanguinosa lezione della Comune del 1871 e le sue indelebili consegne a tutto il movimento proletario internazionale.

Riassumiamo:

     «Nel 1870 l’analisi obiettiva poteva indicare al partito proletario – dato che non l’idea, ma la Forza, è l’agente che muta le prospettive della storia – che la vittoria di Bismarck su Bonaparte era elemento acceleratore e positivo, molto al di là delle opinioni e dei desideri di Bismarck, del processo di sviluppo della lotta di classe europea. Non era ancora chiuso il periodo delle guerre nazionali di progresso. Tuttavia fin da allora nell’azione politica ero ben lungi dall’allearmi col governo prussiano, e il mio movimento era quello della Comune, contro cui bonapartisti, repubblicani borghesi di Francia e militaristi tedeschi nutrivano l’odio medesimo. Sono maturo abbastanza per bollare di vergogna una difesa, in blocco borghese proletario, del sacro suolo della repubblica di Francia» ("Romanzo della Guerra santa", Battaglia Comunista, 13/1950).


Aree Geo-politiche

La scuola marxista nel valutare gli avvenimenti di guerra fra gli Stati poggia la sua indagine sulla nozione delle circostanze materiali, economiche e storiche, che accompagnano l’evento militare, non basandosi su regole ideali buone per tutti i tempi e luoghi. Se, quindi, il 1871 segnò la chiusa dell’alleanza di battaglia fra le forze borghesi rivoluzionarie ed il nascente movimento proletario, la consegna fu estesa a tutti i continenti, a tutte le aree? La risposta non merita dubbi: no.

Il problema dell’alleanza di battaglia fra forze proletarie e forze rivoluzionarie borghesi, questione che si intreccia in questa prima fase con quella di Guerra e Rivoluzione, non è mai stata per la nostra scuola un problema di tattica, della definizione cioè delle norme di azione del partito proletario, ma un problema storico di definizione ed apprezzamento delle circostanze economiche e delle forze sociali, proprio perché già il Manifesto dei Comunisti del 1848 e l’Indirizzo della Lega Comunista del 1850 definiva in maniera indiscutibile i contorni essenziali e duraturi della tattica proletaria.

Proseguiamo dal testo del 1953:

     «4. Col 1866 gli Stati Uniti d’America si pongono nelle condizioni dell’Europa occidentale dopo il 1871, avendo liquidato forme capitalistiche spurie con la vittoria contro il sudismo schiavista e rurale. Dal 1871 in poi, in tutta l’area euroamericana, i marxisti radicali rifiutano ogni alleanza e blocco con partiti borghesi e su qualunque terreno.

     «5. La situazione pre 1871 (...) dura in Russia e in altri paesi dell’Est europeo fino al 1917, e si pone in essi il problema già noto alla Germania 1848: provocare due rivoluzioni, e quindi lottare per i compiti di quella capitalista. Condizione per un passaggio diretto alla seconda rivoluzione proletaria era la rivoluzione politica in occidente, che venne meno, pure avendo la classe proletaria russa conquistato sola il potere politico, conservandolo per alcuni anni».

Ancora leggiamo da Russia e Rivoluzione nella Teoria Marxista, del 1954:

     «Dunque: area britannica, ove non si parla di doppia rivoluzione del proletariato e della borghesia, e che resta la sola in questa situazione storica dal 1649. Area continentale europea ove si pone il problema delle rivoluzioni liberalnazionali cui il proletariato darà il suo appoggio per un periodo che si chiude al 1871. In questa area figura la Francia, sebbene nei periodi 1789-1815 e 1848-1852 sia stata governata dalla borghesia e retta a repubblica. Dal 1871 al 1917 tutta l’area britannica ed europea comporta la piena autonomia dell’azione proletaria verso la conquista del potere e il socialismo. Ma da tali aree resta fuori la Russia che ha ancora la prospettiva di abbattere un regime feudale. Ne resterebbero anche fuori in un certo senso i paesi degli slavi del Sud e la Grecia almeno fino a quando nel 1912 non si ha una rivoluzione borghese nella Turchia dei sultani e la vittoria nelle guerre balcaniche delle nazionalità che essa governa».

Le stesse identiche tesi erano già state esposte da Lenin (altra dimostrazione che si tratta non di andare a scoprire nuove leggi e segnare nuove svolte, ma di riallacciare il filo rosso degli avvenimenti che fanno risaltare, una volta di più, la coerenza interna della teoria e del programma rivoluzionario). Scrive Lenin in Sul diritto di autodecisione delle nazioni, aprile-giugno 1915:

     «Nell’Europa occidentale, continentale, il periodo delle rivoluzioni democratiche borghesi va, approssimativamente, dal 1789 al 1871. Questo periodo fu precisamente quello dei movimenti nazionali e della formazione di Stati nazionali. Alla fine di questo periodo l’Europa occidentale si era trasformata in un sistema organico di Stati borghesi e – di regola – nazionalmente omogenei. Perciò, cercare oggi il diritto di autodecisione nei programmi dei socialisti dell’Europa occidentale significa non capire l’abbiccì del marxismo. Nell’Europa orientale e in Asia, il periodo delle rivoluzioni democratiche borghesi è cominciato soltanto nel 1905. Le rivoluzioni in Russia, in Persia, in Turchia e in Cina, le guerre dei Balcani: ecco la catena degli avvenimenti mondiali del nostro periodo nel “nostro” Oriente. In questa catena solo un cieco può non vedere il risveglio di tutta una serie di movimenti nazionali democratici borghesi e di tendenze a creare Stati nazionali indipendenti e omogenei».

La citazione di Lenin getta squarci di luce sugli avvenimenti che successivamente prenderemo in esame e serve, insieme alle altre, a mostrare ancora una volta che la chiusa dell’epoca delle alleanze di battaglia tra proletariato e forze borghesi antifeudali non è tesi metafisica ed eterna ma tesi storica, di “area”, è una norma di partito che, come lapidariamente scrivemmo in Russia e Rivoluzione nella Teoria Marxista, ha senso materialistico, non idealista, senso materiale che assicura, infine, la unità organica nel partito fra la sua dottrina, il suo programma, la sua tattica.

Ancora spulciamo dai nostri testi: «Se intendiamo per tattica i mezzi di azione, essi non possono che essere stabiliti dalla stessa ricerca che, in base ai dati della storia passata, ci ha condotto a stabilire le nostre rivendicazioni programmatiche finali e integrali. I mezzi non possono variare ed essere distribuiti a piacere, in tempi successivi o peggio da distinti gruppi, senza che sia diversa la valutazione degli scopi programmatici cui si tende e del corso che vi conduce» (Pressione “razziale” del contadiname, Il Programma Comunista, n.14/1953).


Russia bastione del feudalesimo

Come abbiamo già detto l’aspro antislavismo di Marx e di Engels non era il risultato di pose estetiche, i nostri due maestri vedendo giustamente la forza russa come un pericolo ed una minaccia per qualsiasi focolaio rivoluzionario in Europa. Il movimento grande slavista era sinonimo di controrivoluzione e senza cedere a pregiudizi e preconcetti nazionali o razziali il giovane movimento comunista poggiò questa sua condanna “antislavista” su considerazioni storiche legate a precisi limiti di tempo e di spazio. Come scrivemmo in Russia e Rivoluzione..., «la valutazione positiva di ogni fatto e dato concreto di forza storica è per i marxisti fondamentale», infatti la storica condanna viaggiava insieme ad una tesi apparentemente opposta: «A confronto della desolazione stagnante di quel vecchio continente (l’Asia), la Russia è una civilizzatrice, e il suo contatto non potrebbe che essere benefico» (Marx, 7 maggio 1855).

Rimaneva il fatto incontestabile che durante tutta la fase delle rivoluzioni nazionali, borghesi e liberali, ogni movimento rivoluzionario aveva avuto di fronte un massimo e principale ostacolo, la Russia degli Zar che inviava o minacciava di inviare forze armate in masse enormi dovunque il fuoco rivoluzionario attizzasse, come le guerre napoleoniche e gli avvenimenti del 1848 avevano tragicamente confermato. E tuttavia, economicamente, socialmente, politicamente, per via di guerre civili o nazionali, la complessa sistemazione dei grandi Stati dell’Europa occidentale è con il 1870-1871 compiutasi e nei paesi sviluppati inizia ad affermarsi un vigoroso movimento delle classi lavoratrici, già maturo per sue lotte autonome.

Se si volta però ad oriente il movimento proletario europeo scorge la sagoma minacciosa dello Stato degli Zar che non è stato toccato dal fuoco della rivoluzione. Lo Stato degli Zar è a difesa non solo dei rimasti regimi feudali assolutisti ma è una forza controrivoluzionaria pronta a muoversi anche se, e a maggior ragione, nei paesi capitalistici si muove la classe operaia per i suoi propri obiettivi.

La guerra franco-prussiana era terminata con l’annessione della Alsazia e della Lorena e questa annessione avrebbe influenzato gli avvenimenti europei negli anni a venire. Come previdero Marx ed Engels, il ruolo reazionario dello zarismo nella politica europea e mondiale ne uscì rafforzato e riprese la storica spinta del regime di Pietroburgo verso il Mediterraneo. La Russia liquidò gli articoli del trattato di Parigi del 1856 che le vietavano di mantenere una flotta da guerra nel Mar Nero e ritornò a giocare un ruolo principale nella diplomazia internazionale. Sempre come previsto dagli Indirizzi dell’Internazionale la Germania dovette blandire gli Zar per controbilanciare l’ostilità francese ed è del 1873 “l’Alleanza dei tre imperatori”, tedesco, austriaco e russo che favoriva ancor più l’isolamento francese e che escludeva (punto importante per Pietroburgo) un’intesa austro-tedesca a spese degli interessi russi nei Balcani garantendo i confini occidentali della Russia nel caso di un aggravarsi dei suoi contrasti con l’Inghilterra in Asia.

Nel 1875 iniziò una insurrezione antiturca in Bosnia, in Erzegovina ed in Bulgaria che fu repressa dalle truppe turche, intervento che portò alla dichiarazione di guerra della Serbia e del Montenegro che scesero in campo a difesa dello slavismo. Se i montenegrini sconfissero le truppe turche, altrettanto non fece l’esercito serbo che fu duramente sconfitto nel settembre 1876: i turchi avevano aperta la via per la capitale Belgrado, marcia che fu interrotta da una parziale e minacciosa mobilitazione di truppe russe. Dopo una convenzione segreta firmata a Budapest nel marzo 1877, con cui la Russia si assicurava la neutralità dell’Austria in cambio del suo consenso all’occupazione austriaca della Bosnia e della Erzegovina, il 24 aprile successivo il governo russo dichiarò guerra alla Turchia.

Il 27 giugno le truppe russe passavano il Danubio mentre, insieme a truppe e volontari bulgari, avanzavano rapidamente nel Caucaso. Nei Balcani l’avanzata russa venne fermata per più di quattro mesi dalla fortezza di Plevna, parziale insuccesso che fece stropicciare le mani all’”antirusso” per eccellenza Carlo Marx; solo nel dicembre 1877 la fortezza stremata cedette e l’esercito russo poté preparare il suo attacco definitivo, penetrò nella valle della Maritza ed occupò Edirne, città della Tracia, dove, il 31 gennaio, venne firmato l’armistizio. Le truppe russe, conformemente all’accordo, avanzarono fino a Santo Stefano, località a soli 12 km da Costantinopoli grande sogno degli zar, dove fu firmato l’accordo di pace (3 marzo 1878).

Il trattato di Santo Stefano, che fra l’altro prevedeva la creazione di un grande Stato bulgaro che doveva estendersi dal Mar Nero all’Egeo, comprendendo anche la Macedonia, non fu però attuato per la decisa opposizione inglese. Il governo Disraeli, che pure aveva fino ad allora simpatizzato per le vittorie russe, inviò una squadra navale nel Mar di Marmara ed attuò una parziale mobilitazione della flotta.

Il mancato appoggio di Bismarck, costrinse la Russia ad accettare la convocazione di un congresso internazionale per definire i dettagli della pace. Il congresso si aprì a Berlino il 13 giugno 1878 con la partecipazione della Russia, dell’Inghilterra, della Germania, dell’Austria, della Francia, dell’Italia, della Turchia, della Persia e degli Stati balcanici. Dopo un’aspra lotta diplomatica, il 13 luglio, fu firmato il trattato di Berlino. Venne creato il principato della Bulgaria, fu concesso una parziale autonomia alla Bulgaria meridionale che però rimaneva nell’Impero Turco, che manteneva pure il controllo della Macedonia. Fu confermata l’indipendenza del Montenegro, della Serbia e della Romania ma l’Austria occupava la Bosnia e l’Erzegovina e il sangiaccato di Novi Pazar fra la Serbia ed il Montenegro. La Romania si estendeva alla Dobrugia, sbocco sul Mar Nero, mentre la Bessarabia ritornava sotto l’Impero Russo che l’aveva persa con la pace di Parigi del 1856. Gli inglesi che avevano frenato le truppe russe ci guadagnavano Cipro, importantissimo punto strategico nel Mediterraneo orientale.

Non è scoperta recente che la danza degli avvenimenti internazionali è per molti versi determinata da quelle che si dicono le grandi potenze, questo fatto materiale era già conosciuto ed indagato dal marxismo nell’Ottocento; ma questa verità non conduce a conclusioni indifferentiste: la guerra russo-turca vide scontrarsi due regimi assolutisti ugualmente reazionari, ugualmente feudali, ugualmente oppressori di nazionalità e di razze; per determinate condizioni la Russia zarista si fa paladina del nazionalismo slavo e attacca militarmente, puntando verso il suo obbiettivo storico che è Costantinopoli. Il nazionalismo balcanico è debole ed ha come campioni i serbi ed i montenegrini, in verità ben poca cosa. Se trionfano i russi, non si avranno moderni e borghesi Stati balcanici ma l’estensione dell’influenza russa, ben più perniciosa, perché più potente, di quella turca, da qui la simpatia di Marx per i turchi oppressori di nazionalità, tifo che però non disconosceva come nella penisola balcanica fosse ancora vitale la questione nazionale e come le forze borghesi nazionali giocassero ancora un ruolo progressista facendo girare in avanti la storia.


Preparazione diplomatica alla guerra europea

La sconfitta diplomatica della Russia zarista al congresso di Berlino peggiorò i rapporti russo-tedeschi e mentre Bismarck prese misure contro le importazioni di prodotti agricoli russi, Pietroburgo pose dazi ai prodotti industriali germanici. In queste condizioni l’Impero germanico strinse i suoi legami con quello austro-ungarico con il quale firmò un accordo segreto il 7 ottobre 1879. L’accordo prevedeva l’aiuto reciproco nel caso di un attacco russo a una delle sue parti e una benevola neutralità nel caso di un conflitto di una delle due con un’altra qualsiasi potenza europea.

Negli anni a seguire, nuovo riavvicinamento russo-tedesco per motivi di carattere politico ed economico. La guerra doganale aveva arrecato enormi danni ad entrambi i paesi che, per differenti motivi, volevano avere i comuni confini sicuri. Nel 1881 fu rinnovata l’”Alleanza dei tre Imperatori” che questa volta obbligava le tre potenze ad osservare la neutralità nel caso che una di esse venisse a trovarsi in uno stato di guerra con una qualsiasi grande potenza. Se da parte tedesca l’alleanza aveva un chiaro segno anti-francese, da parte russa lo aveva anti-inglese, il che corrispondeva alle sue esigenze di espansione nell’Asia centrale. La Russia accettava l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria; infine, i tre si accordarono che solo consensualmente potevano mutare i confini nei Balcani, i cui nazionalismi niente importavano. L’alleanza segreta fra Berlino e Vienna diretta contro i russi rimaneva in vigore.

Altro accordo segreto il 20 maggio 1882, fra Germania, Austria-Ungheria ed Italia: Germania ed Italia si promisero reciproco aiuto nel caso di un loro conflitto con la Francia e tutte e tre si accordarono di rispondere militarmente nel caso che più potenze le avessero attaccate. L’Italia non era obbligata ad entrare in guerra nel caso che l’attaccante fosse stata l’Inghilterra. Da parte tedesca, tutti gli accordi erano chiaramente anti-francesi e, in secondo piano, miravano anche ad allontanare la minaccia russa ed a rendere sicuri i confini orientali.

Ma se questi furono i principali avvenimenti europei, oramai il teatro della politica estera era il mondo intero e gli spostamenti europei avevano immediate ripercussioni in Asia ed in Africa dove si confrontavano i corpi coloniali di spedizioni delle nazioni europee più sviluppate. Dopo la guerra franco-prussiana del 1870 si usa dire che iniziò il periodo dello sviluppo pacifico del capitalismo europeo, sviluppo che fu la culla materiale del gradualismo e del patriottismo nelle file del movimento operaio attaccato nel suo programma rivoluzionario dal revisionismo e dal riformismo. Ma questo sviluppo pacifico era per l’Europa, dove le moderne nazioni si erano costituite in Stati, ma non per il resto del mondo che conobbe la miseria, la sofferenza e le tragedie più dolorose. Il continente africano vedeva scontrarsi le mire coloniali di Francia ed Inghilterra e poi anche di Germania e dell’Italia, mentre in Asia si confrontavano Russia, Inghilterra e Francia.

Gli eserciti europei facevano precipitare nell’infernale girone capitalistico le popolazioni africane ed asiatiche ed il continuo drenaggio di immense ricchezze e di plusvalore assicurava al proletariato europeo briciole di riformismo. La borghesia mondiale estendeva il suo completo dominio ed il capitale finanziario celebrava i suoi saturnali nella mai sconfitta Inghilterra e nella tante volte sconfitta Francia, isolata in Europa ma agguerrito imperialismo nel resto del mondo.

Furono di nuovo i Balcani a fare dell’Europa il principale teatro delle diplomazie delle grandi potenze. Nel 1879, dopo il congresso di Berlino, in Bulgaria salì sul trono di una monarchia costituzionale il principe Alessandro di Battenberg che, nel 1881, approfittando del regime poliziesco che si aveva in Russia dopo l’assassinio dello Zar Alessandro e fidandosi sull’aiuto del nuovo Zar, sciolse il governo liberale e chiamò due generali russi a far parte del suo nuovo governo. Alessandro di Battenberg non però convinto della soffocante protezione russa la volle controbilanciare con quella austro-ungarica, accettando pertanto il progetto della costruzione di una ferrovia Vienna-Costantinopoli, attraverso Belgrado e Sofia (formidabile via per le merci tedesche) e bocciò il progetto russo di un’altra ferrovia che doveva attraversare la Bulgaria da nord a sud, sempre in direzione Costantinopoli. Alessandro, ruppe con i russi e accordatosi con l’opposizione liberale, restaurò la costituzione rispedendo i due generali zaristi a Pietroburgo. Era il 1883.

Nel settembre 1885 un’insurrezione nazionalista nella Rumelia rovesciò il governatore turco e proclamò l’annessione alla Bulgaria. Alessandro di Battenberg si incoronò principe della Bulgaria Unita con grande strepitio dei russi che denunciavano la violazione del congresso di Berlino. Anche l’Impero Austro-Ungarico tramava e spingeva la Serbia a richiedere territori alla Bulgaria: era la guerra. Nel novembre 1885 nella battaglia presso Slivniza l’esercito bulgaro sbaragliava quello serbo ed era pronto ad una generale controffensiva. Solo un ultimatum di Vienna evitava la continuazione delle operazioni militari e permetteva il mantenimento dei confini precedenti, che però mutavano riguardo alla Rumelia di fatto annessa dai bulgari e persa dai turchi, convinti dalle pressioni di Vienna e di Londra che così speravano di farsi amico Alessandro di Battenberg in funzione antirussa.

Nell’agosto 1886 un complotto di ufficiali, cui non era estranea la diplomazia russa, esiliava Alessandro, ma il successore, Ferdinando di Sassonia, mantenne la Bulgaria Unita nell’area di influenza austro-germanica.

La crisi bulgara fu importante per due versi: da una parte l’intricata questione nazionale balcanica aveva rilanciato le mire russe verso lo sbocco al Mediterraneo, mire che venivano contrastate dal tentativo di Vienna di allargare la sua influenza nella penisola balcanica e anche dall’Inghilterra che già si misurava con l’Impero russo in Asia; dall’altra la Germania di Bismarck era costretta ad accordarsi con lo Zar perché la sua preoccupazione prima era il pericolo francese. Sia questo che quello era, in gran parte, il risultato della annessione dell’Alsazia e della Lorena che dava copiosamente i frutti previsti dagli Indirizzi dell’Internazionale.

Ma i contrasti austro-russi nei Balcani portavano alla completa disgregazione dell’ ”Alleanza dei tre Imperatori”, proprio quando nella Francia repubblicana si aveva una virulenta campagna sciovinista e revanscista contro la Germania da parte del generale Boulanger che alla fine del 1886 divenne Ministro della guerra. Bismarck già nel novembre 1886 aveva presentato al Reichstag un progetto di legge che aumentava l’organico dell’esercito in tempo di pace e fissava a priori il bilancio militare per un periodo di sette anni. Nel gennaio 1887 Bismarck intervenne al Reichstag con un risentito discorso contro la Francia e fece applicare in Alsazia ed in Lorena nuove misure che diedero nuovo fiato agli umori revanscisti in Francia. Le diplomazie si aspettavano da un momento all’altro la guerra fra i due contendenti del 1870-71, tutti la consideravano inevitabile e Bismarck, per impedire che si trasformasse in una guerra “di razze”, come profeticamente aveva previsto la nostra scuola, per mantenerla localizzata ai due Stati cercò di assicurarsi l’Inghilterra e la Russia. Se da Londra, che considerava la Francia come la sua principale concorrente nell’espansione coloniale, vennero segnali favorevoli per una nuova guerra franco-germanica, altrettanto non venne da Pietroburgo. La bozza di un trattato che prevedeva la neutralità della Russia in caso di guerra della Germania contro la Francia, in cambio del consenso della Germania a non ostacolare la Russia nella conquista degli Stretti e nel ristabilimento delle proprie posizioni in Bulgaria, formulata da Berlino nel gennaio 1887, fu respinta dallo Zar che in questo modo evitò l’iniziativa di guerra da parte dei tedeschi. Nell’estate 1887, Boulanger fu rimosso dalla carica di Ministro della guerra e relegato in provincia come Generale di Corpo d’armata, da dove però continuava la sua campagna revanscista.

Certamente il pericolo di una guerra immediata era diminuito, ed anche per questo Germania e Russia si accordarono per un nuovo trattato segreto. Il trattato del 1887, detto di “Controassicurazione”, prevedeva che se una delle parti contraenti fosse venuta a trovarsi in stato di guerra con una terza grande potenza, l’altra avrebbe conservato nei suoi confronti una benevola neutralità. Tuttavia, questa benevola neutralità non era d’obbligo se la Germania attaccava la Francia o la Russia attaccava l’Austria. Infine il trattato dava via libera allo Zar nei Balcani, mossa di Bismarck per far sì che i russi si scornassero con gli inglesi e gli austriaci. Nel complesso gioco diplomatico, Berlino aveva poco prima firmato l’ennesimo trattato segreto con Inghilterra, Austria-Ungheria, ed Italia che non a caso fu detto del Mediterraneo: il trattato prevedeva di ostacolare la realizzazione di piani russi verso gli Stretti e l’estensione dell’influenza francese sulla costa settentrionale dell’Africa.


Engels su Guerra e Rivoluzione

A rendere più complicata la situazione diplomatica, concorrevano altri fattori economici: gli Junker prussiani facevano resistenza all’importazione di grano russo, mentre gli industriali russi si opponevano all’importazione di merci industriali tedesche, il che portò a reciproci aumenti dei dazi doganali; in più, dall’anno 1887 si hanno i primi prestiti delle Banche parigine al governo zarista, crediti che favorirono una rapida intesa fra i due governi. Parigi rompeva l’isolamento che la Germania le intendeva costruire intorno e si realizzavano le altre “profezie” degli Indirizzi: la Francia avrebbe stretto alleanza con il cosacco e se la nuova guerra fosse scoppiata, non sarebbe stata locale, ma avrebbe visto le razze latine e slave unite contro la razza tedesca.

Come avevano predetto Marx ed Engels, la guerra del 1870-1871 ed il sanguinoso epilogo della Comune avevano spostato il centro di gravità del movimento operaio internazionale dalla Francia alla Germania, dove il rapido sviluppo dell’industria aveva favorito l’ancora più rapido sviluppo della socialdemocrazia, ben manifesto dai suoi successi elettorali: 1871: 102 mila voti; 1874: 352 mila; 1877: 493 mila. Bismarck riconobbe questi successi e pretese le leggi eccezionali contro i socialisti, che momentaneamente furono dispersi. Nelle elezioni del 1881 i voti socialdemocratici scesero a 312 mila ma ripresero subito a crescere proprio sotto la pressione delle leggi eccezionali: 1884: 550 mila voti e 1887: 763 mila voti.

La crescita costante e sicura della socialdemocrazia tedesca si aveva nonostante tutto e tutti, nonostante il patriottismo ed il revanscismo ed era fattore importante per considerare ciò che sarebbe accaduto nel caso che la guerra, tanto minacciata, fosse scoppiata. Starà al solo Engels, morto Marx, intendere il complesso gioco delle forze sociali in Europa, il loro influsso sulla Guerra e sulla Rivoluzione. Scriverà il 15 dicembre 1877 presentando l’opuscolo di Sigmund Borkheim:

     «... E infine non è possibile altra guerra per la Prussia-Germania che una guerra mondiale, e in verità una guerra mondiale di una ampiezza e di una violenza finora mai viste. Da otto a dieci milioni di soldati si sgozzeranno tra loro e così facendo devasteranno tutta l’Europa in modo tale come non ha fatto mai finora uno stuolo di cavallette. Le distruzioni della guerra dei trent’anni concentrate in tre o quattro anni e allargate a tutto il continente; carestia, epidemie, il generale imbarbarimento, provocato dall’acuto bisogno sia degli eserciti sia delle masse popolari; la disperata confusione del nostro meccanismo artificiale del commercio, dell’industria e del credito, che sfocia nella bancarotta generale; un tal crollo dei vecchi Stati e della loro tradizionale saggezza statale che le corone rotoleranno a dozzine sul lastrico e non si troverà nessuno che le raccolga; l’assoluta impossibilità di prevedere come tutto ciò finirà e chi uscirà vincitore dalla lotta; soltanto un risultato assolutamente certo: l’esaurimento generale e la creazione delle condizioni per la vittoria definitiva della classe operaia.

     «Questa è la prospettiva se il sistema, portato all’estremo, di superarsi a vicenda negli armamenti darà alla fine i suoi frutti inevitabili. Ecco dove, signori principi e uomini di Stato la vostra saggezza ha portato la vecchia Europa. E se non vi resta altro che aprire l’ultima vostra grande danza di guerra, noi non ci metteremo a piangere. La guerra forse ci potrà anche respingere momentaneamente in secondo piano, ci potrà anche togliere alcune posizioni già conquistate. Ma se voi scatenerete le forze che poi non sarete più in grado di padroneggiare, vada pure come vuole: alla fine della tragedia voi sarete rovinati e la vittoria del proletariato sarà o già raggiunta o comunque inevitabile».

Il vecchio Engels lanciò qui il grido di battaglia per tutto il movimento socialista internazionale: crisi industriale e commerciale, carestie e imbarbarimento delle masse accompagneranno una lotta a sangue di milioni di uomini; le corone rotoleranno; l’esito della guerra sarà imprevedibile ma certamente si avrà l’esaurimento generale. Qui, se pure cautamente, viene lanciata la sfida, la socialdemocrazia non piange di fronte alle minacce di guerra (schiaffo sonoro al pacifismo di ieri e di oggi) ma vi dice che l’esaurimento generale creerà le condizioni per la vittoria della classe operaia, che, anche se la guerra farà momentaneamente arretrare il movimento operaio, alla fine della tragedia la vittoria del proletariato sarà o raggiunta o comunque inevitabile. La sfida era la stessa che da anni i socialdemocratici lanciavano a Bismarck e alle sue leggi eccezionali: «Fate quello che volete, siamo pronti a tutto, perderemo qualche posizione ma qualunque arma è inefficace a fermare la forza storica del socialismo, il cui sbocco è certezza di scienza!».

Niente farà abdicare al partito il suo ruolo storico di becchino del capitalismo e, nonostante tutto e tutti, attendiamo la rivoluzione e ci prepariamo a questa, ci prepariamo a raccogliere le corone che rotoleranno, nell’esaurimento generale del sistema produttivo, che è pur tuttavia un bagno di giovinezza per il capitalismo!

La corrispondenza di Engels, per tutto il biennio 1888-1889, torna puntualmente sulla minacciata guerra e sugli effetti che questa avrebbe generato. Scriveva Engels, il 4 gennaio 1888 al romeno Ion Nadejde:

     «In effetti, noi tutti ci troviamo di fronte lo stesso grosso ostacolo che impedisce un libero sviluppo di tutte le nazioni e di ciascuna nazione al suo interno, sviluppo senza il quale non sapremmo affrontare e tanto meno portare a compimento la rivoluzione sociale nei vari paesi, cooperando reciprocamente. Questo ostacolo è la vecchia Santa Alleanza dei tre assassini della Polonia, diretta dal 1815 dallo zarismo russo e continuata fino ai giorni nostri malgrado i contrasti passeggeri (...) Poiché la Russia fruisce di una posizione strategica pressoché inespugnabile, lo zarismo russo costituisce il nucleo di questa alleanza, la grande riserva di tutta la reazione europea. Rovesciare lo zarismo, cancellare quest’incubo che pesa sull’Europa intera, ecco a mio avviso la prima condizione dell’emancipazione delle nazioni del centro e dell’est europeo. Una volta annientato lo zarismo, il nefasto potere rivestito oggi da Bismarck crollerà dopo di esso, e il nostro partito operaio marcerà a passi da gigante verso la rivoluzione».

Engels prosegue l’antislavismo di Marx, prosegue nella condanna della reazione autocratica dello zarismo che, mirando a Costantinopoli, minaccia di far precipitare gli avvenimenti in una guerra generale:

     «In questo momento l’alleanza pare dissolta, la guerra imminente. Ma se pure ci sarà la guerra, sarà solo per ricondurre la Prussia e l’Austria all’ubbidienza. Io spero che la pace durerà; in una simile guerra non sarebbe possibile simpatizzare con alcuno dei contendenti, al contrario si augurerebbe loro d’essere sconfitti tutti, se fosse possibile. Sarebbe una guerra terribile ma comunque andrà, ogni cosa tornerà a vantaggio del movimento socialista, avvicinerà la presa del potere da parte della classe operaia. Perdoni queste elucubrazioni, ma in questo momento non potevo scrivere ad un romeno senza esprimere la mia opinione su tali questioni scottanti. Essa si riassume così: una rivoluzione in Russia adesso salverebbe l’Europa dalle sciagure di una guerra generale e darebbe il via alla rivoluzione sociale universale».

Engels riprende le considerazioni svolte presentando l’opuscolo di Borkheim, ribadisce chiare nozioni di disfattismo e antipatriottismo che nel 1914 furono sommerse dall’ondata socialpatriottica, e di fronte alla guerra si augura una rivoluzione in Russia o che il pericolo di pace duri per permettere ulteriore crescita al movimento proletario internazionale. Tre giorni dopo scrivendo a Sorge, Engels tornerà di nuovo sullo stesso argomento sviluppando ancora il filo del ragionamento:

     «Speriamo che la minaccia di guerra si allontani – le cose vanno talmente secondo i nostri desideri in ogni modo, che possiamo benissimo risparmiarci il fastidio di una guerra generale, e gigantesca quant’altre mai, anche se alla fin fine anche questo dovrebbe andare a nostro vantaggio (...) Una guerra invece ci porterebbe indietro di anni. Lo sciovinismo sommergerebbe tutto, perché sarebbe una lotta per l’esistenza. La Germania schiererebbe circa 5 milioni di soldati, ossia il 10% della popolazione, gli altri intorno al 4-5%, la Russia relativamente meno. Ma ci sarebbero dai 10 ai 15 milioni di combattenti. Vorrei sapere come pensano di nutrirli; sarebbe una rovina come quella della guerra dei trent’anni.

     «E una soluzione rapida è impensabile, nonostante che le forze in campo siano gigantesche. La Francia infatti è protetta ai confini a nord-ovest e a sud da costruzioni difensive molto estese, e le nuove fortificazioni di Parigi sono esemplari. Perciò si andrà per le lunghe, e anche la Russia non si può certo sopraffare in un sol colpo. Quindi, anche se tutto va secondo i desideri di Bismarck, alla nazione si richiederà quanto mai in passato, ed è possibile che il rinvio della vittoria decisiva e sconfitte parziali provochino uno sconvolgimento interno. Se poi i tedeschi fossero battuti e costretti a lungo sulla difensiva, la cosa sarebbe certa. Se si combattesse fino alla fine senza che all’interno si muova nulla avremo un esaurimento come l’Europa non ne conosce da 200 anni. L’industria americana vincerebbe su tutta la linea, e noi saremo di fronte all’alternativa: o regredire semplicemente all’agricoltura per uso interno (il grano americano non lascia altra possibilità), oppure una trasformazione sociale. Perciò non penso che nessuno abbia l’intenzione di portare la situazione agli estremi, di andare al di là di una guerra soltanto apparente; ma appena si sparerà il primo colpo il cavallo prenderà la mano al cavaliere, e partirà di gran carriera.

     «Insomma, guerra o pace, tutto spinge verso il momento decisivo, e io devo sbrigarmi a finire col III Libro. Ma gli eventi esigono che io mi tenga au courant, e ciò porta via molto tempo, specie per le cose militari».

I brani sono potenti. Engels ha fiducia che la rivoluzione possa alla fine prendere alla gola i regimi capitalistici sopravvissuti alla guerra ma avverte che la guerra porterebbe indietro di anni il movimento socialista, che lo sciovinismo sommergerebbe tutto. La rivoluzione è attesa dalla Germania se gli eventi militari vedevano sconfitte tedesche o la loro difensiva. Sarebbe spettato al partito socialdemocratico tedesco l’onore di rivolgimenti interni se, seppure arretrando, avesse avuto la forza di mantenere il Nord rivoluzionario. Ma, nel caso contrario, una lunga guerra avrebbe esaurito l’intera Europa, avrebbe compromesso le stesse conquiste del moderno capitalismo accettate come base del marxismo e, come più volte abbiamo scritto, il capitalismo si rigenererà in un bagno di giovinezza. La chiusa è uno sberleffo per i “pratici”: guerra o pace i nodi venivano al pettine ed insieme agli studi militari Engels vuol sbrigarsi con la pubblicazione del III Libro del Capitale, altro che barriere fra Teoria, Programma e Tattica come pretende l’opportunismo!

Le lettere successive ripartono per più versi da questi punti fermi. Ammesso che momentaneamente il movimento socialista rinculi e che una lunga guerra distrugga le stesse conquiste materiali del capitalismo, Engels, senza minimamente cedere al pacifismo, spera che il perdurare della pace fra gli Stati dia tempo alla rivoluzione sociale di tornare sulla scena come autonomo fattore di storia. Scrive a Lafargue il 7 febbraio 1888:

     «La eventualità della guerra mi ha di nuovo cacciato negli studi militari. Se la guerra non si fa tanto meglio. Se però scoppia – ciò dipende da tutta una serie di avvenimenti imprevedibili – spero che i russi siano battuti e che sul confine francese non accada nulla di decisivo – allora sarà possibile una riconciliazione. Con cinque milioni di tedeschi chiamati alle armi per cose che non li riguardano, Bismarck non sarebbe più il padrone».

Ed ancora a Sorge il 22 febbraio:

     «Spero che non si arrivi alla guerra, anche se in tal caso avrò fatto inutilmente i miei studi militari, che ho dovuto riprendere proprio ora per il gran parlare di guerra (...) Guerra o no, tutto ci porta verso una crisi. La situazione russa non può continuare così a lungo. Gli Hohenzollern sono spacciati, il principe ereditario mortalmente malato, suo figlio uno storpio, un arrogante luogotenente. In Francia il crollo della repubblica borghese degli sfruttatori è sempre più imminente; come nel 1847, gli scandali minacciano una révolution du mepris. E qui da noi si impadronisce sempre più nelle masse un socialismo istintivo, che per fortuna in tutte le sue formulazioni precise va ancora in senso contrario al dogma dell’una e dell’altra organizzazione socialista, ma che a maggior ragione farà sì che esse si interessino di un evento decisivo. Basta solo che ci si porti in un posto qualunque, e i borghesi si stupiranno di questo socialismo nascosto, che allora uscirà allo scoperto e sarà sotto gli occhi di tutti».

Se la pace avrebbe permesso alla Rivoluzione di accumulare forze maggiori, gli eventi militari avrebbero potuto avere un risultato enormemente positivo, per tutto il movimento internazionale: la rivoluzione a Pietroburgo avrebbe tolto a tutti i contendenti il campione della reazione per eccellenza: lo zarismo.

Scrive Engels a W. Liebknecht, 23 febbraio 1888:

     «I russi sono sempre più impelagati nella loro indecisione, e poi va a finire che non riescono a uscirne con onore. Il pericolo è questo. D’altronde se scendessero in guerra sarebbero dei perfetti asini (...) Cosa poi potrà venirne fuori, se davvero si arriverà ad una guerra, non è possibile prevederlo. Si proverà senz’altro a limitarsi a una guerra soltanto apparente, ma non sarà così facile. Quello che sarebbe meglio per noi, e che è assai probabile che accada, è una guerra di posizione con esito incerto al confine francese, una guerra offensiva con conquista delle forze polacche al confine russo, e la rivoluzione a Pietroburgo, che faccia vedere all’improvviso ai signori della guerra tutto in altra luce. Comunque è sicuro: non ci saranno più soluzioni rapide e marce trionfali né verso Berlino, né verso Parigi. La Francia è molto forte e difesa in modo abile, le fortificazioni di Parigi, sistemate come sono, sono magistrali».

La grande guerra del 1914, vedrà la previsione di Engels realizzarsi, si avrà la guerra fra le razze unite di slavi e latini contro quella tedesca; il fronte occidentale bloccato e le bastonate tedesche all’esercito russo avranno ripercussioni interne, lo Zar schianterà dal suo trono e la rivoluzione democratica passerà il testimonio a quella proletaria di Lenin. Mancherà l’occidente dove, come temeva Engels, lo sciovinismo sommergerà tutto e la socialdemocrazia, anziché solamente perdere qualche posizione, passerà armi e bagagli al nemico di classe, tradimento che l’intero movimento proletario sconterà nonostante il ciclopico tentativo di Lenin e del Comintern moscovita di ricomporre il partito proletario mondiale e di condurlo verso il vittorioso assalto.

I primi due mesi del 1888 videro il Reichstag discutere per il prolungamento per altri cinque anni della legge antisocialista; il dibattito parlamentare aveva subito fatto prevedere una vittoria dei pochi deputati socialdemocratici ed una personale sconfitta di Bismarck. Singer e Bebel fin dall’inizio riuscirono ad inchiodare il governo che, né sbandierando il pericolo interno, né quello esterno riuscì a spuntarla. La legge antisocialista fu prolungata non per cinque ma per due anni, successo per un partito che mai aveva chiesto che fosse abolita per lesa democrazia ma che non perdeva occasione per ribadire che nessuna misura poliziesca avrebbe infine sconfitto il partito rivoluzionario, capace di rispondere su qualsiasi terreno, e che costantemente ingrossava le sue file.

Engels, cosciente di questa forza, aveva scritto il 10 gennaio, a Liebknecht: «In ritardo, buon anno, e che la pace si mantenga all’interno come all’esterno: non vorrei né la guerra né colpi di Stato mentre tutto va così a gonfie vele». E se la guerra ci fosse stata, se la borghesia fosse uscita dalla sua legalità? Il vecchio Engels, lo vedremo, aveva già la risposta: il proletariato ed il suo partito staranno allora sul terreno della violenza e lì giocheranno la decisiva battaglia, se possibile sceglieranno loro il momento, ma sono pronti a tutto!


Per l’indipendenza del partito in Francia

Questione interessante anche quella di Boulanger, il Generale che capeggiava in Francia il movimento revanscista. Il 10 aprile 1888 Engels così scriveva a Laura Marx, deridendo lo sciovinismo francese che, ammalato di grandeur, sognava la “rivincita”: «Il boulangerismo è la giusta e meritata punizione per la vigliaccheria di tutti i partiti al cospetto di quello sciovinismo borghese che pensa di poter arrestare l’orologio della storia universale, finché la Francia non ha riconquistato l’Alsazia».

È invece dalla lettera, sempre di Engels a Laura, del 15 luglio che traiamo questi brani in cui, oltre a ribadire quanto una nuova guerra franco-prussiana fosse pericolosa per l’intero movimento proletario, si ha una confutazione della teoria del “grande uomo politico” che deve avere intorno a sé le masse: «Decisamente, se il Secondo Impero era la caricatura del primo, la Terza Repubblica diventa la caricatura non solo del primo, ma anche del secondo. In ogni caso speriamo che questa sia la fine di Boulanger giacché se la popolarità di quell’imbecille durasse ancora questo spingerebbe lo Zar tra le braccia di Bismarck, e ciò che noi non desideriamo assolutamente è la guerra di revanche franco-tedesca. Se in Francia le masse popolari hanno bisogno assoluto di un dio personificato, meglio farebbero a cercarsi un altro uomo: quello lì le rende ridicole».

Seguiva un severo appunto alla tattica del partito socialista che appoggiava i boulangeristi contro i radicali al governo: «Che i nostri combattano i radicali va benissimo, è loro compito precipuo, ma li combattano sotto la propria bandiera (...) Il nostro compito non è quello di complicare, bensì semplificare e chiarire le controversie tra radicali e noi». Engels sarebbe rimasto sbigottito se avesse potuto vedere a cosa mai avrebbe portato il parlamentarismo e cosa sarebbe rimasta dell’indipendenza e delle bandiere del partito proletario! Ma tant’è, trangugiamo la cicuta di altri cento anni di vita parlamentare e proseguiamo.

     «La situazione in Francia sembra davvero molto strana – i nostri amici, per il loro odio contro i radicali, hanno preso poco sul serio Boulanger, e adesso si accorgono che costituisce un pericolo reale – egli ha in ogni caso dalla sua i quadri inferiori dell’esercito, ed è una forza da non sottovalutare. Comunque il modo con cui quel tipo non solo accetta, ma sollecita l’appoggio dei monarchici, lo rende ai miei occhi più spregevole dei radicali stessi. Speriamo che la logica inconsapevole della storia francese superi le consapevoli offese alla logica commesse da tutti i partiti – non bisogna però dimenticare che la forma di ogni sviluppo inconsapevole è la Negation der Negation, il movimento per contrasti, vale a dire, in Francia, repubblicanesimo (o rispettivamente socialismo) e bonapartismo (o boulangismo). E l’avènement di Boulanger significherebbe una guerra europea – proprio ciò che è più da temere» (Engels a Laura Marx, 24 novembre 1888).

Più estesamente Engels scriverà, il 4 dicembre 1888, a Lafargue. Indipendenza del partito proletario e della sua critica, determinismo che costringe gli uomini illustri ad essere delle marionette della storia, chiodi che continuamente andiamo a ribattere ancora oggi, fanno da contorno alla vera e propria “questione militare”: lo zarismo è arbitro della contesa fra Francia e Germania con un chiaro risultato controrivoluzionario, l’alleanza con lo zarismo indispensabile ai francesi per muovere guerra segnerebbe l’impossibilità di un assalto rivoluzionario a Parigi, ganglio vitale del sistema capitalistico in Europa:

     «Boulanger, dice Lei, non vorrà la guerra. Si tratta proprio di ciò che vuole quel pover’uomo! Egli deve fare, per amore o per forza, quanto la situazione gli impone. Una volta al potere, è schiavo del suo programma sciovinista, il solo programma che abbia oltre quello della propria ascesa al potere. In meno di sei settimane Bismarck l’avrà avviluppato in una serie di complicazioni, provocazioni, incidenti di frontiera, ecc. per cui Boulanger dovrà dichiarare la guerra oppure abdicare. Lei ha qualche dubbio sul partito che prenderà? Boulanger significa la guerra, questo è quasi assolutamente certo. E quale guerra? La Francia alleata della Russia, e di conseguenza nell’impossibilità di fare una rivoluzione; al minimo moto a Parigi, lo Zar si riconcilierebbe con Bismarck per soffocare una volta per tutte il focolaio rivoluzionario; peggio ancora: una volta incominciata la guerra, lo Zar sarebbe padrone assoluto della Francia e vi imporrebbe il governo che vuole. Pertanto, gettarsi per odio dei radicali tra le braccia di Boulanger, equivale esattamente gettarsi, per odio di Bismarck, tra le braccia dello Zar. È dunque così difficile riuscire a dire che puzzano tutti e due, come diceva la regina Bianca di Heine?»


Engels pacifista?

E Boulanger trionfava. Il 27 gennaio 1889, una elezione suppletiva a Parigi, lo eleggeva deputato con 250 mila preferenze ed Engels scriveva preoccupato a Laura Marx il 4 febbraio 1889:

     «Nell’elezione di Boulanger non posso vedere altro che un tipico risveglio di quella tendenza al bonapartismo che costituisce un elemento del carattere dei parigini. Nel 1799, nel 1848 e nel 1889, questo risveglio è stato causato dal malcontento provocato dalla repubblica borghese, ma la specifica forma che ha preso – l’appello a un salvatore della società – è esclusivamente il prodotto di una corrente sciovinista. E ora è peggio: nel 1799 Napoleone ha dovuto fare un coup d’état per conquistare quei parigini che in vendemmiaio aveva fucilato; nel 1889 sono stati i parigini stessi ad eleggere un boia della Comune. In parole dolci, Parigi ha abbandonato, almeno per ora, il suo rango di città rivoluzionaria, non dinanzi ad un coup d’état vittorioso e in piena guerra come nel 1799, non sei mesi dopo una sconfitta schiacciante come nel dicembre 1848, bensì in piena pace, 18 anni dopo la Comune e alla vigilia di una probabile rivoluzione (...) Ora Boulanger sarà sicuramente padrone della Francia, a meno che non commetta qualche sciocchezza intollerabile e che i parigini ne abbiano piene le tasche di lui. Se la cosa passa senza una guerra, tanto di guadagnato, però il pericolo è grande. Bismarck ha tutti gli interessi di spingere verso la guerra perché Guglielmo fa del suo meglio per rovinare l’esercito tedesco mettendo i suoi protetti al posto dei vecchi generali e, se va avanti così, entro cinque anni i tedeschi saranno comandati da dei babbei e somari presuntuosi. E come potrà Boulanger, una volta al potere, sopravvivere alla generale delusione che probabilmente provocherà, senza ricorrere alla guerra – non riesco ad immaginarlo».

Lo sciovinismo aveva spinto in alto Boulanger che, prigioniero del suo programma revanscista, avrebbe dovuto rispondere a Bismarck e alle sue eventuali provocazioni se, come temeva Engels, Boulanger avesse tratto dalla vittoria elettorale la spinta decisiva per il ristabilimento di un regime monarchico in Francia. La Francia aveva abdicato totalmente al suo ruolo rivoluzionario che adesso spettava ai tedeschi e al suo invitto partito socialdemocratico che, dopo aver fronteggiato il nemico interno, le leggi eccezionali contro i socialisti, si trovava ora minacciato dagli eventi della politica internazionale che vedevano ogni giorno di più stringersi una micidiale alleanza fra Parigi e Pietroburgo. Scriverà Engels a Paul Lafargue, il 25 marzo 1889:

     «Bello spettacolo al quale è chiamato l’universo – vedere la Francia celebrare il giubileo della rivoluzione mentre si inginocchia dinanzi a quell’avventuriero di Boulanger! (...) Quanto alla guerra, è secondo me l’eventualità più terribile. Altrimenti non me la prenderei a male per i capricci di madame Francia. Ma una guerra in cui ci saranno da 10 a 15 milioni di combattenti, una devastazione inaudita solo per nutrirli, una soppressione forzata e universale del nostro movimento, una recrudescenza dello sciovinismo in tutti i paesi, e alla fine un indebolimento dieci volte peggiore che dopo il 1815, un periodo di reazione basato sull’esaurimento di tutti i popoli dissanguati – e tutto questo contro la piccolissima possibilità che da questa guerra accanita scaturisca una rivoluzione – questo mi fa orrore. Soprattutto per il nostro movimento in Germania che verrebbe abbattuto, schiacciato, estinto con la forza, mentre la pace ci offre la vittoria quasi certa. E la Francia non potrà fare una rivoluzione durante questa guerra senza gettare la sua unica alleata, la Russia, tra le braccia di Bismarck e vedersi annientata da una coalizione».

La previsione di Engels è chiara: la probabilità che da una guerra accanita esca la rivoluzione è minima, visto che certamente il movimento socialista sarebbe ricacciato indietro e la reazione trionferebbe, come già era successo dopo lo sfasciamento della grande armée di Napoleone in Russia. Engels vedeva nel lento ma sicuro crescere del movimento socialista in Germania la vittoria e sperava che niente interrompesse la sua marcia in avanti. Ma la pace in Europa non bastò e il progresso del potente partito socialdemocratico, per venti e più anni ancora, non sfocerà in nessuna vittoria e, quando nell’agosto 1914 la grande guerra imperialista verrà, si avrà l’enorme rinculo del movimento proletario internazionale. Ancora peggio per la seconda guerra imperialista a cui tutti i partiti e tutti gli Stati parteciperanno in perfetta “union sacré” ed in cui, per la totale assenza del partito di classe, ridotto a minimi termini ed ininfluente, non si poteva avere neanche la possibilità che dalla guerra scaturisse la rivoluzione.

Ma qui non prevediamo ancora quel che gli eventi prodotti dal procedere dei sommovimenti economici possono determinare sul corso storico e sociale della lotta di classe internazionale; modestamente intanto mostriamo come da sempre la nostra scuola, nell’indagare gli avvenimenti storici e nell’anticiparsi gli effetti che gli avvenimenti di guerra hanno sul movimento di classe, per meglio definire la tattica che questi deve condurre, rifugga da moralismi ed idealismi di qualsiasi tipo e come, senza ottimismo di maniera o pessimismo piagnone, sia capace di leggere la storia ed anche le sue non favorevoli sentenze per il corso della lotta di classe.

Le fortune di Boulanger rapidamente tramontarono come rapidamente erano sorte. I repubblicani indovinarono una efficace campagna di stampa contro il generale, smascherandone i legami con i circoli monarchici che ne finanziavano l’attività. Per paura di essere arrestato Boulanger fuggì in Belgio, screditando così la sua figura di eroe revanscista e indomito. Nelle elezioni del settembre-ottobre 1889, i boulangisti, abbandonati dal loro capo, subirono una disfatta completa.

Scriverà Engels a Paul Lafargue, il 3 ottobre:

     «Quel che è certo è che il boulangismo è in extremis. E ciò mi pare molto importante. Era il terzo attacco della febbre bonapartista; il primo con un vero e grande Bonaparte, il secondo con il falso Bonaparte, il terzo con un uomo neppure falso Bonaparte, ma semplicemente falso eroe, falso generale, falso tutto, la parte principale del quale era il suo cavallo nero».

Quali gli effetti sugli avvenimenti internazionali?

     «La sconfitta di Boulanger almeno ritarderà la guerra; ma la crescita degli armamenti di tutte le potenze spingono nell’altro senso. E se c’è la guerra, addio movimento socialista per qualche tempo. Saremo ovunque annientati, disarticolati, privati della nostra libertà di movimento. La Francia, attaccata al carro della Russia, non potrà muoversi, dovrà rinunciare ad ogni pretesa rivoluzionaria sotto pena di vedere il suo alleato passare all’altro campo; le forze pressappoco uguali da una parte e dall’altra, e l’Inghilterra in grado di far pendere la bilancia dal lato che preferirà».

L’anno 1890 vide subito significative vittorie dei socialdemocratici tedeschi. Il 25 gennaio, il Reichstag respingeva la proroga delle leggi eccezionali contro i socialisti (sarebbero decadute il 1° ottobre) e questa prima sconfitta di Bismarck contribuì ad una seconda, ben più grave. Il 20 febbraio 1890, si svolsero in Germania le elezioni del Reichstag e il trionfo socialdemocratico fu netto: 35 deputati, 1 milione e 427 mila voti, quasi il doppio rispetto a quelli del 1887, fecero della socialdemocrazia il primo partito tedesco ed il primo partito operaio, come adesioni e chiarezza teorica, di tutti i continenti.

Engels scriveva eccitato il 7 marzo 1890 a Lafargue:

     «Il 20 febbraio è la data di inizio della rivoluzione in Germania; perciò abbiamo il dovere di non lasciarci annientare prima del tempo. Non abbiamo che un soldato su 4 o 5 e, in procinto di guerra, forse 1 su 3. Prendiamo piede nelle campagne, le elezioni nello Schleswig-Holstein, e soprattutto nel Mecklemburgo, come pure nelle provincie orientali della Prussia l’hanno dimostrato. Entro 3 o 4 anni avremo dalla nostra parte i contadini e i braccianti, cioè il più solido sostegno dello status quo, e allora non esisterà più la Prussia. Ecco perché per il momento dobbiamo proclamare l’azione legale, e non rispondere alle provocazioni che ci verranno prodigate. Perché senza un salasso, e in più molto forte, non c’è salvezza per Bismarck e Guglielmo».

Ma se, per scelta tattica, il partito tedesco doveva momentaneamente stare sul terreno legale, non ci doveva essere un rifiuto di principio dell’uso della violenza che – infine – sarebbe stato l’unico mezzo con il quale la nuova società sarebbe venuta alla luce rompendo l’intera struttura repressiva ed opprimente della vecchia. Scriveva Engels, il 9 marzo 1890, a Liebknecht, che per l’occasione si meritava una tirata di orecchie:

     «In tre anni possiamo conquistare i lavoratori della terra, e allora avremo il reggimento centrale dell’esercito prussiano. E per impedirlo non c’è che un mezzo, ed è il solo punto su cui Guglielmo e Bismarck siano ancora d’accordo: un energico uso delle armi da fuoco, con l’inevitabile terrore acuto (...) Questo dobbiamo impedirlo. Non possiamo lasciarci confondere nella marcia trionfale, rovinare il nostro stesso gioco e impedire ai nostri nemici di lavorare per noi. In questo sono perciò del tuo parere, per ora dobbiamo essere quanto più possibile pacifici e legali, ed evitare ogni pretesto di scontro. Ritengo in verità fuori luogo le tue filippiche contro la violenza in qualsiasi forma e in qualsiasi circostanza, primo perché comunque nessuno avversario ti crederà – non sono poi così sciocchi – e secondo perché stando alla tua teoria io e Marx saremmo anche noi degli anarchici, dato che non fummo mai disposti a porgere da bravi quaccheri anche la guancia sinistra a qualcuno che ti schiaffeggiasse sulla destra. Stavolta hai decisamente passato un po’ il segno».

Non poteva immaginarsi Engels quanto poi avrebbero “passato il segno” i falsi partiti operai che adesso si dicono socialisti e comunisti. Da un momentaneo uso, da parte di un partito fortissimo, della pace e della legalità siamo passati a una difesa tout court della legalità, il per ora è diventato un per sempre e se i poteri borghesi cercano di uscire o escono dalla legalità ci si dà a lì riportarli, anziché rispondere con le armi ed il terrore rosso alle armi ed al terrore bianco! Se Liebknecht si meritò un buffetto, oggi siamo in presenza di veri traditori che come tali vanno trattati.

Il trionfo del partito socialdemocratico tedesco nelle elezioni del 1890 era magnificamente commentato – sempre da Engels – in un articolo del novembre 1891, Il socialismo in Germania:

     «Ma i voti degli elettori sono lontani dal costituire la forza principale del socialismo tedesco. In Germania non si è elettori che all’età di 25 anni, ma a 20 anni si è già soldati. Ora, come è precisamente la giovane generazione che ha fornito al partito la gran parte delle sue reclute, si avrà che l’esercito tedesco diverrà sempre più infetto di socialismo. Oggi, noi abbiamo un soldato su cinque, fra qualche anno ne avremo uno su tre; verso il 1900 l’esercito, cioè a dire l’elemento prussiano per eccellenza, sarà socialista nella sua maggioranza. Risultato che si impone come una fatalità. Il governo di Berlino vede avverarsi ciò esattamente come noi, ma è impotente. L’esercito gli scappa.

     «Come è stato una volta per i borghesi, noi non ci sogniamo di rinunciare per sempre all’impiego dei mezzi rivoluzionari; ora che le leggi eccezionali sono decadute e che il diritto comune è ristabilito per tutti, compresi i socialisti!

     «Disgraziatamente, non siamo qui per far piacere ai signori borghesi. Questo non vuol dire che, per il momento, si sia noi ad uccidere la legalità. Questa lavora così bene per noi che saremmo dei folli se ne uscissimo fin che questa dura. Resta da sapere se non saranno i borghesi ed il loro governo ad uscirne per primi per tentare di schiacciarci con la violenza. È questo che noi attendiamo. Tirate per primi, signori borghesi! Nessun dubbio, essi tireranno per primi. Un bel giorno, i borghesi tedeschi ed il loro governo, disgustati di assistere, le braccia incrociate, al continuo crescere del socialismo, faranno ricorso alla illegalità e alla violenza. Bene! La forza può schiacciare una piccola setta, perlomeno su un terreno limitato; ma non c’è forza per estirpare un partito di due milioni di uomini sparsi su tutta la superficie di un grande impero. La violenza controrivoluzionaria, fin tanto che durerà la sua forza superiore, può ritardare di qualche anno il trionfo del socialismo, ma servirà d’altronde per renderlo più completo».


Lezioni delle controrivoluzioni

Purtroppo per noi, i borghesi ed il governo tedesco non fecero ricorso al terrore ed alla illegalità, benché spaventati dal crescere delle forze socialiste che approfittavano dello sviluppo pacifico del capitalismo per ingrossare a dismisura le loro file. La loro arma sarà peggiore perché incruenta e sorta dall’interno dal movimento proletario: la teoria riformista e gradualista che avrebbe fatto del parlamento l’unica arena dell’azione proletaria, mentre la questione fondamentale della conquista del potere – con mezzi rivoluzionari e del maneggio del terrore per mantenerlo – sarebbe stata riposta nel cassetto, con danno enorme per l’intero movimento internazionale. Se il bilancio della potente socialdemocrazia tedesca sarà infine fallimentare, ciò non è una smentita delle previsioni di Engels, ma ci è una ulteriore lezione della intelligenza di classe dello Stato borghese, capace con abili concessioni di irretire e corrompere capi e partiti proletari, in altre occasioni loro indicibili avversari.

Il corso storico della lotta di classe è stato questo; il compito del partito non è negare la storia ma rintracciare nell’azione passata del partito formale, con le sue alterne ed anche tragiche vicende, la continuità dei nostri principi, del nostro programma e della nostra tattica, traendo dalla storia le terribili “lezioni delle controrivoluzioni” con inequivocabili consegne per la futura azione del partito.

Ancora. Scrive Engels a Lafargue il 31 gennaio 1891:

     «In Germania la nostra gente è una forza reale, da 1 e mezzo a 2 milioni di elettori, l’unico partito disciplinato ed in costante aumento. E se il governo si augura dimostrazioni dei socialisti è solo perché vuole attirarli in una sommossa in cui poterli annientare e liquidare per una decina di anni. La migliore dimostrazione dei socialisti tedeschi è la loro esistenza, e il loro avanzare lento, regolare, inarrestabile. Noi siamo ancora ben lontani dal poter condurre una campagna in campo aperto, e nei confronti dell’Europa intera e dell’America abbiamo il dovere di non subire alcuna sconfitta, ma, al momento opportuno, di vincere nella prima, grande battaglia».

Secondo queste considerazioni, alle quali subordinava ogni cosa, Engels sperava che il momentaneo periodo di pace continuasse, permettendo al partito tedesco di prepararsi nel migliore dei modi alla decisiva battaglia finale, che sarebbe inevitabilmente stata armi alla mano ed all’ultimo colpo. Scriveva a Bebel il 1-2 maggio:

     «Dobbiamo sfruttare il ripresentarsi del disordine generale nella macchina statale. Se solo durasse la pace, grazie al timore generale di fronte agli esiti di una guerra».

La identica valutazione la ripeté il 9-11 agosto 1891, scrivendo a Sorge:

     «E il nostro partito cresce enormemente – questa cattiva annata ci porta avanti di 5 anni a prescindere dal fatto che impedisce la guerra, che costerebbe centinaia di volte più vittime (...) Nella Prussia orientale si sono svolte due elezioni per il parlamento – enorme crescita dei nostri voti. Finalmente i distretti rurali si aprono – Cela marche! Allora, con l’aiuto del rincaro potremo vederne delle belle di qui al 1900, se non finiamo male prima».

La carestia alla quale si riferiva Engels, interessava la Russia, enorme riserva della controrivoluzione internazionale, che aveva la possibilità, scatenando una guerra antitedesca, di far finir male la socialdemocrazia, centro proletario internazionale dal 1871 quando l’esito della guerra franco-prussiana aveva determinato lo spostamento del centro di gravità da Parigi a Berlino. Ora, dopo il primo prestito di 500 milioni di franchi del 1887, l’indebitamento di Pietroburgo verso le banche francesi era vieppiù cresciuto ed all’inizio del 1890 aveva già toccato la ragguardevole cifra di due miliardi e 600 milioni di franchi. Gli intensificati legami economici franco-russi aprirono la via ad un rapido avvicinamento politico fra i due governi, ambedue in antagonismo con l’Inghilterra riguardo l’espansione coloniale, ed ambedue con evidenti motivi di scontro riguardo la coalizione germanico-austriaca in Europa (la Francia per l’Alsazia e la Lorena, la Russia per i Balcani). Il luglio 1891 vide la flotta francese ricevuta trionfalmente alla base di Kronstadt, davanti a Pietroburgo, e l’inizio di trattative diplomatiche che portarono, nell’agosto 1892, ad un trattato che prevedeva una consultazione comune in politica internazionale ed anche un’azione militare comune in caso di attacco ad uno dei due paesi firmatari. Il trattato franco-russo preparò la vera alleanza fra Parigi e Pietroburgo del 27 dicembre 1893 e 4 gennaio 1894.

L’isolamento francese era finito, Parigi aveva raccolto la mano di Pietroburgo ed adesso, per la gioia dello sciovinismo francese, era la Germania ad essere stretta da oriente e da occidente.

Scriveva Engels a Lafargue, il 17 agosto 1891:

     «Mentre gli sciovinisti francesi e i panslavisti russi fraternizzano tra loro e si acclamano a vicenda, questo dato di fatto della carestia annulla tutte le loro manifestazioni. Con la carestia nel paese lo Zar non può combattere. Il massimo che può fare è approfittare dell’attuale stato d’animo della borghesia francese per i propri scopi, e perciò egli infuria e minaccia ma non attaccherà, e se la borghesia francese dovesse oltrepassare i limiti l’abbandonerà a se stessa (...) In ogni caso la pace per quest’anno e per gran parte del prossimo è assicurata – se qualcuno non perde la testa. Questo è il principale risultato della carestia in Russia».

Mesi dopo, preparato da una precisa intesa con Bebel e Lafargue, Engels fece pubblicare prima in francese poi in tedesco il testo già citato, Il socialismo in Germania, che riassumeva i veri termini della questione e il rapporto fra la possibile guerra, la rivoluzione e l’azione del partito socialista tedesco di fronte agli avvenimenti di guerra:

     «Senza alcun dubbio: di fronte a questo Impero tedesco, la Repubblica francese, così com’è, rappresenta la rivoluzione, borghese è vero, ma sempre la rivoluzione. Ma giacché questa repubblica si mette agli ordini dello zarismo russo, non è più la stessa cosa. Lo zarismo russo è il nemico principale di tutti i popoli occidentali, anche delle borghesie di tutti questi paesi! Le orde zariste, invadendo la Germania, vi porterebbero la schiavitù al posto della libertà, la distruzione al posto dello sviluppo, l’abbrutimento al posto del progresso. Abbracciata, abbracciata con lo Zar, la Francia non può portare alla Germania nessuna idea liberatrice; il generale francese che parla ai tedeschi di repubblica fa ridere l’Europa e l’America. È l’abdicazione del ruolo rivoluzionario della Francia; è permettere all’impero bismarckiano di mostrarsi come il rappresentante del progresso occidentale contro la barbarie dell’Oriente».

La citazione svolge le considerazioni fin qui svolte. L’area grande slava, il cui cuore è rappresentato dalla Russia zarista, attende ancora un moto antiautocratico e antifeudale che avrebbe dovuto vedere gli operai della nascente industria capitalistica lottare armi alla mano, insieme alle altre classi e alla stessa borghesia russa, se tanto avesse osato. La Russia è la reazione, ed ogni Stato che appoggia il regime dello zar si piazza, automaticamente, nel campo della reazione autocratica e feudale. Nessuna antipatia nazionale o simpatie tedescofile quindi, ma materialistico apprezzamento delle forze sociali in gioco.

Si prosegue:

     «Che farà in simili circostanze il partito socialista tedesco? Bisogna subito dire che né lo Zar né i repubblicani borghesi, né il governo tedesco stesso si lasceranno scappare una così buona occasione per schiacciare il solo partito che è, per tutti, il nemico. Noi abbiamo visto come Thiers e Bismarck si sono dati la mano sopra le rovine della Parigi della Comune; noi vedremo allora lo Zar, Constants, Caprivi (o qualunque loro successore) darsi la mano sul cadavere del socialismo tedesco».

Il richiamo alla Comune è decisivo. Il socialismo tedesco si troverà contro tutti i partiti e tutti i governi, sa di essere il nemico di tutti e essere solo contro tutti, ma il partito è forte e compatto, rafforzato dalle stesse leggi eccezionali e deve essere capace di mantenere le sue posizioni:

     «Il socialismo tedesco occupa nel movimento operaio internazionale la posizione più avanzata, la più onorevole, la più responsabile; esso deve mantenere questo posto verso e contro tutti».


Ritardo di decenni

La vittoria della Russia sulla Germania significherebbe schiacciare il movimento socialista e i socialisti tedeschi, nell’interesse della rivoluzione proletaria, sono tenuti a difendere tutte le loro posizioni, difendendole dalla reazione russa e da tutti i suoi alleati:

     «Se la repubblica francese si mette al servizio di Sua Maestà lo Zar e dell’autocrazia di tutte le Russie, i socialisti tedeschi la combatteranno, a malincuore, ma la combatteranno lo stesso. La Repubblica francese può rappresentare, di fronte all’Impero tedesco, la rivoluzione borghese. Ma di fronte alla repubblica dei Constants, dei Rouvier, e anche dei Clemenceau, soprattutto della repubblica che lavora per lo Zar russo, il socialismo tedesco rappresenta la rivoluzione proletaria. Una guerra in cui la Russia e la Francia invadano la Germania sarebbe per questa una guerra a morte in cui, per assicurarsi la sua esistenza nazionale, dovrà far ricorso ai mezzi più rivoluzionari. Il governo attuale certamente non aizzerà la rivoluzione, a meno che non lo si sforzi. Ma c’è un partito forte, che lo forzerà o, in caso di bisogno, lo rimpiazzerà: il partito socialista».

Il filo si snoda: la Russia minaccia l’esistenza nazionale tedesca, di far rinculare il progresso capitalistico, di schiacciare il partito socialista più potente del mondo che sa di avere tutti contro. La Germania - accerchiata – dovrà difendersi con mezzi rivoluzionari, ed Engels qui vede un parallelo con la Francia del 1793 accerchiata dalla reazione europea. Allora, le stesse esigenze militari fecero sì che il partito estremo dei sanculotti fosse spinto a prendere il potere e si augura che un similare intreccio di esigenze nazionali e esigenze classiste permetta ai socialisti tedeschi di arrivare al potere (come fecero i sanculotti francesi) ed infine di sgozzare il governo di Bismarck innalzando il rosso vessillo. Di nuovo aleggia il fantasma della Comune rossa e proletaria che, lo abbiamo visto, ebbe come sua prima bandiera il termine infamante di capitulards. Riassume Engels:

     «La pace assicura la vittoria del partito socialista tedesco in una dozzina di anni; la guerra gli offre o la vittoria, in due o tre anni, o la rovina completa, minimo per quindici o venti anni. In questa posizione, i socialisti tedeschi dovrebbero essere folli per preferire il tutto per tutto della guerra al trionfo sicuro che gli promette la pace. Di più: nessun socialista, non importa di quale paese, può desiderare il trionfo militare, sia del governo tedesco attuale, sia della repubblica borghese francese; ancora meno quello dello Zar che equivalerebbe al soggiogamento dell’Europa. Ecco perché i socialisti chiedono dappertutto che la pace sia mantenuta. Ma se, nonostante ciò, la guerra deve scoppiare, una cosa è certa. Questa guerra, in cui da quindici a venti milioni di uomini armati si sgozzeranno e devasteranno l’Europa come mai è stata devastata, questa guerra o condurrà al trionfo immediato del socialismo, o scuoterà talmente il vecchio ordine delle cose, essa lascerà dietro di sé un tale cumulo di rovine che la vecchia società capitalistica diverrà più impossibile che mai, e la rivoluzione sociale, ritardata da dieci a quindici anni, sarebbe più radicale e più rapidamente si estenderà».

Come si può notare ci sono tutte le considerazioni svolte in questa prima parte del lavoro; l’indagine marxista deve intendere la guerra come un episodio del generale movimento economico e sociale e, rigettando ogni astratta categoria, deve fissare precisi punti: che tipo di guerra abbiamo di fronte? quale la forza del partito di classe? quale la forza del proletariato e delle sue organizzazioni? quali effetti sul corso rivoluzionario determinerà un certo risultato militare anziché un altro?

Con questo criterio materialistico Engels tenta non facili profezie; che in parte non si sono verificate non inficia il nostro metodo di indagine della storia.

La pace durerà in Europa ancora la bellezza di quasi 23 anni, fino all’agosto 1914, e già nella presentazione in tedesco dello stesso scritto pochi mesi dopo Engels rilevava come la carestia e il fallimento della sottoscrizione di un prestito francese al governo zarista, aveva allontanato di anni i “clamori guerreschi” di Pietroburgo.

Ma, nonostante il lungo periodo di pace, la socialdemocrazia tedesca non tenterà di rovesciare l’Impero e subirà l’assalto delle tesi revisioniste e riformiste, il lungo periodo di pace annacquerà lo spirito rivoluzionario di quel partito. Non si avrà quindi la guerra né la temuta rovina del socialismo tedesco per quindici o venti anni, né il socialismo tedesco poté approfittare degli eventi militari per tentare di sgarrottare il proprio governo e condurre una guerra con mezzi rivoluzionari contro la reazione russa ed i suoi alleati.

La guerra, la grande guerra europea si avrà dopo due decenni e sarà nel suo complesso una guerra imperialista; lo Zar sarà di nuovo alleato delle razze latine contro quella tedesca, ma allora non si potrà più distinguere fra progresso da una parte e reazione dall’altra ed a maggior ragione fu tradimento desiderare per i partiti della Seconda Internazionale la vittoria militare del proprio governo, che Engels aveva già bollato come una soluzione rinnegata.

Solo nella Russia il partito bolscevico approfittò degli eventi militari e dopo tre anni di guerra innestò nello slancio di una rivoluzione borghese il convoglio della rivoluzione proletaria internazionale. Negli altri paesi lo sciovinismo sommerse tutto e si ebbe l’ipotesi peggiore, della rovina completa del movimento proletario classista, che invano il Comintern tentò di rimettere sulle sue originarie basi programmatiche e tattiche.

La seconda terribile guerra vedrà di nuovo trionfare la soluzione rinnegata dell’Union sacrée, di nuovo spacciata come scontro fra progresso e reazione: il cumulo di macerie e di morti sarà enorme ma gli eventi sinistri della controrivoluzione staliniana, che avevano distrutto di nuovo il partito di classe, fecero sì che non si ebbe nessuno assalto rivoluzionario ed il ritardo non sarà di soli quindici-venti anni, ma già di quattro lunghi decenni, in cui la controrivoluzione ha celebrato i suoi saturnali e continua a sfidare, sicura della sua  momentanea enorme forza, il proprio nemico di classe: il proletariato mondiale.

(continua)

 

 

 

 

 

 


Impotenza capitalista di fronte ai flagelli della fame e della disoccupazione
Esposto alla riunione di settembre 1984 [RG30]

Lo scopo di questo lavoro, prendendo spunto dalla conferenza internazionale sulla popolazione dell’agosto scorso a Città del Messico, è di ripresentare fedelmente i principi marxisti su due flagelli che, a dire dei nostri avversari, derivano direttamente o indirettamente dall’aumento della popolazione: la fame per mancanza di alimenti e la disoccupazione.

Del primo, come non potevano fare diversamente, anche gli opportunisti di casa nostra se ne occuparono ampiamente, soprattutto il maggiore degli opportunisti, il P.C. italiano. Preoccupati perché, secondo un rapporto della F.A.O., la produzione di generi alimentari nel 1983 è diminuita dell’uno per cento, si sono dati da fare pubblicando sul loro giornale una serie di articoli, uno dei quali, apparso su L’Unità di sabato 11 agosto: Popolazione, fame e sviluppo.

La loro tesi, molto sinteticamente, è questa: nel 1974, in occasione della precedente conferenza sulla popolazione tenutasi a Bucarest, si sosteneva che «la massa degli alimenti prodotta sarebbe sufficiente a garantire la sussistenza di tutta l’umanità se fosse equamente suddivisa, se non lo impedissero i meccanismi dell’oppressione economica, che impongono ai paesi affamati scelte produttive non adatte alle esigenze vitali dei loro popoli»; purtroppo oggi, dieci anni dopo, a loro dire, i meccanismi dell’oppressione economica sono ancora in piedi, «ma, nel 1984, meno di allora, e diventano sempre meno, via via che la popolazione aumenta mentre le risorse non aumentano, anzi si degradano».

Secondo loro, le cause della fame cambiano: la diminuzione della produzione di alimenti pro-capite è sempre più determinata non tanto «dai condizionamenti economici, che impediscono un giusto e razionale utilizzo delle risorse del pianeta, quanto dalla limitatezza di tale risorse». La loro proposta non è nuova: proletari affamati, bisogna occuparsi un po’ meno di lotta di classe e di rivoluzione e frequentare un po’più le università dove, per esempio, studiare l’ecologia è arma sicuramente molto più efficace per risolvere il problema della fame. Poche frasi che sarebbero già sufficienti per scaricare tutto il peso della nostra critica contro questa classica tesi opportunista

Ma proseguiamo fino in fondo, cioè alle loro concrete proposte per aumentare la produzione di alimenti senza alterare, ancora di più, il povero e traballante sistema ecologico. Lasciamoci guidare da L’Unità per le strade della “scienza”, riconoscendo le buone capacità di fantasia e di spirito dell’articolista:

     «La possibilità di aumentare la produzione di cibo su scala planetaria esiste, però entro limiti di diversa natura. Per esempio, una possibilità molto facile di aumentare da un anno all’altro la produzione di cibo consisterebbe nella rinuncia, da parte dei paesi industrializzati, a consumare tè e caffè, così da lasciare spazio alle coltivazioni di piante alimentari. Questa modalità, molto facile tecnicamente, è di difficile realizzazione per motivi di ordine economico e politico».

L’articolista, si è scordato di quella droga, legale sebbene molto nociva, che è il tabacco. Se non si rinuncia alla coltivazione delle droghe, prive di valore alimentare ma di un grosso valore per Stati e mercati, dal punto di vista tecnico «la produzione di alimenti potrebbe essere aumentata in due modi: intensificando la coltivazione delle terre già oggi coltivate, e mettendo a coltura terre incolte». Ma qui bisogna distinguere fra la coltura dei paesi industrializzati e quelle degli altri paesi.

     «Negli Stati Uniti, in Europa, in Canada, in Australia, c’è pochissimo margine per intensificare la coltivazione delle terre già oggi coltivate: anzi, si è già raggiunta una tale intensità di sfruttamento del terreno, che comincia a profilarsi la necessità di diminuirla: in alcune località degli Stati Uniti, per esempio, si sta ritornando alla pratica, abbandonata da vent’anni, di lasciare riposare la terra, cioè si torna alla tradizione del maggese».

In realtà invece l’aumento o la diminuzione della terra coltivata dipende esclusivamente da determinazioni mercantili.

     «È dunque nei paesi del terzo e quarto mondo che si deve cercare di aumentare l’intensità di coltivazione delle terre già attualmente coltivate. È evidente però che sarebbe un grave errore riprodurre in questi paesi i modelli dell’agricoltura europea o statunitense, che per ottenere alte rese di cereali hanno inquinato le acque così di sacrificarne la pescosità e da perdere la potabilità, tanto che oggi per avere un po’ d’acqua potabile sono necessarie soluzioni costose che sarebbero impossibili per i popoli affamati (...) Un elevato dispendio di energia può rendere coltivabili terreni che oggi non lo sono a causa dell’aridità; poiché questa situazione caratterizza il 32% dei terreni attualmente non coltivabili, è facile pensare che l’intervento che più rapidamente porterebbe un contributo decisivo alla soluzione del problema della fame sarebbe l’irrigazione dei terreni aridi.»

     «Ma la faciloneria con la quale la questione è stata affrontata sinora ha provocato in certe località effetti disastrosi: l’irrigazione dei terreni aridi in climi tropicali favorisce la proliferazione di parassiti pericolosi per la salute, tra i quali la schistosoma che può provocare morte, o invalidità, o cecità. Se non ha senso scambiare una tazza di riso con una carpa, o con la potabilità delle acque, non ha senso nemmeno scambiare una scodella d’orzo con la vista degli occhi. Si calcola che siano 250 milioni i malati di schistosoma, che devono la loro sventurata condizione al fatto che vengono irrigate e coltivate – magari con buone rese – terre tropicali (...)»

     «Le trasformazioni necessarie a rendere coltivabile una frazione importante delle terre che oggi non lo sono, richiederebbe una quantità di energia assai maggiore di quella che oggi è disponibile. Ma il vero problema non è questo. Se (ipotesi non molto probabile) venisse risolto il problema della fusione nucleare, che renderebbe disponibile una quantità di energia praticamente illimitata, non potremmo adoperarla per estendere la coltivazione a tutte le terre emerse che sarebbe necessario coltivare per soddisfare i bisogni delle due o tre prossime generazioni, perché ogni trasformazione energetica implica problemi ambientali».

     «Prendiamone in considerazione uno solo: l’aumento di temperatura. Si arriverebbe – al limite – a una situazione paradossale: per irrigare le terre emerse aride si potrebbe dover trasformare tanta energia, che l’aumento della temperatura derivante farebbe sciogliere i ghiacciai polari, farebbe alzare il livello dei mari, farebbe inondare le pianure oggi coltivate: per coltivare nuove terre perderemmo le terre che coltiviamo oggi! Certi scienziati americani suggeriscono di “orlare” i continenti con muraglie a mare che li proteggano dalle inondazioni: ma per costruire quelle muraglie si spenderebbe molta energia, che farebbe aumentare ancor più la temperatura e quindi il livello del mare, e per ciò renderebbe necessario muraglie ancora più alte... e così via».

Siamo ormai alla fine dell’articolo professorale ma ancora la soluzione al problema di come riempire la pancia non c’è. Se tutte le proposte analizzate appaiono irrealizzabili, non si può fare a meno di domandarci come aumentare la disponibilità di alimenti senza rovinare ulteriormente la crosta su cui siamo aggrappati, quale sarà la soluzione alla quale non sia necessario aggiungere un ma?. Eccola qui:

     «Queste considerazioni non preconizzano alcuna “ricetta” per il problema della fame, anche perché una ricetta universale è impossibile. Suggeriscono soltanto l’idea che è difficile ottenere dal pianeta ancora più cibo di quanto ne produca oggi, e ottenerlo senza costi ambientali troppo elevati, è più difficile ancora».

Proletari del mondo scusateci, noi, quelli del partito “comunista”, non possiamo darvi la risposta di come mitigare le vostre sofferenze.

In realtà l’opportunismo tende una delle sue collaudate “trappole” facendo passare come nuova una preoccupazione che invece è molto vecchia, addirittura classica: l’aumento generale della popolazione che non può essere seguito dal volume della produzione di alimenti, fatto che preoccupa da sempre non solo i partiti opportunisti ma prima di essi quelli borghesi del mondo intero. Le condizioni di sottonutrizione di gran parte della specie umana infatti sono la riprova tragica del superamento del modo di produzione capitalistico alla scala mondiale, la riprova della sua raggiunta inefficienza storica di fronte ai bisogni generali.

Per il marxismo non esiste una legge della popolazione, della sua riproduzione, separata dalle condizioni materiali circostanti, così come non esiste una legge delle fertilità della terra esclusivamente esprimibile in termini biologici, agronomici, meteorologici, e dal confronto di queste due leggi presunte “naturali”, cioè pre-sociali, derivare la carestia o l’abbondanza.

Nel marxismo e nella realtà delle cose gli affamati del nostro secolo prima che essere affamati di pane lo sono di denaro, mancano loro gli alimenti per il solo motivo che non dispongono dei mezzi per acquistarli. Non è una Natura matrigna che li schiaccia ma è la Natura schiacciata e resa matrigna dall’incedere del capitalismo in tutti i continenti.

Lo provano, oltre al sempre più volgare e insultante sproloquio dei teorici del capitale, due fenomeni, apparentemente opposti, inspiegabili se non denunciando il mercantilismo capitalistico come unico responsabile: quello delle regolari e importanti sovrapproduzioni di beni alimentari, destinati alla distruzione, e l’altro che superficie coltivate, tecniche di coltivazione, specie coltivate non sono stabilite in funzione della massima produzione netta in termini quantitativi o di capacità alimentari fisiche, bensì scrivendo le equazioni del massimo tasso del profitto per i capitali aziendalmente impiegati, le curve delle quali due funzioni sono tutt’altro che parallele. Trovando molto spesso il massimo del profitto nell’abbandono delle terre, nelle colture estensive, nelle specie più “commerciali”, anche se niente affatto utili o addirittura dannose.

Questo stato di cose è alla base stessa della società in cui viviamo e, come non riescono a nascondere neanche l’ottimismo di regime pompato dall’opportunismo, non è modificabile né riformabile se non con la distruzione del potere politico ed economico del capitale.

In questo senso l’aumento della popolazione, oggi caotico e pre-umano nei suoi modi, è per la società fatto oggettivamente rivoluzionario, la precondizione biologica della crisi e dello scardinamento violento delle vecchie forme. I vagiti delle miriadi di gnudi fantolini suonano contro le centrali della ricchezza e del potere come il più terrificante dei gridi di guerra.

La tesi nostra è quindi che i proletari, che sopravvivono appena se sono occupati, sono condannati alla fame quando disoccupati. Per i nostri avversari invece l’aumento della disoccupazione deriva dall’aumento della popolazione.

In un articolo uscito su Repubblica del 13 agosto scorso veniva analizzata la situazione demografica-occupazionale di “casa nostra”. L’esempio italiano sintetizza abbastanza bene le mozioni presentate dai paesi partecipanti alla conferenza sulla popolazione e le proposte avanzate dai paesi capitalisti e “socialisti”.

A loro dire la situazione italiana sarebbe più o meno questa: negli anni che stiamo vivendo abbiamo: 1) un aumento della popolazione in età lavorativa – fra i 20 e 60 anni – favorita dalla immissione sul mercato del lavoro delle classi statistiche molto numerose di nati negli anni Sessanta (quelle del boom); 2) l’uscita delle classi poco numerose di nati negli anni 1915-1919 (Prima Guerra); 3) la crisi economica mondiale.

Ma non dobbiamo preoccuparci. Sebbene la situazione odierna sia nera, in Italia nel 1995 le cose cambieranno, assicurano. Come mai? Succede che nel ’95 l’Italia raggiungerà quello che i demografi chiamano il “valore di equilibrio naturale” o “di sostituzione” che molto sinteticamente sarebbe questo: da una parte le donne in età riproduttiva – tra i 18 e i 34 anni – diminuiranno; dall’altra cominceranno a entrare nell’età più avanzata – oltre ai 75 anni – le classi più numerose nate nel 1920 e negli anni seguenti; quindi con aumento della mortalità. Questi due fenomeni porteranno, a loro volta, ad una diminuzione della popolazione in età lavorativa; come conseguenza si prevede la scomparsa della disoccupazione. Come vedete, giovani disoccupati in cerca del primo lavoro, basta aspettare una decina di anni! Ma, poiché le diverse regioni d’Italia non hanno la stessa fecondità, si prevede che nelle regioni del Nord si raggiungerà velocemente il pieno impiego, contrariamente a quello che succederà nelle regioni più feconde dell’Italia meridionale dove vedremo, invece, crescere la popolazione in cerca di lavoro fino ad una epoca bene addentro nel prossimo secolo.

Ora. Quale sarebbero, a loro dire, la causa e la soluzione del problema? Poiché se da una parte abbiamo una variabile indipendente, la crescita o diminuzione assoluta della popolazione, e d’altra parte un’altra variabile indipendente, la crescita o diminuzione della domanda di forza lavoro, sarebbe sufficiente a risolvere il problema equilibrare le due variabili, tutto qui!

Come avevamo accennato quasi tutte le mozioni presentate dai paesi partecipanti alla riunione coincidevano in questa tesi: la necessità di equilibrare le nascite con l’aumento della ricchezza, che per noi è accumulazione del capitale; qualche paese ha proposto che influire su una delle due variabili sarebbe sufficiente a risolvere il problema dei disoccupati.

Per dimostrare la falsità di queste tesi, da buoni “dogmatici”, ci aiutiamo col “Capitale” di Marx, più precisamente del Capitolo ventitreesimo del Primo Libro: “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”, in particolare l’influenza che l’aumento del capitale esercita sulle sorti della classe operaia. Con questo non vogliamo negare che l’aumento del capitale comporti effetti anche su altre classi, per esempio sulle mezze classi tanto diffuse nei paesi di capitalismo sviluppato. Ma noi, ricordiamo, non abbiamo bisogno per riconoscere il modo di produzione capitalistico delle presenza delle classi spurie, al modello marxista di società bastano tre classi: proprietari fondiari, imprenditori, salariati; sin dal Manifesto abbiamo definito il peso e il ruolo delle mezze classi, e per ora ci basta.

Da quando abbiamo adottata la classica definizione di proletario, che viene da “prole”, sappiamo che è la massa affaticata e sfruttata che fa troppi figli!

Come lo stesso Marx ci insegna, è inutile pretendere di svelare “i misteri del futuro” senza prima chiarire quelli del passato; quindi, se non vogliamo falsare la realtà, non arriveremo a sapere cosa succederà alla classe operaia in cerca di lavoro domani, senza stabilire cosa le è successo fin’ora, diciamo dal XV secolo in poi.

Nel periodo di infanzia del capitalismo, oltre a procedere lentamente la sua accumulazione in confronto all’epoca moderna, la composizione organica del capitale, cioè il rapporto tra capitale variabile e capitale costante, s’è andata modificando soltanto a lenti passi; possiamo dire che in questo periodo una massa di mezzi di produzione o di capitale costante necessita per essere posta in azione sempre della stessa massa di forza lavorativa. Quindi, per esempio, con una composizione organica in rapporto 1:1, con un capitale totale di 400 lire avremmo 200 lire di capitale costante e 200 lire di capitale variabile; dato che la domanda di lavoro corrisponde al capitale variabile, se un operaio equivale a una lira, avremmo 200 operai. Se poi supponiamo che l’imprenditore abbia investito nel ciclo seguente un capitale totale doppio a quello di prima, ossia 800 lire, avremmo 400 lire trasformati in capitale costante, 400 lire in capitale variabile e 400 operai impiegati.

Ma, contrariamente a quanto sembra, non tutto era colore rosa per i proletari nemmeno in quegli anni. Infatti si registravano due fenomeni caratteristici: da una parte questo aumento più o meno costante della domanda di lavoro urtava contro i limiti naturali della crescita della popolazione che poteva essere sfruttata, limite che si poté abbattere soltanto facendo ricorso a metodi violenti, meravigliosamente descritti da Marx nel classico capitolo sulla accumulazione originaria. D’altra parte, la domanda di forza lavoro superandone l’offerta, i salari tendevano ad aumentare. Marx ci racconta che nei secoli XV e durante la prima metà del XVII secolo i capitalisti si lamentassero di questo.

Gli effetti dell’aumento dei salari potevano essere due. In certe fasi del ciclo economico il prezzo del lavoro poteva aumentare in quanto non impedisce il processo dell’accumulazione, e di questo non Marx ma un economista classico come Adam Smith dimostrava come anche con un profitto minore i capitali erano ugualmente aumentati o addirittura si erano accresciuti; oppure in altre fasi del ciclo l’accresciuto prezzo del lavoro causava un rallentamento o una diminuzione dell’accumulazione. Come conseguenza vien meno la causa di questa crisi, cioè la sproporzione tra capitale e forza lavorativa sfruttabile; il prezzo del lavoro cala di nuovo ad un livello conforme alle esigenze di valorizzazione del capitale. Lo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico rimuove questo ostacolo da esso stesso creato.

Questo processo dimostrare: nel primo caso – aumento dei salari – non è la diminuzione della crescita assoluta o proporzionale della forza lavorativa che rende eccedente il capitale, bensì è l’aumento del capitale che rende insufficiente la forza lavorativa sfruttabile; nel secondo caso – diminuzione dei salari – non è l’aumento della crescita assoluta o proporzionale della popolazione operaia che rende insufficiente il capitale, invece è la diminuzione del capitale che rende eccedente la forza lavorativa sfruttabile.

Quindi possiamo già denunciare come anti-marxista e falsa la tesi enunciata più sopra: non si tratta di due variabili indipendenti, come pretendono gli scienziati della borghesia, bensì, in termini matematici, di una variabile indipendente, il capitale, e di una variabile dipendente, la grandezza della forza lavorativa. E aggiunge Marx: «Sono questi movimenti assoluti nell’accumulazione del capitale che si riflettono come movimenti relativi nella massa della forza lavorativa sfruttabile e perciò sembrano dovuti al movimento proprio di quest’ultima».

Un’altra tesi viene dimostrata falsa: in questo periodo dello sviluppo storico del capitale, il processo tende inevitabilmente verso lo squilibrio, e momentanei equilibri ottenuti dalla borghesia non hanno avuto a che vedere con qualche cosa di “naturale”, bensì dall’uso sistematico della violenza e del terrore nei confronti della classe operaia per portare il numero di operai d’accordo alle esigenze del capitale.

     «Tuttavia – dice Marx – in questo periodo le condizioni dell’accumulazione sono le più propizie agli operai, perché il rapporto di dipendenza di questi ultimi dal capitale si presenta in modo sopportabile: invece di intensificarsi con la crescita del capitale, esso diviene solo più esteso, cioè la sfera di sfruttamento e di dominio del capitale si allarga solamente insieme alla sua propria dimensione e al numero dei suoi sudditi».

Questo per la prima fase di questo processo: quella in cui la crescita del capitale avviene con una inalterata composizione organica del capitale, ossia il rapporto tra capitale variabile e capitale costante. Il processo però oltrepassa l’ambito di questa fase.

Nella seguente fase, storicamente l’accumulazione tende ad incrementare le facoltà produttive del lavoro e fa sì che una minore quantità di lavoro generi una maggiore quantità di prodotti, e salga la massa dei mezzi di produzione che mette in funzione.

Nella fase anteriore dell’accumulazione assistevamo ad una crescita quantitativa e simultanea dei vari elementi materiali del capitale. In questa seconda fase il processo porta con sé lo sviluppo delle forze produttive; anzi lo sviluppo della produttività sociale diviene l’impulso più forte all’accumulazione. Questo sviluppo dunque appare qui anche in modificazioni qualitative, in cui il fattore oggettivo, cioè la massa dei mezzi di lavoro e materie prime, è in costante crescita rispetto al fattore soggettivo, cioè alla somma di forza lavorativa necessaria al loro funzionamento. Continua Marx:

     «Con il progresso della accumulazione il rapporto tra la parte costante e quella variabile del capitale si modifica; mentre all’inizio era di 1:1, adesso cambia in 2:1, 3:1, 4:1, 5:1, ecc., in maniera che, quando il capitale s’accresce, al posto di 1/2 del suo intero valore non si trasformano mano a mano in forza lavorativa che 1/3, 1/4, 1/5, 1/6, ecc., e al contrario si trasformano in mezzi di produzione 2/3, 3/4, 4/5, 5/6, ecc.».

Continuando con l’esempio numerico precedente, supponiamo che l’imprenditore decida di investire un capitale doppio del ciclo precedente, ossia 1.600 lire. Non è più di 1:1, ora la composizione organica è di 2:1, quindi 1.067 lire si trasformano in capitale costante e 535 lire in capitale variabile. Siccome 1 lira rappresenta un operaio, ora l’imprenditore ha nella sua fabbrica 535 dipendenti. L’anno susseguente, l’accumulazione realizzata sia un’altra volta del doppio: 3.200 lire di capitale totale. Siccome la produttività è salita e conseguentemente è mutata la composizione organica del capitale – ora supponiamo di 3:1 – avremmo 2.400 lire di costante, 800 di variabile, 800 operai. Con il progresso dell’accumulazione il capitale variabile e quindi la domanda di lavoro «calerà progressivamente insieme alla crescita del capitale totale, invece di aumentare in proporzione della sua crescita, come avevamo supposto in precedenza. Essa cala in rapporto alla grandezza del capitale complessivo, e in progressione accelerata con la crescita di essa».

Come nell’esempio – nella ipotesi di una economia in ottima salute, in crescita costante - «aumentando il capitale totale aumenta pure la sua parte costitutiva variabile ossia la forza lavorativa che le si è incorporata, ma aumenta in proporzione costantemente decrescente. Non solo diviene necessaria una più rapida accumulazione dell’intero capitale in progressione crescente per assumere un determinato numero di operai supplementari oppure, in seguito alla continua metamorfosi dell’antico capitale, semplicemente per dare lavoro al numero già esistente». Nel nostro esempio numerico, mentre la composizione organica era 1:1 all’imprenditore bastavano 1.600 lire per avere 800 operai; ora con un rapporto 3:1 gli ci vuole un capitale totale di 3.200 lire.

Aggiunge Marx:

     «... ma queste stesse crescenti accumulazioni e centralizzazioni si trasformano di nuovo a loro volta in una sorgente di nuovi cambiamenti nella composizione del capitale o in una diminuzione nuovamente accelerata della sua parte costitutiva variabile rispetto a quella costante. Questa diminuzione relativa della parte costitutiva variabile, accelerata con l’aumento del capitale totale e più rapida della sua propria crescita, si presenta invece d’altro lato come una crescita assoluta della popolazione operaia sempre più rapida di quella del capitale variabile, dei mezzi cioè che le danno lavoro. L’accumulazione capitalistica piuttosto produce in continuazione, ed esattamente in rapporto alla propria energia e alla propria entità, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente le esigenze medie di valorizzazione del capitale, quindi superflua ossia supplementare (...) Con l’accumulazione del capitale che essa stessa produce, la popolazione operaia produce quindi in quantità sempre più grande i mezzi per la sua propria eccedenza relativa. È questa una legge della popolazione specifica del modo di produzione capitalistico, come in effetti ogni particolare modo di produzione storico possiede le proprie particolari leggi della popolazione, storicamente valide. Una legge della popolazione astratta non esiste che per le piante e gli animali, e quando l’uomo non vi si intromette storicamente».

Questo è un aspetto delle conseguenze dell’accumulazione del capitale sulla classe operaia. Marx completa il quadro:

     «Mentre una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione, ossia dello sviluppo della ricchezza su fondamento capitalistico, questa sovrappopolazione diviene a sua volta la leva dell’accumulazione capitalista, anzi diviene condizione d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene integralmente al capitalista, come se questo l’avesse tirato su a proprie spese, e genera per le sue variabili esigenze di valorizzazione un materiale umano da sfruttare che è disponibile in ogni momento, a prescindere dal limite dell’effettivo aumento della popolazione».

Precedentemente abbiamo affermato che con l’accumulazione capitalista si registra uno sviluppo delle forze produttive del lavoro. Questo a sua volta aumenta l’improvvisa forza d’espansione del capitale; la massa della ricchezza sociale che con il progredire dell’accumulazione s’ingrandisce a dismisura e può essere trasformata in capitale addizionale, irrompe violentemente nei diversi rami della produzione con il conseguente estendersi del mercato.

     «In tutti questi casi – dice Marx – grandi masse di uomini debbono poter essere spostate d’improvviso nei punti più importanti, senza per questo alterare la scala della produzione nelle altre sfere. È l’esercito industriale di riserva che pensa a fornirle».

È facile trovare conferma a queste leggi nettamente esposte da Marx centocinquanta anni fa. Cosa vorrebbe significare, signori “scienziati”, per esempio, lo spostamento di migliaia e migliaia di proletari dal Messico affamato verso gli Stati Uniti, o l’invasione di proletari nord africani verso l’Europa?; per noi marxisti rivoluzionari non c’è dubbio: la necessità da parte del capitale americano, tedesco o francese, soprattutto negli anni del boom economico, di forza lavoro. Forza lavoro eccedente o, meglio, resa eccedente in precedenza, e che, davanti alle notevoli esigenze di valorizzazione del capitale, era impossibile trovare dentro i confini degli Stati nazionali. Cosa che dimostra come il capitale, oltre ai mercati delle merci, internazionalizza quello dell’esercito industriale di riserva.

Nella ricerca delle condizioni migliori per ottenere il tanto desiderato “equilibrio” degli studiosi borghesi, oltre ad una popolazione in cerca di lavoro costante, abbiamo supposto anche una economia in costante crescita, cosa che gli stessi studiosi riconoscono ormai non constatabile storicamente. Ma, come il materialismo dialettico insegna, il caratteristico ciclo vitale dell’industria moderna alterna periodi di vitalità media, di produzione con massimo impegno, e periodi di stagnazione e di crisi. In questi periodi di crisi nella popolazione operaia si registra un fenomeno opposto: la parte della forza lavoro già resa libera e che in una nuova accumulazione sarebbe richiamata a formare parte dell’esercito attivo, davanti ad una crisi del capitale, resta nelle file dell’esercito industriale di riserva.

Attingendo al nostro esempio numerico: se il capitale si contrae tornando da 3.200 a 1.600, ma mantenendo la nuova composizione organica 3:1, richiederà il lavoro solo di 400 operai e ne renderà eccedenti altri 400 che ora, di fronte ad un rallentamento dell’accumulazione, non troveranno lavoro, passando a formare parte dell’esercito proletario passivo. Marx:

     «In complesso i movimenti vengono regolati unicamente dall’espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva, corrispondenti agli alterni periodi del ciclo industriale. Perciò non vengono determinati dal movimento del numero assoluto della popolazione operaia, bensì dalla diversa proporzione in cui la classe operaia si divide in esercito attivo e in esercito di riserva, dall’aumento o diminuzione della entità relativa della sovrappopolazione, della misura in cui essa è a volte assorbita, a volte di nuovo resa libera».

Questo è il punto signori scienziati! Non preoccupa la borghesia il problema dell’aumento della popolazione in astratto, come ci volete far credere! Il vostro lavoro, cartaccia da propaganda e da biblioteca, non serve che a occultare la vera preoccupazione delle classi dominanti: che milioni di proletari, dei paesi di vecchio industrialismo e di quelli del cosiddetto terzo mondo, si muovano sul terreno della lotta di classe, sul terreno della rivoluzione. Paura che queste lotte, di cui abbiamo esempi freschi come le lotte dei proletari del Mozambico, risveglino il proletariato del mondo “sviluppato” addormentato dai falsi principi opportunisti. Questo la borghesia lo sa.

E con metodi tutt’altro che “naturali” prova dapprima a decimare la classe operaia e gli oppressi, per esempio, con sterilizzazioni in massa e indiscriminata di migliaia di donne, sia “consenzienti”, per l’abbrutimento provocato dal modo di produrre capitalista, sia anche a loro insaputa. Ma nel frattempo prepara l’unica soluzione, sebbene momentanea, che il capitale ha: la guerra. Attraverso questa e mediante una grandissima distruzione non soltanto di capitale costante, ma e soprattutto di capitale variabile, ossia di forza lavoro, di proletari, il capitalismo riceverà un “bagno di giovinezza” che gli permetterà di sopravvivere e ricominciare da capo un nuovo ciclo di accumulazione, ossia di fame e disoccupazione, se nel frattempo il proletariato, con la guida del Partito Comunista mondiale, non trasforma la guerra di rapina in guerra civile e archivia nella storia borghesia e suoi scienziati.

Il lavoro del partito comunista da Marx in poi converge nel dimostrare che in nessun aspetto del sistema di produzione capitalistico si trova equilibrio: tutto va verso lo scompenso e la rivoluzione!

Nel 1954, sotto il titolo Vulcano della produzione o palude del mercato?, scrivevamo, in un tutto riallacciato alla nostra tradizione e al nostro presente:

     «Non appena la divisione di classe sia superata socialmente, ossia abolito il connettivo mercantile tra produzione e consumo, il problema si risolverà da sé con produzione ridotta, tempo di lavoro sociale ultraridotto, aumento della popolazione ridotto e in dati casi invertito. La vera difesa della specie è anche contro l’inflazione della specie. Ma ha un solo nome: Comunismo. Non folle accumulazione di capitale».

 

 

 

 


Appunti per la Storia della Sinistra

Le cause della controrivoluzione
(segue dal n. 15)


Il V Congresso del Comintern è stato sempre considerato dalla storiografia stalinista come il congresso della “svolta a sinistra”, il congresso che avrebbe assestato un colpo definitivo all’opportunismo socialdemocratico infiltratosi nel partito.

La Sinistra negò fino da allora che di svolta si fosse trattato, riconobbe invece che, disgraziatamente, era solo un’altra oscillazione tattica. Trattandosi di oscillazione, non solo non poteva trovare il nostro assenso, al contrario annunciava una prossima contro-oscillazione, verso destra. Per altro però questo Congresso internazionale segnò veramente una definitiva svolta: per la prima volta infatti, senza mezzi termini, l’apparato statale russo impose tutto il suo soffocante potere sull’organismo mondiale per l’emancipazione operaia.

Di chi la colpa? La Sinistra italiana non è mai andata alla ricerca di colpevoli ma si è sempre basata sull’oggettivo studio delle condizioni economiche e sociali che, di gran lunga sovrastanti la volontà individuale degli uomini, determinano la vittoria o la sconfitta delle classi contrapposte.

Se un colpevole dovessimo trovare dovremmo cercarlo, non all’interno della fortezza assediata russa, ma al suo esterno e precisamente nei paesi di Europa occidentale dove il proletariato e i suoi partiti non riuscirono a spezzare il “cordone sanitario” con il quale i paesi capitalistici riuscirono infine a strangolare la rivoluzione comunista.

     «Se ci domandassimo le cause che hanno influito nella diversa strada che il movimento in quel torno ha preso possiamo innanzi tutto ravvisare la principale nella sconfitta del proletariato nei paesi occidentali che, ripetutamente battuto, mostrò chiaramente di non essere in condizione di vincere la lotta per il potere. L’Europa era già da vari anni entrata in una situazione più sfavorevole a tutti i partiti comunisti, e il potere borghese si era dovunque consolidato dopo il difficile periodo del dopoguerra, avendo raccolto l’alternativa tra la dittatura operaia e quella capitalista, impiegando senza esitare i mezzi di repressione, a cui chiaramente qualunque paese avrebbe ricorso nell’emergenza di evitare un potere comunista, e senza eccezioni.

     «Nella stasi della rivoluzione all’estero il problema della rivoluzione russa mostrava tutte le difficoltà, per intendere le quali non è necessario affatto modificare menomamente la sicura visione sostenuta da Lenin nelle lunghe tappe che abbiamo descritto. Essa era a cavallo su due forze di cui una, la proletaria, era ancora menomata quantitativamente dal decomporsi delle industrie dopo la guerra nazionale e civile, l’altra, immane quantitativamente, quella contadina, si sapeva che qualitativamente aveva efficienza rivoluzionaria solo in una fase di passaggio, fino che erano da adempiere postulati non socialisti, propri di una estrema rivoluzione borghese, ma borghese. Sempre si era detto (ed abbiamo provato quando e come) che nella fase ulteriore l’alleato sarebbe necessariamente divenuto nemico. Il contadiname interno come alleato non poteva sostituire l’alleato materiale della rivoluzione bolscevica, ossia la classe operaia dell’estero: era un sostituto inferiore, e efficiente solo in un termine che consentisse di prendere respiro, per ridare prevalenza di massa ai proletari autentici» (Struttura Economica e Sociale della Russia d’oggi).

     «Non si ripeterà quindi mai abbastanza che la chiave di una soluzione socialista si trovava fuori della Russia. All’interno della Russia, al contrario, il doppio carattere della rivoluzione non poteva mantenersi all’infinito: lo sviluppo economico che la rivoluzione borghese spinta fino in fondo esigeva, non poteva che minare e, a più o meno lontana scadenza, annientare la vittoria puramente politica della rivoluzione socialista. Nella Russia degli anni ’20 in effetti, tutto quello che deriva da esigenze economiche nazionali, tutto quello che esprime gli interessi sociali russi costituisce un pericolo mortale per il comunismo, tutte le strategie sociali concepibili all’interno del paese racchiudono, secondo i destini alterni della rivoluzione internazionale, lo stesso rischio fatale per il proletariato russo» (Perché la Russia non è Socialista).

La rivoluzione proletaria russa, per poter sopravvivere aveva necessità del sostegno che solo da una vittoriosa presa del potere da parte degli operai dell’Europa industrializzata poteva pervenire. Venendole a mancare questo indispensabile ossigeno sarebbe stata presto o tardi costretta a capitolare di fronte alle pressanti esigenze di quella classe che nel 1917 le era stata alleata.

Ancora prossimo alla morte Lenin avvertirà, come «è difficile reggerci sulla fiducia dei contadini fino alla vittoria della rivoluzione socialista nei paesi più progrediti».

Ma, come abbiamo visto, il 1923 segnò la definitiva sconfitta della rivoluzione in Germania, l’ultima possibilità dell’estendersi, in tempi brevi, del comunismo in Europa. Il grado di degenerazione raggiunto dal movimento comunista mondiale e dal PCR, vittima delle necessità dello Stato Sovietico, si vede in come venne affrontato il problema della sconfitta della rivoluzione in Germania. La sconfitta del 1923 in Germania servirà solo formalmente ad una revisione della tattica condotta dall’Internazionale; di fatto ci si servirà di questa tremenda débâcle per sferrare all’interno dell’Internazionale una spietata offensiva contro tutto ciò che rimaneva del genuino spirito rivoluzionario.


Il problema della tattica

Si volle aprire il V Congresso dell’Internazionale in un clima forzatamente ottimista quasi che, come ebbe a notare la Sinistra Italiana, la condotta di sinistra si distinguesse da quella di destra solo in quanto la prima è ottimista e la seconda pessimista sulla possibilità della rivoluzione. Zinoviev nella sua lettera di convocazione del Congresso anticipava quello che sarebbe stato il suo motivo dominante: l’Internazionale si trovava ad operare «in un periodo situato tra due ondate della rivoluzione mondiale, l’una già passata, l’altra prossima a giungere». Compito dei partiti sarebbe stato quello di rivedere la propria tattica e riformare la struttura organizzativa sulla base di tale prospettiva. I motivi di ottimismo furono ricercati negli spostamenti a sinistra avvenuti in po’ ovunque nelle consultazioni elettorali. I risultati in Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Cecoslovacchia e Bulgaria dimostravano, secondo Zinoviev, che dopo l’ondata rivoluzionaria dell’immediato dopoguerra si stava attraversando una fase demo-pacifista che però, data la forza crescente o comunque rilevante dei partiti comunisti, ne sottolineava la precarietà ed il carattere di epoca prerivoluzionaria.

Nel precedente rapporto sulla Storia della Sinistra, per i motivi allora esposti, vedemmo come il 1923 non sia un punto di riferimento arbitrario, anche se la controrivoluzione vittoriosa fu il coronamento di un processo sviluppatosi nel corso degli anni. Un altro elemento di degenerazione possiamo riscontrarlo nel modo in cui ormai si determina la forza ed il grado di penetrazione dei partiti comunisti all’interno della classe operaia: non nella influenza nelle azioni dirette di lotta di classe, ma negli effimeri risultati elettorali. Ricorderemo come al proposito Trotski e la Sinistra italiana concordassero nel ritenere che «quasi sempre un apparente successo elettoralistico segue le disfatte delle azioni di massa nel partito, come un contraccolpo ed una controndata dello stato d’animo delle masse proletarie che manifestano il loro disappunto per la mancata vittoria, ma non per questo riescono a riparare il danno subito» (L’Unità, 15 ottobre 1925). Questa la corretta chiave di interpretazione del grande successo elettorale del 1924 in Germania come di quello italiano del 1921, che aveva segnato «per i partiti “proletari” un successo maggiore di quello stesso del partito socialista del 1919, mentre già alla fine del 1920 si andava verso una situazione controrivoluzionaria».

In questi due differenti atteggiamenti di porsi di fronte alla medesima questione, si vede come il primo, quello cosiddetto “pessimista”, tendesse ad andare alla radice del problema rimettendo in discussione, alla luce di una analisi marxista, tutta la tattica dell’Internazionale (quantunque lo stesso Trotski avesse aderito alle sue scelte); mentre il secondo, quello “ottimista” dei dirigenti dell’Internazionale, si contentasse della banale affermazione che gli errori erano stati commessi da gruppi opportunistici e che fosse sufficiente una sostituzione di uomini. Nei documenti dell’Internazionale, all’epoca del V Congresso, si parla infatti apertamente di: “soppressione senza riguardi di deviazioni di destra”, di “marcescente ala destra”, di “zavorra opportunista”, richiedendo “da tutte le direzioni di partito una disciplina di ferro”.

La riaffermata previsione di una prossima ondata rivoluzionaria forniva ai dirigenti “leninisti” l’alibi per una polemica che nulla aveva ormai a che fare con un corretto comportamento marxista e che, sempre più ispirandosi alla manovra interna di tipo parlamentare, propria del politicantismo borghese, faceva largo uso perfino della denigrazione personale.

Al V Congresso Zinoviev tenne un rapporto sulla attività e sulla tattica del C.E. dell’I.C. per il periodo compreso tra il IV e il V Congresso. Su questo rapporto si basò la discussione, e da tale discussione scaturì la risoluzione: «approvata pienamente l’attività dell’esecutivo dopo il IV Congresso, stabilisce che la direzione giusta e ferma dell’esecutivo ha contribuito in modo essenziale a far uscire l’Internazionale comunista quasi ovunque rafforzata da questa fase di più feroci attacchi da parte del capitale, che sta lottando per la sua dittatura».

Ma presentare un rapporto sull’attività e sulla tattica del C.E. limitatamente al periodo intercorso tra i due ultimi congressi equivaleva a voler eludere la questione fondamentale: una ampia discussione generale sulla tattica. Il III Congresso aveva molto discusso sulla tattica ed adottato poi le famose tesi. In queste tesi, però, non si parlava ancora, almeno in modo esplicito, di Fronte Unico, Governo Operaio, ecc.

Dopo il III Congresso vi furono delle sessioni dell’E.A. che si occuparono della questione tattica. La Sinistra affermo nel suo intervento al Congresso:

     «Ma le sessioni dell’E.A. non sono dei Congressi mondiali e il IV Congresso doveva in un certo modo ratificare il lavoro di queste riunioni e codificare nelle sue tesi le direttive tattiche dell’I.C. La questione era all’ordine del giorno: essa venne trattata in un rapporto del comp. Zinoviev parallelo a quello sull’attività dell’Esecutivo. Si presentò pure al Congresso un progetto di tesi sulla tattica preparato dal medesimo comp. Zinoviev, ed è vero che questo progetto di tesi fu adottato alla fine del Congresso, ma la commissione che doveva incaricarsi del problema e che (...) era composta dal Presidium più alcuni membri delle delegazioni più importanti, non vi poté lavorare. Essa non si riunì che negli ultimi giorni, e solo in quegli ultimi momenti (la Sinistra italiana) poté presentare un progetto di tesi che era opposto a quello del compagno Zinoviev, e di cui il Congresso non poté prendere conoscenza (...) Si adottò un progetto di tesi sulla questione tattica, ma non si ebbe, come al III congresso, una vera discussione sulla tattica.

     «Attualmente (V congresso) questa discussione sarebbe necessaria. Ma noi ci troviamo di fronte ad una discussione di ordine tutt’affatto diverso, perché una cosa è discutere sulla linea tattica dell’Internazionale in generale e un’altra è discutere sulla linea tattica che l’Internazionale ha applicato nel periodo compreso tra l’ultimo congresso ed il congresso presente e trarre delle conseguenze che hanno un valore momentaneo, transitorio, senza pervenire a conclusioni generali sulle questioni che nell’Internazionale non sono ancora decise (...)

     «Abbiamo le tesi tattiche del IV congresso, che devono essere modificate, perché tutti sono d’accordo che devono essere modificate e lo stesso compagno Zinoviev lo ha riconosciuto, ma non abbiamo una discussione proporzionata a questo compito (...) Noi dovremmo discutere sull’attività e la tattica dell’Internazionale tutta intera, non sul rapporto sull’opera del suo organo supremo, l’Esecutivo, fra i due congressi. Si dovrebbe sottomettere ad un esame molto attento l’attività, l’opera del centro direttivo dell’Internazionale.

     «In realtà noi vediamo qui che non si fa il processo al Comitato Esecutivo, ma è sempre il Comitato Esecutivo che fa il processo ad ogni partito, ad ogni sezione. Ed ogni oratore che viene a portate al Congresso il contribuito di un partito aderente al Comintern a questa discussione internazionale, quasi sempre si preoccupa soltanto delle questioni del suo partito, risponde soltanto a ciò che il compagno Zinoviev ha potuto dire sulle questioni del suo partito, resta nei ristretti confini dei suoi affari nazionali. Noi non ci troviamo quindi in presenza di discussioni e risoluzioni che abbiano un vero carattere internazionale e sulle quali la massa dei militanti del Comintern, attraverso la voce dei delegati, debba pronunciarsi giudicando l’opera e la attività del centro dirigente nel periodo in esame».


La prevista sintesi socialdemocrazia-fascismo

Riguardo alla fase democratico-pacifista che Zinoviev nel suo rapporto introduttivo dava come nuovo metodo a cui era ricorso il capitalismo, la Sinistra italiana si trovava in linea generale d’accordo. Nel senso cioè che la situazione sembrava orientata verso una politica borghese di sinistra; governi borghesi di sinistra, con la partecipazione a volte dei socialdemocratici, si erano formati i paesi importantissimi. La borghesia può gestire il proprio potere, a seconda delle congiunture storiche, sia con metodi di aperta reazione, detti di destra, sia attraverso la menzogna democratica e l’illusione della collaborazione di classe.

Comunque sia deve essere chiaro che sempre di offensiva capitalistica si tratta e non è pensabile che esistano periodi storici separati in cui la borghesia mondiale, o una parte di essa, si serve dei metodi di destra o di sinistra. Al contrario si andrà sempre più verso una sintesi di tali metodi. La Sinistra affermava:

     «Il giudizio sulla crisi del capitalismo che ci aveva condotti nei precedenti congressi a constatare che la borghesia, per mantenere il suo potere, era costretta a lanciarsi in una offensiva violenta contro la classe operaia, resta oggi immutato. L’offensiva della borghesia continua e là dove essa prende il carattere di fascismo essa non differisce molto dalla diagnosi che il compagno Zinoviev ha fatto della politica di un terzo partito borghese, la politica della mobilitazione della aristocrazia operaia e di certi strati contadini e piccolo-borghesi nell’interesse della borghesia. Ebbene, nel fondo, il fascismo non è altra cosa.

     «Il fascismo non è più il semplice reazionarismo tradizionale dello stato d’assedio, del terrore, è un movimento ben più moderno, più astuto, più sperimentato e che tende appunto a trovare un appoggio fra certi strati della massa. Esso può difficilmente raggiungere la massa dei lavoratori industrializzati, ma, nel primo periodo della sua attività, esso giunge a creare in altri strati, sfruttando l’ideologia nazionale piccolo-borghese, una mobilitazione analoga alla mobilitazione socialdemocratica nell’interesse della conservazione borghese. Noi dobbiamo attenderci che i due metodi dell’offensiva borghese si sintetizzino e che i socialdemocratici ed i fascisti insieme conducano una offensiva violenta contro il movimento rivoluzionario, si coalizzino, come l’avversario definitivo contro il quale il comunismo mondiale dovrà battersi».

E’ naturale che dicendo ciò non si intendeva dire (come viene volutamente falsificato dalla storiografia stalinista per dimostrare come la Sinistra non avesse capito niente del fascismo) che i partiti e gli uomini dei due “differenti” schieramenti si sarebbero necessariamente uniti in una sorta di coalizione governativa, anche se ciò, per un certo momento, non poteva essere escluso e lo stesso Mussolini tentò di giocare tale carta.

Come lo Stato si crea il suo regime di conservazione, così si crea anche la sua opposizione leale. Quando si parla di sintesi, si parla di metodo di governo, e quanto la previsione della Sinistra fosse esatta lo si può ben vedere oggi, a distanza di 60 anni, dove non è ormai più possibile stabilire quali siano le differenze caratteristiche (a parte la sempre più sgonfiata retorica resistenziale) tra il sistema fascista e quello dell’opportunismo democratico di sinistra. Lo stesso Zinoviev aveva proclamato che socialdemocrazia e fascismo altro non sono che la mano sinistra e la mano destra del capitalismo.

Se i due metodi di gestione politica, fascista e socialdemocratica, si compenetrano sempre più fino a far sparire, salvo nei formalismi esteriori, ogni differenza sostanziale è evidente che altro non sono che i due aspetti dell’ “avversario definitivo contro cui il comunismo mondiale dovrà battersi”, adottando la medesima tattica. Anche il pericolo dal quale guardarsi resta il medesimo: l’opportunismo democratico.

Tutti, nell’Internazionale, erano d’accordo nel riconoscere che tale pericolo, nei periodi di politica democratica di sinistra della borghesia, esisteva; le illusioni pacifiste e collaborazioniste, oltre che ammorbare la classe operaia, possono anche far breccia all’interno del partito. Ma questo stesso pericolo, e forse in misura maggiore, esiste anche sotto i regimi fascisti. Questo denunciò la Sinistra, che ancora una volta fu la sola ad intravvedere la grande sbandata storica che di lì a qualche mese il PCd’I avrebbe preso in merito all’affare Matteotti. Il pericolo collaborazionista democratico, affermava la Sinistra:

     «Si verifica pure nella situazione della reazione fascista. È per ciò che si è condotti a trarre dall’esame della situazione oggettiva non le conclusioni perfettamente marxiste che Lenin trasse al III Congresso, ma delle conclusioni molto più banali e semplicistiche. Vale a dire: la borghesia sferra col movimento fascista una offensiva contro di noi, il momento è venuto in cui dobbiamo rispondere a questo sforzo di coalizione tra le forze borghesi e certe forze mezzo borghesi con una coalizione di partiti non fascisti; con la coalizione dei partiti comunisti coi partiti socialdemocratici e forse con certi partiti piccolo-borghesi e contadini. Ecco la risposta falsa. Il III Congresso non ha chiesto che si risponda alla situazione dell’offensiva mondiale con questo espediente banale proprio della II Internazionale: con la coalizione del partito rivoluzionario con partiti sedicenti proletari che di fatto non sono che la sinistra borghese».

Questo grido di allarme era più che giustificato, anche dopo la sconfessione ufficiale del Fronte Unico politico e del Governo Operaio inteso come metodo di coalizione democratico-parlamentare che seguì la disfatta proletaria del 1923 in Germania. Abbiamo più volte messo in evidenza come la sconfessione di quei metodi e la scomunica degli uomini che li avevano adottati avevano il sapore amaro dell’opportunismo contingentista. Il Fronte Unico politico, o “dall’alto”, scacciato dalla porta del V Congresso, vi rientrava dalla finestra; le dichiarazioni del Presidente dell’Internazionale non escludevano del tutto il fronte unico politico. La stessa Fischer, se chiedeva il chiarimento della formula del Fronte Unico, riteneva che: ”in certi casi” fosse possibile accettare il Fronte Unico dall’alto. Le tesi sulla tattica che furono approvate al V Congresso affermavano infatti che accanto all’“unità dal basso” si potevano intraprendere “contemporaneamente trattative al vertice”.

«Questo metodo – recitavano le tesi – deve essere spesso adottato nei paesi in cui la socialdemocrazia è ancora una forza importante». Ciò equivaleva a dire che dovesse essere adottato in tutti i paesi capitalistici perché in nessun posto, ad eccezione della Russia sovietica, la socialdemocrazia aveva perso la sua influenza all’interno delle classi subalterne.

Ma anche se il rifiuto del Fronte Unico politico fosse stato totale, nel modo in cui fu formulato al V Congresso non avrebbe significato un cambiamento di tattica dell’Internazionale ma solo una momentanea oscillazione verso sinistra, alla quale sarebbe poi seguita un’altra verso destra. Si affermava infatti che la tattica del Fronte Unico dall’alto era stata la tattica nel periodo nel quale regnava uno stato d’animo pessimista che si prevedeva la discesa della curva rivoluzionaria, e che, al momento attuale, ricco di possibilità rivoluzionarie, convenisse più adottare una tattica che facesse risaltare l’autonomia politica del partito. La nostra convinzione era, al contrario, che mai questa tattica di alleanza potesse risultare utile alla rivoluzione comunista, né nei momenti favorevoli, né tanto meno in quelli sfavorevoli e chiedevamo perciò la liquidazione del fronte unico politico in un testo di tesi sulla tattica dell’Internazionale e non su una semplice risoluzione su un rapporto dell’Esecutivo concernente due anni di attività.

Il pericolo opportunista era più vivo che mai e la Sinistra italiana ribadiva che si dovesse concentrare l’attenzione del partito sui problemi concernenti le condizioni materiali del proletariato, nel seguire tutti gli episodi della vita operaia, nel partecipare a tutte le lotte di classe ed usare queste lotte come scuola di addestramento attraverso la quale il partito insegna al proletariato a combattere e lo conduce verso lo sviluppo rivoluzionario della lotta.

     «Se non vogliamo compromettere tutto il nostro lavoro di preparazione politica rivoluzionaria del proletariato – continuava la Sinistra – non dobbiamo neppure lasciare supporre che vi sia un altro partito politico al di fuori del partito comunista; che i partiti socialdemocratici ed i partiti comunisti siano delle frazioni parallele della classe operaia che si sarebbero divise per caso ma che possono marciare e lottare insieme. Dobbiamo al contrario dire che la distinzione del nostro partito dai partiti opportunistici è una necessità della lotta rivoluzionaria, ma che, malgrado ciò, noi non rinunciamo a prospettare una azione comune sul terreno delle rivendicazioni parziali fra operai che sono già comunisti e operai che si trovano nei partiti socialdemocratici ed opportunisti e forse anche nei partiti borghesi (...) La base del fronte unico non deve essere mai quella di un blocco di partiti politici. Essa può essere trovata in altre organizzazioni della classe operaia, non importa quali, ma in organizzazioni tali che, data la loro costituzione, siano conquistabili alla direzione comunista, siano cioè suscettibili di divenire rivoluzionarie».

Analogamente la critica della Sinistra non poteva non attaccare la parola d’ordine del Governo Operaio, con la sola differenza che nel caso del Fronte Unico ci si batteva perché esso conservasse, od assumesse, il suo specifico carattere rivoluzionario; mentre della tattica del Governo Operaio si chiedeva la vera e propria liquidazione: “una sepoltura di terza classe”.


La ”bolscevizzazione”

L’aspetto caratteristico del V Congresso fu la “bolscevizzazione”. Innanzi tutto fu presentato ed approvato un nuovo Statuto internazionale, in sostituzione di quello approvato al II Congresso del 1920, dove si stabiliva che: «la base dell’organizzazione di partito, il suo fondamento, è la cellula nel luogo di lavoro (...) della quale devono far parte tutti i membri del partito che vi lavorano».

L’ossessione ”organizzazionista” e burocratica impregna il nuovo statuto dell’I.C.; ciò appare evidente quando si confrontino i due testi: quello del 1920 con quello del 1924.

Nel 1920: «Il congresso mondiale si riunisce regolarmente una volta l’anno»; nel 1924: «Il congresso mondiale di regola si raduna almeno una volta ogni due anni».

Nel 1920: «Un congresso mondiale dell’Internazionale Comunista può essere convocato o per delibera del C.E. o su richiesta della metà dei partiti che al momento dell’ultimo congresso mondiale facevano parte dell’ I.C.»; nel 1924: «Un congresso straordinario dell’I.C. può essere convocato su richiesta di partiti che all’ultimo congresso dell’I.C. abbiano riportato insieme non meno della metà dei voti deliberativi».

Nel 1920: «Il congresso mondiale elegge il C.E. dell’I.C. che è l’organo dirigente dell’I.C. nel periodo che intercorre tra i suoi congressi mondiali. Il C.E. è il solo responsabile di fronte al congresso mondiale»; nel 1924: «Il C.E. dell’I.C. è l’organo dirigente dell’I.C. nei periodi intermedi tra i congressi mondiali. Esso trasmette direttive vincolanti a tutti i partiti e le organizzazioni aderenti all’I.C. ed esercita il controllo sulla loro attività».

Nel 1920: «Il C.E. dell’I.C. ha il diritto di esigere dai partiti che vi appartengono l’espulsione dei gruppi o persone che violano la disciplina internazionale, e parimenti di espellere dall’I.C. quei partiti che infrangono le deliberazioni del congresso mondiale»; nel 1924: «Il C.E. dell’I.C. è autorizzato ad espellere dall’I.C. partiti, gruppi o singoli membri che contravvengano al programma, agli statuti e alle deliberazioni dei congressi mondiali quanto del C.E. stesso».

Nel 1920: «In caso di necessità il C.E. organizza nei vari paesi propri uffici ausiliari e tecnici o di altro genere, che gli sono interamente subordinati. I rappresentanti del C.E. assolvono ai loro compiti politici in strettissimo contatto con la direzione del partito del paese in questione»; nel 1924: «Il C.E. ed il Presidium del C.E. sono autorizzati ad inviare plenipotenziari alle singole sezioni dell’I.C. (...) Questi plenipotenziari assolvono il loro compito in strettissimo contatto con la direzione centrale della relativa sezione. Ciononostante ai congressi, conferenze o riunioni convocati dalla direzione della sezione essi possono sostenere una opinione divergente da quella della direzione del relativo partito (...) Questi plenipotenziari sono specificamente tenuti a controllare l’attuazione da parte delle sezioni delle delibere prese dal C.E. dell’I.C.».

Nel 1920: «Dovendosi trasferire da un paese all’altro, ciascun membro dell’I.C. riceverà il fraterno appoggio dei membri locali della III Internazionale»; nel 1924: «Il trasferimento dei membri dell’I.C. da un paese in un altro è ammesso soltanto dietro approvazione del C.E. della sezione in questione (...) I comunisti che si sono allontanati dalla propria sezione senza l’approvazione del C.E., non possono essere accolti da altre sezioni dell’I.C.».

Da questi pochi confronti si vede come nel 1924 si tenda a dare all’Internazionale un inquadramento sempre più soffocante, anche se questi cambiamenti, di per sé e presi uno per uno, non abbiano niente di scandaloso.

Le critiche della Sinistra italiana si appuntarono infatti su aspetti più significativi; per esempio fu chiesto che le parole, contenute nel 1° articolo, ”per la conquista della maggioranza della classe operaia” fossero sostituite con: ”per la conquista dei più vasti strati della classe operaia”. A Mosca si replicò che tale espressione era stata attinta alle tesi presentate da Lenin al III Congresso dell’I.C. e a nulla valse che la Sinistra ricordasse che «Lenin, in una lettera successivamente pubblicata, espresse il suo rammarico per avere al III congresso fatte troppe concessioni alla destra. L’espressione di cui parliamo è appunto una di queste concessioni. La formula “conquista della maggioranza della classe operaia” presta il fianco a tutte le interpretazioni statistiche degli opportunisti».

La Sinistra chiese anche che venisse soppresso il punto in cui si autorizzava la creazione di partiti simpatizzanti. Questo metodo in realtà ammetteva la possibilità dell’esistenza all’interno dello stesso paese di due partiti rivoluzionari, entrambi appartenenti all’I.C., ciò in contraddizione con la tesi che in ogni paese esiste un solo partito rivoluzionario: il Partito comunista (si deve però ricordare che questo elemento era già presente nello Statuto del 1920). La Sinistra chiese anche che venisse aggiunto un articolo che vietasse la creazione di frazioni all’interno dei partiti.

     «Sarebbe stato piacevole – commentava Grieco – per un accusato di mene frazionistiche, trovare l’appoggio degli altri compagni nella lotta contro una simile tendenza. La commissione tuttavia ha respinto all’unanimità questa proposta dichiarando che l’accettazione di una simile limitazione negli Statuti dell’I.C. impedirebbe di creare frazioni nei partiti comunisti qualora ciò si rendesse necessario. Noi respingiamo questa tesi che permette il frazionismo dall’alto, metodo quanto mai efficace di disorganizzazione».

Abbiamo visto come il paragrafo 5 del nuovo Statuto dell’I.C. stabilisse che «la base dell’organizzazione di partito (...) è la cellula nel luogo di lavoro». Questa fu la nuova struttura dei partiti bolscevizzati. La forza del partito e la possibilità di vittoria non risiedevano più nella giusta tattica, ma nella sua struttura organizzativa. «Non si può parlare della struttura di un serio partito comunista di massa interiormente solido finché il partito non ha la sua base sulle cellule costituite sulle fabbriche stesse». Questo si affermava nelle tesi sulla tattica approvate al V Congresso. Più avanti leggiamo: «Organizzazione di un vero apparato di partito, senza di che l’esistenza di un partito proletario è impossibile».

La definizione della bolscevizzazione fu la seguente:

     «Bolscevizzazione del partito significa che le nostre sezioni assimilano tutto ciò che nel bolscevismo russo è di importanza internazionale. Soltanto nella misura in cui le sezioni decisive dell’Internazionale si tramuteranno realmente in partiti bolscevichi, il Comintern si trasformerà, non a parole ma a fatti, in un partito mondiale bolscevico unitario compenetrato dalle idee del leninismo».

Anziché svolgere nel senso della dialettica marxista il giusto confronto tra lo sviluppo russo e quello occidentale si esagerò sul tema del “ricettismo” secondo cui per ripetere il successo russo si sarebbe dovuto imitare da vicino la struttura, meccanicamente intesa, del partito comunista bolscevico.

Prima il metodo sbagliato, non concludente allo scopo, poi lo scopo stesso fu rinnegato. Allora non era facile dire e sostenere cose oggi più che evidenti. Si “bolscevizzò” alla fine non per conseguire il successo, ma perché questo successo non potesse essere conseguito, scegliendo la via della edificazione del socialismo in un solo paese, rinunciando a lavorare per lo scoppio della rivoluzione in Europa. La verità era che si volevano soffocare, fino a distruggerle, quelle opposizioni che in Russia ed altrove intendevano decisamente opporsi alla rinuncia alla lotta per la dittatura del proletariato in tutti i paesi, sola via per cui la rivoluzione socialista in Russia avrebbe potuto essere salvata dalla rovina.

La formula di organizzazione interna con la quale fu data la consegna della “bolscevizzazione” di tutti i partiti comunisti era basata sulle cellule di officina. Una simile formula non era sgradita agli ordinovisti italiani, i quali erano partiti, nella loro speciale dottrina sociale, dalla rete dei consigli di azienda. L’organizzazione per nuclei di fabbrica non trovò nemmeno decisa resistenza nei sinistri tedeschi i quali, nel loro tradizionale ingenuo operaismo, credevano si trattasse di poggiare il nerbo del partito sulla pura classe operaia, così diminuendo la influenza degli strati semiproletari piccolo-borghesi.

Ma la questione andava vista un poco più a fondo. Il pericolo non era che nel partito ci fosse qualche membro non proletario al cento per cento, piccolo-borghese, o addirittura borghese. Il pericolo opportunista non è ricollegabile ad un rapporto statistico di estrazione sociale dei membri appartenenti al partito; l’opportunismo si ha quando la politica del partito comincia ad essere diretta secondo finalità sociali non della classe operaia, ma degli ibridi strati o ceti piccolo-borghesi, e, molteplici esempi ci hanno mostrato come, purtroppo, tale sostituzione di obiettivi può corrompere gli stessi puri proletari iscritti al partito.

La Sinistra italiana non ha mai negato, né da un punto di vista teorico né nella pratica, che una funzione essenziale del partito fosse di avere i suoi gruppi, cellule, ecc. nei luoghi di lavoro, nei consigli di fabbrica, nei sindacati. Possiamo anzi affermare che l’Italia fu uno dei rari esempi dove questa rete, sia pure in condizioni difficili di lotta, fu ovunque tessuta ed agì come un magnifico strumento di lotta nella mani del partito comunista. Ma una cosa erano le cellule di fabbrica intese come una delle molteplici strutture per mezzo delle quali il partito agiva all’interno della classe operaia, e cosa del tutto opposta era l’adottarle come base costitutiva del partito. La sezione del partito ridotta ad un gruppo di fabbrica avrebbe avuto ripercussioni del tutto negative di impoverimento della sua formazione comunista. I temi di discussione tra i compagni non sarebbero stati mai quelli generali della tattica, della politica di classe, ad un ambito nazionale ed internazionale, ma quelli super ristretti della vita di azienda.

Lo spirito e la forza rivoluzionaria, ha sempre sostenuto la Sinistra, si formano nel partito e passano con visione unitaria agli inquadramenti che da esso emanano, e non è l’inquadramento per aziende la sede di base della vita del partito, ma una sua articolazione strumentale.

La nostra tesi fu che la base di organizzazione del partito dovesse avere una rete non aziendale ma territoriale in modo che tutti i comunisti di una certa zona, più o meno ampia, formassero la unità di base del partito dove ognuno, come compagno, vive. L’organizzazione del partito per cellule, anziché salvaguardarlo dall’opportunismo, comportava riservare la ”politica” all’apparato dei funzionari e dei dirigenti.


La ”unità di classe” maschera dell’opportunismo

Altro aspetto caratteristico della degenerazione dell’Internazionale fu quello della proposta di unificazione delle centrali sindacali internazionali.

All’interno dell’Internazionale Sindacale gialla di Amsterdam (F.S.I.) si era formata una corrente di ”sinistra” che, tra l’altro, aveva avanzato l’ipotesi di una ammissione dei sindacati sovietici allo F.S.I.

Questa proposta, che avrebbe dovuto essere denunciata come un tentativo provocatorio di snaturare la fisionomia classista dei sindacati rossi aderenti al Profintern, fu al contrario presa nella massima considerazione dal V Congresso. Nelle tesi sulla tattica sindacale, che il congresso approvò, non si manca di denunciare con toni molto aspri l’Internazionale di Amsterdam:

     «Nei suoi vertici direttivi è un baluardo dell’imperialismo, è una organizzazione che esprime in modo particolarmente evidente il conservatorismo, l’arretratezza, la ristrettezza nazionale, le tendenze imperialistico-borghesi degli strati dei lavoratori maggiormente corrotti dalla borghesia (...) I comunisti non devono dimenticare che l’ala sinistra dell’Internazionale di Amsterdam intende salvare quest’ultima non mediante una radicale rinuncia della vecchia tattica, ma mediante lievi modificazioni di questa tattica stessa».

Ma questi attacchi, come è uso nella diplomazia borghese, erano segnali lanciati all’altra organizzazione per dichiararsi pronti all’apertura di un dialogo. Dopo queste premesse di rito, le tesi del V Congresso dichiaravano che nei rapporti con l’Internazionale Sindacale di Amsterdam non si sarebbe potuto trascurare né il fatto che questa ultima inquadrava milioni di lavoratori, né l’esistenza al suo interno di un’ala «apparentemente informe e politicamente esitante, ma tuttavia di sinistra»; ala che il Comintern ed i partiti comunisti avrebbero dovuto sostenere, nella misura in cui essa si fosse opposta al programma ed alla tattica dell’Internazionale di Amsterdam. Si ripete ancora una volta il tragico tentativo di conquistare, attraverso frazioni interne vere o provocate, la direzione di organizzazioni politiche non conquistabili. Nel caso specifico non si poteva nemmeno invocare l’argomento che di organizzazione sindacale si trattasse e che quindi fosse suscettibile di conquista da parte del movimento comunista.

La giustificazione partiva da premesse apparentemente corrette: «La lotta per l’unità del movimento sindacale si snoda come un filo rosso attraverso l’intera attività del Comintern. Questo fatto (...) risulta dal concetto secondo il quale i comunisti lottando per l’unità all’interno dei sindacati, allargano la sfera di influenza dei partiti comunisti e dell’Internazionale comunista, senza staccarsi neppure un instante dalle masse».

Nel progetto di tesi, presentato da Lozovskij, veniva condannata ogni tendenza a lasciare i sindacati riformisti ed era confermata la necessità di una intensa campagna per l’unità sindacale anche là dove la scissione si era già consumata. Tutto questo non poteva non trovare consenziente la Sinistra italiana che si era sempre battuta per l’unità sindacale e la conquista della sua direzione. Ma una cosa è l’organizzazione sindacale nazionale, composta esclusivamente da salariati, e quindi a base di classe anche se diretta da vertici opportunisti, altra cosa era l’organizzazione politica internazionale di Amsterdam, denominata F.S.I., che altro non era che un ministero per la conservazione della pace sociale della Società delle Nazioni.

L’unico serio metodo di lotta per l’unità sindacale, anche a livello internazionale, rimaneva quello che ogni partito doveva condurre all’interno dei propri sindacati nazionali: affasciare attraverso le parole d’ordine classiste le masse operaie unificandole nella lotta quotidiana contro gli attacchi del capitale, sfruttare la spinta delle masse proletarie per estromettere i dirigenti collaborazionisti dalla direzione degli organismi di difesa economica; staccare i sindacati dalla Internazionale gialla di Amsterdam e aderire all’Internazionale Sindacale Rossa.

Le proposte, al contrario, di convocare  un congresso internazionale con la partecipazione di tutti i sindacati aderenti sia a Mosca sia ad Amsterdam; lo scioglimento di dette Internazionali per la creazione di un’altra nella quale avrebbero dovuto convivere ”libertà di agitazione” e ”severa disciplina”, dovevano essere considerate, da chiunque ancora mantenesse un pallido carattere marxista, come una colossale azione di sabotaggio, anche se tali proposte venivano dal V Congresso dell’Internazionale.

(continua)
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra

V Congresso dell’I.C.
giugno-luglio 1924
Dichiarazione della Sinistra sulla questione della tattica

[ È qui ]