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COMUNISMO
n. 37 - settembre 1994
Prentazione
IL SOGNO E BISOGNO DEL COMUNISMO [RG58-59]: (I) Sintesi di nostre tesi generali - I "piani di vita" - Il sovrappiù - La dittatura proletaria: Stato come mezzo di lotta.
RAPPORTO SULLA TEORIA DELLA CONOSCENZA, Esposto alla riunione generale di Casale Monferrato, luglio 1960
PARTITO E SINDACATO: IN GERMANIA TRA VECCHIO E NUOVO SECOLO (continua)
Origine e storia del movimento operaio inglese (continua del numero 35): UN SALTO INDIETRO: LA SOCIETÁ DELLE GILDE
Appunti per la storia della Sinistra: IL DECENNIO DI PREPARAZIONE DELLA SECONDA GUERRA IMPERIALISTA: Come la Società delle Nazioni “Difende la pace” - URSS: La diplomazia di uno Stato capitalista - L’impresa etiopica della borghesia italica
Dall’archivio della Sinistra:
      Il problema della guerra ("Prometeo", n.83, 1 gennaio 1933)
      Verso la nuova Unione Sacra (Carlo Liebknecht, 1919, in "Prometeo", n.108, agosto 1934)

 
 
 
 
 
 
 


PRESENTAZIONE
 

La Rivista presenta ai compagni, ai lettori, il risultato periodico del lavoro del Partito; è uno degli organi con i quali il Partito svolge la sua battaglia per la Rivoluzione. I suoi contenuti allora devono essere letti soltanto in questo modo, a questo fine, e non come saggi più o meno riusciti di professionisti o dilettanti dello scrivere, a ancora peggio, opinioni da dibattere su argomenti storici, economici, “marxisti”.

Chi si aspettasse di trovarvi questa sorta d’attrezzi della palestra della mente, come da sempre ci ha abituato la cultura ufficiale delle riviste teoriche di qualunque specie, il dibattito scientifico in senso generale, non può non rimanere deluso dal nostro modo di lavorare e di presentare il lavoro medesimo, secondo un criterio di “ribadimento dei chiodi”, come con orgoglio l’abbiamo sempre chiamato, che è militante, e non è quella la specie di lettore cui la Rivista si rivolge.

Non abbiamo quindi particolari ubbie di presentare lavori allineati alle ultime e più avanzate risultanze delle “scoperte” di teorici della borghesia o dei pennivendoli venduti all’opportunismo. Il lavoro teorico del Partito che nella sua tradizionale forma di semilavorato viene esposto alle riunioni generali, costituisce il nerbo di questi scritti; non rivendichiamo, rispetto alla nostra tradizione, alcuna novità, così come non pretendiamo alcun diritto d’autore su quanto presentato in queste pagine.

La Rivista ha ormai una vita quindicinale; cosa trascurabile davvero se rapportata all’arco secolare della battaglia del Partito per la Rivoluzione, ma d’altro lato significativa e di grande valore per la sua completa e costante aderenza ai principi e alla dottrina della corrente politica di cui è espressione, assolutamente degna di rivendicare la tradizione di battaglia, di milizia e di studio dei lavori di Partito che l’hanno preceduta.

Proprio avendo origine da rapporti tenuti alle riunioni generali di Partito, il sommario di questa, come dei numeri precedenti, presenta argomenti che si sviluppano come vere e proprie “serie”. In particolare, in questo numero si conclude, negli “Appunti per la Storia della Sinistra”, ormai rubrica fissa, l’esposizione “dal punto di vista del Partito rivoluzionario”, degli avvenimenti del decennio di preparazione della Seconda Guerra imperialista, che era iniziata il numero precedente.

Sempre per la parte “storica”, l’Archivio ripresenta due articoli apparsi su “Prometeo” in quei drammatici anni di controrivoluzione, attinenti alla guerra che si stava approssimandosi: uno scritto per l’occasione, l’altro di commento ad un precedente articolo di Liebknecht scritto alla fine della Prima Guerra mondiale.

Gli “Appunti” e l’”Archivio” sono delle costanti nel sommario della Rivista; è il metodo della nostra tradizione che impone di sondare sempre il passato della nostra classe e del nostro Partito e di quello delle classi e partiti avversari per trovare conferma nell’azione del presente e soprattutto per cogliere e comprendere le tendenze e le necessità dell’azione futura. Questo è un compito a cui il Partito non può mancare, ed è caposaldo nel nostro lavoro teorico.

In questo numeri viene ripresa anche la storia della classe operaia inglese, argomento che è stato sviluppato su altri numeri. E se pur l’esposizione era ormai giunta a tempi a noi ben più recenti, fedeli ad un metodo non scolastico e pedissequo, ci siamo permessi “un salto all’indietro” di qualche secolo per lumeggiare un punto di partenza che crediamo importante nella formazione storica in Inghilterra del proletariato e della forma artigiana, progenitrice della borghesia industriale.

Una breve trattazione della dinamica politica e sindacale in Germania tra ’800 e ’900 completa l’esposizione storica del numero.

La parte teorico-dottrinaria si articola su due lavori, separati tra loro da un intervallo di oltre trenta anni: entrambi presentati a riunioni generali di Partito, il primo a Torino e Firenze nel 1994, l’altro a Casale Monferrato nel 1960. Quest’ ultimo è la trascrizione stenografica del rapporto così come veniva esposto a viva voce. Non abbiamo voluto effettuare interventi di ristrutturazione che ne temperassero la forza espositiva, la polemica appassionata e l’incidere serrato e lo riproponiamo quasi tal quale i compagni allora lo ascoltarono. I due articoli si sviluppano in sintonia perfetta nelle premesse e nelle conclusioni, se pur l’argomentare prende spunto da diverse istanze, considerato il lasso si tempo trascorso. Il nostro lavoro non invecchia, non passa di moda, non si esaurisce col tramontare della forma effimera con cui si traveste l’ideologia della classe avversaria dalla quale traeva argomento di polemica e critica non formale e meramente ideologica, ma totale e di scontro all’ultimo sangue, seppur nell’arena delle idee. Lo scritto di trenta anni fa è quindi vivo e palpitante, attuale come scritto ieri, ed è lavoro nostro, lavoro del Partito; con la stessa serietà di ogni nostro lavoro dell’oggi, trova naturale collocazione su queste pagine.

Un’ultima annotazione a mò di viatico per il lettore affezionato della Rivista. Si è detto che molti articoli sono organizzati in forma di serie; in questo numero sono assenti lavori sull’economia, che pure sono parte insostituibile della nostra analisi, del nostro studio. In particolare non compare, ma solo per esigenze di spazio, il consueto “Grafici dei prospetti statistici del Corso”. Non ce ne vogliano quei nostri lettori, l’articolo è soltanto rimandato al prossimo numero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


IL SOGNO E BISOGNO DEL COMUNISMO
Riunioni generali di Firenze e Torino, gennaio e maggio 1994.

resoconto esteso

(I - Continua al prossimo numero)
 
 
 
 
 
 
 
 



RAPPORTO SULLA TEORIA DELLA CONOSCENZA
Esposto alla riunione generale di Casale Monferrato, luglio 1960
 

Ora nel volume La teoria marxista della conoscenza
 
 
 
 
 
 
 
 
 


PARTITO E SINDACATO IN ITALIA E GERMANIA TRA VECCHIO E NUOVO SECOLO

Riunione generale di Firenze - settembre 1994
 

(continua dal n. 35)

Il Partito Socialdemocratico Tedesco fu senza dubbio la guida della Seconda Internazionale, innanzitutto perchè alla creazione di questa, nel 1889, il partito tedesco aveva già una storia ed una forza niente affatto trascurabile, mentre i partiti socialisti degli altri paesi muovevano i primi passi o dovevano ancora formarsi. A ciò venne ad aggiungersi l’accrescersi numerico e quindi la funzione di avanguardia del proletariato tedesco rispetto al proletariato europeo e quindi mondiale. Tale forza non poteva non esprimersi anche nelle organizzazioni sindacali, sopratutto dopo la fine della legislazione antisocialista del 1890, e con lo sviluppo industriale del 1895/96 che proseguì fino alla fine del secolo. Scrive Franz Mehring, nella sua "Storia della Socialdemocrazia Tedesca", che nel 1893 gli operai organizzati sindacalmente erano circa 200.000, per arrivare nel 1902 a 733.000. Gli organizzati sindacalmente erano però solo il 14% tra gli operai dell’industria e quindi, riconosce giustamente Mehring, c’era ancora da fare un enorme lavoro.

Le organizzazioni sindacali tedesche nascono come sindacati "liberi", ossia aperti a proletari di diverso orientamento politico, ma fortemente influenzati dalla socialdemocrazia. Nel 1863 era stata fondata l’Associazione Generale degli Operai Tedeschi di Lassalle e nel 1869 il Partito Operaio Socialdemocratico di Liebknecht e Bebel, organizzazioni che si unificheranno nel 1875.

Nonostante la concezione negativa sui sindacati propria di Lassalle, i suoi seguaci furono in prima linea nella formazione di organizzazioni sindacali, che andava imponendosi sempre più come necessaria. Altrettanto facevano i militanti del Partito Operaio Socialdemocratico la cui concezione del rapporto tra partito e sindacato era sostanzialmente quella di Marx ed Engels, con i quali non a caso erano in stretto rapporto.

È pur vero che le differenze tra i due partiti non erano poi così grandi come si potrebbe pensare guardando ai rispettivi programmi, come scrive anche Mehring, rendendo omaggio al ruolo svolto da Lassalle e dai suoi seguaci nelle organizzazioni del proletariato tedesco.

Il fatto che il partito di Liebknecht e di Bebel fosse sulle posizioni in cui noi comunisti ci riconosciamo non significa che il marxismo fosse stato digerito ed assimilato dai dirigenti e dai militanti di quel partito. Se andiamo a guardare le dichiarazioni e gli scritti anche dei due principali dirigenti sopra menzionati possiamo fare sicuramente numerose critiche e non solo su questioni secondarie. Un esempio per tutti è la scarsa attenzione dedicata alla "Critica al programma di Gotha", di Marx, il che sta a significare una disponibilità ad annacquare il programma in nome dell’unificazione del 1875. Disse in seguito Liebknecht che se fosse stato per i due vecchi asini di Londra non ci sarebbe stata neanche l’unificazione. Il programma di Erfut del 1891 fece poi proprie molte delle critiche espresse dai "due vecchi asini", segno che non erano poi immotivate.

Nell’ultimo decennio del secolo, con il grande sviluppo del partito e dei sindacati abbiamo anche l’apparire della teoria revisionista di Bernstein, fino ad allora massimo teorico del marxismo assieme a Kautsky. Nel partito sembrano avere maggior fortuna la posizione dei "pratici" alla Auer, il quale amava dichiararsi ignorante nella teoria più di quanto lo fosse realmente ma avversava il revisionismo di Bernstein perchè divideva il partito: per i "pratici" alla Auer la cosa migliore era mantenere il programma "ortodosso" per poi portare avanti la ben collaudata pratica riformistica.

Nella dirigenza sindacale si andava manifestando una crescente diffidenza verso il partito ed una simpatia per il modello tradeunionista inglese. Tale modello, per quanto molto lontano dalla realtà tedesca, era ovviamente affascinante per i dirigenti sindacali poiché in Inghilterra il partito era solo una emanazione delle centrali sindacali, con un rovesciamento di quella piramide di funzioni che ha il suo vertice il partito. La neutralità dei sindacati, termine pessimo ma già usato negli anni precedenti, veniva ora sempre più a significare indifferenza politica: secondo alcuni dirigenti sindacali il sindacato avrebbe dovuto mettersi sul mercato della politica, accettando di collaborare con quei partiti politici e quei candidati che avessero accolto le sue richieste. Queste posizioni di dirigenti importanti erano mal tollerate da molti iscritti ai sindacati che volevano invece mantenere un legame stretto con il partito della classe, dando spesso luogo a sindacati locali in sintonia con il partito e in polemica con la Direzione centrale.

Anche dal partito venivano spesso polemiche verso i sindacati, talvolta erano solo contrasti di bottega tra gruppi dirigenti, ma talaltra erano imperniate sul rapporto tra partito e sindacato. Già al congresso di Halle del 1890 il partito socialdemocratico riconosceva la necessità della lotta economica contro gli atteggiamenti riconducibili alla concezione lassalliana della "legge bronzea dei salari" secondo la quale la lotta sindacale avrebbe distolto gli operai dall’obiettivo del superamento del sistema capitalistico. È al congresso di Colonia del 1893 che vengono fuori le polemiche in merito. In seguito è Kautsky ad intervenirvi impostando correttamente la questione dei rapporti tra partito e sindacato, il quale, come sosteneva Mehring, pur essendo altra cosa che un partito, non può più essere neutrale tra il partito che rappresenta la classe ed i partiti della borghesia.

Lo stesso Kautsky intorno al 1905 alle posizioni corrette già enunciate, ne aggiunge altre meno corrette, proponendo una integrazione della Direzione del partito con rappresentanti delle cooperative e dei sindacati. Nei sindacati e tra i riformisti in generale sembra farsi strada sempre più l’idea di una conduzione del proletariato tedesco a mezzadria tra la Direzione del partito e la Direzione sindacale.

Se andiamo ad esaminare le concezioni storiche generali condivise di fatto nel partito socialdemocratico tedesco, possiamo dire che queste erano formate da un miscuglio di marxismo e di positivismo evoluzionistico in cui c’era forse più Darwin che Marx. Potremmo definire tal ideologia come una sorta di darwinismo sociale, per cui la necessità che porta alla fine del sistema di produzione capitalistico e al socialismo veniva trasformata in una evoluzione naturale verso il socialismo. Mentre nel materialismo dialettico tale processo comporta dei salti e delle rotture, nella concezione sopra accennata abbiamo una evoluzione lenta e inarrestabile per cui il proletariato, grazie ad una lenta e legalitaria conquista dello Stato da parte della sua frazione parlamentare e dei sindacati, si sveglierebbe un bel mattino in una società socialista.

Sappiamo tutti che il proletariato tedesco e mondiale si è svegliato poi una mattina non nel socialismo ma nella Prima Guerra imperialistica, per cui il fallimento di tali concezioni e di tutta la Seconda Internazionale è evidente oggi, come avrebbe dovuto esserlo era ieri. Bisogna anche dire che la Seconda Internazionale era tale più di nome che di fatto in quanto non è mai esistito un vero centro dirigente mondiale come era stato per la Prima Internazionale, pur fra tante difficoltà e contraddizioni, ma si trattava in definitiva di un Ufficio Internazionale in cui si scambiavano pareri i delegati dei vari uffici socialisti.

È necessario però ribadire che nel partito tedesco, nonostante incertezze ed ambiguità, le posizioni dei dirigenti sindacali non avevano grande seguito, mentre erano frequenti gli scritti e gli interventi che impostavano correttamente il rapporto tra partito e sindacato. Su questa linea possiamo mettere Kautsky, Mehring, Parvus ed anche i vecchi Bebel e Liebknecht insieme a molti altri.

Sul revisionismo vi sono alcuni bellissimi brani di Mehring tratti dalla "Storia della socialdemocrazia tedesca" che è bene leggere, o rileggere: «Il marxismo non è la teoria di un individuo, cui un altro individuo ne possa opporre un’altra superiore; esso è piuttosto la lotta di classe proletaria formulata in idee". E prosegue: "Chi vuole andare oltre il marxismo come metodo scientifico e non tornare semplicemente al mondo borghese, cade o nell’eclettismo o nello scetticismo. Nell’eclettismo in quanto costruisce con materiale preso per ogni dove una nuova teoria che, quanto a solidità, non ha niente da invidiare ad un castello in aria. Oppure nello scetticismo in quanto pone dietro ogni proposizione di Marx un punto interrogativo o un forse, secondo il metodo già definito da Lessing, o contrappone ad ogni proposizione qualche cosa di plausibile al cosiddetto buon senso e tralascia tutto il resto con trionfante disprezzo.

Il revisionismo oscilla senza speranza tra la Scilla di quell’eclettismo e la Cariddi di questo scetticismo. La sua vera sostanza è la mancanza di sostanza. Giacchè non intende neppure sé stesso non senza ragione si sente incompreso da tutti; poichè è soltanto nebbia, in un certo senso ha ragione di dire che non è né carne né pesce. Esso rivede la teoria socialista non partendo dal terreno della teoria socialista, bensì da concezioni borghesi, di cui poi esso stesso ha paura e vorrebbe non aver detto niente. Ciò che per il marxismo è un mezzo per lo scopo, la critica costante con cui esso indaga di volta in volta la realtà, per il revisionismo è divenuto scopo a sé stesso; esso rivede per rivedere e per paura di un dogma assoluto respinge ogni verità relativa. Esso non riesce a pensare fino in fondo una sola idea, e si lamenta della mancanza di "buon gusto" se la logica delle cose lo colpisce nel vivo. Così esso dal niente attraverso il niente giunge al niente».

(Continua al n. 38)

 
 
 
 
 
 
 
 
 


ORIGINI E STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO INGLESE
(continua del numero 35)
 

UN SALTO INDIETRO: LA SOCIETÁ DELLE GILDE
 

La misura in cui il sistema delle gilde ancora aleggia all’interno della classe operaia è data dell’invenzione di un tipo di sindacato che apertamente si ricollega al medioevo: il cosiddetto Socialismo delle Gilde.

La richiesta di democrazia nella organizzazione dell’industria e nell’autogoverno industriale dei lavoratori agli inizi di questo secolo fu il sogno dei National Guildsmen, e il testo teorico su cui si fondò il movimento fu intitolata senza ambiguità "La restaurazione del sistema delle gilde". Gli autori del libro, A.R. Orage e S.G. Hobson, entrambi giornalisti del settimanale di sinistra "New Age", fondarono ben presto la "National Guilds League". Queste "Gilde Nazionali", secondo le loro teorie, si sarebbero presto sviluppate dalle Trade Unions, e avrebbero restituito ai lavoratori l’orgoglio dell’artigiano che aveva caratterizzato le gilde medioevali. Queste idee, in gran parte riprese da William Morris e da Ruskin, esercitavano un certo fascino sugli operai specializzati, che giustamente vedevano il loro mestiere minacciato del continuo diffondersi delle macchine. Questo movimento, immediatamente prima e durante il primo massacro imperialista mondiale, ben servì gli interessi del capitale, distraendo gli operai specializzati dal movimento rivoluzionario, e sostenendo invece un sindacalismo all’acqua di rose che rifuggiva l’azione diretta.

Lo scopo di questo articolo è rintracciare le origini delle organizzazioni economiche del moderno proletariato delle isole britanniche. L’età capitalistica ha avuto inizio nella seconda metà del 18° secolo ma tornare indietro fino alle caliginose nebbie medioevali consente di spiegare numerosi fenomeni del movimento sindacale e del movimento operaio in generale.

Il possesso di capacità artigianali, insieme a una piccola bottega, spesso all’interno o adiacente all’abitazione dell’artigiano, è una peculiarità del medioevo, ma che possiamo ancora oggi ritrovare fra la piccola borghesia. Anche il lavoro domestico, che esamineremo in maggiore dettaglio nella parte successiva, ha molti elementi in comune con i mestieri e con le gilde.

Le categorie degli artigiani e dei lavoratori di mestiere possono essere meglio comprese se ci si volge a quel periodo della storia in cui padrone e lavoratore a giornata avevano una certa identità di interessi: la facoltà con la quale un operaio specializzato può divenire un piccolo proprietario determina la identificazione di quei lavoratori con la classe della piccolissima borghesia - classe alla quale questi aspirano per sfuggire al duro lavoro quotidiano nella bottega o nell’officina. Il lavoratore specializzato sarà davvero attirato all’interno del grande movimento dei salariati solo quando le possibilità di espletare appieno le sue capacità, e di "migliorarsi", di "elevarsi", si dimostreranno oltre modo remote. Inoltre, anche una quota considerevole dei lavoratori non specializzati aveva, in alcuni periodi della vita, lavorato "in proprio", o poteva aver sperato di farlo.

Una descrizione di questo regime medioevale ce la danno Marx e Engels nel primo capitalo de "L’ideologia tedesca".

«Alla organizzazione feudale del possesso fondiario corrispondeva nelle città la proprietà corporativa, l’organizzazione feudale dell’artigiano. Qui la proprietà consisteva principalmente nel lavoro di ciascun individuo. La necessità di associarsi contro la rapace nobiltà associata, il bisogno di mercati coperti comuni in un tempo in cui l’industriale era insieme mercante, la crescente concorrenza dei servi della gleba fuggitivi che affluivano nelle città fiorenti, l’organizzazione feudale dell’intero paese, portarono alle corporazioni (o gilde). I piccoli capitali risparmiati a poco a poco dai singoli artigiani e il loro numero stabile in seno a una popolazione crescente fecero sviluppare il rapporto fra garzone e apprendista, che dette origine a una gerarchia simile a quella esistente nelle campagne.

«Nell’età feudale dunque la proprietà principale consisteva da una parte nella proprietà fondiaria, col lavoro servile ad essa legato, dall’altra nel lavoro personale, con un piccolo capitale che si assoggettava il lavoro dei garzoni. L’organizzazione dell’una e dell’altro era condizionata dalle ristrette condizioni dalla produzione: la limitata e rozza coltura della terra e l’industria di tipo artigianale. Durante il fiorire del feudalesimo la divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé l’antagonismo di città e campagna; l’organizzazione in ordini era fortemente marcata, ma al di fuori della separazione fra princìpi, nobiltà, clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni, apprendisti e ben presto anche plebei a giornata nelle città, non esisteva alcuna divisione di rilievo. Nell’agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare, accanto alla quale sorgeva l’industria domestica degli stessi contadini; nell’industria il lavoro non affatto diviso all’interno dei singoli mestieri, pochissimo diviso fra un mestiere e l’altro. La divisione fra industria e commercio preesisteva nelle città più antiche, mentre nelle nuove si sviluppava lentamente, quando fra esse si stabilivano rapporti (...)

«La concorrenza dei servi fuggitivi che affluivano incessantemente nella città, la guerra incessante della campagna contro la città e, di conseguenza, la necessità di una forza militare cittadina organizzata, il legame della proprietà comune in un lavoro determinato, la necessità di edifici in comune per la vendita delle merci in un’epoca in cui gli artigiani erano contemporaneamente commercianti, e la conseguente esclusione degli estranei da questi edifici, la necessità di una protezione del lavoro appreso con fatica e l’organizzazione feudale dell’intero paese furono la causa dell’unione in corporazioni dei lavoratori in ciascun mestiere (...)

«La fuga dei servi nelle città continuò ininterrotta durante tutto il medioevo. Questi servi, perseguitati nelle campagne dai loro signori, arrivavano singolarmente nelle città, dove trovavano una comunità organizzata contro la quale erano impotenti e nella quale dovevano assoggettarsi alla posizione che ad essi assegnava il bisogno del loro lavoro e l’interesse dei loro concorrenti cittadini organizzati. Questi lavoratori che arrivavano uno per uno non poterono mai costituire una forza, perché, se il loro lavoro era regolato da una corporazione e richiedeva di essere appreso, i maestri della corporazione se li sottomettevano e li organizzavano secondo il loro interesse; ovvero, se il loro lavoro non doveva essere appreso e quindi non era regolato da una corporazione ma era lavoro a giornata, essi non arrivavano mai a costituire un’organizzazione e restavano plebe disorganizzata. La necessità del lavoro salariato nelle città creò la plebe (...)

«In ciascun mestiere gli apprendisti erano organizzati nel modo che meglio rispondeva all’interesse dei maestri; il rapporto patriarcale in cui essi si trovavano rispetto ai maestri dava a questi un doppio potere: da una parte nella loro influenza diretta sull’intera vita dei garzoni; d’altra perché questi rapporti rappresentavano un vero legame per i garzoni che lavoravano presso lo stesso maestro, che li teneva uniti ma separati e opposti ai garzoni degli altri maestri; infine i garzoni erano legati all’ordinamento esistente se non altro per l’interesse che avevano a diventare essi stessi maestri. Quindi, mentre la plebe arrivava almeno a compiere delle sommosse contro l’intero ordine cittadino, che però restavano affatto inefficaci a causa della sua impotenza, i garzoni giungevano soltanto a piccole ribellioni all’interno delle singole corporazioni, com’è nella natura stessa del regime corporativo. Le grandi sollevazioni del medioevo partirono tutte dalla campagna, ma restavano ugualmente senza alcun effetto per la dispersione e per la conseguente rozzezza dei contadini.

«Nelle città il capitale era un capitale naturale, che consisteva nell’abitazione, negli strumenti del mestiere e nella clientela naturale, ereditaria, e non essendo vendibile, per le relazioni non ancora sviluppate e per la mancanza di circolazione, doveva essere trasmesso di padre in figlio. Questo capitale non era valutabile in denaro, come quello moderno, per il quale è indifferente l’essere investito in questa o quella cosa; esso era invece direttamente legato al lavoro determinato del possessore, inseparabile da esso, e quindi era un capitale connesso con un ordine sociale.

«Anche nelle città la divisione del lavoro tra le singole corporazioni era ancora assai poco sviluppata e all’interno delle corporazioni stesse, fra i singoli lavoratori non lo era affatto. Ogni lavoratore doveva essere abile in tutto un ciclo di lavoro, doveva saper fare tutto ciò che andava fatto con i suoi strumenti; le relazioni limitate e gli scarsi collegamenti tra le diverse città, la rarità della popolazione e la limitatezza dei bisogni non consentiva il sorgere di una divisione del lavoro più spinta, e perciò chiunque voleva diventare maestro doveva essere completamente padrone del suo mestiere».

In questo brano Marx e Engels presentano per la prima volta il comunismo scientifico. Noi li citiamo senza risparmio - a dispetto di coloro che cercano l’originalità a tutti i costi - perché bene rappresentano il periodo più classico delle gilde, e cioè, in Gran Bretagna, il periodo che va da Guglielmo il Conquistatore alla rivolta dei contadini.

Prima di tornare all’analisi che Marx fa del lavoro artigianale delle gilde, descriviamo brevemente lo sviluppo delle città in quel periodo, il che è necessario per raccordare la citazione precedente alla condizioni storiche specificamente inglesi, e anche perché abbiamo bisogno di conoscere il rapporto di Londra con le provincie, per poter poi spiegare successivi episodi del movimento operaio inglese.

All’epoca della conquista normanna (1066) le città erano ancora strettamente legate alla campagna. Nella città di Derby, per esempio, il Domesday Book riporta che vi erano 243 borghigiani; la terra comune intorno alla città era divisa tra 41 di questi cittadini, che in comune possedevano dodici aratri e un ugual numero di coppie di buoi. Delle tasse, dazi imposte dovuti, al Re spettavano i due terzi, il resto andava al Conte. Ovviamente si trattava ancora di una comunità essenzialmente rurale.

Per quanto riguarda il termine burgess (borghigiano), esso aveva già assunto, all’epoca della conquista normanna, un contenuto abbastanza definito; non indicava tutti gli abitanti della comunità cittadina (già chiamata anche borough, borgo) ma solo coloro la cui proprietà esisteva sotto forma di burgage tenure o borough tenure, i quale loro possedimenti - cioè case, botteghe e capanne - pagavano una somma fissa in denaro legata alla rendita, erano ritenuti ereditabili e potevano essere liberamente ipotecati e venduti. Questo tipo di possesso era limitato alle città, ed era in aperto contrasto con quanto regolava le attività economiche del mondo rurale. Già si stava formando un corpo di leggi particolari, che sarebbe poi sfociato, qualche secolo più tardi, in una legislazione più completa ed ufficiale. Uno dei primi atti di Guglielmo II il Conquistatore fu la concessione di una "Carta", o legislazione particolare, alla città di Londra, che garantiva che i cittadini avrebbero goduto delle stesse leggi che avevano "ai tempi di Re Eduardo", che ogni figlio ereditava dal padre; e che egli non "avrebbe permesso ad alcuno di far loro del male".

A quest’epoca le città costituivano ancora un’anomalia, rispetto al sistema feudale fondato sulla terra e sull’agricoltura, e il tipo di tassazione cui erano sottoposte le diverse città era conosciuto col nome di tallage (taglia); era un termine questo associato alla mancanza di libertà, e i borghigiani, anche se liberi individualmente, erano posti in una posizione analoga a quella dei servi dei manieri nei possedimenti della Corona.

Londra, in posizione strategica per il commercio con le Lowlands, e sede del governo, fu sempre all’avanguardia degli sviluppi economici. All’estremo occidentale della grande via commerciale che proveniva da Costantinopoli e dal Medio Oriente, sui suoi moli ogni giorno venivano scaricate merci le più varie, spezie, cotte di maglia, sete, biancherie, vini. Di tutto questo ben di Dio il sovrano aveva il "diritto di prima scelta", e uno dei compiti dello sceriffo era proprio quello di assisterlo mentre esercitava questo diritto. Poi venivano i londinesi, e solo successivamente erano ammessi agli acquisti i mercanti di Winchester e Oxford. I mercanti di Londra apprendevano così le ultime tecniche finanziarie dai commercianti del continente, e divenivano un prezioso sostegno per la monarchia, che era sempre più costretta a conceder loro condizioni favorevoli per potersene garantire il fedele appoggio.

Anche prima della conquista, ma in modo molto più determinato ai tempi di Riccardo I e Giovanni Senzaterra, le città tentarono di creare quelle che sono oggi conosciute come gilde dei mercanti e che costituirono il primo passo in direzione di una amministrazione indipendente della comunità. Esse erano composte dai rappresentanti dei diversi mestieri, ed il loro scopo principale era di proteggere gli interessi dei loro membri, escludere gli estranei e prevenire l’insorgere della concorrenza all’interno della comunità. Tutti i commerciati (commerciante e produttore erano in genere la stessa persona) dovevano appartenere alla gilda, e pesanti multe e punizioni venivano comminate ai cosiddetti "estranei". L’organizzazione si dava anche da fare per contenere le prepotenze dei funzionari del Re e dei nobili locali, che spesso si presentavano per raccogliere un dato tributo, e che altrettanto spesso cercavano di incamerare tangenti per se stessi, a spese dei borghigiani.

Un avvenimento chiave a questo riguardo si ebbe nel 1130 quando ai cittadini di Lincoln e Londra fu consentito da Enrico I di rendere conto per le tasse direttamente allo Scacchiere, e non più attraverso il locale funzionario governativo, lo Sceriffo (shire-reeve). La concessione di questa Carta diede al Londra il controllo non solo dei tributi della stessa Londra, ma anche di quelli della contea del Middlesex, all’interno della quale la città di trovava. I londinesi, recitava la Carta, non avrebbero avuto altro signore all’infuori del Re: i loro Sceriffi sarebbero stati eletti dai cittadini, invece che nominati dal Re o dai suoi successori.

Alla morte del Re, nel 1135, la guerra civile devastò il paese, e in questo periodo i mercanti di Londra riuscirono ad assicurarsi, anche se temporaneamente, un status di completa indipendenza, come comune libero. Ma al termine della guerra civile Londra aveva perduto la sua indipendenza, e ciò significò anche il ritorno alle pesanti tassazioni. L’ascesa al trono di Enrico II, nel 1154, significò tra l’altro un costante impegno da parte della Corona ad impedire il diffondersi del movimento per la costituzione di liberi comuni che proveniva dal continente: a Gloucester e a York il tentativo di costituire comuni fu soffocato con durezza, e alla fine il regno di Enrico solo cinque città, oltre Londra, erano direttamente responsabili verso la Corona per le loro tasse, e nessuna di esse poteva considerarsi certa di poter mantenere tale privilegio.

Riccardo e Giovanni, i successori di Enrico, restituirono numerosi privilegi alle città, almeno finché queste erano in condizioni di pagare ricche taglie. Ma in materia di tasse, come pure sotto altri aspetti, Londra godeva di una situazione particolare. Non corrispondeva una taglia, ma piuttosto "aiuti" e "donazioni", una forma di tassazione che contraddistingueva gli uomini liberi. La città raggiunse di nuovo la condizione di piena indipendenza durante le agitazioni del 1191, quando ricevette la "concezione del comune". Questo Communia, o corporazione governata da un sindaco, era un corpo giurato di borghesi e cittadini, che intendeva escludere qualsiasi interferenza esterna e governare la città in piena sovranità, mantenendo una forza armata, le Armed Bands, capace di difendere le mura. Anche se la condizione ufficiale di comune ebbe breve vita, la città di Londra, in quanto sede di interessi nazionali oltre che locali, riuscì ad assicurarsi in questo periodo un gran numero di vantaggi duraturi.

Londra fu sempre la prima corporazione municipale in Inghilterra, e sarebbe servita come modello per le ventotto minori città medioevali che in seguito avrebbero ricevuto a loro volta una Carta. Fu costituita la prima corte degli Aldermen, o degli Anziani, «venticinque dei più discreti uomini della città, che avevano giurato di prendere le decisioni per il bene della città», che sedevano insieme al Sindaco. Nel 1197 Sindaco e Corporazioni ricevettero il controllo di ampi tratti del Tamigi, e questo favorì un ulteriore sviluppo del commercio: ai Guardiani della Torre fu vietato di pretendere più dell’importo di legge per il pedaggio delle navi che risalivano il fiume, e tutte le pescaie vennero rimosse: seppure molto utili ai pescatori, creavano problemi alle navi commerciali. Nel 1208 la città aveva pagato la gran parte di un debito di 1.000 sterline che si era assunta nel 1204, in cambio dell’esenzione dall’obbligo della coscrizione per l’esercito del Re all’estero.

I cittadini erano considerati come baroni, e collettivamente pagavano tasse baronali; anche il sindaco Mayor cominciò ad essere chiamato Lord Mayor dopo le rivolte contadine. I privilegi di Londra, e di tutte le altre città, sarebbero stati confermati dalla Magna Carta del 1215, nella quale, oltre alla istituzione di un sistema nazionale di pesi e misure, venne stabilito un nuovo principio: l’ufficio di Sindaco non sarebbe più stato a vita, ed ereditario, ma elettivo.

Nel 1216 la concessione perpetua di questa firma burgi era stata fatta a numerose città, che così potevano pagare le tasse direttamente allo Scacchiere, ed una dozzina di queste avevano anche conquistato il diritto di eleggere i loro propri sindaci, o mayors, come vennero ovunque denominati i primi funzionari delle città. Questi privilegi venivano dalla concessione di una specifica Carta della città, che di solito consentiva anche alla creazione di una gilda di mercanti. Le Carte concedevano altresì il diritto della città di eleggere i loro funzionari e, cosa forse più importante di tutte, di costituire le sue corti di giustizia e di eleggere i suoi magistrati.

Inizialmente le gilde artigiane erano parte delle prime, onnicomprensive, gilde dei mercanti, ma presto ogni singolo mestiere cominciò ad organizzarsi autonomamente, con i suoi funzionari, impiegati, ecc. Con la crescita della città, nel dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo secolo, le gilde dei mercanti si frammentarono in numerose associazioni più piccole, che diedero origine alle gilde di mestiere. I primi settori produttivo-commerciali ad organizzarsi in questo modo furono quelli legati alla lana, e già nel dodicesimo secolo apparvero nei principali centri gilde di tessitori e di follatori. A Londra la gilda dei tessitori divenne così importante che il governo della città tentò di farla sciogliere, offrendo denaro al re; ma la città poi non fece fronte all’impegno col re, mentre i tessitori aumentarono i loro pagamenti annuali, con grande soddisfazione della Corona, che vedeva sorgere una nuova, ricca, fonte di entrate. Presto vi furono gilde per la produzione di derrate, di attrezzi agricoli e dei mestieri legati all’equipaggiamento dei cavalieri e dei cavalli; ogni grande città aveva gilde di fornai, macellai, birrai, fabbri, rotai, conciatori, calzettai, calderai, ecc.

Molte delle gilde di mestiere a quest’epoca non erano registrate, e conosciute col nome di gilde "adultere", ma avere un controllo più stretto sulle organizzazioni di mestiere conveniva sia al governo della città, per intestare le tasse e controllare i mestieri, sia della Corona, per riscuotere entrate supplementari grazie alla concessione, a pagamento, delle Carte. Così sembra che nel 1180 Enrico II, rendendosi conto che numerose gilde non gli versavano alcun tributo, abbia fatto uno sforzo particolare per scoprire queste associazioni senza permesso e multarle. A differenza delle gilde delle altre città, i londinesi non si facevano in quattro per pagare i loro tributi, e ancora verso la metà del regno di Giovanni, nel 1208, dovevano all’erario tutte le 120 sterline delle quali erano già debitori nel 1180.

Più tardi, verso la fine del tredicesimo secolo, con l’espansione dell’esportazione di stoffe e con i mercanti inglesi che sempre più prendono in mano questo commercio, la nuova classe dei mercanti comincia a dominare il governo cittadino, che sempre meno di preoccupa i preservare i monopoli locali; questa classe gradualmente conquista una posizione dominante sulle gilde dei produttori, ormai complessivamente asserviti ai suoi voleri.

Nel quaderno 5 del "Grundisse", Marx spiega come la sua preoccupazione nel delineare la struttura delle gilde non derivi da cause puramente storiografiche: «Ciò che qui ci interessa innanzitutto è quanto segue: il rapporto del lavoro col capitale, ossia con le condizioni oggettive del lavoro come capitale, presuppone un processo storico che dissolve le diverse forme in cui il lavoratore è proprietario o il proprietario lavora». La prima fase consiste nella «dissoluzione del rapporto con la terra - col suolo - quale condizione naturale di produzione - alla quale egli si riferisce come alla sua propria esistenza inorganica, al laboratorio delle sue forze e al dominio della sua volontà». La fase successiva, quella che a noi qui preme, è la «dissoluzione dei rapporti in cui egli figura come proprietario dello strumento», in cui «la proprietà del lavoratore sullo strumento presuppone una forma particolare di sviluppo del lavoro manifatturiero come lavoro artigianale, a questo è connesso il sistema delle corporazioni ecc. (...) Qui il lavoro stesso è ancora per metà artistico, per metà fine a sé stesso ecc. Maestria. Il capitalista è ancora il mastro. La particolare abilità nel lavoro assicura anche il possesso dello strumento ecc. ecc. Ereditarietà quindi, in un certo qual senso, del modo di lavoro, oltre che all’organizzazione del lavoro e dello strumento di lavoro. Assetto delle città medioevali. Il lavoro è ancora personale; un determinato sviluppo autosufficiente di capacità unilaterali ecc. (...) È implicito in entrambi i casi che prima della produzione il capitalista è in possesso dei mezzi di consumo necessari per vivere come produttore (...) Come proprietario fondiario egli appare direttamente provvisto del fondo di consumo necessario. Come mastro artigiano egli lo ha ereditato, guadagnato, risparmiato, e come garzone di bottega è dapprima apprendista, condizione questa in cui egli non figura ancora affatto come vero e proprio lavoratore autonomo, ma alla maniera patriarcale siede alla mensa del maestro. Come garzone (effettivo) sussiste una certa comunanza del fondo di consumo posseduto dal maestro. Sebbene questo fondo non sia proprietà del garzone, le leggi della corporazione, la loro tradizione ecc. prevedono almeno la sua partecipazione al possesso ecc.». Più avanti Marx aggiunge: «Nel caso dei mestieri della città, anche se questi poggiano essenzialmente sullo scambio e sulla creazione di valori di scambio, lo scopo diretto e principale di questa produzione è la sussistenza come artigiani, come mastri-garzoni, e quindi il valore d’uso; non la ricchezza, non il valore di scambio in quanto tale. La produzione è quindi sempre subordinata a un dato consumo, l’offerta alla domanda, e si espande con lentezza».

Uno degli elementi, comunque, che distrusse l’intero sistema artigianale feudale, fu il modo in cui si riproduceva il ruolo del maestro artigiano. Questa posizione divenne in genere ereditaria, trasmessa di padre in figlio, e dove questo non si verificava, per varie ragioni, si instaurava una competizione, che di solito si risolveva con l’emigrazione verso un’altra città dello sconfitto. In altre parole, il garzone da un certo momento in poi ebbe più la certezza di poter sopravvivere in modo accettabile in seguito al raggiungimento della condizione di maestro, e meno che mai quelli che non riuscivano a completare l’apprendistato.

Così si venne a creare un’altra categoria di salariati, nelle città, intermedia, e talvolta in parte sovrapposta, tra la plebe senza mestiere e il garzone di bottega. In termini più generici, si trattava del lavoratore a contratto (Covenant man), o servitore. In genere si trattava di artigiani viaggianti che non avevano completato il loro apprendistato, o che avendolo pur fatto, e conseguito il rango di garzone, non trovavano lavoro e dovevano spostarsi in altre città. Questo "straniero" - in quanto non nato all’interno della città o del villaggio - era soggetto a regole diverse per lo svolgimento della sua attività, a seconda del mestiere, luogo e circostanze. Ai conciatetti che giungevano a Lincoln veniva semplicemente detto: «entra a far parte della corporazione, o lascia la città»; i cappellai che arrivavano a Londra venivano interrogati, per appurare se avessero abbandonato il loro ultimo maestro mentre gli dovevano del denaro.

In genere a nessuno veniva consentito di iniziare la sua attività senza dare una prova della sua capacità professionale: perché lo straniero sia "conosciuto e provato" in genere vi era un periodo di prova, per il quale allo straniero di faceva pagare un piccola somma, di solito un penny (questo era per esempio il prezzo per poter lavorare tra follatori di Lincoln nel 1330, e un secolo e mezzo dopo tra i calzolai di Norwich). Se lo straniero si dimostrava competente, allora si poteva stabilire un "patto" di dodici mesi, una garanzia di lavoro per il lavoratore "a contratto", una garanzia di un anno di lavoro ad un salario cui il maestro è obbligato ad attenersi, in quanto questi lavoratori a contratto erano pagati al salario più basso possibile, che, nel caso della corporazione dei fornai, era la metà del salario locale. Il governo della città e le gilde si preoccupavano anche di regolare i salari del lavoro senza apprendistato, di attività di servizi che non richiedevano qualificazione.

Una volta che l’apprendista aveva compiuto il periodo prescritto presso il maestro, in teoria era pronto a mettere su una bottega in proprio, ma in realtà, di solito, continuava a lavorare per un altro periodo non definito come garzone (journeyman), un lavoratore pagato a giornata (da journèe). Spesso il maestro aveva uno o due garzoni, del suo stesso grado sociale, e spesso era anche il figlio di un maestro dello stesso mestiere o di uno affine. Comune era anche che un garzone sposasse la figlia del maestro, mantenendo così la proprietà in famiglia - non è difficile qui veder emergere dalle nebbie del passato la famosa "ditta familiare", così cara alla piccola borghesia dei nostri giorni.

Così, di tutti gli apprendisti e garzoni in una data bottega, solo uno, nel migliore dei casi, poteva avere un’interesse diretto dell’andamento degli affari del maestro-padrone. Infatti a Londra, che fino al XVII secolo costituiva una specie di scuola di specializzazione per apprendisti, solo uno su cinque di loro era lì per diventare maestro, gli altri sarebbero partiti a cercare lavoro da qualche altra parte. Tutti si aspettavano di divenire maestri, ma quelli senza uno spazio ereditario nel mercato, o senza una bottega e strumenti ereditari, abbisognavano di un piccolo capitale per iniziare, e di conseguenza un salario sufficientemente alto. Così, anche se molti garzoni potevano essere pagati in natura, e "condividere il fondo di consumo" dei padroni, solo quelli che nutrivano aspettative ereditarie potevano permetterselo.

Ecco che qui si comincia a intravedere la pressione sul sistema delle gilde. Il maestro poteva remunerare sufficientemente, in misura da consentire loro un giorno di mettersi in proprio, solo uno o due garzoni. Era il maestro un capitalista? Il possessore di denaro o di merci si trasforma effettivamente in capitalista solo in quei casi in cui la somma minima anticipata per la produzione supera di gran lunga i massimi impiegati durante il medioevo. Se dobbiamo tracciare un confine tra un genuino capitalista ed un artigiano, la soglia dipende dal numero di lavoratori che impiega, e dal numero che è possibile impiegare in rapporto ad una data quantità di capitale disponibile per salari. Il tenore di vita del padrone-maestro nel medioevo non era di solito molto più alto di quello dei suoi garzoni e apprendisti, ma non vi è dubbio che il pagamento fatto principalmente in natura agli apprendisti, e spesso anche ai garzoni e ai lavoratori a contratto, significa che i consumi del lavoratore subivano un completo controllo da parte del padrone. Più tardi questo fenomeno si sarebbe cristallizzato in apprendistati sempre più lunghi, accettati nella tradizione, e nelle leggi, via via che il padrone considerava coloro che lavoravano nella sua bottega più come fonti di plusvalore che come coloro cui trasmettere "i segreti del mestiere".

Ma, a parte la questione del pagamento in natura, è importante comprendere quale sia la distinzione che esiste tra il piccolo padrone e il capitalista. Citiamo Marx, dal capitolo Saggio e massa del plusvalore del "Capitale": «Il minimo di capitale variabile [capitale speso in salari, n.d.r.] è il prezzo di costo di una singola forza lavoro utilizzata tutto l’anno, di giorno in giorno, per ottenere plusvalore. Se questo operaio possedesse i suoi mezzi di produzione e si accontentasse di vivere da operaio, gli basterebbe il tempo di lavoro necessario per la riproduzione dei propri mezzi di sussistenza, diciamo 8 ore al giorno: quindi, avrebbe anche bisogno solo di mezzi di produzione per 8 ore lavorative. Il capitalista invece, che gli fa compiere, oltre a queste 8 ore (mettiamo), 4 ore di pluslavoro, ha bisogno di una somma di denaro addizionale per procurarsi i mezzi di produzione supplementari. Nella nostra ipotesi, tuttavia, egli dovrebbe già impiegare due operai per vivere, col plusvalore di cui si appropria quotidianamente, come vive un operaio, cioè per soddisfare i suoi bisogni necessari. In questo caso, la scopo della sua produzione sarebbe la mera sussistenza, non l’incremento della ricchezza, mentre proprio quest’ultimo è presupposto nel caso della produzione capitalista. Per vivere solo due volte meglio di un operaio comune, e riconvertire in capitale le metà del plusvalore prodotto, egli dovrebbe, insieme al numero di operai, aumentare di 8 volte il minimo di capitale anticipato. Certo, egli stesso può, come il suo operaio, mettere mano direttamente al processo di produzione, ma allora non sarà che qualcosa di mezzo fra il capitalista e l’operaio, un piccolo padrone».

Un esempio di questo ibrido sociale si può trovare tra i mestieri dell’edilizia medioevale. I lavoratori specializzati di questi mestieri erano nel medioevo senza dubbio i più combattivi, e in realtà molte delle prime leggi sul lavoro intendevano colpire proprio loro; una delle clausole dello statuto del 1351 stabiliva il salario dei maestri carpentieri e dei conciatetti in tre penny al giorno, e in un solo penny per i loro "servi e garzoni" (una bella differenza, ma già nel 1500 i maestri muratori che riparavano la torre del municipio di Edimburgo ricevono 10 penny la settimana, mentre i loro garzoni una somma quasi identica, 9 penny). Se pensiamo che nel medioevo furono costruiti circa 1500 castelli, per non parlare delle stesse città, possiamo capire quanto importanti queste regole fossero per coloro che li assoldavano.

E il lavoro non mancava davvero. I muratori trattavano direttamente con il committente, che comprava tutti i materiali e assumeva, a prestabiliti salari giornalieri, sia i mastri muratori che i loro apprendisti e manovali. Si trattava di produttori indipendenti, che vendevano nient’altro che lavoro, il loro lavoro specializzato. Comunque, dal XV al XVIII secolo vi è una singolare mancanza di notizie su qualsiasi forma di associazionismo sindacale nel settore dell’edilizia, che contrasta con la combattività di quelle categorie nei secoli precedenti. La spiegazione sembra sia da ricercarsi nella crescente specializzazione dei mestieri di questo settore; i maestri venivano sempre più integrati nel sistema delle gilde, e i garzoni erano cointeressati in questo crescente corporativismo. Ma quando il costruttore capitalista, o a contratto, cominciò a fare a meno del maestro muratore, del maestro stuccatore, ecc., e questa categoria di piccoli imprenditori dovette cedere il passo a una gerarchia di lavoratori salariati, allora si ebbe l’inizio dei sindacati (Trade Unions) nel senso moderno della parola.

Nel frattempo, comunque, dentro e fuori del sistema delle gilde, il lavoro salariato si stava evolvendo. Nel capitolo del "Capitale" La cosiddetta accumulazione originaria, al paragrafo dal significativo titolo Legislazione sanguinaria contro gli espropriati, Marx ha da dire: «La classe degli operai salariati, sorta nell’ultima metà del secolo XIV, non formava allora e nel secolo successivo che una frazione esigua della popolazione totale, e la sua posizione era fortemente protetta dall’esistenza della piccola proprietà contadina autonoma nelle campagne e dall’organizzazione corporativa nelle città. In quelle come in queste, padrone e operaio erano socialmente vicini. La subordinazione del lavoro al capitale era soltanto formale, cioè il modo di produzione non aveva ancora un carattere specificatamente capitalistico. L’elemento variabile del capitale prevaleva nettamente su quello costante. Perciò la richiesta di lavoro salariato cresceva rapidamente con ogni accumulazione del capitale, mentre l’offerta di lavoro salariato la seguiva solo a lento passo. Una gran parte del prodotto nazionale, poi convertita in fondo di accumulazione del capitale, continuava allora ad entrare nel fondo di consumo dell’operaio». La disponibilità di manodopera, nel frattempo, diveniva sempre più scarsa, a causa del gran numero di uomini richiesti delle guerre nelle Fiandre e in Francia, e per la devastazione portata dalla peste: la popolazione si ridusse di oltre un milione di anime, su un totale stimato, prima del 1349, a tre milioni e mezzo.

Uno dei primi interventi legislativi sul lavoro salariato - sin dall’inizio tendenti allo sfruttamento del lavoratore, e da allora sempre ugualmente a lui ostili - fu l’ordinanza reale del 1349, di Edoardo III, poi confermata nello Statuto dei Lavoratori del 1351. Vi si fissa una tariffa salariale legale per città e campagna, per lavoro al pezzo e lavoro a giornata. I lavoratori agricoli devono affittarsi ad anno, quelli urbani "su mercato aperto". È vietato, pena il carcere, pagare un salario superiore a quello statuario, ma l’accettazione di un salario superiore è punita più duramente della sua corresponsione. Così anche nello statuto degli apprendisti di Elisabetta si commina una pena detentiva di dieci giorni a che paga un salario superiore alla tariffa, ma di ventun giorni per chi lo riceve.

Diverse centinaia di ispettori furono nominati per spostarsi nel paese per punire gli operai che si rifiutavano di accettare i salari statuari. I casi che furono loro sottoposti furono decine di migliaia, ed il loro passaggio di contea in contea lasciava un segno di scontento e di rivolte; assalti organizzati furono portati contro tribunali in seduta nel 1351 nel Middlesex, nel 1352 nel Lincolnnshire, nel 1359 a Northampton. È abbastanza significativo che nel 1364 e nel 1373 fu riaffermato nei tribunali che lo statuto doveva essere applicato agli artigiani dei mestieri, e non solo ai braccianti agricoli.

Fu concessa autorità ai datori di detenere, ove fosse loro possibile, chiunque si trovasse "senza padrone" e rifiutasse un’offerta di lavoro, e di farli lavorare alle tariffe prestabilite. Uno statuto del 1360 inasprì le pene e autorizzò il padrone a estorcere lavoro alla tariffa legale mediante costrizione fisica. Nel 1361 una legge di Edoardo III aboliva e rendeva «nulli e invalidi tutte le combinazioni, i contratti, e giuramenti, ecc., coi quali muratori e falegnami si vincolano l’un l’altro», e ordinava «che ogni cotale artigiano sia costretto a servire il suo padrone e a compiere ogni lavoro di sua pertinenza» (guarda caso, nel 1359 ben 1.600 muratori erano stati ingaggiati, in seguito a coscrizione della Corona, per lavori di ingrandimento del castello di Windsor). Le cosiddette combinazioni erano comunque già da tempo illegali, sin da uno statuto di Eduardo I del 1305, ma evidentemente si ritenne necessario emettere una legge speciale per meglio controllare muratori e carpentieri. Lo Statuto del 1351 sarebbe stato poi riesumato altre cinque volte prima della Rivolta dei contadini, e ogni volta le modifiche sarebbero state solo di aumento delle pene previste.

Marx: «La coalizione fra operai viene trattata come delitto grave dal secolo XIV fino al 1825, l’anno della revoca delle leggi contro le coalizioni. Lo spirito dello statuto dei lavoratori del 1351 e dei suoi successori brilla di chiara luce nell’imposizione per intervento dello Stato di un massimo del salario, ma non, per carità!, di un minimo».

Queste prime leggi sul lavoro indebolirono direttamente la posizione favorevole nella quale il lavoratore salariato si era venuto a trovare grazie alla scarsità di manodopera. Sempre più erano ora i servi della gleba che pretendevano dal signore feudale pagamenti in denaro per le loro prestazioni di lavoro, fatto che la dice lunga su come si stava sviluppando una economia basata sulla moneta, per il fatto che sempre più servi abbandonavano la tutela del castello per andare a vendere il loro lavoro al più alto offerente. In molti casi le leggi intendevano semplicemente preservare il vecchio sistema, ed espressamente proibivano di dare alcun denaro ai "vagabondi", "a titolo di pietà o carità". Le relazioni del Principe Nero sono piene di resoconti su come i suoi uomini cacciavano e punivano i "latitanti". Assai interessante è il fatto che numerosi signori presentavano irose petizioni al parlamento, lamentando il fatto che spesso i contadini si mettevano insieme per assoldare avvocati e difendere in tribunale singoli casi, o che i servi formavano localmente organizzazioni per preparare scioperi, rifiutando di lavorare la terra del loro legittimo signore, e mettendo insieme il loro denaro per aiutare quelli di loro che avevano perduto casa e terra a causa di queste iniziative di lotta.

Nel 1377 fu imposto il primo testatico (poll tax), poi rivisto nel 1380 solo per essere reso tre volte più esoso. Questa tassa, studiata appositamente per sollevare il sorgente contadiname indipendente dal peso della nuova ricchezza che stava accumulando, insieme ad una nuova epidemia di peste fu la scintilla che innescò la rivolta contadina del 1381. Obiettivo dei contadini e dei servi era di distruggere gli archivi del castello: i resoconti scritti, e gli editti della corte del castello, o maniero, nei quali erano riportati i debiti e gli obblighi delle classi subordinate nei confronti del signore. Inoltre, la petizione che in seguito fu presentata al Re conteneva tre richieste, chiaramente rivolte alla modifica dello Statuto dei Lavoratori: 1) completa abolizione della servitù; 2) diritto alla vendita del lavoro attraverso libera contrattazione; 3) affitto della terra stabilito a quattro penny per acro. Il giorno successivo alla presentazione della petizione i contadini non incontrarono resistenza alla loro entrata nella Torre di Londra, dove, con calma, decapitarono l’Arcivescovo di Canterbury, il tesoriere del Re, il cerimoniere di corte ed un sfortunato fraticello.

Molti artigiani sarebbero poi stati arrestati, dopo la fine della rivolta, e avrebbero rivelato in che modo una organizzazione nazionale se era formata per la preparazione della sollevazione. Numerosi apprendisti e garzoni di Londra si erano schierati con i ribelli durante l’occupazione della città, il che era anche venuto a proposito per poter massacrare i tessitori fiamminghi, cui erano stati concessi dalla Corona particolari privilegi, nella speranza che contribuissero a creare un commercio di tessuti. Nella rivolta è anche possibile intravedere sprazzi di comunismo, nei discorsi di uno dei suoi capi, Ball. Il seguente esempio della sua predicazione ci è stato tramandato da Froissart, cronista francese dell’epoca: «Miei buoni amici, le cose non possono andare bene in Inghilterra, né potranno andare bene fino a quando tutte le cose non saranno in comune; quando non vi sarà vassallo né signore, e tutte le distinzioni scomparse; quando i signori non saranno più padroni che noi stessi».

Il comunismo a quei tempi poteva essere facilmente incanalato nel semplice anticlericalismo; e la nobiltà feudale era fin troppo contenta di avere una base teorica dalla quale attaccare la chiesa e toglierle tutte le proprietà - almeno finché queste nozioni da scomunica non si estendevano alle questioni secolari. Ci riferiamo al comunismo teologico di Wycliffe, e ai suoi legami con Giovanni di Gaunt (che dominava sul consiglio dei baroni, l’organo di gestione del governo nella prima parte del regno di Riccardo II). E di fatto diverse concessioni furono fatte, in seguito alla rivolta, ai cittadini che avevano subito l’interferenza nei loro affari dei locali baroni del clero. A St. Albanz l’abbazia fu saccheggiata, a Bury priore e giudice furono messi alla berlina in piazza del mercato.

La rivolta, di fatto, raggiunse gran parte dei suoi scopi nello spazio di pochi anni. Essa avrebbe accelerato la dissoluzione del feudalesimo, favorendo il passaggio della servitù della gleba, che contemplava la corresponsione di lavoro gratuito e altri servizi, nell’affitto in denaro (fatto che aveva dei precedenti fin dalla metà del secolo XII); questo permise a numerosi servi della gleba di comprarsi la libertà dai legami feudali, e divenire piccoli agricoltori affittuari. Nel 1429 i freeholders (piccoli proprietari) da 40 scellini l’anno si erano già conquistati il diritto di far parte delle locali corti di contea, e questo diritto e privilegio rimase valido fino alla Legge di Riforma del 1832. Nel 1422 il vecchio sistema dei signori del maniero era praticamente finito. Un’altra vittoria, senza dubbio, fu che la poll tax sarebbe stata cambiata, ed infatti nel 1382 una nuova poll tax fu promulgata, ma che riguardava solo i proprietari terrieri, dietro la giustificazione della "povertà del Paese". Nei nostri anni ’80 un’altra poll tax è riapparsa... ma nemmeno questa è durata.

Per quanto riguarda l’abolizione delle restrizioni sulla retribuzione dei salariati, nel 1390 fu introdotto un nuovo Statuto dei Lavoratori che dava autorità ai locali giudici di pace di fissare i livelli salariali nei loro distretti tenendo conto dei prezzi prevalenti; che poi i salari continuarono a salire sembra provato dalla raccomandazione fatta nel 1444, che essi non superassero il doppio dei livelli stabiliti nel 1390. Verso la metà del periodo Tudor i salari avrebbero cessato di essere soggetti a qualsiasi reale legislazione.

Questo proliferare di legislazione sul lavoro salariato segna l’ingresso in una nuova epoca: l’epoca del commercio e della manifattura, centrata sul commercio dei tessuti e delle materie prime.

Tra coloro interessati nel commercio dei tessuti troviamo un mercante, ricco in modo sbalorditivo, che divenne Sindaco di Londra 13 anni dopo la Rivolta dei contadini; un uomo così incredibilmente ricco da donare 2.000 sterline per finanziare gli arciere dalla battagli di Anzicourt, nel 1415; un uomo la cui fortuna fu così enorme che ancora oggi 400 pensioni di carità, vitalizi e sostegni vari sono pagati annualmente dalla sua proprietà: la Whittington Estate. Anche se Dick Wittington, questo era il suo nome, è famosissimo per aver posseduto un gatto parlante che indossava stivali (e chi siamo noi per contestarlo?), segna anche l’inizio di una nuova era. Era membro della gilda dei commercianti di tessuti. L’anno successivo alla concessione alla gilda di una Carta reale (il 1934, anche se i primi riferimenti alla gilda risalgono al 1347), egli divenne il primo Lord Mayor di Londra. Questa gilda dei commercianti di stoffe avrebbe di fatto dominato l’attività commerciale dei mercanti avventurieri del XV secolo. Significativamente la sede della sue riunioni sarebbe poi divenuta la prima sede della Banca d’Inghilterra - chiara prova di continuità sotto i cambiamenti. Si trattava in tutta evidenza di un nuovo tipo di gilda, e contrassegnava l’avvenuta separazione del commercio dalla produzione, fatto che avrebbe caratterizzato il periodo che stava allora iniziando.

I mercanti di stoffe (burrellears) si erano già frapposti tra tessitori e acquirenti fin dal 1300; ora compivano un ulteriore passo verso la loro trasformazione in padroni totali del settore, di maestri e di dipendenti della bottega. La compagnia dei merciai, mercanti che trattavano anche la vendita dei cappelli, riuscì ad assorbire la gilda dei cappellai nel corso del XV secolo. Nel 1511 solo una battaglia legale riuscì ad impedir loro di sommergere il mercato con copricapi importati a basso prezzo, e di rovinare di conseguenza i loro compagni di gilda più poveri gli artigiani. È interessante notare che invece i tessitori, che lottarono contro i commercianti di stoffe tra il 1290 e il 1320 su una serie di questioni normative ed economiche, furono portati in tribunale, e persero la causa. E già allora dovettero subire una predica da parte del pubblico ministero, su quanto infame sia interferire col libero commercio. Alla vigilia dell’ascesa della manifattura, appare già chiaro che commercio e produzione si stavano nettamente separando. Vale la pena di ricordare che una delle concessioni ottenute dalle classi mercantili in seguito alla Rivolta del 1381 fu la prima, e spesso ignorata, legge sulla navigazione, che decretava che per tutte le importazioni ed esportazioni per l’Inghilterra fossero utilizzate navi inglesi.

Ma erano ancora tempi troppo prematuri, e il commercio era ancora in gran parte nelle mani dei mercanti stranieri; mercanti che godevano della protezione della Corona, almeno fino a un certo punto, e gli interessi della Corona e quelli delle città non erano a questo riguardo certamente coincidenti. Il Re traeva proventi dai dazi doganali, ed era quindi direttamente interessato quando incoraggiava il commercio con l’estero.

Ma anche se il funzionamento del mondo del commercio veniva modificandosi, il vecchio sistema produttivo delle gilde era ancora saldamente al suo posto, e questo indipendentemente dal fatto che le gilde mercantili stessero diventando dominanti in termini di ricchezza economica. Allora queste non potevano fare altro, in quasi tutti i campi della produzione, che comprare e vendere merci prodotte sotto il sistema lavorativo delle gilde, oppure, come spesso succedeva, partecipare alla compravendita delle materie prime e delle derrate provenienti dalla terra e prodotte all’interno del decadente sistema feudale.

Citiamo di nuovo Marx, perché ci riassuma questa situazione: «La corporazione respingeva gelosamente qualunque usurpazione del capitale mercantile, l’unica forma di capitale che le si ergesse di fronte. Il mercante poteva comprare tutte le merci, solo non il lavoro come merce. Non era tollerato che come agente del collocamento sul mercato dei prodotti artigiani. Se circostanze esterne provocavano una divisione crescente del lavoro, le corporazioni esistenti si frazionavano in sottospecie oppure nuove corporazioni si affiancavano alle antiche, senza tuttavia che diversi mestieri si raggruppassero nella stessa officina. Perciò l’organizzazione corporativa esclude la divisione manifatturiera del lavoro, per quanto la separazione, l’isolamento e l’ulteriore sviluppo dei mestieri che ne sono propri e caratteristici appartengano alle condizioni materiali di esistenza del periodo della manifattura. In complesso, il lavoratore e i suoi mezzi di produzione rimangono vicendevolmente legali come la chiocciola al suo guscio; manca quindi la prima base della manifattura, cioè l’autonomizzarsi dei mezzi di produzione, come capitale, di contro all’operaio. Mentre la divisione del lavoro nell’insieme di una società, sia o no mediata dallo scambio di merci, appartiene a una grande varietà di formazioni socioeconomiche, la divisione manifatturiera del lavoro è una creazione del tutto specifica del modo si produzione capitalistico» (Divisione del lavoro e manifattura, par. 4).

Questo cambiamento ebbe luogo, e il sistema delle gilde sarà distrutto delle imperative necessità del capitale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Appunti per la storia della Sinistra

Riunione generale di Firenze - settembre 1994
 

IL DECENNIO DI PREPARAZIONE DELLA SECONDA GUERRA IMPERIALISTA

Come la Società delle Nazioni “difende la pace”

Il 1932 si chiudeva con la stipula del patto di non aggressione tra Francia ed Unione Sovietica. Anche se il riconoscimento dell’URSS da parte della Francia datava 1921, i rapporti tra i due paesi erano stati sempre molto tesi e via via si erano inaspriti fino al 1930 quando il governo francese aveva vietato ogni tipo di importazione dalla Russia, e questa, per ritorsione aveva annullato tutte le ordinazioni.

La svolta nel 1932 era dovuta senza dubbio ad interessi economici: negli ultimi tre anni la crisi aveva ridotto del 54% il valore degli scambi commerciali e, di conseguenza, la prospettiva di guadagnare il mercato russo era per i francesi allettante, tanto più che dovevano battere nel campo gli Stati Uniti che la Gran Bretagna che si muovevano in tale senso.

Il 1933 comincia con la salita al potere del nazismo in Germania. La presa del potere da parte di Hitler fu vista da molte parti (specialmente dagli ambienti dell’Internazionale Socialista) come una minaccia nei confronti della pace. Ma già nel mondo si stavano combattendo ben sei guerre:
- Quella della Cina, dove i giapponesi erano passati ad una fase matura del loro piano consistente nell’occupazione di tutto il Nord del Celeste Impero, Pechino compresa.
- Quella del Tibet contro la Cina, che doveva essere messa in conto all’Imperialismo inglese, il quale teneva sotto la sua influenza questo Stato di conventi e monaci, normalmente chiuso a tutti gli europei, tranne che agli agenti della Corona Britannica.

Ma sul continente asiatico l’Imperialismo inglese conduceva la guerra in altri punti:
- Nello Stato indiano di Alwar i musulmani avevano cominciato una guerra santa contro il maragià che, non potendo fronteggiare la rivolta, dovuta al più bestiale sfruttamento della popolazione, si era rivolto al governo anglo-indiano di Delhi che aveva immediatamente inviato truppe, carri armati ed aerei da combattimento dimostrando così la solidarietà fra tutti gli sfruttatori, siano essi bianchi o indù.
- Un’altra guerra si stava sviluppando in Arabia a causa del frazionamento post-bellico in una miriade di piccoli Stati governati da reucci al soldo ed al servizio degli imperialismi inglese e francese. Anche in questa regione l’Inghilterra si era affrettata ad inviare truppe corazzate ed aerei da bombardamento.

Passando poi al Vecchio mondo al Nuovo, troviamo che altre due guerre si stavano combattendo in America Latina.

La più antica, che durava già da un paio di anni, era quella tra Paraguay e Bolivia per il possesso dei territori del Chaco. Era successo più d’una volta che i due eserciti si fossero cercati per settimane fra le sterminate foreste senza incontrarsi e, ritornati nei loro paesi, fossero stati gli uni e gli altri acclamati vincitori. I bollettini di guerra della Bolivia parlavano di migliaia di nemici uccisi, mentre i paraguaiani, più modesti si accontentavano di centinaia. Ma, a parte le esagerazioni, la guerra, specialmente nella zona dei fortini, si svolgeva sul serio «non, come parrebbe a prima vista, per il possesso delle sterminate solitudini boscose, e malsane per giunta, del Gran Ciaco, ma in funzione di determinati interessi imperialisti. Si tratta in effetti del conflitto tra la Standard Oil Co. (Rockfeller) e la Royal Dutch (Deterding). La posta è l’accesso al mare del petrolio e dello stagno in cui è ricca la Bolivia. Dato che il Chili si è impossessato, nel secolo scorso, di tutta la costa, non resta che arrivare al mare per la via fluviale del Paraguay di cui il Ciaco è la chiave. Il Paraguay fa il gioco degli interessi britannici di Deterding che vogliono ostacolare l’accesso al mare dei petroli della Bolivia dove Rockefeller possiede immensi giacimenti» ("Prometeo", n. 105, giugno 1934).

A concludere la lista veniva il conflitto fra Perù e Colombia per il possesso della città di Letizia. Questa città, ceduta alla Colombia in virtù di un trattato, era stata occupata da irregolari peruviani che il governo a parole sconfessava ma che in realtà sosteneva. Il fatto che la guerra fra i due Stati non fosse stata dichiarata significava ben poco; anche tra Giappone e Cina non esisteva dichiarazione di guerra. La Colombia aveva acquistato dagli Stati Uniti idrovolanti da combattimento e da altri paesi cannoniere che risalivano il Rio delle Amazzoni ed avevano il compito di riconquistare la città contestata. Il Perù da parte sua sguinzagliava contro i colombiani migliaia di indios armati di frecce avvelenate. «Si tratta - scriveva “Prometeo” chiudendo il quadro della situazione mondiale - in tutti questi casi di Stati aderenti alla Società delle Nazioni firmatari di patti contro la guerra e per il disarmo, ma la politica della Società delle Nazioni consiste proprio nel registrare il fatto compiuto salvo platoniche riserve quando si tratta di paesi potenti come il Giappone e di far finta di ignorare gli avvenimenti quando si tratta dei paesi di piccola portata» ("Prometeo", n. 84, febbraio 1933).

L’ascesa al potere da parte di Hitler venne considerata da Trotski come la concentrazione del capitalismo internazionale per la guerra contro la Russia. La posizione della nostra Frazione si distinse invece da quella di tutti gli altri gruppi di opposizione comunista. Secondo la Sinistra si stavano invece delineando le due formazioni imperialistiche: da una parte gli Stati fascisti, dall’altra quelli antifascisti.

Allo schieramento democratico si affiancò immediatamente l’Internazionale Socialista, mentre la Russia manteneva un atteggiamento di attesa. La politica del "socialismo un solo paese" faceva sì che lo Stato sovietico, da polo di concentrazione del proletariato mondiale, divenisse parte integrante nella scacchiera delle competizioni imperialistiche per partecipare all’uno o all’altro schieramento.

Immediatamente dopo la formazione del governo nazista, la stampa staliniana confermava la necessità della "liberazione" del popolo tedesco dalle catene del trattato di Versailles e la Terza Internazionale non si era sentita in dovere di lanciare alcun appello al proletariato mondiale, intendendo che gli avvenimenti di Germania venivano classificati come fatti di secondaria importanza: l’URSS non aveva nessuna intenzione di allentare i suoi rapporti con la Germania. E che nessuna incompatibilità esistesse tra stalinismo e nazismo veniva provato dalla dichiarazione di Hitler secondo cui "il comunismo non è una questione di Stato", cioè a dire che si sarebbero potuti conservare degli ottimi rapporti con lo Stato Russo senza per questo diminuire la lotta contro il comunismo. Il generale Von Sedke andava ancora oltre preconizzando il rafforzamento dei rapporti con l’Unione Sovietica per la lotta contro la Francia.

Torniamo ora in Estremo Oriente: «Per poter conquistare la Cina occorre innanzi tutto conquistare la Manciuria e la Mongolia. Dobbiamo riconoscere inoltre l’indispensabilità di una guerra contro la Russia nella Manciuria del Nord e se vogliamo ulteriormente garantire il nostro possesso della Cina dovremmo annientare gli Stati Uniti. Avendo a disposizione tutte le risorse della Cina noi potremmo passare alla conquista delle Indie, dell’Arcipelago, dell’Asia minore e forse anche dell’Europa». Questo è quanto era scritto nel memoriale che, nel luglio del 1927, l’ex primo ministro Tanaka aveva presentato all’imperatore del Giappone. In conformità a questo programma, nei primi mesi del 1933, si sviluppava l’avanzata del militarismo giapponese. La prima fase di questa avanzata si era conclusa con la creazione dello Stato fantoccio della Manciuria e la seconda fase era in via di attuazione.

I giapponesi, si ricorderà, non erano in guerra contro la Cina, vi conducevano "una semplice operazione di pulizia". Questo era quanto affermava il rappresentante nipponico accreditato a Ginevra, ed aggiungeva che la Società delle Nazioni non era riuscita a capire quale fosse la realtà in Estremo Oriente. La Cina, continuava il portavoce giapponese, rappresentava un pericolo per il mondo perché era minacciata dal comunismo, che avrebbe potuto divenire un gravissimo pericolo sia per l’Europa sia per la stessa America. Una Manciuria sciolta da ogni legame con la Cina, al contrario, avrebbe costituito una solida barriera contro la minaccia del comunismo. Solo il Giappone aveva le forza e la volontà di riportare in Cina la pace profondamente turbata. E se era vero che il fine supremo della Società delle Nazioni era quello di mantenere la pace nel mondo, essa avrebbe dovuto fidarsi delle intenzioni dei Giapponesi e lasciare loro carta bianca come, del resto, fino ad allora aveva fatto.

Questo spiega anche l’atteggiamento della Società delle Nazioni che fino a quel momento era rimasta semplicemente a guardare e vi sarebbe rimasta se non fossero arrivate pressioni da parte degli Stati Uniti che si sentivano minacciati nei loro interessi in Cina e nel Pacifico. Ginevra si decise allora di istituire una commissione, detta "dei 19" che avrebbe dovuto relazionare sulle operazioni in corso. Le conclusioni della "Commissione dei 19" condannarono il comportamento giapponese; a questo punto Matzouka, rappresentante dell’Impero del Sol Levante, abbandonava la conferenza ed il suo paese usciva dalla Società. Con la sua uscita dalla Lega delle Nazioni il Giappone acquistò la più completa libertà di azione approfittando anche della situazione mondiale che non consentiva a nessun paese di agire direttamente in Estremo Oriente.

Da parte sua la Cina viveva una vita sempre più travagliata. La Manciuria era uno Stato fantoccio occupato dall’esercito giapponese. Il Tibet era nello mani del Budda reincarnato che, dietro direttive di Londra, aveva occupato le provincie cinesi limitrofe. Le principali provincie del Nord e della Mongolia Interna erano nelle mani della "clique du Nord", i "Signori della guerra" in lotta continua tra loro; il governo di Nanchino, nelle mani del Kuomintang, era impegnato nella guerra contro il territorio "sovietico" del Kiangsi.

In questa disastrosa situazione le truppe giapponesi continuavano la loro "azione di polizia" per riportare la pace puntando verso Sud, in direzione di Pechino e Tiensins e compiendo, nello stesso tempo un’opera di logoramento nei confronti della Mongolia ed in direzione di Vladivostok e le provincie marittime Russe, che i giapponesi avevano già occupato al tempo della guerra civile. L’operazione di penetrazione giapponese, oltreché attendere allo smembramento ed alla conquista della Cina preparava un futura guerra contro l’URSS.

Siamo alla fine del primo semestre dell’anno 1933, ed intanto nella vecchia Europa la diplomazia fascista cerca di spostare a sua favore i nuovi rapporti di forza che si stanno delineando. Si recano a Roma dapprima Mac Donald, poi Von Papen. Dopo la consultazione anche con l’ambasciatore francese De Jouvenel, Mussolini lancia la proposta del "Patto a quattro", cioè la costituzione di un direttorio delle quattro grandi potenze europee per la revisione pacifica del trattato di Versailles. Il nuovo organismo dovrebbe risolvere, senza colpo ferire, le due questiono essenziali: quella degli armamenti e quella delle colonie. La Francia, messa in minoranza di fronte al blocco anglo-italiano, non si oppone apertamente alla proposta, sceglie invece di fare intervenire a suo favore la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania. Così la Piccola Intesa, in nome della salvaguardia della pace, prende le difesa della Società delle Nazioni, dove vi sarebbe posto per tutti, grandi e piccoli, mentre il Patto di Roma, al contrario, si baserebbe su un concetto ingiusto che sacrifica i piccoli Stati ed uccide la Società delle Nazioni.

Fallisce così il primo tentativo di Mussolini ed i rappresentanti di Francia, Inghilterra e Germania partono alla volta di Washington per prendere ordini dal vero padrone: Roosvelt. Oltre Atlantico sono discussi i problemi che erano stati discussi a Roma e, come da Roma, i delegati se ne tornano in patria senza nulla avere deciso. O, se vogliamo, tornano con la seguente direttiva: "tregua".

«In fondo - scrive “Prometeo” - tutte queste tregue dei briganti imperialisti di tutti i colori erano dominate da un’idea essenziale: tregua nei castelli quando la prima partita era stata guadagnata, e di quale importanza! il proletariato tedesco era stato vinto (...) Il fondo del problema che domina tutto il lavoro fosforescente per la cosiddetta pace, è molto più semplice: si tratta si realizzare una tregua per meglio combattere, in ogni paese, la classe operaia, per meglio preparare le condizioni per togliere dal modo capitalista questa grande anomalia che costituisce uno Stato il quale non riconosce i sacrosanti principi della proprietà privata. I briganti lo sanno: non vi è via di scampo, come nel 1914, domani la situazione verrà in cui non è possibile più limitarsi a bruciare bastimenti di prodotti agrari, non è possibile più limitarsi a ridurre la produzione industriale. Allora bisognerà arrivare alla guerra, come nel 1914. Ma per domani il grande pericolo è il proletariato che, per di più conosce il cammino, quello seguito dai proletari russi che trasformarono la guerra nella rivoluzione. Bisogna quindi prepararsi fin d’ora, profittare del primo successo di grande importanza ottenuto in Germania e che occorre consolidare. Di più occorre prendere nel laccio la stessa Russia Sovietica ove una garanzia la si è già ottenuta nel silenzio dell’Internazionale Comunista di fronte alla vittoria del fascismo tedesco» ("Prometeo", 4 giugno 1933).

La vittoria sul proletariato non era ancora totale, occorreva del tempo per arrivare allo schiacciamento definitivo ed occorreva, di conseguenza, una tregua fra gli Stati: cinque anni rispondeva Hitler, cinque anni di pace borghese. Così a puro uso di imbonimento delle masse il "Patto di Roma" venne firmato; anche se riveduto e corretto fino al punto che neanche una virgola restava dell’iniziale proposta fascista: niente "direttorio", niente revisione del trattato di Versailles, mentre tutto l’apparato di Ginevra restava immutato, dalla Società delle Nazioni alla Conferenza per il disarmo.

La firma del patto coincise con la scadenza dei patti commerciali russo-tedesco e russo-italiano ed aveva preoccupato l’Unione Sovietica che scatenò una campagna di stampa contro la diplomazia fascista. Prorogati che furono i trattati commerciali tutto tornò alla normalità e Litvinov si premurò di telegrafare a Berlino e a Roma.

Hitler aveva parlato di cinque anni di tregua, Mussolini volle esagerare e, dopo la firma del "Patto a Quattro" sentenziò una pace di dieci anni.

Quale tipo di pace i paesi imperialisti erano capaci di realizzare si vide immediatamente alla Conferenza Economica Mondiale che si svolgeva contemporaneamente a Londra che la partecipazione di 66 paesi. Si trattava della 57ª della serie delle conferenze del dopoguerra. La sua preparazione risaliva alla primavera del 1927 quando, a Ginevra, assieme alle conversazioni sul cosiddetto disarmo, vennero ventilati i progetti di intese doganali, di accordi sulla produzione, di compartecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, in una parola la presunzione di un riassetto generale del mondo capitalista su basi razionali. Erano passati più di sei anni da quella proposta e nel frattempo la crisi economica aveva minato tutto l’edificio della razionalizzazione capitalista. Alla guerra doganale, alla guerra dei debiti e delle riparazioni si assommavano i dissesti bancari, i fallimenti, la riduzione di 1/3 del commercio mondiale e della produzione, la riduzione del 60% dei salari e del 40% degli operai occupati.

«Una soluzione ai problemi in discussione alla Conferenza di Londra? Dal punto di vista formale niente di più semplice - scriveva “Prometeo” - la sovrapproduzione potrebbe essere assorbita istantaneamente dai trenta milioni di disoccupati, la congestione dei capitali congelati nelle banche potrebbe risolversi rapidamente nella ripresa della produzione quando non mancano né braccia per lavorare, né le bocche per consumare; tutto l’edificio economico potrebbe essere ricostituito solo se i problemi potessero essere affrontati senza tenere conto delle leggi proprie di un regime basato sulle classi. Allora, quando questi stessi problemi devono essere risolti in funzione delle classi il procedimento si complica enormemente e la soluzione che appariva semplicissima si perde e si entra nell’opposizione irriducibile fra i diversi imperialismi(...) Una conferenza "mondiale" economica in regime capitalista assume inevitabilmente l’aspetto di un banchetto ove ciascuno dei commensali guarda alla porzione del suo vicino con l’intenzione di strappargli il più possibile, con il fine di ripercuotere sugli altri le difficoltà proprie giacché si sa bene che nessuna uscita esiste e che dalla crisi non si sorte» ("Prometeo", n. 89, giugno 1933).

La conferenza iniziò con le dichiarazioni generali delle diverse delegazioni. In questa prima fase fu facile trovare un accordo perché tutti mettevano in rilievo le difficoltà analoghe e la necessità di trovare una soluzione. Ma quando dalle ciance generali si passò ai dettagli, scoppiarono immediatamente tutte le contraddizioni, tanto che il presidente Mac Donald fu costretto a decidere che tutti i giorni, prima delle sedute, si sarebbe svolta una riunione preliminare nella quale si sarebbero dovuti cercare i sistemi per mantenere i lavori della commissione su livelli si scontro accettabili.

Gli Stati Uniti rifiutarono immediatamente la stabilizzazione del dollaro dichiarandosi liberi di farlo fluttuare in basso o in alto a seconda dei loro interessi. La Gran Bretagna, contro cui la manovra americana era tesa, dichiarò di ritenersi padrona di fare altrettanto. Contro Inghilterra e Stati Uniti, in lotta fra loro, si formò il blocco costituito da Francia, Italia e Germania che chiedevano di tenere il valore della moneta rapportato all’oro. Così che «al dolce tintinnio degli zecchini francesi ballano non solo la Polonia e gli Stati vassalli, ma anche l’Italia fascista e la Germania hitleriana» ("Prometeo", n. 90, luglio 1933).

La conferenza, che si era aperta all’insegna della tregua monetaria, scatenò la più grande lotta tra gli Imperi capitalistici con il risultato di riavvicinare le posizioni d’Italia e Germania a quelle della Francia. «Abbiamo assistito - concludeva la nostra Frazione - in un breve volgere di tempo al successivo fallimento della conferenza di Ginevra pel disarmo, di quella di Losanna per la spinosa questione dei debiti, ad attualmente a quello clamoroso della conferenza di Londra per il problema monetario che è il più delicato dell’ingranaggio capitalistico. Tutte prove dell’incapacità della borghesia a sormontare la propria crisi e tutte le tappe verso la nuova esplosione: la guerra imperialista del prossimo domani»
 
 

URSS: La diplomazia di uno Stato capitalista

La Russia, che con la sua moneta da uso esclusivamente interno non era interessata alla questione, si tenne fuori da tutte le baruffe. Il suo intervento, a livello mondiale, si svolgeva in altre forme. La diplomazia russa dichiarava la compatibilità della coesistenza pacifica tra regime capitalista e regime comunista, della possibilità di pace in regime capitalista, della necessità, in caso di guerra, della "individuazione dell’aggressore".

Date queste premesse niente impediva all’ex Stato della rivoluzione di stipulare un "Patto di Amicizia, non aggressione e neutralità" con l’Italia fascista. Il patto, firmato a Roma nel settembre del 1933, stabiliva che le due parti contraenti non avrebbero partecipato a guerre condotte nei confronti dell’altro firmatario e si impegnavano a rispettare l’inviolabilità di tutti i territori sotto la loro sovranità. Se una delle due parti fosse stata aggredita da terzi, l’altra si sarebbe mantenuta neutrale nel conflitto. Ognuna delle due parti si sarebbe astenuta dal partecipare ad accordi internazionali che potessero ostacolare il commercio estero dell’altra. Ognuna delle due parti si impegnava a non partecipare a nessun accordo di carattere politico diretto contro l’altra. Le due parti si impegnavano inoltre a sottoporre a procedura di arbitrato ogni questione controversa quando non fosse stato possibile risolverla per la normale via diplomatica. Il patto non aveva una scadenza precisa, ma contemplava il diritto di denuncia solo dopo cinque anni dalla data della sua entrata in vigore.

Potremmo credere che il centrismo staliniano abbia trovato delle difficoltà a giustificare la firma del "Patto di Amicizia" con l’Italia di Mussolini; potremmo crederlo, ma ci sbaglieremmo! È interessante, anzi, vedere quale fu la giustificazione data dai vari servi di Mosca al fatto compiuto. Gli stalinisti avrebbero potuto dichiarare che poiché si trattava di un momento particolarmente difficile della lotta rivoluzionaria, lo "Stato proletario" si trovava costretto a manovrare ed a fare concessioni al nemico di classe, forzato dalle necessità. Ma una giustificazione del genere avrebbe contrastato con la teoria della edificazioni del socialismo in un solo paese che, giorno dopo giorno, progrediva e si rafforzava. Fu detto, allora, che il mondo era diviso in due campi: da una parte si assisteva al disfacimento dell’economia borghese in tutti i paesi imperialisti, dall’altro allo sviluppo dell’economia proletaria in URSS e, come conseguenza, da una parte all’indebolimento del capitalismo in tutto il mondo, dall’altra al rafforzamento dello Stato a dittatura proletaria. Di fronte a questo dato di fatto, tra i paesi capitalistici si sarebbe scatenata un corsa per arrivare prima degli altri ad ingraziarsi l’Unione Sovietica, condizione indispensabile per salvarsi dalla rovina.

«Ci sarebbe da chiedersi - scriveva “Prometeo” - (...) se davvero la forza dello Stato russo è l’unica ancora di salvezza che si presenta di fronte al capitalismo dei diversi paesi, perché mai questo Stato invece che offrire un’ancora di salvezza, non lasci precipitare alla rovina il mondo capitalista» ("Prometeo", n. 93, settembre 1933). Ma alle nostre “ingenue” affermazioni rispondeva l’”Umanitè” del 3 settembre «Per noi una questione, una sola questione si pone: quale vantaggio può trarre il proletariato alla firma di tali trattati? Ogni successo, ogni rafforzamento del proletariato al potere in URSS consolidano allo stesso tempo le posizioni della classe operaia nei paesi capitalisti». Il giornale del Pcd’I, “Bandiera Rossa” del 9 settembre 1933, per non essere da meno del confratello francese scriveva: «La forza crescente della Russia dei Soviet fa paura al governo fascista!». Secondo questa logica aberrante il trattato di amicizia italo-russo sarebbe stato firmato per paura dell’Unione Sovietica e, allo stesso tempo, avrebbe rafforzato le posizioni (?) del proletariato italiano...

Di poco successiva fu la firma del "Trattato di collaborazione tecnica" tra l’Unione Sovietica e la Repubblica francese. Le “Isvestia” mettendo il luce l’importanza di questo nuovo trattato rilevano che «Daladier si trovava fra gli uomini politici, poco numerosi, che hanno compreso la necessità di considerare l’URSS come un fattore di pace e un fattore di forza sempre crescente». L’Umanitè aveva invece al riguardo un punto di vista differente: «Ma se l’URSS lavora sinceramente per la pace, noi comunisti sappiamo che l’imperialismo francese non ha accettato che costretto e forzato» (16 settembre). Per il giornale francese il trattato di collaborazione tecnica non sarebbe stato frutto di un atto politico di Daladier ("uno fra gli uomini politici poco numerosi…"), ma sarebbe stato imposto dal proletariato francese che, senza saperlo, era talmente forte da determinare le scelte di politica estera al governo borghese, mentre non era capace di fare rispettare a Daladier il diritto di sciopero.

Alla XV Conferenza del PC russo (1926) erano stati ufficiati i funerali della nozione marxista dell’internazionalismo proletario, sotterrato sotto la pietra tombale sulla quale fu scritto "socialismo in un solo paese". Invertita così la funzione del primo Stato proletario non potevamo che assistere ad una corsa vertiginosa verso il tradimento aperto degli interessi storici del proletariato e della rivoluzione mondiale.

Già nel 1926, in occasione del grandioso movimento del proletariato inglese, venivano sacrificati gli interessi degli operai in lotta «per ragioni di ordine diplomatico» come affermò apertamente Bukarin. Si passò all’adesione al patto di pace Briand-Kellog. Successivamente ci furono gli interventi alla Società delle Nazioni, alla conferenza di Londra, alla conferenza per il disarmo. Ovunque le tesi centrale fu quella della coesistenza pacifica tra i due sistemi di produzione. Per ottenere aiuti per l’industrializzazione russa e la costruzione del... socialismo, Mosca aveva rinunciato alla lotta di emancipazione delle colonie, dalle Indie britanniche all’Indocina francese all’Africa italiana; aveva concluso patti di amicizia e non aggressione implicanti collaborazione tecnica e militare con i Mussolini, i Pilsulashi, i Kemal Pascià e simili boia del proletariato e delle masse diseredate dei loro paesi; aveva affermato che «il regime interno del fascismo italiano non interessa lo Stato sovietico».

La Russia diventava così parte integrante dell’economia capitalistica mondiale in quanto il mercato russo rappresentava l’ossigeno che avrebbe permesso di prolungare per qualche tempo la vita del malato prima del collasso finale. Da qui la corsa al riconoscimento dell’URSS da parte della Germania, dell’Inghilterra, della Francia, degli Stati Uniti; altrettante tappe del cammino che avrebbero portato lo Stato proletario ad integrarsi in una delle costellazioni imperialistiche della guerra che già si stava preparando.

Il 16 novembre 1933 gli Stati Uniti riconoscevano ufficialmente l’Unione Sovietica. Che tutte le vittorie diplomatiche di Litvinov corrispondessero al altrettante sconfitte della rivoluzione è evidente; le trattative concluse tra i governi americano e russo per il riconoscimento ne erano la prova. La stampa americana constatava che «le cose sono oggi diverse, il Comintern non è più che una larva e nulla vi è più da temere da esso», ma nello stesso tempo il capitalismo di oltre oceano richiedeva garanzie ben precise contro ogni eventuale movimento comunista in quel paese e Mosca si faceva garante del mantenimento della pace sociale negli Stati Uniti. Così la Russia dei Soviet promise di «astenersi, in qualsiasi modo, dall’interferire negli affari interni degli Stati Uniti». Ma questa garanzia non era sufficiente perché una cosa era lo Stato russo, altra cosa poteva essere l’Internazionale Comunista; una cosa era assicurare che la Russia non avrebbe minacciato gli USA (e come avrebbe potuto?), altra cosa era di impedire il nascere e lo svilupparsi di movimenti rivoluzionare. Ma per i diplomatici "bolscevichi" non c’erano problemi, così Litvinov garantiva pure che il suo governo si sarebbe «astenuto dall’appoggiare con la forza un cambiamento dell’ordine sociale e politico nei territori o possedimenti degli Stati Uniti e di fare astenere qualsiasi persona al servizio del governo o delle organizzazioni del governo o sotto il controllo diretto e indiretto, comprese le organizzazioni che richiedevano assistenza finanziaria, da ogni atto aperto o mascherato suscettibile in qualunque modo di compromettere la tranquillità, la prosperità, l’ordine e la sicurezza degli Stati Uniti; e di non permettere la formazione e la permanenza e di impedire l’attività nel suo territorio [la Russia, n.d.r.] di organizzazioni o di gruppi che minacciano l’integrità territoriale e cerchino di rovesciare o di preparare la caduta dell’ordine sociale in America». In tutto questo discorso, anche se non viene mai nominata, l’allusione alla Internazionale Comunista è più che evidente.

Nel suo primo numero del 1934 “Prometeo” riportava alcuni passi di un articolo di Mussolini. Mussolini, in questo scritto, ridicolizzava tutti i sostenitori dei disarmi e tutti gli ingenui (?) della Società delle Nazioni: alla fase delle illusioni ginevrine subentrava quella del ritorno al vecchio sistema dell’equilibrio tra le potenze, in attesa di scontro. E mentre il duce del fascismo intonava il miserere sugli idoli infranti del pacifismo democratico, coloro che avrebbero dovuto impegnarsi a smantellare l’edificio menzognero del pacifismo borghese (Stalin, Litvinov, Molotov...) andavano al contrario, affermando che la Lega delle Nazioni avrebbe potuto rappresentare un ostacolo alla guerra. «Il nostro atteggiamento verso la Lega - dichiarava Stalin - non è sempre e sotto ogni aspetto negativo. Nonostante il ritiro della Germania e del Giappone e forse come conseguenza di ciò, la Lega può diventare un freno per ritardare oppure per intralciare la azioni militari». E mentre Litvinov esultava per i successi diplomatici di Roma, Parigi e Washington, Molotov, copiando le parole del "Pilota", affermava: «Bisogna riconoscere il fatto positivo che la Socientà delle Nazioni ha funzionato da freno verso i paesi che cercavano di scatenare la guerra».

La posizione dell’Internazionale Comunista nei confronti della Società delle Nazioni, fino ad allora era stata quella adottata del primo congresso, nel marzo 1919. Ed ecco cosa essa diceva: «Considerati i contrasti inconciliabili manifestati nel seno dell’intesa la Società delle Nazioni - anche se si realizzasse sulla carta - avrebbe solo il ruolo di una Santa Alleanza dei capitalisti per la repressione della rivoluzione operaia. La propaganda della Società delle Nazioni è il mezzo migliore per confondere la coscienza rivoluzionaria della classe operaia. In luogo della parola d’ordine di una internazionale delle repubbliche operaie rivoluzionarie si lancia quella di un’associazione internazionale di pretese democrazie, che dovrebbe essere raggiunta attraverso una coalizione del proletariato con le classi borghesi (...) I proletari rivoluzionari di tutti i paesi devono condurre una guerra implacabile contro l’idea della Lega delle Nazioni di Wilson e protestare contro l’entrata dei loro paesi in questa lega di banditismo, di sfruttamento e di controrivoluzione imperialista».

A chi si chiedesse se le posizioni tenute da Lenin e dal primo congresso dell’Internazionale nei confronti della Società delle Nazioni non fosse stata eccessivamente dura non sarebbe neanche il caso di rispondere perché la risposta stava nei cimiteri di operai e contadini che esistevano in tutti i paesi capitalisti così come nelle colonie sottomesse al mandato di Ginevra. Ginevra aveva creato la Conferenza per il disarmo i cui successi si concretizzavano nella sfrenata corsa al riarmo in tutti i paesi indistintamente. Affiancava la Società delle Nazioni l’Ufficio Internazionale del Lavoro ed i benefici di questa ultima istituzione erano visibili nelle condizioni di miseria e di fame nelle quali le masse operaie di tutti i paesi erano costrette a vivere.

Ma questi non erano problemi tali da scalfire la coscienza dei costruttori del socialismo in un solo paese. La “Pravda” del 2 giugno 1934, a proposito dell’entrata della Russia nella Società delle Nazioni, scriveva: «La dialettica dello sviluppo delle contraddizioni imperialistiche ha portato al risultato che la vecchia Società delle Nazioni, che doveva servire come strumento di subordinazione imperialista dei piccoli Stati indipendenti e dei paesi coloniali e strumento della preparazione dell’intervento antisovietico, è apparsa, nel processo della lotta tra gruppi imperialistici, come l’arena dove (così come ci ha spiegato Litvinov durante l’ultima sessione del Comitato Centrale Esecutivo dell’URSS) sembra stia trionfando le corrente interessata al mantenimento della pace. Ciò che forse spiega i cambiamenti profondi che si sono verificati nella composizione della Società delle Nazioni».

A Ginevra solo il Portogallo, i Paesi Bassi e la Svizzera credevano ancora, o facevano finta di credere, che la Russia giocasse un ruolo rivoluzionario; al contrario Barthou, a nome delle grandi potenze, poteva sentenziare: «Sono convinto che si sia prodotta una singolare evoluzione da quello che era al tempo di Lenin». Stando così le cose, l’Unione Sovietica, il 16 settembre 1934, poteva fare il suo ingresso, a pieno titolo, nel covo dei ladroni internazionali.

Victoire eclatante, scriveva l’”Umanitè”, mentre l’organo stalinista in lingua italiana affermava: «La cosa è molto chiara, solo dei nemici del proletariato possono farne motivo di calunnie e di attacchi. L’Unione Sovietica è intenzionata di entrare nell’organismo ginevrino non per condurvi una politica della Società delle Nazioni, ma una politica Sovietica». Inoltre, veniva aggiunto che, dopo l’uscita dalla Società delle «due potenze imperialistiche più bellicose», cioè il Giappone e la Germania, l’entrata della Russia si effettuava «nell’interesse dei lavoratori dell’Unione Sovietica come di quello del proletariato mondiale».

Ed stato proprio nell’interesse del proletariato mondiale che Litvinov, nell’ultima conferenza per il disarmo aveva illustrato la nuova posizione di Mosca. L’inviato russo, dopo aver parlato della «inanità evidente della discussione sul disarmo, dato che non esiste nessuna proposta che abbia la possibilità di ricevere una approvazione generale», arrivava alla sostanza della sua enunciazione: «Non si tratta tanto di disarmo, che è solo un mezzo, quanto delle garanzie della pace. Se è così si arriva naturalmente alla questione se la Conferenza non potrebbe trovare altre garanzie di pace o quantomeno accrescere le misure di garanzia a favore degli Stati che, senza nutrire piani di aggressività, non sono interessati alla guerra e che, per questa ragione, non possono essere, in caso di guerra, che oggetto di aggressione».

In occasione dell’entrata dell’URSS nella Società delle Nazioni le ”Izvestia” spiegavano cosa fosse, in effetti, la pace e, a questo proposito, scrivevano che il mondo era diviso tra due gruppi di potenze antagoniste: vi erano delle potenze che «non volevano la guerra perché la guerra avrebbe minacciato le loro conquiste, e le altre che, scontento dello stato attuale delle cose, sono pronte, per trovare una soluzione, alle avventure ed alla guerra». L’URSS aveva quindi spostato la tesi francese secondo cui la "pace" era sinonimo di "status quo" e la Russia avrebbe appoggiato quegli Stati che durante l’ultima guerra avevano realizzato un cospicuo bottino a danno dei vinti e degli idioti (ossia l’Italia). Questa posizione rappresentava una virata di 180 gradi perché fino all’anno precedente, parlando di "difesa della pace", Litvinov aveva appoggiato il punto di vista dell’Italia e dei paesi sconfitti.

Il continuo scricchiolio che preludeva al crollo della struttura imposta con l’esito della Prima Guerra mondiale ed alla preparazione di un nuovo conflitto imperialistico fu accompagnato dall’intensificarsi del lavorio diplomatico segreto che andava di pari passo con un riarmo frenetico ed esasperato. Questa fase fu inoltre contraddistinta da una estrema mutevolezza delle combinazioni poiché gli schieramenti imperialistici dovevano ancora essere cristallizzati.

In questo gioco subdolo la Russia si gettò a corpo morto stabilendo patti con i vicini paesi Baltici, il riconoscimento da parte della Piccola Intesa, il patto con la Polonia e sopratutto con la Francia. Mosca non perdeva però d’occhio né la Germania, né l’Italia e, nel luglio, le “Isvestia” avevano potuto scrivere: «I Soviet per molti anni hanno mantenuto relazioni amichevoli con la Germania indipendentemente dai cambiamenti del suo governo [leggi l’andata al potere di Hitler, n.d.r.]. Se le relazioni con la Germania si sono tese la colpa deve essere ricercata nella politica estera del governo tedesco che suscita i più profondi sospetti (...) Fra l’URSS e l’Italia fascista [non siamo noi che abbiamo aggiunto questa specificazione, ma lo stesso organo russo, n.d.r.] ci sono relazioni che hanno portato vantaggio ad ambedue le potenze».

La Germania, da parte sua, stipulava un patto con la Polonia dando da intendere di abbandonare la spinosa questione del corridoio di Danzica. Altri successi della Germania si registravano con il riavvicinamento all’Ungheria ed alla Romania. Allo stesso tempo tra i due paesi fascisti si apriva una crepa che per alcuni anni si sarebbe sempre di più allargata, dovuta, tra le altre cose, alla pretesa sia dell’Italia sia della Germania di essere il polo di attrazione delle nazioni sconfitte.

Dopo aver effettuato un colpo di Stato di ispirazione fascista, la Bulgaria, che sotto il regime parlamentare orbitava attorno all’imperialismo italiano, diede segnali di voler passare sotto quello francese.

All’inizio del 1935 Leval scendeva a Roma dove, assieme a Mussolini, firmava un patto che venne definito "storico" ispirato, manco a dirlo alla necessità di "conservare la pace". La vecchia contesa fra i due paesi latini sarebbe stata definitivamente appianata e da ambo le parti sarebbero state date prove di buona volontà e di lealtà con la rettifica delle frontiere coloniali africane a vantaggio dell’Italia, con la rinuncia da parte italiana a proseguire la politica della revisione dei trattati nell’Europa Centrale e, soprattuto, con un generoso prestito di tre miliardi di franchi da parte della Francia al tracotante, ma con le toppe al culo, Imperialismo italico.

Tutto questo intrecciarsi di relazioni tra i vari paesi dimostrava come lo scacchiere internazionale fosse ancora fluito, ma ciò non impediva che, contemporaneamente, ogni Stato perseguisse i suoi scopi ben precisi e determinati da fattori materiali molto più potenti dei duci, dei fuhrer, dei "piloti" o dei democratici capi di Stato.

In Estremo Oriente il Giappone aveva ripreso la sua avanzata per impossessarsi della Mongolia interna. Appena occupata la Manciuria, con il pretesto di garantire la sicurezza contro le incursioni dei briganti, aveva preso Jehol (Chengteh), la più orientale delle provincie della Mongolia interna e nello stesso tempo aveva ricacciato le truppe cinesi al di là della Grande Muraglia. Da lì aveva proseguito la sua avanzata nella direzione della Repubblica popolare di Mongolia, sentinella avanzata della Russia.
 
 

L’impresa etiopica della borghesia italica

Dopo la guerra tra Giappone e Cina, dopo quella tra Bolivia e Paraguai, il 1935 diede il via all’apertura delle ostilità tra altri due paesi aderenti alla Società delle Nazioni: l’Italia e l’Etiopia.

Un primo scontro armato si ebbe presso i pozzi di Ual-Ual. La provocazione italiana rappresentò un vero e proprio atto di guerra: per contrastare i pochi abissini, armati di vecchi fucili, più pericolosi per chi li maneggia che per il nemico, da parte italiana furono impiegati in modo sproporzionato artiglieria, carri armati ed aerei da bombardamento.

Nonostante il ricorso presentato dal governo etiopico alla Società delle Nazioni, secondo cui i pozzi in questione si trovavano a ben 100 chilometri dal confine della Somalia italiana, il ministro inglese Simon affermava che la zona, situata al confine tra Impero etiopico, Somalia britannica e Somalia italiana era di appartenenza "incerta". Il governo fascista diceva invece che la regione già da 26 anni si trovava sotto il controllo dell’Italia. Di questa annessione prima di allora non se ne era accorto nessuno, né il governo di Addis Abeba né l’Italia se si considera che l’atlante delle colonie italiane del 1928 poneva Ual-Ual a circa 90 chilometri ad occidente del confine somalo, avvalorando quindi la tesi etiopica. La Società delle Nazioni, investita della faccenda, non riuscì però a stabilire a quale dei due paesi il territorio contestato appartenesse.

L’Italia aveva preparato la campagna di Abissinia in modo scrupoloso, curando i minimi particolari. Nel novembre del 1934, accompagnato dall’allora ministro De Bono, Vittorio Emanuele III aveva fatto visita alle colonie africane. Si ricordi che il reuccio d’Italia era figlio di quell’Umberto I che tanto aveva accarezzato il sogno di diventare imperatore da fare coniare in anticipo delle monete con questo titolo. La disfatta di Adua fece, ad un tempo, svanire l’illusione umbertina e rifondere tante pataccone dove campeggiava la scritta rex et imperator. La preparazione psicologica riprendeva infatti il motivo di quella sconfitta e propugnava la necessità di "lavare l’onta di Adua". La campagna proseguiva con il motivo della necessità di civilizzare l’Etiopia barbara, con i suoi due milioni di schiavi, retta da un governo feudale nel quale una casta minoritaria viveva - affermava la propaganda fascista - dello sfruttamento dei lavoratori. Si andava dagli slogans del tipo "guerra per la difesa della civiltà bianca contro i selvaggi dell’Abissinia" (come se l’Italia corresse il pericolo di essere invasa dall’Etiopia), "i barbari razziatori", i "venditori di carne umana". Si arrivava a rispolverare le Memorie del Cardinal Massaia che narravano: «Non è la legge che governa l’Abissinia, ma la forza brutale di chi è riuscito a vincere a briga di scavalcare gli altri. Non vi è diritto ereditario, ma intrigo, tradimento e contese a mano armata».

La stampa e la radio ostentavano l’ "entusiasmo delirante" dei soldati partenti e delle folle festanti. Roma si era assicurata inoltre il silenzio complice di Parigi e di Londra, avendo stipulato l’accordo italo-francese di gennaio e quello con l’Inghilterra. Perciò quando l’Etiopia ebbe l’ingenua pretesa di protestare contro gli aggressori presso la Società delle Nazioni in base all’articolo 11 del Patto (come se l’esempio del conflitto cino-giapponese non provasse abbastanza quale era la sorte riservata ai più deboli), Laval ed Eden il 18 gennaio indussero il Consiglio della Società a rimanere estraneo alla faccenda ed invitarono gli etiopi ad intavolare trattative dirette con l’Italia, ciò che significava abbandonare l’Etiopia nelle grinfie dell’Imperialismo italiano.

Dopo una serie di incidenti di frontiera, ai quali si aggiunse un provvidenziale e forse provocato conflitto franco-abissino, si arrivò, il 29 gennaio, allo scontro di Afdub (tenuto segreto fino al 12 febbraio) che diede il pretesto per la mobilitazione e l’invio di grandi quantitativi di soldati in Somalia.

Il 26 gennaio era stato fatto un rimpasto ministeriale e Mussolini aveva ripreso per sé tutti i dicasteri militari; il quadrunviro De Bono era stato nominato alto commissario per l’Africa Orientale Italiana e al generale Graziani (massacratore di donne e fanciulli arabi il Libia) era stato dato il comando delle truppe. Quarantamila soldati erano già stati imbarcati ed il primo febbraio era iniziato l’arruolamento dei volontari. Con il passare dei mesi l’imperialismo italiano intensificava i suoi preparativi per la guerra di rapina in Etiopia. Non passava giorno che dai porti non partissero navi cariche di materiale bellico, di truppe, di operai specializzati incaricati della preparazione logistica. Di pari passo si intensificava la campagna ideologica con la pubblicazione a getto continuo di articoli nostrani e stranieri che presentavano l’Abissinia come un paese di barbari predoni ed una minaccia per la civiltà occidentale.

L’Etiopia presentava un nuovo ricorso presso la Società delle Nazioni chiedendo che l’esame del conflitto fosse messo urgentemente all’ordine del giorno. Ma anche questa volta l’Italia ebbe buon gioco ed ottenne che la discussione venisse aggiornata sine die. Si deve notare che questa decisione venne presa all’unanimità con il voto del rappresentante russo Litvinov, favorevole alla tesi fascista. La Società delle Nazioni decise infine di costituire una commissione che vagliasse le responsabilità del conflitto di Ual-Ual, ma, ancora una volta all’unanimità, fu accolta la richiesta italiana e cioè che si investigasse soltanto sull’incidente e non si entrasse nel merito di stabilire se Ual-Ual appartenesse all’Italia oppure all’Etiopia. Ginevra chiedeva in cambio al governo italiano di non dare inizio ad azioni di guerra prima di settembre. Ma nessuno, naturalmente, aveva chiesto che l’Italia durante questo tempo arrestasse i suoi preparativi di guerra che anzi, come prima risposta alla Società delle Nazioni, si intensificarono, dato il ristretto lasso di tempo che separava dal previsto inizio della campagna e cioè alla fine della stagione delle piogge: settembre. Quello che aveva chiesto la Società delle Nazioni

I preparativi di guerra si facevano di giorno in giorno sempre più frenetici. Alla metà di agosto nell’Africa Orientale Italiana vi era una forza mobilitata di 15 divisioni di cui 5 di camicie nere, cioè di circa 200 mila uomini otre ai 50 mila operai specializzati. "Prometeo" n. 121 del 28 agosto scriveva: «Poiché sembra che, nelle sfere dirigenti, si consideri come minimo necessario per iniziare le operazioni una forza di almeno il doppio di queste, si intensificavano le spedizioni ed a tale scopo sono state acquistate numerosi navi e di più una grande quantità di bastimenti, acquistati in precedenza per la demolizione, sono stati invece rabberciati alla meglio per permettere il trasporto dei soldati e del materiale. Inghilterra, Stati Uniti e naturalmente gli Stati Minori, fanno a gara a vendere o noleggiare le loro navi - gli affari sono gli affari - o tuttalpiù la neutralità del conflitto si manifesta, da parte loro, col rifiuto di fornire il materiale, anche se già pagato, all’Abissinia che non ha voce in capitolo ed alla affermazione del principio teorico dell’embargo nei confronti di due paesi in lotta, che diventa un’ipocrita derisione quando si hanno di fronte un paese a potente attrezzatura ed industrie di guerra ed uno che non ne ha affatto. A tale proposito apprendiamo che 50 nuovi aerei da bombardamento hanno ottenuto l’autorizzazione di sorvolare l’Egitto a condizione che durante il tragitto... gli apparecchi siano disarmati».

Se Londra, Parigi e Mosca concedevano il loro pieno appoggio all’impresa italiana in Etiopia, quello che sembrava scricchiolare era, invece, il fronte interno. Malgrado la strombazzata esaltazione per "lavare l’onta di Adua", l’entusiasmo per l’impresa africana era ben misera cosa. Circa ottomila tra soldati ed operai malati erano stati fatti sbarcare nottetempo nei porti di Napoli e di Genova e trasportati clandestinamente nei vari ospedali d’Italia. Gli stessi giornali fascisti avevano dovuto ammettere il malcontento sempre crescente, soprattuto tra i civili, obbligati a lavorare fino a 19 ore al giorno ad una temperatura di 65 gradi all’ombra e sotto la costante minaccia dei fucili dei regi carabinieri e delle camicie nere. «Queste stesse condizioni di lavoro d’ora in avanti saranno applicate anche ai prigionieri ed alle popolazioni indigene delle zone liberate» ("Bilan", n. 24, ottobre/novembre 1935). A tutti i lavoratori, indistintamente, bianchi e negri, barbari e civilizzati, venivano immediatamente fatte assaggiare le delizie dell’Impero e della emancipazione della schiavitù.

La medesima stampa di regime aveva riferito dell’istituzione anche in Eritrea di una sezione del Tribunale speciale militare al quale erano stati già deferiti sia militari sia civili, bianchi e negri. I lavoratori italiani avevano, in più, ricevuto questo "avvertimento": «Il governo esige la più stretta disciplina, specialmente da parte dei lavoratori che attendono il loro rimpatrio in Italia e che per ragioni ingiustificate domandano di essere imbarcati prima del loro turno. Coloro che pensassero di "ammutinarsi" debbono sapere che il loro foglio personale sarebbe annotato in conseguenza e che il loro ritorno in Italia sarebbe notificato in anticipo alla polizia ed alle autorità politiche».

La Società delle Nazioni aveva pregato l’Italia di non attaccare prima di settembre. L’esercito italiano, obbediente, aspettò che la stagione delle piogge terminasse e restò inoperoso fino a ottobre. Poi, senza dichiarazione di guerra, poiché in anche in questo caso si trattò di una semplice operazione di polizia, il 3 ottobre penetrava nel Tigrè orientale su un fronte di 60 chilometri di ampiezza.

L’Etiopia entrava in guerra con 300 mila uomini armati dei fucili più disparati e di modello sorpassato, 200 mitragliatrici e 200 cannoni di cui solo 50 potevano sparare senza pericolo che scoppiassero; inoltre non possedeva nessuna fabbrica di armi o munizioni e la sua aviazione era composta di 8 aerei da ricognizione. L’esercito di spedizione italiano aveva già sul campo 800 aerei, 3.600 mitragliatrici, 300 cannoni da campagna, 100 carri d’assalto. In più per le necessità del fronte e delle retrovie impiegava 20 mila cammelli (e continuava a acquistarne nelle limitrofe colonie britanniche, malgrado le sanzioni), 40 mila muli e 10 mila somari, oltre ai 3 mila mezzi da trasporto.

Gli italiani, con un primo balzo, si erano portati sul ciglione montuoso Axsum-Adua-Antiscio-Adigrad. Immediatamente dopo riprendevano l’avanzata per occupare gli altri 100 e più chilometri (compreso Makkalè) virtualmente già dominati dall’alto con l’aviazione e dove non erano che piccoli nuclei armati trincerati su qualche amba. Sul fronte meridionale, a causa delle piogge non ancora cessate e le difficoltà del terreno, l’avanzata era andata più a rilento; ma anche su questo fronte la superiorità tecnica aveva permesso colpi di mano contro i centri chiave, lungo le linee stradali e fluviali e presso i rari pozzi.

Malgrado la propaganda fascista propinasse a getto continuo resoconti sul valore delle truppe italiane che combattevano contro le orde nemiche in nome della civiltà romana e di Dio (anche se gli abissini adoravano lo stesso dio dei fascisti), l’avanzata italiana era stata, per lo più, una semplice passeggiata militare e le truppe impegnate erano, quasi esclusivamente, quelle indigene: gli ascari eritrei e i dubat somali.

Una gloriosa pagina di guerra da annoverare all’Albo d’Oro dell’italico eroismo lo scrisse Vittorio Mussolini. È quindi giusto che anche noi comunisti ne veniamo a conoscenza e, riverenti, rendiamo omaggio al Prode. «Non sono mai riuscito a vedere un incendio. Quando vedo passare un carro dei pompieri, mi infilo dietro e via di corsa. Ma o mi portano in caserma e se no a sturare dei tombini ingorgati. Così forse perché qualcuno era venuto a sapere di questa mia mancanza, ordinarono ad un apparecchio della 14 Squadriglia di effettuare un bombardamento nella zona di Adì-Abò esclusivamente con bombette incendiarie. Altre più importanti ragioni non credo esistessero. Comunque, caricate le gelatiere [negli aerei militari ciascun degli scomparti destinati a contenere il materiale esplosivo da bombardamento, n.d.r.], riempita la fusoliera di altre bombe, il 23 ci levammo in volo. L’Adì-Abò è una regione vicina all’Eritrea, e forse si temeva che lungo quella carovaniera venisse su qualche colonna, perciò, per avere migliore visibilità, si dovevano incendiare tutti i monti, le pianure, i paesini. Portammo anche qualche spezzone e difatti ci furono utili: qualche cinquantina di briganti saggiarono le nostre schegge. Era un lavoro divertentissimo e di un effetto tragico ma bello. Ad una quota ragionevole iniziammo il lancio delle bombe: appena a terra facevano una fumata bianca, poi una gran fiamma e l’erba secca cominciava ad ardere. Pensavo agli animali, chissà che fuga! Anche il giorno dopo venne l’ordine di ripetere l’azione. Altro carico enorme di spezzoni incendiari. Finite le gelatiere cominciava il getto a mano. Ci abbassavamo sopra i grossi tukul, i ghebi, e cercavo allora di collocare con un bel tiro la bombetta da due kg. Era divertentissimo: una grossa zeriba, circondata da alti alberi, non riuscivo a colpirla. Bisognava centrare bene il tetto di paglia, e solo al terzo passaggio ci riusci. Quei disgraziati che stavano dentro e si vedevano bruciare il tetto saltavano fuori scappando come indemoniati. Qualcuno sparava, ma senza effetto. Così, in quei due giorni, tutto Adì-Abò fu in fiamme e per altri tre giorni ancora, dato che il fuoco avanzava lento ma inesorabile. Di notte raccontavano i fanti del fortino sul Mareb, era uno spettacolo indimenticabile, qualcosa di infernale. Quelle bombette sviluppavano tante calorie da riscaldare mezzo mondo» (Vittorio Mussolini, Voli sulle Ambe).

Frattanto la Società delle Nazioni emetteva il suo verdetto di condanna. La "Commissione dei Sei", incaricava di riferire in merito al conflitto aveva indicato, senza nominarla, l’Italia rea di aggressione. Il Consiglio della Società si guardò bene, però, dall’usare la parola "aggressione", esso affermò, eufemisticamente, che «il governo italiano è ricorso alla guerra contrariamente agli impegni presi all’art. 12 del patto». Fu formata una Commissione allargata per studiare le sanzioni da prendere nei confronti dell’Italia. Sanzioni che avrebbero dovute essere, allo stesso tempo, «molto caute», ma «efficaci».

Perché delle sanzioni contro una nazione risultino efficaci è indispensabile l’adesione al provvedimento di tutti i paesi, altrimenti non si fa altro che spostare il mercato da un luogo all’altro. A dimostrazione della inconsistenza di questa ritorsione basti vedere che, oltre ai paesi che non facevano parte della Società delle Nazioni, come gli Stati Uniti, e quelli che ne erano usciti, come la Germania ed il Giappone, vi erano altri Stati che avevano rifiutato di aderire alla misure sanzionistiche e cioè l’Austria, l’Ungheria, l’Albania e la Svizzera, paese ospitante il covo dei ladroni internazionali. L’Austria e la Svizzera, essendo paesi confinanti costituivano un’importante breccia nell’accerchiamento "antifascista".

Oltre al fatto che le sanzioni finanziarie non significavano assolutamente niente poiché già da tempo tutte le borse internazionali erano chiuse per l’Italia, la stampa fascista poteva fare della facile ironia rimarcando che i paesi più solleciti nel negare prestiti all’Italia erano stati la Grecia, la Cina e la Russia; e, quelli che si erano pronunciati per l’embargo della armi erano l’Iraq, il Siam, e la Repubblica Domenicana. I fascisti, cifre alla mano, dimostravano che USA, Germania, Austria ed Ungheria rappresentavano il 33% delle importazioni italiane ed il 28% delle esportazioni. La sola Germania forniva il 53% macchine, il 48% del ferro ed acciaio, il 26% del carbone. Gli USA il 75% del cotone ed il 21% del petrolio. Nel solo mese di ottobre gli Stati Uniti avevano aumentato le loro esportazioni di petrolio alla somma di un milione di dollari. La Russia, nazione sanzionistica, negava prestiti all’impresa fascista, perché non aveva «il becco d’un quattrino», non negava però quello che aveva e che poteva farsi pagare in moneta sonante: petrolio, cereali ed altri prodotti. «A tale proposito la stampa internazionale rimarca, giustamente, che per dei prodotti essenziali per la guerra, a cominciare dalla nafta, sia proprio l’URSS la principale fornitrice odierna del brigante fascista» ("Prometeo", n. 123, ottobre 1935).

(continua)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’archivio della Sinistra:

    Il problema della guerra ("Prometeo", n.83, 1 gennaio 1933)

    Verso la nuova Unione Sacra (Carlo Liebknecht, 1919, in "Prometeo", n.108, agosto 1934)