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COMUNISMO
n. 38 - gennaio-giugno 1995
Prentazione
IL BERSAGLIO MOBILE DELLA SOCIALDEMOCRAZIA
IL SOGNO E BISOGNO DEL COMUNISMO [RG60-61]: (II) - La nostra filosofia - L’ottativo del cuore - Il razionale ed il reale - L’oggettività - Il Manifesto Comunista - Nessun Idolo da adorare - La distruzione della ragione - Restaurazione e Rivoluzione - Nullismo rivoluzionario - Il centralismo organico.
PARTITO E SINDACATO IN GERMANIA TRA VECCHIO E NUOVO SECOLO [RG60]
LE CAUSE DELL’ARRETRATEZZA DELL’AMERICA LATINA (da “Il Programma Comunista”, n. 14 e 15, 1959).
MARX ED ENGELS SULLA SPAGNA [RG59-61]: 1. La Spagna rivoluzionaria - 2. La guerra di indipendenza.
LA NATO OCCUPAZIONE MILITARE DELL’EUROPA [RG59]: 1. La questione tedesca nella stampa del partito 1953-56 (continua).
Appunti per la storia della Sinistra: IL DECENNIO DI PREPARAZIONE DELLA SECONDA GUERRA IMPERIALISTA: L’onere della guerra d’Africa sui lavoratori italiani - Artigli imperialisti sul Nilo - Non guerra fascista, guerra capitalista - Nessun disfattismo di classe dalle due Internazionali - Appoggio al fascismo dagli antifascisti.
Dall’archivio della Sinistra:
      L’Impresa "fascista" (?) in Abissinia ("Prometeo", n.120, 21 luglio 1935).

 
 
 
 
 
 


PRESENTAZIONE

Nel precedente numero della Rivista abbiamo voluto, per la prima volta in quindici anni della sua comparsa, che quanto esposto fosse presentato in modo conciso e sintetico a compagni e lettori, precisando, se mai ce ne fosse stato bisogno per chi ci conosce e segue, lo spirito e l’intento che guida il Partito nel proporre sul suo organo teorico e temi che va elaborando nel quotidiano lavoro, ed il filo che lega gli argomenti trattati nei diversi articoli; le rubriche fisse organizzate in struttura di “serie”, la storia del movimento proletario e del suo organo, gli aspetti particolari o più significativi del generale tema delle organizzazioni sindacali, i fondamenti dottrinali della nostra visione del mondo, in poche parole l’intero spettro della attività di studio e critica del Partito.

Chiudemmo la presentazione osservando che il tema essenziale dell’economia non fosse in quel numero presentato in alcun articolo, rimandandone la trattazione al numero successivo, il presente. Invece neanche questo numero, pur nella ricchezza degli articoli in sommario, tratta l’argomento, che è ancora una volta rinviato al prossimo.

Detto questo, entriamo nel merito di quel che presenta la Rivista nr. 38, che si articola su quattro diversi filoni di lavoro: “storico”, sindacale, politico e dottrinario. Apriamo dunque il sommario e diamo una prima scorsa agli articoli.

La Rivista si apre con una breve nota polemica – poteva forse mancare in tanta attuale orgia di elezioni a raffica e di nuovissimi e sempre più arzigogolati miscugli elettorali? – sul pantano in cui sguazza l’attuale “politica” dell’opportunismo e di tutti i lacchè della borghesia: uno sghignazzo ed un insulto per ben predisporre l’animo del lettore alle cose più serie che vengono dopo.

Per quanto attiene la parte “storica”, i lineamenti della Storia della Sinistra proseguono dal numero precedente con una coda sul “decennio di preparazione della seconda guerra imperialista”, relativamente alle sciagurate e cialtronesche “imprese imperiali” dell’Italietta, soprattutto in riferimento ai terribili costi pagati dal proletariato italiano, all’indifferenza verso queste avventure imperialiste da parte della ex Internazionale comunista e di buona parte dell’antifascismo locale. L’articolo che l’Archivio ripropone sul tema, allineato come sempre alla fase trattata negli Appunti, riprende invece la corretta posizione classista e rivoluzionaria della nostra Frazione. L’esposizione mette a confronto insomma le due “lezioni”: quella dello Stato borghese con i suoi fiancheggiatori, insieme all’atteggiamento dell’ex Stato socialista, e quella della corrente rivoluzionaria sopravvissuta alla bufera staliniana.

Altri due articoli affrontano poi l’argomento storico relativamente a due aree non centrali rispetto al cuore geopolitico della rivoluzione, vale a dire i paesi a più elevato sviluppo industriale, ma non per questo trascurabili sia per le “lezioni” da trarre relativamente al tema della nascita della democrazia e all’atteggiamento delle diverse classi che presero parte a questo processo, sia per la definizione precisa delle modalità in cui si sviluppa ed impianta il capitalismo in Stati in altri tempi detti “del terzo mondo”, ed oggi crogiolo in cui si fonde arretratezza economica e capitalismo sfrenato e completamente maturo.

Il primo articolo introduce all’analisi delle cause dell’arretratezza dell’America Latina, riproponendo un articolo comparso nel 1959 sul nostro giornale, e ci serve da introduzione allo studio sul Messico odierno che pubblicheremo nei prossimi numeri della Rivista. È un inquadramento di carattere generale assolutamente attuale e dettagliato, che chiarisce il percorso storico che ha portato l’America Latina alle condizioni presenti. Il secondo articolo tratta, con ampie citazioni da Marx ed Engels, la storia della Spagna del 1807 al 1820, il periodo cruciale della nascita della forma democratica e del tormentato percorso di stesura e realizzazione della carta costituzionale. Si articola in due puntate, e la seconda comparita sul prossimo numero.

Sull’argomento sindacale, “Partito e sindacato in Italia tra vecchio e nuovo secolo” costituisce la prosecuzione di quanto esposto in precedenza relativamente alla Germania.

Continua poi con “Sogno-Bisogno del Comunismo” la trattazione di temi di fondo della nostra teoria, antitetica rispetto alla visione del mondo delle dottrine borghesi di ieri e del presente, riproponendo, a fronte dell’abbandono teorizzato di qualunque programma ed all’elevazione a metodo generale proprio di rifiuto di ogni metodo, un piano-programma generale valido per il presente ed orientato al futuro dell’umanità.

Chiudiamo infine con uno studio, che vogliamo ancora continuare, sulla “questione militare” relativamente alla natura ed alla “necessità” delle guerre nell’imperialismo, e dinamica delle alleanze militari tra gli Stati imperialisti ed i loro satelliti, con le conseguenze che si aprono per il movimento rivoluzionario.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


IL BERSAGLIO MOBILE DELLA SOCIALDEMOCRAZIA

Uno dei punti cardine del “pensiero” e della prassi liberal-democratica, da sempre, è quello di spostare il bersaglio dei colpi al nemico di classe del proletariato, attraverso la forme paravento della democrazia, promettendo la “diffusione” del potere, contro ogni assolutismo, regime politico dal quale e contro il quale vanta di provenire.

Naturalmente per il materialismo storico e dialettico, che non si accontenta dei “fenomeni” e tanto meno degli “epifenomeni”, questi marchingegni sovrastrutturali rappresentano la maschera che il Capitale si trova costretto a mettere per nascondere i processi opposti ed inarrestabili del suo modo d’essere, e cioè la concentrazione, le fusioni, la tendenza al monopolio e alla esclusione da ogni controllo della terra e dei suoi prodotti sociali.

Come nel gioco degli specchi, la difficoltà attuale per la classe operaia è di centrare, di vedere il bersaglio, nel riflesso del gioco contrario e convergente della borghesia e dello ex-opportunismo. Solo al Partito di classe non sfugge questa tendenza; il proletariato si trova confuso e defatigato nel tentativo di individuare il nemico, costretto dalle circostanze storiche sfavorevoli a segnare il passo e ad arretrarlo. Questa è l’attuale situazione storico.

L’ex opportunismo non manca occasione per ricordare che non c’è nessun “palazzo d’inverno” da prendere e nessuna “casamatta” da liberare. C’è solo da collaborare per rafforzare lo Stato democratico, nel suo sforzo di decentramento e di diffusione dei poteri. Noi diciamo dall’impotenza alla resa.

Nella nostra visione non c’è "corpo" senza Azione e definizione vettoriale del senso di essa. Solo l’organo di classe non ne dimentica senso e direzione. Per questo, e dominando questo compito, non ci fu difficile riconoscere la sconfitta nel 1922 ed anni seguenti, e di sostenere, come si conviene ad uno stato maggiore capace di guida, la necessità d’una ritirata strategica ordinata in vista di ulteriori attacchi o assalti al cielo. Non fummo creduti, e anzi fummo accusati di "nullismo".

Ma la nostra vittoria teorica, oggi indiscussa, è la sola a permetterci di vedere ancora il bersaglio, nonostante i travestimenti e gli spostamenti del "campo del conflitto" (secondo la terminologia del filo-nazista Schimitt) operati dallo Stato borghese e dai suoi sostenitori. Noi infatti siamo rimasti soli a non accettare di identificare il cuore del Capitale nell’ambito d’una possibile redistribuzione (improponibile in fase di crisi strutturale dell’economia) ma in quello della produzione e dei suoi metodi, in fase di continuo rivoluzionamento.

Solo noi non abbiamo dimenticato dove si soffre e si resiste, le fabbriche, i luoghi di lavoro dove tutto ormai sembra permesso, e dove si aguzzano le armi della macchina statale capitalistica.

Non perdere la prospettiva e la possibilità dell’attacco frontale possibile: questo rimane il problema storico senza del quale la schiavitù sociale e morale delle classi oppresse continuerà ad esercitarsi sulla maggior parte della specie umana.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


IL SOGNO E BISOGNO DEL COMUNISMO
Riunioni generali di Firenze e Torino, gennaio e maggio 1994.

(II - Continua)

- La nostra filosofia
- L’ottativo del cuore
- Il razionale ed il reale
- L’oggettività
- Il Manifesto Comunista
- Nessun Idolo da adorare
- La distruzione della ragione
- Restaurazione e Rivoluzione
- Nullismo rivoluzionario
- Il centralismo organico

resoconto esteso
 
 
 
 
 
 
 


PARTITO E SINDACATO IN ITALIA E GERMANIA TRA VECCHIO E NUOVO SECOLO

Riunione generale di Firenze - settembre 1994
 

(continua dal numero scorso)
 

Dopo una feroce repressione dei fasci siciliani e degli altri moti del 1894, nei due anni successivi non assistiamo in Italia ad un gran numero di scioperi. Già nel 1897 la situazione cambia con 189 scioperi, dei quali 12 in agricoltura, che vedono impegnati oltre 21.000 lavoratori ed oltre 39.000 lavoratrici; la risposta del governo fu la stessa del passato, basata sullo scioglimento di leghe e sull’arresto di militanti socialisti.

Il Congresso del Partito Socialista a Bologna del 1897 confermò quel miscuglio di riformismo e di professioni di ortodossia che avevano caratterizzato il partito fin dal suo nascere.

È interessante l’atteggiamento nei confronti di quelle che venivano chiamate le classi agricole, ricordando che in Italia, a differenza che in Francia o in Germania, esisteva già da una decina d’anni un movimento contadino, in gran parte di braccianti, apertamente socialista. Nel partito c’erano posizioni diverse riguardo ai mezzadri, ai coloni e ai piccoli proprietari coltivatori. Venne approvato un ordine del giorno che diceva che l’azione del partito socialista doveva promuovere «Fra i contadini disobbligati o braccianti leghe di resistenza dirette a sostituire al sistema della cointeressenza quello della retribuzione a giornata, ad ottenere la costituzione dei probiviri agricoli, ad organizzare la resistenza per la limitazione delle ore di lavoro e per l’aumento delle mercedi (...) Fra i contadini obbligati associazioni per la riforma e la successiva difesa dei patti colonici(...) Fra i mezzadri associazioni per ottenere che il contratto di mezzadria venga uniformato e rispettato nel suo tipo più sincero e venga corretto in modo ad assicurare al contadino il necessario al mantenimento della famiglia, quale corrispettivo intangibile al lavoro prestato (...) Riguardo alla piccola proprietà fondiaria il congresso, convinto che per l’azione concorrente dello sviluppo economico moderno, delle ognora crescenti esigenze dello Stato borghese nel campo tributario, nonché delle sempre maggiori conquiste che ottiene l’organizzazione dei lavoratori, la piccola proprietà è destinata a scomparire, delibera che l’azione del partito di fronte alla piccola proprietà fondiaria si limiti a porre in rilievo le cause che determinarono l’accentramento capitalistico e la conseguente proletarizzazione dei detentori della piccola proprietà».

Il Candeloro, nella sua "Storia dell’Italia moderna" scrive: «La parte nuova e positiva di questo ordine del giorno era quella che si riferiva ai mezzadri e ai coloni, perché poneva le basi di una concreta attività sindacale e politica». E inoltre: «Assolutamente negativa e gravida di conseguenze negative era invece la parte relativa alla piccola proprietà, che implicava la rinuncia al lavoro sindacale e politico in una categoria numerosa e ancora vitale, come quella dei piccoli proprietari coltivatori».

Il Candeloro rimprovera inoltre ai socialisti di non essersi resi conto di una "questione meridionale" che sarà poi messa in luce, dopo l’inizio del nuovo secolo, da Salvemini. Nell’opera pur utilizzabile di questo storico è nettamente riconoscibile la posizione gramsciana che gli stalinisti hanno poi messo alla base del loro partito. Tale posizione parte dal presupposto che in Italia ci sia stata una "rivoluzionane mancata", o un "risorgimento tradito", da cui l’arretratezza economica e sociale. La borghesia cosiddetta più "avanzata" non avrebbe avuto il coraggio di portare fino in fondo, e quindi anche alla repubblica, la rivoluzione stessa, che si sarebbe quindi interrotta. In realtà la rivoluzione borghese, se anche vogliamo restringere l’orizzonte all’Italia, era stata portata a termine negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso della Destra storica, per cui la borghesia radicale, o illuminata che dir si voglia, non poteva tradire chi, come il proletariato, si era definitivamente separato da essa con la formazione di un proprio partito nel 1892, e quindi non esistevano più "tratti di strada" da fare in comune.

L’interesse per i mezzadri è stata quasi una costante nel partito nazional-comunista da Togliatti in poi: negli anni ’60 di questo secolo i mezzadri erano divenuti il vero nerbo del partito, almeno per quanto riguarda il peso elettorale che ovviamente era l’aspetto che più interessava. Il Del Carria nel suo "Proletari senza rivoluzione", scritto quando era maoista e non ancora folgorato dal Verbo liberal-democratico, sostiene posizioni non molto dissimili dal Candeloro, rimproverando anch’egli al Partito Socialista scarso interesse per mezzadri, coloni e piccoli proprietari fondiari. Questo pur criticando aspramente ogni politica di alleanza tra le classi e i riformisti che tale politica portavano avanti sempre più apertamente. Scrive riguardo ai moti del ’98: «Forse sarebbe bastata una cosciente direzione di lotta dei socialisti nei confronti delle masse insorte perché la moderna borghesia lombarda si affiancasse nella lotta contro il governo autoritario ed oligarchico».

Come possibile alleato dei proletari c’è ora non solo la piccola borghesia proletarizzata ma addirittura la borghesia industriale milanese. Potremmo dire che il cerchio si chiude: una posizione apparentemente ultra rivoluzionaria e ferocemente nemica di Turati e dei riformisti in genere, finisce poi, per nulla stranamente, col sostenere tesi maledettamente simili a quelle degli odiati riformisti.

Nel 1897 inizia una fase di espansione e di decollo industriale, insieme ad un’annata di cattivi raccolti che favorisce scioperi e tumulti. Nel 1898, anche a seguito della guerra ispano-americana, si verifica un aumento del prezzo del grano e quindi del pane, che è causa scatenante di scioperi e di moti insurrezionali in quasi tutta Italia, che culminano con la repressione diretta dal generale Bava-Beccaris a Milano, a colpi di cannone. Per questa eroica azione contro dei proletari disarmati il generale sarà poi insignito di una onorificenza dal "re buono", ovvero Umberto 1°.

La dirigenza del partito socialista si mostra incapace sia di prevedere lo scoppio della rabbia proletaria sia di dirigere i moti spontanei. Turati nel maggio 1898 dice che i moti già scoppiati in molte parti d’Italia non arriveranno mai a Milano poiché sono moti di plebi affamate e Milano, secondo lui, si muove per un concetto e non per un istinto. Dopo la repressione e i numerosi arresti conseguenti Turati nel discolparsi davanti alla giustizia borghese dice: «Noi abbiamo sempre predicato che è passato il tempo delle rivoluzioni che sono dannose al popolo». Evidentemente Marx era già superato i quegli anni, come veniva dicendo anche Benedetto Croce e come riteneva il socialista Ferri che in un’occasione, nel 1902, invitò i suoi studenti a non leggere Marx perché appunto superato.

Un esempio di coerente posizione di classe fu data invece da Andrea Costa nel 1896 con il suo "Via dall’Africa" pronunciato in parlamento, condanna di ogni impresa coloniale, dannosa ai colonizzati come ai proletari dei paesi colonizzatori.

L’evento più importante dei moti del 1898 fu comunque il fatto che agli scioperi e alle sommosse parteciparono per la prima volta in forme massicce e con funzione effettiva di direzione i proletari dell’industria.

Al congresso del Partito Socialista di Roma nel 1900 il dominio dei riformisti incontrò poche resistenze come dimostra anche la proclamazione della piena autonomia delle sezioni locali rispetto al partito nel contrarre alleanze coi partiti dell’estrema sinistra, causa la pretesa diversità delle situazioni locali. Tale posizione comune ai revisionisti di tutti i tipi e di tutti i tempi è la fine della necessaria centralizzazione e quindi dello stesso partito.

Non diversamente andavano le cose al congresso di Imola del 1902, dove venne detto che il gruppo parlamentare, nelle sue "azioni autonome" (!), avrebbe dovuto «tenersi continuamente in corrispondenza con la coscienza e la volontà della grande massa proletaria». È evidente per noi che azione autonoma del gruppo parlamentare può significare solo collaborazionismo di classe, e che la coscienza e la volontà non risiedono nelle masse ma nel partito.

A Bologna nel 1904 si fronteggiarono due ordini del giorno opposti di pari forza per cui ci fu una seconda votazione in cui un ordine del giorno di centro-sinistra del Ferri prevalse di poco su uno di centro-destra di Rigola: la necessità di prendere le distanze dalla politica dei riformisti cominciava a farsi strada, ma la tendenza all’unità a tutti i costi vinse sulla tentazioni di scissione.

A Milano nel 1902 era stato creato il Segretariato Centrale della Resistenza con una commissione di 8 membri e 2 segretari: questa era una forma di coordinamento tra la Federazione delle Camere del Lavoro e 25 Federazioni di mestiere. Le Camere del Lavoro, per il loro carattere di organi orizzontali che coordinavano le varie Leghe di mestiere, erano il vero centro direttivo delle Leghe di resistenza e quindi dello lotte, nonostante venissero spesso sciolte nelle repressioni seguite alle lotte più dure. L’unione tra le Camere del Lavoro e le Leghe di mestiere, formatesi più di recente ma già con un seguito numeroso, sembrava essere la migliore risposta alla resistenza padronale, solo che il Segretariato non fu mai un organo di direzione ma soltanto di coordinamento che non riuscì neanche a sanare i contrasti tra i due tipi di organizzazione.

Già a Bologna nel 1901 dai delegati delle Leghe e delle Federazioni contadine era stata fondata la Federazione Nazionale dei Lavoratori della Terra, da cui si ritirarono immediatamente alcuni repubblicani quando venne approvato un significativo emendamento che diceva: «La Federazione si dividerà in due grandi branche: nella prima saranno ascritte tutte le leghe di resistenza costituite sulla base della lotta di classe; nella seconda tutte quelle altre organizzazioni di lavoratori della terra che accettino, come ultima finalità, la collettivizzazione della terra come uno dei principali mezzi di produzione». Queste parole non erano fatte per ottenere il favore dei mezzadri e dei piccoli proprietari ma erano ben accette dai proletari delle leghe bracciantili che costituivano la parte più importante delle organizzazioni contadine, e questo contribuisce a spiegare il fatto che venissero pronunciate dai riformisti, che guidavano quasi tutte le organizzazioni sopra descritte.

Già nel 1902 la Federterra arrivò a contare 227.000 iscritti, per poi subire le conseguenze delle sconfitte di molti scioperi di quegli anni. Nel 1904 la direzione centrale fu sostituita da un segretariato con funzioni di collegamento tre le organizzazioni locali, e la Federterra venne riorganizzata solo nel 1906.
 

(continua al n. 39)

 
 
 

 
 
 
 
 


LE CAUSE DELL’ARRETRATEZZA DELL’AMERICA LATINA

(da “Il Programma Comunista”, n. 14 e 15, 1959)
 

Il partito ha intrapreso uno studio sul Messico allo scopo di mettere a fuoco le cause che determinano la crisi che quel paese sta attualmente attraversando e l’ambiente economico e sociale nel quale si svolge.

Le recenti rivolte contadine in Chiapas pongono in evidenza il tema di una questione agraria di non trascurabile importanza.

Ma anche il crescente impoverimento del proletariato è certamente foriero di forti tensioni sociali che probabilmente non tarderanno a manifestarsi, in un paese certamente moderno e industrializzato, che conta quasi 90 milioni di abitanti, al confine con il gigante capitalistico USA ed in un certo modo compenetrato nella sua economia. È tuttavia anche oppresso dalle crisi che caratterizzano il sottosviluppo del confinante centro e sud America. Un paese che fa da cuscinetto, non solo geograficamente, e potrà forse rappresentare in futuro la chiave di volta di una crisi rivoluzionaria che incendi l’intero continente americano.

Pur presentando la storia del Messico elementi particolari, che la caratterizzano e la differenziano decisamente da quella degli altri paesi dell’America latina, riteniamo opportuno presentare l’inquadramento generale dei temi di fondo che riguardano questa area geografica, offerto dal seguente articolo apparso sulla nostra stampa, in "Programma", numeri 14 e 15 del 1959. Ciò vale da premessa all’esposizione del lavoro sul Messico che ci proponiamo di presentare nelle future riunioni di partito e sui prossimi numeri della rivista.

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[ È qui ]
 
 
 
 
 
 
 
 
 


MARX ED ENGELS SULLA SPAGNA

Riunione del settembre 1994 e del gennaio 1995
 
 

Certo la Spagna non è fra i paesi di Europa la più utilizzata da Marx e da Engels per le loro ricerche sul terreno sia economico sia politico. Naturalmente questo deriva da fatti materiali, poiché in Ispagna tanto in politica la borghesia quanto in economia lo sviluppo del capitalismo si trovavano assai arretrati rispetto all’Inghilterra o alla Francia, centri fondamentali per la disamina marxista dei rapporti di produzione e del moderno scontro fra le classi. Ciononostante Marx ed Engels consideravano alcuni avvenimenti della storia di Spagna così significativi da non potersi assolutamente ignorare.

Di quanto i nostri hanno scritto sulla Spagna spiccano sul resto, per profondità di analisi e per estensione, le seguenti raccolte:
- La Spagna Rivoluzionaria. Sono una serie di articoli di Marx pubblicati sul New York Daily Tribune nel 1854;
- La Rivoluzione in Ispagna. Sono pure articoli di Marx pubblicati sullo stesso periodico nel 1856;
- Rapporto sull’Alleanza della Democrazia Socialista presentato al Congresso de L’Aja a nome del Consiglio Generale, redatto da Engels;
- Frammenti de L’Alleanza per la Democrazia Socialista e l’Azione internazionale dei Lavoratori. Riflette il lavoro svolto nel seno dell’Internazionale, nel quale alcune parti si riferiscono alla Spagna;
- I Bakunisti in Azione - Memoria sulle sollevazioni in Ispagna nell’estate del 1873. Scritto da Engels nel settembre e ottobre dello stesso anno.

Altri articoli sopra la Spagna furono pubblicati soprattutto nel New York Daily Tribune, poi è da tener conto della corrispondenza e delle relazioni all’Internazionale scritte per i membri dell’Associazione.

«Forse non vi è paese alcuno, eccetto la Turchia, che sia così poco conosciuto e così male giudicato dall’Europa come la Spagna. I numerosi pronunziamenti locali e le ribellioni militari hanno abituato l’Europa a considerare la Spagna come un paese che si trova nelle stesse condizioni della Roma imperiale durante il periodo pretoriano. È questo un errore molto superficiale, tanto quando quello commesso nei confronti della Turchia da coloro che credevano spenta la vita della nazione per il fatto che, nella storia ufficiale dell’ultimo secolo, nient’altro accadeva se non ribellioni di palazzo ed émeutes di giannizzeri. La spiegazione di questo errore risiede nella semplice ragione che gli storici, invece di scoprire le risorse e la forza di questi paesi nei loro organismi locali e provinciali, si sono limitati a prendere il loro materiale dagli "almanacchi di corte". I movimenti di quello che siamo soliti chiamare Stato hanno influenzato in maniera così limitata il popolo spagnolo, che questo si è disinteressato spesso e volentieri di questo marcio dominio fatto di alterne passioni e di meschini intrighi dei damerini di corte, dei militari, degli avventurieri e del mucchio dei cosiddetti statisti e, finora, non ha avuto motivi importanti per pentirsi della propria indifferenza. Poiché il carattere della storia moderna spagnola merita di essere apprezzato in maniera molto diversa da come lo si è fatto finora, approfitterò dell’occasione per trattare questo tema in una delle mie prossime corrispondenze. Ma già fin da questo momento, vorrei indicare che non ci sarebbe da meravigliarsi se dovesse scoppiare nella penisola pirenaica un movimento generale partendo da una semplice ribellione militare, poiché gli ultimi provvedimenti finanziari del governo hanno trasformato gli esattori del fisco in efficacissimi propagandisti della rivoluzione» (NYDT, 21 luglio 1854).
 

1.- La Spagna rivoluzionaria

In questa serie di articoli Marx analizza la situazione spagnola dal 1807 al 1820, benché nel primo di essi dia una scorsa agli avvenimenti più importanti dei secoli precedenti.

    «I movimenti insurrezionali sono tanto antichi in Spagna quanto i governi dei favoriti reali, contro i quali vengono generalmente diretti. Così, alla fine del secolo XIV l’aristocrazia si sollevò contro re Giovanni II e il suo favorito Don Alvaro de Luna. Nel secolo XV ebbero luogo sommosse ancor più gravi contro re Enrico IV e il capo della sua camarilla, Don Juan de Pacheco, Marchese di Villena. Nel secolo XVII, il popolo di Lisbona fece a pezzi Vasconcelos, il Sartorius del viceré spagnolo in Portogallo, così come avevano fatto a Saragozza con Santa Coloma, favorito di Filippo IV. Alla fine dello stesso secolo, sotto il regno di Carlo II, il popolo di Madrid si sollevò contro la camarilla della regina, formata dalla Contessa di Barlepsch e dai Conti di Oropesa e di Melgar, i quali avevano gravato tutti i generi alimentari che entravano in città con pesanti imposte, i cui profitti si spartivano poi tra loro. Il popolo si diresse verso il palazzo reale e obbligò il re ad affacciarsi al balcone e a denunciare egli stesso la camarilla. Il popolo marciò poi contro i palazzi dei Conti di Oropesa e di Melgar saccheggiandoli e incendiandoli; tentò pure di prendere i loro proprietari i quali, però, ebbero la fortuna di poter fuggire a costo dell’esilio a vita.
    «Il fatto che provocò la sommossa del secolo XV fu il tradimento compiuto dal Marchese di Villena, favorito di Enrico IV, che stipulò con il re francese un trattato secondo il quale la Catalogna sarebbe entrata in possesso di Luigi XI.
«Tre secoli più tardi, il trattato di Fontainebleau, concluso il 27 ottobre 1807, secondo il quale don Manuel Godoy, Principe della Pace, favorito di Carlo IV e cavaliere della regina, pattuiva con Napoleone la spartizione del Portogallo e l’entrata degli eserciti francesi nella penisola iberica, provocò a Madrid una insurrezione popolare contro lo stesso Godoy, l’abdicazione di Carlo IV, la salita sul trono di suo figlio Ferdinando VII; l’ingresso delle truppe francesi in Spagna e la conseguente guerra per l’indipendenza. La guerra spagnola per l’indipendenza cominciò quindi con una insurrezione popolare contro la camarilla, personificata da Manuel Godoy, così come la guerra civile del secolo XV iniziò con una sollevazione contro la camarilla incarnata dal Marchese di Villena. Nello stesso modo iniziò pure la rivoluzione del 1854 con la sollevazione contro la camarilla, rappresentata questa volta dalla persona del Conte di San Luis.
    «Malgrado queste ripetute ribellioni, non vi sono state in Spagna fino all’attuale secolo rivoluzioni serie, se si eccettua la guerra della Santa Giunta ai tempi di Carlo I, o Carlo V come lo chiamano i tedeschi».
È necessario qui rimarcare questa caratteristica della borghesia spagnola, la sua debolezza come classe, di fronte al compito rivoluzionario cui è chiamata, la mancanza di determinazione nell’indirizzare le masse povere in favore dei suoi stessi interessi borghesi, infine l’assenza di un movimento intellettuale teorico che la rappresenti in modo netto. Anche nelle sollevazioni armate del secolo XIX, che Marx analizza più da vicino, malgrado le masse vi intervengano con decisione in non poche occasioni, i politici del liberalismo borghese, così come i generali dell’esercito alla testa dell’insurrezione, o retrocedevano terrorizzati alla vista delle masse in movimento e disposte alla lotta, oppure, quando riuscì loro di prendere il potere, furono incapaci di dare applicazione a radicali riforme liberali e si convertirono in difensori della monarchia.

Qualcosa di ben diverso fu la guerra civile del secolo XVI, chiamata anche guerra de las comunidades, che le città di Castiglia, unificate nella Junta Santa, condussero contro l’assolutismo di Carlo V, il quale, per finanziare gli alti costi di mantenimento dell’Impero, era costretto a sopprimere i vantaggi e privilegi cui godevano le città, a sottometterle ad imposte sulle vendite e sugli scambi e ad affidare i pubblici incarichi al migliore offerente. Le città, rappresentate dalla Junta Santa prima, nelle Cortes poi, puntavano a separarsi dall’Impero e a nominare regina Dona Giovanna, di fatto sottomessa alle decisioni della Junta, che si considerava assemblea rappresentativa e governo della nazione. Dietro questa ribellione armata rivoluzionaria delle città si trovavano principalmente le classi medie urbane: artigiani, mercanti, piccoli proprietari, compreso preti, uomini di lettere, ecc. le cui pretese collidevano con gli interessi dell’assolutismo di Carlo V e tendevano di ridimensionare il potere dell’aristocrazia. Questa, a sua volta, aveva alleata la grande borghesia legata al commercio internazionale: la convivenza della aristocrazia con la borghesia è un’altra caratteristica dello sviluppo storico spagnolo.

Alcuni autori danno come spiegazione della sconfitta delle città di Castiglia il loro programma rivoluzionario borghese, troppo radicale per l’epoca. Di fatto i comunali furono sopraffatti da forze reazionarie superiori militarmente e la realizzazione dei loro obiettivi avrà da aspettare ancora dei secoli.

    «Il pretesto occasionale, come spesso succede, fu offerto dalla clique che, sotto gli auspici del Cardinale Adriano, esasperò i castigliani con la sua rapacità insolente, vendendo le cariche pubbliche al miglior offerente e rendendosi colpevole di evidenti infrazioni della giustizia. Tuttavia, l’opposizione contro la camarilla fiamminga non andò mai oltre i limiti della sommossa. In fondo, si trattava della difesa delle libertà della Spagna medievale contro gli abusi dell’assolutismo moderno. Creata la base materiale della monarchia spagnola da Ferdinando il Cattolico e da Isabella I mediante l’unione di Aragona, Castiglia e Granada, Carlo I iniziò la trasformazione di questa monarchia ancora feudale in una monarchia assoluta (...) Per quando riguarda l’autogoverno municipale, le città d’Italia, Provenza, Gallia del Nord, Bretagna e parte della Germania, presentano una forte rassomiglianza con la situazione delle città spagnole dell’epoca; ma, né gli Stati Generali francesi, né il Parlamento medievale britannico possono essere confrontati con le Cortes spagnole.
    «Nella formazione del regno spagnolo si verificarono circostanze particolarmente favorevoli alla limitazione del potere regio. Da una parte, le terre della penisola iberica furono riconquistate poco a poco durante le lunghe lotte contro gli arabi e strutturate in regni diversi e separati tra di loro: in questo periodo nacquero leggi e costumi popolari e le conquiste successive, realizzate specialmente dai nobili, diedero a questi un enorme potere, mentre diminuiva quello del re. Dall’altra parte, le città e i borghi così conquistati si preoccuparono di dare sicurezza e solidità all’organizzazione interna, dato lo stato di necessità in cui si trovava la popolazione nel momento della loro fondazione. Doveva infatti abitare in comunità chiuse come piazzeforti, unico modo per avere una certa sicurezza di fronte alle scorrerie continue degli arabi. Nello stesso tempo, la conformazione peninsulare del paese e il continuo interscambio con la Provenza e con l’Italia fecero nascere importanti città commerciali e marittime sulla costa. Sin dal lontano secolo XV, le città costituirono l’elemento più importante all’interno delle Cortes, composte dai loro rappresentanti assieme a quelli del clero e della nobiltà. È pertanto degno di essere messo in rilievo il fatto che la lenta riconquista contro il nemico arabo, in una ostinata lotta di quasi ottocento anni, abbia dato alla penisola iberica, nel momento della sua piena emancipazione, un carattere del tutto diverso da quello dell’Europa contemporanea: agli inizi dell’epoca del risveglio europeo, la Spagna si trovò con i costumi dei goti e dei vandali al nord, e con quelli degli arabi al sud.
    «Ritornato Carlo I dalla Germania, dove era riuscito a conquistare la dignità imperiale (...) iniziarono le ostilità tra Carlo e le città. A causa degli intrighi del re scoppiarono in Castiglia numerose ribellioni: venne costituita la Santa Giunta di Avila e le città riunite convocarono la Cortes a Tordesillas, da dove partì il 20 ottobre 1520 una "protesta contro gli abusi" diretta al re che, come tutta risposta, privò dei loro diritti tutti i deputati che si erano riuniti a Tordesillas. La guerra civile si rese quindi inevitabile ed i comuneros presero la fortezza di Torrelobatiòn, ma alla fine furono sconfitti da forze superiori nella battaglia di Villadar in data 23 aprile 1521. Le teste dei principali "cospiratori" rotolarono giù dal patibolo e contemporaneamente sparirono le antiche libertà della Spagna.
    «Diverse circostanze cospirarono in favore del potere assoluto. La mancanza di unione tra le diverse regioni privò i loro sforzi del vigore necessario; ma Carlo si valse soprattuto del forte antagonismo esistente tra le classi dei nobili e quella degli abitanti delle città per degradare entrambe. Abbiamo già detto che dal secolo XIV in poi l’influenza delle città fu predominante nelle Cortes: dai tempi di Ferdinando il Cattolico la Santa Fratellanza [unione delle città spagnole creata alla fine del secolo XV dai Re Cattolici al fine di utilizzare la borghesia contro i nobili a favore dell’assolutismo, ndr] fu uno strumento potente nelle mani delle città contro i nobili castigliani, i quali attribuivano a quella istituzione la violazione dei loro antichi privilegi e della loro vecchia giurisdizione. La nobiltà si mostrò, pertanto, ben disposta ad appoggiare Carlo I nel suo progetto di distruggere tale strumento. Dopo averne schiacciata la resistenza armata, Carlo si occupò personalmente di ridurre i privilegi municipali delle città, le quali diminuendo rapidamente di ricchezza, popolazione e importanza, persero le loro funzione nelle Cortes (...) Il terzo elemento della antica composizione delle Cortes, il clero, allineatosi fin dai tempi di Ferdinando il Cattolico sotto la bandiera dell’Inquisizione, aveva smesso ormai da lungo tempo di identificare i suoi interessi con quelli della Spagna feudale. Anzi, grazie all’Inquisizione, la Chiesa si convertì nello strumento più formidabile dell’assolutismo.
    «Se dopo il regno di Carlo I, la decadenza della Spagna, sia nel campo politico sia sociale, presenta tutti i sintomi di una lunga e per niente gloriosa putrefazione, sintomi che rimandano ai peggiori tempi dell’impero turco, sotto lo stesso imperatore le vecchie libertà furono in fin dei conti sotterrate in un magnifico sepolcro. Questa è l’epoca in cui Vasco Nùnez de Balboa pianta il labaro di Castiglia sulle coste di Sarien, mentre Cortes lo fa nel Messico e Pizarro nel Perù; è l’epoca in cui il dominio spagnolo governò l’Europa e l’immaginazione meridionale degli iberici fu alterata da visioni di Eldorado, avventure cavalleresche e sogni di monarchia universale. La libertà spagnola morì sotto torrenti d’oro, tra il fragore delle armi e il terribile splendore degli autodafès.
    «Quale spiegazione, dunque, si può fornire del singolare fenomeno consistente nel fatto che, dopo quasi tre secoli di una dinastia asburgica seguita da un’altra borbonica – ognuna delle quali basta e avanza per schiacciare un popolo – sopravvivono ancora come allora le libertà municipali della Spagna? E che proprio nel paese in cui, tra tutti gli Stati feudali, nacque la monarchia assoluta nella sua forma meno leggera, il centralismo non sia ancora riuscito a piantare le proprie radici? La risposta non è difficile. Le grandi monarchie si formarono nel secolo XVI e si affermarono dovunque grazie alla decadenza delle opposte classi feudali: l’aristocrazia e le città. Però, negli altri Stati europei la monarchia assoluta si presentò come un centro di civiltà, come la promotrice dell’unità sociale. Fu in quegli Stati il laboratorio dove si mescolarono ed elaborarono i diversi elementi della società in maniera tale da indurre le città ad abbandonare l’indipendenza locale e la sovranità medievale in cambio della legge generale delle classi medie e del dominio comune della società civile. In Spagna, al contrario, mentre l’aristocrazia si inabissava nella degradazione senza perdere i suoi peggiori privilegi, le città persero il loro potere medievale senza guadagnare in importanza moderna.
    «Fin dallo stabilirsi della monarchia assoluta, le città vegetarono in uno stato di continua decadenza. Non possiamo qui elencare le circostanze politiche ed economiche che rovinarono il commercio, l’industria, la navigazione e l’agricoltura in Spagna. Per il presente basti ricordare semplicemente l’esistenza di questa rovina. Con il declino della vita commerciale e industriale delle città divenne sempre più scarso il traffico interno e meno frequente il contatto tra gli abitanti delle varie regioni, si trascurarono i mezzi di comunicazione e furono abbandonate le grandi strade. Così la vita locale della Spagna, l’indipendenza delle sue province e municipi, le diversità di condizioni della società, fenomeni basati originariamente sulla configurazione fisica del paese e sviluppati storicamente secondo le diversità dei modi con cui le varie regioni si erano emancipate dalla dominazione araba per formare piccole entità indipendenti, tutto ciò si vide addirittura rinforzato e confermato dalla rivoluzione che inaridì le fonti dell’attività nazionale. In questo modo la monarchia assoluta trovò in Spagna una base materiale che, per sua stessa natura, respingeva il centralismo. Essa stessa, inoltre, fece quanto fu in suo potere per impedire che si sviluppassero interessi comuni basati in una divisione nazionale del lavoro e in una moltiplicazione del traffico interno – unica e vera base sulla quale poter creare un sistema amministrativo uniforme e leggi generali.
    «Così, la monarchia assoluta spagnola, malgrado la sua apparente somiglianza con le monarchie assolute dell’Europa in genere, deve essere piuttosto catalogata vicino alle forme di governo asiatiche. Come la Turchia, la Spagna continuò a essere un conglomerato di repubbliche mal governate con alla testa un sovrano nominale. Il dispotismo presentava caratteri diversi nelle varie regioni a causa dell’arbitraria interpretazione della legge generale da parte dei viceré e dei governanti. Malgrado il suo dispotismo, il governo non riuscì a impedire che continuassero a esistere nelle varie regioni diversi diritti e costumi, monete, bandiere o colori militari, oltre ai vari sistemi fiscali. Il dispotismo orientale non intacca l’autogoverno municipale se non quando questo si oppone direttamente ai suoi interessi, e permette molto volentieri a queste istituzioni autonome di continuare la loro esistenza purché sollevino le sue delicate spalle dalla fatica di qualsiasi incarico e gli risparmiano il disturbo di una regolare amministrazione».

 

2. - La guerra di indipendenza

In una lettera del 17 ottobre 1854 Marx scriveva ad Engels:

    «Da un’esatta valutazione della storia della rivoluzione spagnola risulta che questa gente ci ha messo circa 40 anni per rovesciare la base materiale del clericume e dell’aristocrazia, ma che in questo periodo gli è anche riuscito di sovvertire completamente la vecchia organizzazione sociale».
Il movimento rivoluzionario iniziato nel 1808 in occasione della Guerra di Indipendenza, che dette luogo alle Cortes di Cadice e alla Costituzione del 1812, si può dire che nel 1854-56 abbia dato già risultati sostanziali per la borghesia liberale. Se è vero che in Ispagna non si è avuto un concentrato periodo rivoluzionario, nel quale la società vive un travaglio che la trasforma completamente, come fu, salve le differenze, quello della Francia del 1789 e 1794, la trasformazione spagnola benché si sia a lungo protratta non per questo è stata meno sanguinosa.

Si possono distinguere quatto ondate rivoluzionarie più o meno definite: la prima 1808-1814, con la Guerra di Indipendenza; la seconda 1820- 1823, detto il Triennio Liberale; la terza 1833-1843 comprendente la Prima Guerra carlista dal 1833 al 1840 poi la reggenza Espartero dal 1841 al 1843; la quarta del 1854 al 1856 in cui le riforme economiche furono scarse però importanti le esperienze politiche. Di questi quattro periodi il più decisivo e fruttifero per quel che riguarda la introduzione dei rapporti economici borghesi fu quello della guerra dei liberali, o isabelinos, contro i carlistas nella guerra civile che scoppiò alla morte di Ferdinando VII, che durò otto anni e terminò con la sconfitta dei secondi.

    «Fu così che Napoleone, il quale come tutti i suoi contemporanei, considerava la Spagna come un corpo inerte, s’imbattè nella terribile sorpresa di scoprire che se lo Stato spagnolo era morto, la società spagnola era piena di vita e ogni sua parte traboccava di capacità di resistenza (...)
    «Non scorgendo alcuna vitalità nella monarchia spagnola se non nella miserabile dinastia che egli stesso teneva in custodia, si sentì ugualmente sicuro del suo dominio in Spagna. Ma soltanto pochi giorni dopo il suo coup de main, ebbe la notizia di una insurrezione a Madrid. Murat, a dire il vero, represse la sollevazione causando un migliaio di morti, ma quando si seppe la notizia di questo eccidio scoppiò una ribellione nelle Asturie e poco dopo il movimento si estese in tutto il territorio. Si deve osservare che il primo movimento ebbe un’origine spontanea nel popolo, mentre le classi "superiori" si sottomettevano pacificamente al giogo straniero.
    «Così si preparava la Spagna alla sua nuova carriera rivoluzionaria, e si vide spinta alle lotte che hanno caratterizzato il suo sviluppo nel secolo attuale» NYDT, 9 settembre 1854).
    «Quando, in conseguenza delle stragi di Madrid e delle trattative di Bayonne, scoppiarono simultaneamente le insurrezioni nelle Asturie, in Galizia, in Andalusia e a Valenza, e un esercito francese occupò Madrid (...) tutte le autorità costituite, militari, ecclesiastiche, giudiziarie, amministrative, e anche la nobiltà, esortarono il popolo a sottomettersi all’invasore straniero. C’era, però, una circostanza che compensava tutti i disagi della situazione: grazie a Napoleone il paese si era sbarazzato del suo re, della famiglia reale e del governo. Così furono spezzate le catene che in altre circostanze avevano impedito al popolo spagnolo di sviluppare la sua innata energia. Le tragiche campagne militari del 1794 e 1795, in effetti, provano che gli spagnoli erano incapaci di far fronte ai francesi in circostanze normali e guidati dal loro re (...)
    «Così, dunque, fin dagli stessi inizi della guerra per l’indipendenza spagnola, l’alta nobiltà e la vecchia amministrazione persero ogni contatto con le classi medie e con il popolo spagnolo in conseguenza della loro diserzione nel momento di iniziare la lotta. Da una parte c’erano gli afrancesados (amici dei francesi), dall’altra la nazione. A Valladolid, Cartagena, Granada, Jaèn, Sanlùcar, La Carolina, Ciudad Rodrigo, Cadice e Valenza, i membri di più alto grado della vecchia amministrazione – governatori, generali altri personaggi di rilievo – sospetti di essere agenti francesi e ostacolo al movimento nazionale, caddero vittime del popolo inviperito. Ovunque furono rimosse le autorità in carica. Alcuni mesi prima della sollevazione – il 19 marzo 1808 – avevano avuto luogo a Madrid agitazioni popolari tendenti ad abbattere il Choricero (il Salumiere, un nomignolo con cui chiamavano Godoy) e i suoi odiosi collaboratori.
    «L’obbiettivo era adesso raggiunto e con esso si compiva la rivoluzione nazionale, nei limiti entro cui ciò era possibile, dato lo stato soggettivo delle masse e il fatto che non era stato ancora risolto il problema della invasione straniera. Considerato dal di fuori, il movimento sembra diretto contro la rivoluzione, piuttosto che a suo favore. Il movimento è nazionale per la proclamazione dell’indipendenza della Spagna rispetto alla Francia, tuttavia, nello stesso tempo, esso è dinastico poiché oppone a Giuseppe Bonaparte il "desiato" Ferdinando VII; è reazionario nell’opporre le vecchie istituzioni, costumi e leggi, alle razionali innovazioni di Napoleone; superstizioso e fanatico nella sua difesa della "santa religione" contro quello che chiamava ateismo francese e lo distruzione degli speciali privilegi della Chiesa romana (...)
    «Tutte le guerre per l’indipendenza dirette contro la Francia comportano contemporaneamente sia l’impronta della rigenerazione, sia quella della reazione; ma in nessun’altra parte il fenomeno si presenta con l’intensità con cui esso avviene in Spagna (...)
    «E, sebbene i contadini, gli abitanti delle piccole città dell’interno, e il numeroso esercito dei mendicanti – miserabili o no – imbevuti tutti di pregiudizi politici e religiosi, formassero la grande maggioranza del partito nazionale, questo includeva una minoranza attiva e influente che considerava la rivolta popolare contro l’invasore francese come il segnale della rinascita politica e sociale della Spagna. Questa minoranza era formata dagli abitanti delle città portuali e commerciali e, in parte, pure da elementi delle capitali di provincia, nelle quali sotto il regno di Carlo V si erano sviluppate fino a un certo punto le condizioni materiali della società moderna. Tutti questi elementi erano appoggiati dal settore più colto delle classi alte e medie – scrittori, medici, giuristi e perfino sacerdoti, per il quale i Pirenei non erano stati una barriere sufficiente a fermare l’invasione della filosofia del secolo XVIII (...)
    «Finchè si trattò soltanto della comune difesa del paese, i due grandi elementi che costituivano il partito nazionale rimasero saldati in piena unione. Il loro antagonismo non apparve fino a che non si trovarono insieme nelle Cortes davanti allo scoglio di abbozzo di una nuova costituzione. Per eccitare lo spirito rivoluzionario del popolo la minoranza rivoluzionaria non ebbe alcuna incertezza nel ricorrere ai pregiudizi nazionali della vecchia fede popolare. Sebbene questa tattica risultasse utile agli obbiettivi immediati della resistenza nazionale, non potrà non mostrarsi funesta per quella minoranza quando fosse arrivato il momento in cui gli interessi conservatori della vecchia società si sarebbero nascosti dietro i numerosi pregiudizi e passioni popolari allo scopo di difendersi dai piani prossimi e remoti dei rivoluzionari.
    «Ferdinando, nell’abbandonare Madrid, obbligatovi da Napoleone, aveva costituito una Junta Suprema di governo sotto la presidenza dell’Infante don Antonio. Ma, questa Junta aveva già smesso di esistere nel mese di maggio. Da questo momento in poi non ci fu alcun governo centrale e le città sollevatesi formarono le proprie Juntas, subordinandole a quelle delle capitali delle provincie. Queste Juntas provinciali costituirono altrettanti governi indipendenti, ognuno dei quali mise in piedi un proprio esercito. La Junta dei rappresentanti di Oviedo proclamò che la piena sovranità era passata nelle sue mani: dichiarò la guerra a Napoleone e inviò deputati in Inghilterra per concludere un armistizio. La stesso fece più tardi la Junta di Siviglia (...)
    «Tuttavia, le Juntas provinciali, create così improvvisamente, del tutto indipendenti l’una dall’altra, riconoscevano una certa autorità – anche se minima e non bene definita – alla Junta Suprema di Siviglia, considerando questa città come capitale della Spagna, trovandosi Madrid in mano all’invasore straniero. Così si stabilì un tipo chiaramente anarchico di governo federale che, sotto l’effetto dell’urto di interessi contrastanti, rivalità locali e influenze opposte, risultò uno strumento piuttosto inadeguato per ottenere unità nel comando militare e per combinare le operazioni di una campagna bellica (...)
    «Ci sono due circostanze che riguardano queste Juntas: una mostra quanto era basso il livello di coscienza del popolo al momento della sollevazione e l’altra, la sfavorevole reazione allo sviluppo della rivoluzione. Le Juntas furono elette con il suffragio universale, però "le classi inferiori manifestarono grande zelo nella loro sommessa obbedienza". Elessero generalmente i loro superiori naturali, elementi della nobiltà provinciale e della piccola nobiltà, dietro a loro elementi del clero e pochissime persone notevoli della borghesia. Tanto cosciente era il popolo della propria debolezza che limitò la propria iniziativa nei confronti delle classi alte, obbligando queste a resistere all’invasore, senza cercare di assumere la direzione della resistenza. A Siviglia, ad esempio, "la prima iniziativa del popolo fu che il clero parrocchiale e i superiori dei conventi si riunissero per eleggere i membri della Junta". Così i posti esistenti all’interno delle Juntas furono ricoperti da persone molto condizionate dalla loro precedente situazione e molto lontane dall’essere dei dirigenti rivoluzionari. D’altra parte, avendo il popolo stesso stabilito queste autorità, non pensò di limitare il loro potere, né di porre un termine alla durata del medesimo. Le Juntas naturalmente non pensarono ad altro se non a estendere l’uno e a perpetuare l’alta.
    «Così, queste prime creazioni dello slancio popolare all’inizio della rivoluzione costituirono, durante tutto il loro sviluppo, altrettanti sbarramenti alla corrente rivoluzionaria ogni qualvolta questa cercava di straripare» (NYDT, 25 settembre 1854).


Malgrado che in generale il compito delle Juntas fosse quello che abbiamo visto, Marx, più avanti, per enfatizzare l’elemento e l’istinto rivoluzionario in Ispagna all’epoca della Guerra di Indipendenza, fa notare che alcune di queste Juntas provinciali adottarono autentici mezzi rivoluzionari borghesi, particolarmente nelle Asturie e in Galizia, così come fa notare la disponibilità delle masse alla lotta.

La indipendenza che in un primo momento mantennero le Juntas provinciali fra loro moltiplicò le risorse difensive del paese contro i francesi, fra l’altro perché privava questi di un centro dirigente da attaccare o conquistare. Ma senz’altro sono molti i fatti che andavano a determinare la necessità di creare una Junta Central alla quale si sottomettessero le provinciali: la rivalità che esisteva fra Juntas, il timore che Napoleone richiamasse i suoi eserciti sparsi per l’Europa, davanti ai quali si richiedeva una difesa organizzata, la necessità di negoziare trattati di alleanza con altre potenze, mantenere il contratto con l’America spagnola e riceverne i tributi.

La Junta Central era composta da 35 membri rappresentanti le diverse Juntas provinciali. Fra i suoi numerosi atteggiamenti reazionari che Marx elenca c’è quello di frenare o confondere la minoranza più rivoluzionaria delle Juntas provinciali. Fu il 25 settembre 1808 che la Junta Central intraprende il suo percorso.

    «In circostanze rivoluzionarie, ancora più che che in circostanze ordinarie, i destini degli eserciti riflettono la vera natura dei governi civili. La Junta Central, incaricata di cacciare dal suolo spagnolo gli invasori, venne sospinta dalle vittorie degli eserciti nemici da Madrid a Siviglia e da Siviglia a Cadice per morire ignominiosamente in questa città. Il suo governo si caratterizzava per una disgraziata successione di sconfitte, l’annientamento degli eserciti spagnoli e, infine, la dissoluzione della guerra regolare nelle imprese delle guerriglie (...)
    «Perciò, se la situazione della Spagna nell’epoca della invasione francese opponeva le maggiori difficoltà possibili alla creazione di un centro rivoluzionario, la stessa composizione della Junta Central la rendeva inoltre incapace di qualsiasi lotta nella terribile crisi in cui venne a trovarsi la nazione (...)
    «I due membri più significativi della Junta Central, sotto le cui insegne si allinearono i due grandi partiti, furono Floridablanca e Jovellanos, vittime entrambi delle persecuzioni di Godoy; vecchi ministri deboli, e maturati entrambi nei formalistici e pedanti usi dell’inefficiente regime spagnolo (...)
    «È pur vero che la Junta contava su pochi uomini, tra cui emergeva don Lorenzo Calvo de Rosas, il delegato di Saragozza che, pur adottando i punti di vista di Javellanos, incitava nello stesso tempo la Junta a compiere azioni rivoluzionarie. Ma il loro numero era troppo ridotto e i loro nomi troppo sconosciuti perchè fosse loro possibile spingere la lenta carrozza politica della Junta fuori dal passo misurato del cerimoniale spagnolo.
    «Questo potere tanto maldestramente costruito, gestito con tale mancanza di nervi e con tante moribonde reliquie alla sua guida, doveva realizzare una rivoluzione e sconfiggere Napoleone. Se il suo proclama fu tanto vigoroso, quanto fiacche le sue imprese, ciò si deve al fatto che la Junta ebbe il buon gusto di prendere come segretario il poeta spagnolo Don Manuel Quintana, affidandogli la redazione dei propri manifesti».
Il fatto che qui Marx rileva, la differenza tra i manifesti e i documenti prodotti dalla Junta Central e la volontà e le azioni per realizzare davvero i compiti proclamati, porta coloro che la studiano solo dai suoi testi a giudicarla erroneamente, insieme alle successive Curtes da essa convocate nel 1810, attribuendo loro un ruolo rivoluzionario al quale in realtà non assursero. Purtroppo la borghesia non espresse nessuna migliore istituzione, in un’epoca in cui eppure era chiamata dalla storia, misura questa del basso potenziale rivoluzionario della classe borghese in Ispagna.
    «In linea generale, la maggioranza dei membri della Junta Central ebbero come principale dovere quello di reprimere i primi sussulti rivoluzionari. Conseguentemente, tornarono a premere i vecchi grilletti della stampa e nominarono un nuovo Grande Inquisitore con il compito di esercitare le proprie funzioni che gli erano state invece, e per fortuna, impedite dai francesi. Sebbene la maggior parte della proprietà immobiliare fosse bloccata in regime di manomorta, nelle proprietà vincolate della nobiltà e in quella inalienabile della Chiesa, la Junta ordinò di sospendere le già iniziate vendite dei beni di manomorta; vendite che avevano cominciato a minacciare i contratti privati già stipulati e riguardanti le proprietà della Chiesa. Inoltre, la Junta riconobbe il debito nazionale, ma non prese alcuna misura per scaricare il bilancio dal cumulo di cariche che per un secolo tutta una serie di governi corrotti precedenti aveva prodotto, né per riformare un sistema fiscale proverbialmente ingiusto, assurdo e vessatorio, né scoprire nuove risorse produttive della nazione, rompendo così gli ostacoli del feudalesimo» (NYDT, 20 ottobre 1854).
    «Per noi, però, il punto decisivo consiste nel provare, basandoci sulle numerose manifestazioni delle Juntas provinciali nei riguardi di quella centrale, il fatto, tanto spesso negato, della presenza di aspirazioni rivoluzionarie nell’epoca del primo movimento spagnolo (...)
    «Non soddisfatta di gravare come un peso morto sopra la rivoluzione spagnola, la Junta agì positivamente in senso controrivoluzionario, ristabilendo le antiche autorità, tornando a forgiare le catene che erano state spezzate, spegnendo il fuoco rivoluzionario ovunque esse si accendesse, grazie all’accorgimento di non far nulla e impedendo che altri facessero qualcosa (...)
    «Abbiamo creduto che fosse prima di tutto necessario insistere su questo punto giacché la sua decisiva importanza non è stata compresa da nessuno storico europeo. Soltanto sotto il governo della Junta Central era possibile riunire le necessità e le esigenze della difesa nazionale con la trasformazione della società spagnola e l’emancipazione dello spirito nazionale, senza i quali elementi ogni costituzione politica si dissolverebbe come un fantasma al più leggero urto con la vita reale. Le Cortes invece si trovarono in circostanze completamente diverse, ridotte a starsene in un angolo isolato della penisola pirenaica, per due anni separate dal corpo principale del regno per la pressione dell’esercito francese, e rappresentando la Spagna ideale, mentre la Spagna reale si trovava in piena lotta o era già stata conquistata. Nel momento di queste Cortes, la Spagna era divisa in due parti: nell’Isla de Lèon, idee senza azione; nel resto della Spagna, azione senza idee. Al tempo della Junta Central invece, ci fu da parte del governo una inusuale debolezza, incapacità e cattiva volontà nel tracciare una linea divisoria tra la guerra spagnola e la rivoluzione spagnola. Le Cortes quindi fallirono non per essere state rivoluzionarie, come affermano gli scrittori inglesi e francesi; bensì, perché i loro rappresentanti furono reazionari e persero la vera occasione di un’azione rivoluzionaria» (NYDT, 27 ottobre 1854).
    «La Junta Central fallì nella difesa del suo paese perché fallì nella sua azione rivoluzionaria (...)
    «La disastrosa battaglia di Ocaña, del 19 novembre 1809, fu l’ultima grande battaglia in campo aperto sostenuta dagli spagnoli: da quel momento in poi, si limitarono alla guerra di guerrillas. Il semplice fatto di questo abbandono della guerra regolare prova l’indebolimento del governo nazionale di fronte ai centri di governo locale (...)
    «Bisogna distinguere tre tempi nella storia della guerrilla (...) Confrontando i tre periodi della guerra di guerrillas con la storia politica della Spagna si scopre che essi corrispondono ai rispettivi gradi con cui lo spirito controrivoluzionario del governo riuscì a paralizzare lo stato d’animo del popolo. Iniziata con la sollevazione di intere popolazioni, la guerrilla fu poi realizzata da bande la cui riserva era costituita dalle stesse popolazioni e finì per essere condotta da corpi franchi sul punto di atrofizzarsi in bande di banditi o di ridursi al livello dei reggimenti regolari» (NYDT, 30 ottobre 1854).
    «Il 24 settembre 1810 le Cortes straordinarie si riunirono nell’isola di Leòn, il 20 febbraio 1811 trasferirono la loro sede a Cadice, il 19 marzo 1812 promulgarono la nuova Costituzione e il 20 settembre 1813 chiusero le loro sessioni tre anni dopo averle inaugurate».
Il fatto, che quasi tutta la Spagna fosse sottratta al governo delle Cortes, impedisce provare della loro reale capacità e disposizione a portare in pratica e far applicare la Costituzione del 1812, prive di un territorio in cui applicare le loro leggi con tutti i conseguenti effetti rivoluzionari; e questo è un fatto da tenere sempre presente quando si parli della fase in cui nacque la Costituzione del 1812.

Dopo la disamina dei singoli punti della Costituzione del 1812, i quali corrispondono a quelli di una rivoluzione borghese, Marx li confronta con vari leggi locali e costumi che ancora esistevano o erano esistiti in Ispagna.

    «La verità è che la Costituzione del 1812 è una riproduzione degli antichi feuros anche se interpretati alla luce della Rivoluzione francese e adattati alle necessità della moderna civiltà (...)
    «D’altronde, si possono individuare nella Costituzione del 1812 inconfondibili segni di un compromesso concluso tra le idee liberali del secolo XVIII e le oscure tradizioni teocratiche. Basta citare l’articolo 12, secondo il quale: “la religione della nazione spagnola è e sarà per sempre quella cattolica apostolica romana, unica, vera religione. La nazione protegge la medesima con leggi prudenti e giuste e proibisce l’esercizio di ogni altra religione” (...)
    «Portata a termine questa analisi della Costituzione del 1812 arriviamo quindi alla conclusione che, lungi dell’essere una servile imitazione della Costituzione del 1791, essa fu un prodotto genuino e originale, sorto dalla vita intellettuale, rigeneratore delle antiche tradizioni popolari, veicolo delle misure riformistiche energicamente richieste dai più celebri autori e statisti del secolo XVIII e, contemporaneamente, carico di inevitabili concessioni ai pregiudizi popolari» (NYDT, 24 novembre 1854).
    «Alcune circostanze favorevoli permisero che si riunissero a Cadice gli uomini più progressisti della Spagna. Nel momento in cui si celebrarono le elezioni, il movimento rivoluzionario non era ancora spento e le antipatie generali contro la Junta Central favorirono i suoi antagonisti, appartenenti in gran parte alla minoranza rivoluzionaria della nazione (...)
    «Sarebbe tuttavia in grave errore supporre che i riformisti costituissero la maggioranza nelle Cortes. Queste erano divise in tre partiti: i serviles, i liberales (queste denominazioni si diffusero per tutta l’Europa partendo dalla Spagna) e gli americanos, partito questo ultimo che votava alternativamente con gli uni e con gli altri, a seconda dei suoi particolari interessi (...)
    «I liberali ebbero inoltre buona cura di non proporre né votare i decreti sull’abolizione della Inquisizione, delle decime, dei monasteri, ecc., se non dopo che fosse stata proclamata la Costituzione. Però, da questo momento in poi, l’opposizione degli assolutisti nelle Cortes e del clero fuori di esse diventò implacabile.
    «Considerate già le circostanze che spiegano l’origine e i tratti caratteristici della Costituzione del 1812, resta da risolvere ora il problema della sua rapida scomparsa, senza che di fosse alcuna resistenza, al ritorno di Ferdinando VII. Poche volte il mondo ha visto spettacolo più umiliante. Quando Ferdinando entrò a Valenza il 18 aprile 1814, “il popolo felice si strinse intorno alla sua carrozza e manifestò in ogni momento con parole e azioni il suo desiderio di riprendere il vecchio gioco, gridando vive il re assoluto! Abbasso la Costituzione!” (...)
    «Forse più importante di queste impudiche manifestazioni della plebaglia urbana – in parte prezzolate e in parte dovute al fatto che queste masse, come i lazzaroni napoletani, preferivano il lussuoso dispotismo dei re e dei frati al sobrio governo della borghesia – fu il risultato delle seconde elezioni generali, terminate con una netta vittoria dei serviles.
    «Le Cortes costituenti vennero sostituite il 20 settembre 1813 da quelle ordinarie, le quali trasferirono la loro sede da Cadice a Madrid il 15 gennaio del 1814. Abbiamo visto in precedenti articoli come lo stesso partito rivoluzionario mantenne e rinforzò i vecchi pregiudizi popolari intendendo convertirli in altrettante armi contro Napoleone. Abbiamo visto pure, come la Junta Central, nell’unico periodo in cui i cambiamenti sociali avrebbero potuto allacciarsi ai sistemi di difesa nazionale, fece tutto il possibile per impedirli e per soffocare le aspirazioni rivoluzionarie delle province.
    «Le Cortes di Cadice, al contrario, isolate totalmente dal resto della Spagna per la maggior parte della loro esistenza, non poterono far conoscere la loro Costituzione e i loro decreti organici se non a misura che si ritiravano gli eserciti francesi. Le Cortes arrivarono, per così dire, post factum e trovarono una società stanca, esaurita, piena di sofferenze (...)
    «Le classi più interessate alla sconfitta della Costituzione del 1812 e alla restaurazione dell’antico regime, la nobiltà, il clero, gli ordini monacali e i giuristi, continuarono a eccitare fino al parossismo il malcontento popolare prodotto dalle sfortunate circostanze che caratterizzarono l’introduzione del regime costituzionale in Spagna. A ciò di deve la vittoria degli assolutisti nelle elezioni generali del 1813.
    «Soltanto dall’esercito il re poteva temere una resistenza consistente, ma il generale Elio e i suoi ufficiali, rompendo il giuramento che avevano fatto alla Costituzione, proclamarono re Ferdinando VII a Valenza senza fare riferimento a quella. Presto gli altri capi militari seguirono le orme di Elio.
    «Nel suo decreto del 4 marzo 1814, Ferdinando VII scioglieva le Cortes di Madrid e abrogava la Costituzione del 1812, proclamava nello stesso tempo il suo orrore per il dispotismo e prometteva di convocare le Cortes con le vecchie formule legali, di stabilire una ragionevole libertà di stampa, ecc. Compì la sua promessa nell’unico modo che meritasse l’accoglienza con cui era stato ricevuto dal popolo spagnolo: abrogando tutti gli atti emanati dalle Cortes, restaurando ogni cosa al suo antico posto, ristabilendo la Santa Inquisizione, richiamando i gesuiti espulsi dai suoi predecessori, mandando in carcere, alle guarnigioni africane e al confino, i membri più eminenti delle Juntas e delle Cortes, così come i loro seguaci, e ordinando, infine, l’esecuzione dei più illustri capi guerriglieri come Polier e Lacy» (NYDT, 1 dicembre 1854).
 

(continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


LA NATO OCCUPAZIONE MILITARE DELL’EUROPA
 

1. La questione tedesca nella stampa del partito 1953-56
 

Le guerre imperialiste non sono solo guerre tra gli Stati, ma guerre di classe. Sono guerre contro il proletariato, produttore di plusvalore, potenziale affossatore del capitalismo e portatore del nuovo modo di produzione.

Da "Morte e miracoli di un vinto", Il Programma Comunista, n. 3/1954. «Quanto sta accadendo in Germania prova il carattere classista della guerra. Se fosse vero che le guerre scaturiscono da contrasti statali tra le nazioni, le cosiddette “nazioni vinte” dovrebbero subire inevitabilmente decadenza e rovina. Chi al mondo più vinta e sconfitta della Germania? Messa in ginocchio nel ’18, schiacciata al suolo nel ’45, e, per soprammercato, smembrata dai patti di guerra occidentale-russi, dovrebbe figurare oggi, se la dottrina della nazione vinta fosse qualcosa di diverso da una stupidaggine, in coda alla classifica generale degli Stati. Succede invece che le cosiddette “nazioni vincitrici” debbano preoccuparsi della insopprimibile vitalità economica e delle minacciose tendenze espansionistiche della due volte vinta Germania».

Alcuni dati suffragano la nostra tesi: esportazione nei primi quattro mesi del ’53 in Sud America: Germania Ovest 90 milioni di dollari contro gli 84 milioni della Gran Bretagna, e ancora: esportazione in Argentina (stesso periodo) Germania 30,7 milioni di dollari contro i 23,9 degli USA e i 9,6 dell’Inghilterra. Chi sono i vincitori? Chi ha vinto?

Sono indubbiamente gli Stati a dichiarare e condurre le guerre, ma essi stessi soggiacciono alle leggi dello sviluppo dell’economia capitalistica: «Accumulazione e concentrazione del capitale: ecco le leggi storiche dello sviluppo capitalista. La guerra non fa che esaltare il loro imperio, sia negli Stati vincenti che nei perdenti, sia nei vincitori che nei vinti. Tutti gli Stati belligeranti “vincono” le guerre, i vinti non esclusi (...) L’enigma si spiega solo con la divisione in classi della società (...) Se le condizioni eccezionali di guerra hanno permesso al meccanismo produttivo tedesco di rafforzarsi, come stanno a provarlo i fatti del dopoguerra, ciò vuol dire che la guerra ha favorito le tendenze organiche alla accumulazione e alla concentrazione della produzione in Germania come altrove (per questo diciamo che quando la guerra capitalista inizia, il proletariato ha già subito una prima sconfitta).

«Come si è svolto in pratica il fenomeno? Secondo le leggi da un secolo e mezzo riconosciute al capitalismo: compressione del capitale variabile, limitazione drastica delle spese salari, abbassamento brutale del livello di vita delle masse lavoratrici dell’intera Europa. L’azienda Germania adoperando la forza armata della Wehrmacht e delle S.S. arruolava gli sterminati eserciti industriali dell’Europa intera assoggettandola ad un regime di sfruttamento impossibile in tempo di pace. Col razionamento dei viveri, il modo di vivere da militare, i campi di lavoro forzato e, all’occorrenza, i forni crematori adibiti alla distruzione di bocche da sfamare, il padrone tedesco conduceva il suo affare. La cosiddetta liberazione, operata dagli eserciti anglo-americani e russo, ricacciando indietro le armate naziste, reintegrava gli antichi padroni nei loro diritti di sfruttamento della mano d’opera locale: gli schiavi salariati francesi ai padroni francesi, gli schiavi salariati italiani ai padroni italiani, e via dicendo. Ma ai capitalisti tedeschi rimaneva ben saldo nelle mani il bottino raccolto (...) Ma chi se non il proletariato europeo, ne sopportava il spese? (...) Guai a chi si illude di moralizzare la borghesia predicando l’orrore per il sangue e la violenza (...) Perché mai la borghesia dovrebbe considerare "immorale" la guerra? Per gli sfruttatori tutto ciò che è redditizio è morale».

La Germania in questo secolo, con le sue immense forze produttive, è stata il centro della storia mondiale, cioè il centro della lotta tra proletariato e capitale. Ripercorriamo con le tappe storiche l’evolversi di di questa lotta e delle opposte ideologie secondo l’articolo "Vae victis Germania", nel n. 11/1960.

1914, scoppio della Prima Guerra Mondiale, per i marxisti conseguenza inevitabile del sistema socio-economico capitalista, data dalla reazione del capitale tedesco alla sua preclusione dal banchetto coloniale; per l’ideologia capitalista guerra ideologica contro il cattivo tedesco per la difesa della civiltà (quale civiltà?).

La guerra terminò con la disfatta della Germania, resa possibile, nonostante il ritiro delle truppe russe a seguito dello scoppio della rivoluzione d’Ottobre, dal disfattismo (arma nostra). Al proletariato si presentavano due strade: dittatura rivoluzionaria o movimento di rivincita nazionale contro i patti di Versailles. Vinse la seconda soluzione a causa del tradimento dei socialisti.

Seconda Guerra Mondiale. In questa guerra di revanscismo vediamo che la Russia, ormai deviata dal marxismo rivoluzionario, dapprima fa un blocco con Hitler poi si allea ai franco-anglo-americani, buttandosi nella crociata democratica. La forza del disfattismo era ormai spenta da questo doppio tradimento.

La sconfitta Germania subì l’occupazione che la separò in due Stati. Da qui l’impossibilità della pace: con chi i vincitori potrebbero stipularla? Il vero motivo è che i due blocchi apparentemente opposti temono la Germania unita (Berlino unita conta più di 5 milioni di abitanti e la sua forza produttiva è enorme).

Gli sbocchi possibili sono:
- annessione dei territori occupati da parte di uno dei vincitori, con conseguente conflitto armato;
- guerra nazionale dello Stato tedesco contro gli occupanti, con rilancio del patriottismo;
- guerra civile nelle due Germanie con rinascita di classe del proletariato tedesco. La condizione a che ciò avvenga è il risorgere della lotta di classe nel centro, nell’ovest e nell’est. Facilmente la direzione della dittatura del proletariato in un paese colonizzato, come la Germania, troverebbe un’eco tra le masse dei paesi di colore, riuscendo ad incanalare le forze che fremono in tutto il pianeta.

Scrivevamo nell’articolo "Gli operai berlinesi sono insorti contro la galera del lavoro salariato", nel n. 12/1953, che i sanguinosi fatti del 17 giugno furono tragici per il proletariato internazionale, ma non a causa delle uccisioni, giacché nella lotta di classe anche una sanguinosa disfatta può essere salutata come la premessa di vittorie future, quando metta in luce la manchevolezze dello schieramento proletario e mostri da quali posizioni il nemico riprenderà la lotta. Furono tragici in quanto «non sono serviti ad aprire uno spiraglio nella cortina di infatuazioni partigiane che avvolge le menti proletarie. In verità, hanno mostrato di quale fulminea reattività e potere di influenzamento dispongono le opposte, ma solidali sul terreno anti-rivoluzionario, centrali imperialistiche. Hanno dato la misura della strapotenza delle forze della conservazione (...) Tutti i governi di occidente, senza bisogno di consultarsi, si sono ritrovati insieme nella comune azione tendente a deviare sul terreno nazionalista del pangermanesimo la ribellione delle masse operaie contro precise impostazioni di carattere inequivocabilmente capitalista e sfruttatore (...) È vero che le centrali propagandistiche del blocco atlantico non hanno esitato ad incitare alla rivolta. Ciò aiuta a comprendere come il ricorso alla violenza e alla guerra civile sia perfettamente compatibile con la conservazione capitalista, quando beninteso il controllo delle forze operaie sia assicurato a formazioni politiche apertamente e copertamente legate all’imperialismo (...) L’unico accordo che sia impossibile raggiungere è solo quello tra gli interessi delle masse lavoratrici e la conservazione delle classi dominanti borghesi (...) A Mosca, come a Washington, chi attenta alla conservazione del regime del salariato merita la morte».

Cause immediate della rivolta: una serie di riforme a favore della piccola proprietà, delle aziende e del commercio privato, da una parte, dall’altra un decreto per l’aumento del 10% delle norme di lavoro degli operai, restando invariato il salario. A seguito di ciò gli operai edili scendono in piazza e il governo, impaurito, abolisce il provvedimento sostituendolo con un altro che stabilisce forti premi per chi volontariamente supera la norma. È chiaro che il cambiamento non cambia nulla (l’operaio che "volontariamente" aspira la premio intensificando lo sforzo produttivo obbliga i compagni ad uniformarsi al proprio ritmo); inoltre l’implicita dimostrazione di debolezza del governo fa scoppiare le dimostrazioni, le gerarchie sovietiche militari proclamano lo stato di emergenza e passano alla repressione armata facendo scorrere il sangue.

Gli operai berlinesi si ribellavano contro la tirannia della produzione capitalistica fondata sul salariato, sulla soggezione del vivente lavoro al Capitale, e hanno dimostrato, anche se non erano guidati da una chiara coscienza di classe, che le energie del proletariato sono solo sopite, non distrutte.

Da "Al di là e al di qua della cortina di ferro", nel n. 13/1953. Questo articolo porta un sottotitolo: "La spietata realtà di fatto stritola le squallide frasi dei lustrascarpe politici ed intellettuali del capitalismo: siano grandi o piccoli, di destra o di sinistra, d’Oriente e d’Occidente, questi illustri racconta chiacchiere non debbono e non potranno avere il minimo credito da parte del proletariato rivoluzionario". Narra il giornalista Barzini jr. come un operaio dimostrante in Berlino Est si rivolgesse a un gruppo di proletari di Berlino Ovest, che assistevano all’insurrezione dietro uno schieramento di forze d’ordine americane, col grido: Non abbiamo che da perdere le nostri catene. Certo noi non cerchiamo l’interpretazione dei fatti nelle confuse e contraddittorie ricostruzioni della stampa borghese, ma nei fatti «precedenti dell’evoluzione politica della Germania orientale (la convergente azione svolta dai dirigenti cosiddetti comunisti affiliati a Mosca di rincrudimento delle condizioni di lavoro degli operai e di aperto favoreggiamento della classe padronale, della grande proprietà industriale ed agricola) e la tardiva ma ben definita reazione dei rappresentanti di questa stessa classe al di qua della cortina di ferro».

Di fronte all’esplodere della violenza proletaria il sentimento dominante nelle autorità americane di occupazione fu la folle paura che l’incendio dilagasse in Berlino Ovest e, dopo gli analoghi moti operai in Polonia, il governo repubblicano degli Stati Uniti, ad onta della sua campagna elettorale sulla liberazione dei popoli dominati da Mosca, si affrettò a dichiarare che non un carro armato liberatore si sarebbe mosso in appoggio degli operai. (Analogamente oggi tutti i governi occidentali sono solidali con Eltsin, portatore della democrazia e dell’ordine. Persino il Papa benedice le truppe nel Caucaso secondo un rituale fin troppo noto).

«Le reazioni di classe della borghesia internazionale sono pronte e solidali: non si appoggiano moti proletari anche se contingentemente possibili di indebolire il concorrente imperialistico; l’attacco proletario, diretto contro un settore del capitalismo mondiale, è un’offesa a tutto lo schieramento della conservazione; alla repressione poliziesca del settore colpito, quello russo, l’altro settore quello americano assiste levando all’Onnipotente la calda preghiera che la repressione sia radicale e definitiva. Una sola "liberazione" è concepibile, per la classe dirigente americana o russa: quella che avviene sotto la SUA direzione, coi SUOI carri armati, con una carne da cannone che abbia rinunciato a "spezzare le proprie catene". Tutta la nostra solidarietà va agli anonimi proletari berlinesi, che per primi in questo squallido dopoguerra hanno avuto il potere di far tremare le odierne grandi potenze evocando lo spettro del comunismo. La Pravda ha dovuto giustificare ideologicamente l’insurrezione berlinese come un prodotto dei servizi segreti americani, dando un ottimo vantaggio alla propaganda democratica atlantica e al prestigio degli Stati Uniti, per non dover riconoscere che la rivolta era scaturita, come ogni rivolta dei lavoratori, dalla dominazione di classe, dal rifiuto di accettare strozzinesche maggiorazioni della giornata di lavoro. Gli operai berlinesi hanno agito nelle gloriose tradizioni rivoluzionarie del proletariato tedesco ed internazionale. Hanno mostrato il corso che la inarrestabile futura rivoluzione anticapitalista dovrà seguire: contro l’imperialismo capitalista di Occidente, contro la schiacciante concentrazione di potere che tende disperatamente a spostare attraverso gli oceani e i continenti il centro mondiale della conservazione borghese, da Washington a Mosca».

Ogni volta che il proletariato si muove, gravi fattori economici gli hanno dato l’avvio: è il capitale che produce le proprie crisi di sovrapproduzione e mette in moto il suo avversario. Ed è proprio in questi frangenti che gli Stati capitalisti lasciano da parte la concorrenza per correre a darsi man forte.

Nell’articolo "La Casa Bianca e il Cremlino si sostengono l’uno con l’altro", nel n. 1/1954, viene inquadrata una situazione che ricorda molto da vicino quella di oggi. L’anno 1953 fu di record dal punto di vista della produzione, ma già verso la sua fine vi furono avvisaglie di un ingorgo nei consumi con difficoltà di esportazione e lo spauracchio della ripresa commerciale della Germania. Subito il governo americano si dichiarò disposto ad intervenire con elementi stabilizzatori; per ironia della storia furono proprio i repubblicani, saliti al potere con un programma di smantellamento degli interventi statali e di ripresa della libera iniziativa, a disporsi a rimettere i moto il meccanismo anticrisi del New Deal democratico (lavori pubblici, previdenze sociali, aumento delle spese del bilancio statale). Ma il New Deal roosveltiano si salvò solo grazie a riarmo e al conseguente conflitto mondiale, come la crisi del ’49 si risolse grazie alla guerra di Corea. Nel ’54 la vera valvola fu cercata nell’allargamento del mercato mondiale con la ripresa dei rapporti commerciali e politici con la Russia riguardanti, con il moralismo e l’ipocrisia tipicamente americani, prodotti di importanza strategica minore.

Scrivemmo allora: «È una spinta economica che, da ambo le parti, muove in quel senso: abbiamo spesso rilevato come il pacifismo russo riflettesse una situazione obiettiva di soffocamento e quindi la necessità di rientrare nel circolo del commercio internazionale (vedi Conferenza economica di Mosca); abbiamo anche osservato – e gli avvenimenti ultimi lo confermano – che il marasma occidentale pone per forza di cose il problema di una espansione dei traffici, dell’esportazione di merci e capitali. La tendenza è dunque verso l’accordo. I dirigenti del Cremlino hanno più volte dichiarato che la pacificazione da loro proposta avrebbe sventato la crisi in maturazione nell’occidente (...) Per il proletariato essa significa questo: nel momento che l’ombra della recessione sgomenta il capitalismo occidentale, Mosca è lì non già per assestargli l’ultimo colpo, ma per offrirgli una via di salvezza, salvezza che d’altro lato, per la sproporzione esistente nei rapporti di forza tra i due blocchi, può solo implicare una ribadita sudditanza della struttura economica più debole (quella orientale) dalla più forte (...) La pace tra i due avversari di ieri può significare soltanto una somministrazione di ossigeno al regime dello sfruttamento del lavoro e del profitto: al regime della guerra».

Quale analisi più chiara è questa, valida nel ’54 ed ancor più oggi, del crollo mondiale dello stalinismo e dell’instaurazione a livello mondiale della perestrojka e post-erestrojka? Quando i grandi avversari mostrano la faccia della pace tra di loro, preparano la guerra contro il proletariato.

La fase della guerra fredda tra i due blocchi fu resa possibile dalla completa degenerazione opportunista del movimento operaio, ormai impotente a sganciarsi dalle influenze degli Stati (vedi: "Federati contro la classe operaia i governi di occidente e di oriente". n. 1/1954).

Fu proprio la rivolta operaia di Berlino Est del ’53 a dare il segnale che la valvola di sfogo del capitalismo mondiale, lo stalinismo, («supremo inganno della borghesia internazionale passata audacemente al pericoloso gioco di travestire con le forme esteriori della teoria rivoluzionaria proletaria il contenuto inequivocabile dello sfruttamento capitalista») non funzionava più.

Sei mesi dopo la rivolta di Berlino, nuova pausa della guerra fredda «che sembra preludere ad una rinnovata sistemazione della Russia e delle zone euro-asiatiche da essa controllate». Proprio nel momento di pericolo per il regime di Mosca i governi occidentali allentano le loro pressioni, permettendo al governo di prendere provvedimenti di natura interna volti ad allontanare la tremenda pressione esercitata dallo stalinismo sui lavoratori.

La guerra fredda, con la corsa al riarmo, possibile solo attraverso l’esaltazione della produzione di mezzi di produzione e la conseguente depressione nella produzione dei beni di consumo, non poteva essere sopportata con eguale resistenza da tutti i settori del capitalismo mondiale, i paesi più giovani ed economicamente deboli oppure più vecchi storicamente, ma usurati dalle due guerre mondiali, dovevano sopportare un peso maggiore. E il mito stakhanovista non serviva ad altro che a camuffare l’intensa accumulazione ottenuta grazie ad un super-sfruttamento della mano d’opera. Da qui la rivolta di Berlino e l’immediato schieramento delle nazioni occidentali, atto a non permetterne l’approfondimento, in quanto lo stalinismo rappresenta, nelle zone meno sviluppate della geografia capitalista, nei punti più deboli della dominazione borghese, la roccia dell’estrema difesa dell’ordine costituito, grazie anche all’innegabile decadenza della borghesia europea. Perciò chi tocca la Russia mette in pericolo l’America. Le due potenze sono legate a filo doppio, l’esistenza dell’una dipendendo da quella dell’altra. «La Russia atterrata dalla rivoluzione proletaria significherebbe l’America sola in un mondo nemico. Viceversa, il crollo dello Stato americano precederebbe di poco l’esecuzione capitale del gendarme moscovita, impotente al gigantesco compito di reggere un mondo capitalista orfano degli Stati Uniti».

La soluzione per Berlino passava e passa per queste potenze. Già nella Conferenza di Berlino del ’54 si trattava di cominciare a risolvere il problema stabilendo un corridoio tra i due blocchi (vedi: "A Berlino si sono fatti affari", n. 4/1954). «La sistemazione tedesca ed austriaca verrà al termine di un processo di nuova divisione di sfere di influenza e di riallacciamento di rapporti fra i dominatori mondiali, non prima. Né, del resto, l’impegno di continuare per via diplomatica i negoziati sul disarmo, sull’energia atomica e sulla preparazione della conferenza asiatica hanno altro senso che quello di ricucire contratti e concludere transazioni commerciali (...) La spinta in questo senso è, dai due lati, obiettiva e irresistibile».

Recessione e difficoltà commerciali spingono l’Occidente verso l’apertura di mercati nel gigantesco spazio asiatico e russo, la penuria di beni di consumo e di beni capitali spingono l’Oriente verso le forniture occidentali. Chi veramente guadagna in questa ripresa in contratti d’affari è il potenziale economico più robusto: il dollaro che preme sulle linee di minor resistenza del rublo. Le aspirazioni e la libertà dei popoli resteranno come specchietti per le allodole per le masse, ma si tradurranno in capitali per le bilance commerciali dei capitalismi d’Oriente e d’Occidente.

Da: "La comune di Berlino: dura e lunga strada, metà grande e lontana", nel n. 14/1953. La portata degli avvenimenti berlinesi, estesisi a tutti i centri proletari, contro il potere datore di lavoro, va oltre i limiti dell’episodio; e tuttavia sarebbe assai azzardato volervi scorgere l’inizio di un nuovo corso (attenzione ai "pruriti" per il sensazionale, tipici prodotti borghesi).

Questi avvenimenti dimostrano che il sistema aziendale sbocca inevitabilmente nello scontro fisico tra i salariati e i datori di lavoro, e né la politica di collaborazione riformista, né quella del terrore disciplinare (si è minacciata addirittura la misura della decimazione contro l’arma dello sciopero bianco) possono porvi rimedio.

Inoltre trattandosi del proletariato tedesco, con la sua storia ricca di contese economiche e sindacali e con la sua tradizione di partito e di dottrina politica, si può presumere che sia in grado di vedere oltre il semplice rapporto tra compenso e rendimento. Ma neppure per questi salariati è facile superare la zona minata che va da una ripresa dell’azione a quella del tessuto organizzativo e della dottrina politica, condizione ineliminabile alla risoluzione della lotta in vittoria.

Ancora un volta gli sforzi del proletariato sono serviti di pasto alla speculazione politica e alla propaganda ideologica del capitalismo occidentale, il quale, impregnato di pestilenziali ideologici di collaborazione tra le classi e di pacifismo sociale, ha inscenato manifestazioni di solidarietà agli insorti, con aiuti ed elargizioni di soccorsi alimentari, (un buon modo per risolvere la situazione facendo consumare di meno prodotto locale), facendo rilevare come le masse dell’Est, frustrate dalla carestia di consumo, dimostrino contro il comunismo, fonte di miseria. Ed ecco servita l’apologia dell’industri borghese!

Ciò è reso possibile dall’aver gabellato come comunismo l’ibrido sistema di amministrazione statale mercantile dell’Europa centro-orientale, per cui oggi siamo al punto che un embrione di organizzazione degli operai di Berlino si formi sotto il nome di "lega contro la disumanità" «il che fa pensare ad un obiettivo di lotta che voglia sostituire al "modo di vivere di Est" il "modo di vivere di Ovest". Non diversamente gioca la campagna sudicia per le "libere elezioni" che sarebbero tutto. Esistono quindi forti probabilità che i primi nuclei di lotta anti russa e anti stalinista siano tratti a divenire nuclei di lotta filo-occidentale, ed armi nelle mani della propaganda e della campagna americana, e che quindi gli indiscutibili passi in avanti divengano passi decisi all’indietro: nulla potendosi trovare di più controrivoluzionario della organizzata piovra americana. La giusta via è dunque difficile e non può essere breve, senza che con facile previsione essa debba sboccare nel gioco del Pentagono e del Forte Knox, allo stato della storia piedistalli di forca assai più del Kremlino».

Oggi il problema mondiale è quello dell’organizzazione dell’Europa, e questo dipende dal problema dell’unità tedesca; i due gruppi avversari lottano per strapparsi l’un l’altro questa bandiera, cercando ognuno di essere il controllore di un unico meccanismo statale nella Berlino unita e controllante la Germania e l’Europa.

«La sola via rivoluzionaria è che quel grande proletariato riesca nelle fasi di questo drammatico processo a sottrarsi alle vicende di un "moto pendolare" tra i due poli attrattivi di est e di ovest e descriva una propria autonoma traiettoria (...) Ciò sarà solo col programma – teoretico, organizzativo, politico, militare – di costituire, in una guerra civile contro gli armati venuti da est e da ovest, una Comune di Berlino. Di tutta Berlino. Questa sarebbe la dittatura operaia in Germania, in Europa, la rivoluzione mondiale».

Da: "Il capitalismo tedesco affila gli artigli", n. 17/1953. Le elezioni del settembre ’53 in Germania, terminate con la schiacciante vittoria del partito democratico di Adenauer, evidenziarono la rinascita tedesca e le cambiate posizioni degli Stati "antitedeschi" nei confronti della Germania, che avrebbe dovuto ormai essere impotente. Mostrarono soprattuto che la guerra fredda verteva soprattutto sulla questione tedesca perché proprio in Germania i due schieramenti erano faccia a faccia. Le reazioni degli occupanti dimostrarono che la Germania faceva ancor paura: faceva paura ai governi di Londra e Parigi, che ne temevano la concorrenza sui mercati, ai governi di Mosca e satelliti, terrorizzati dall’idea di una coalizione europea capeggiata dal formidabile potenziale industriale e militare tedesco e alleata degli Stati Uniti, e la stessa America, preoccupata di dover assistere a una riedizione del patto russo-tedesco del 1939 e contrastata nei suoi possibili legami con Bonn da Londra e Parigi. Anche all’interno dei singoli Stati si delinearono subito gli opposti schieramenti: da una parte l’internazionale staliniana di Mosca, i gollisti francesi, i circoli sciovinisti britannici, allarmati per il pericolo del nascente pangermanesimo aspirante alla ricostituzione dello Stato tedesco entro le frontiere del ’39, dall’altra il governo americano, il Vaticano, i sostenitori della Comunità carbosiderurgica e politica europea di Francia e Italia, i nemici dell’espansionismo russo, che si attendevano dalla rinascita militare della Germania una garanzia di rafforzamento dell’egemonia americana.

Non c’è da stupirsene; la contraddizione più stridente dell’imperialismo si manifesta proprio nel fatto che, mentre gli Stati nazionali conservano l’attribuzione della giurisdizione sul proprio territorio, le questioni principali poste via via dallo sviluppo dei contrasti nazionalistici vengono sostenute e sviluppate da partiti politici ad estensione mondiale, che superano le frontiere nazionali. Naturalmente entrambi gli schieramenti, sia gli anti che i pro Germania, perseguono lo stesso obiettivo: la conservazione del capitalismo, ma gli opposti interessi li portano a combattersi. E questo lascia mal pensare per un prossimo conflitto, in cui nuovamente le masse proletarie saranno trascinate a battersi in sanguinose guerriglie partigiane. Del resto la rinascita del nazionalismo pangermanista è un’altra causa di guerra che matura, e lo scarsissimo seguito avuto dal partito stalinista nelle elezioni del ’53 (con nessun seggio al Bundstag) dimostra che le sue capacità di influenzare le masse in senso nazionalistico in Germania sono minime, data la forte tradizione socialdemocratica, classista e marxista del proletariato tedesco, il più numeroso e disciplinato d’Europa, e l’unico in occidente che nel primo dopoguerra si levò con la rivolta spartachista nella guerra armata dei classe contro lo Stato capitalista.

E, buon per noi, la storia ci ha oggi preparato una situazione ancora più favorevole, dato che l’influenza stalinista si è sfaldata sotto i nostri occhi, e la rinascita della Germania è avvenuta trascinando seco la caduta di equilibri, che giorno dopo giorno preparano un nuovo riassetto mondiale, con la prospettiva del riaccendersi di concorrenze, di contrasti che, in questo scenario di crisi generale, saranno non più freddi.

Da "La ’distensione’ è un’esigenza mondiale dell’economia capitalistica", nel n. 1\6/1954. Come ben sappiamo la politica non è che un paravento dietro cui si nasconde l’economia, e la mistificazione politica è al livello più avanzato proprio quando gli interessi generali della conservazione del capitalismo impongono la retrocessione degli interessi particolari, molla della politica dei governi. È questa l’origine della ideologia della "coesistenza pacifica tra capitalismo e socialismo", ricercata anzitutto dai governi del blocco orientale, cui le distruzioni belliche e i conseguenti feroci sforzi per la ricostruzione hanno imposto un rallentamento del ritmo di accumulazione. La teoria staliniana della coesistenza, lanciata nel 1952, non era altro che una proposta rivolta all’occidente – Stati Uniti in primis – ad associarsi ai piani di industrializzazione dell’area Russia-Cina. Tale proposta in un primo tempo non fu accettata, ma dopo la fine della guerra di Corea, con la perdita della valvola di sicurezza per l’economia americana della produzione degli armamenti e la conseguente crisi di sovrapproduzione, l’allargamento dei mercati esteri divenne una necessità e la distensione un’esigenza anche per gli USA. A questo punto si aggiunse la rivolta del proletariato berlinese del ’53, facendo balenare il pericolo di disordini sociali in Europa.

La guerra fredda, a lungo andare, aveva provocato una situazione mondiale pericolosa per gli interessi del capitalismo mondiale, crisi di sovrapproduzione negli USA crisi di sottoproduzione in Russia e satelliti, acutizzazione del cronico squilibrio economico degli Stati europei, generalizzati sommovimenti sociali in Asia e in Africa. Così all’inizio del ’54 il Dipartimento americano del commerciò diramò la notizia della ripresa in grande stile dei traffici commerciali Est-Ovest, anche se il contraccolpo politico sembrò contraddittorio: la crisi dell’Indocina, col compromesso di Ginevra, parve rinfocolare la contesa tra USA e Russia, rendendo in più manifesti i dissensi tra USA, Inghilterra e Francia e definendo la portata e i limiti della rivoluzione in Cina.

I contrasti tra le potenze occidentali, latenti durante la guerra fredda tra oriente ed occidente, scoppiano con la distensione, perché questa si fa sotto il segno di un colossale intreccio di affari intercontinentali, perciò con l’apertura di una fase di concorrenza tra i nuovi seducenti mercati orientali.

Resta in piedi la questione tedesca. «È chiaro che non ci sarà distensione finché rimarrà insoluto tale problema (...) Il mondo capitalista andrà alla distensione solo se costretto dalle esigenze della produzione, e quindi della conservazione sociale. Allorquando l’offerta supererà la domanda per l’entrata nel mercato mondiale delle sorgenti economie nazionali di Asia e Africa, che i medesimi commerci “distensivi” avranno potenziata, saranno le medesime incontrollabili forze economiche che risveglieranno la crisi, il conflitto, l’eterna contraddizione del modo di produzione capitalista».
 

(continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


Appunti per la storia della Sinistra

Riunione generale di Firenze - gennaio 1995
 

(continua dal numero scorso)
 

IL DECENNIO DI PREPARAZIONE DELLA SECONDA GUERRA IMPERIALISTA
 

L’onere della guerra d’Africa sui lavoratori italiani
 

Il precedente rapporto si chiudeva trattando delle appena iniziate operazioni belliche italiane ai danni dell’Etiopia, e ricordavamo come, con un primo balzo, l’esercito invasore si fosse portato a 60 chilometri dalla frontiera eritrea lungo il ciglio montuoso Axum-Adua-Entiscio-Adigrad. Da questa posizione gli italiani, poi, avevano ripreso l’avanzata per occupare gli altri cento e più chilometri virtualmente dominanti dell’aviazione e difesi solo da piccoli nuclei armati trincerati sulle ambe. L’avanzata italiana, fino a quel momento, novembre 1935, era stata una semplice passeggiata militare e le truppe impiegate nei combattimenti erano state quasi esclusivamente ascari eritrei e dubat somali.

Ma questa veloce iniziale avanzata non significava affatto che i successi avrebbero continuato ad essere così facili. Mano a mano che le truppe italiane guadagnavano terreno, anche da un punto di vista semplicemente tecnico, aumentavano le difficoltà logistiche e di rifornimento. La guerra, anche per la tattica che sembrava volessero adottare gli abissini, non sembrava di breve durata. Questi ultimi evitavano di impegnarsi in battaglie campali troppo favorevoli all’esercito invasore, dotato di una schiacciante superiorità tecnica; al contrario, praticavano la tattica dell’infiltrazione alle spalle, sui fianchi e sui punti più sguarniti del corpo di spedizione italiano. E questa tattica aveva dato i suoi primi successi.

L’Italia, che teneva sotto le armi un esercito di 1.200.000 soldati e si accingeva a richiamare la classe 1915, dal canto suo aveva la necessità di concludere velocemente la campagna militare. A questo scopo il generale De Bono, ritenuto troppo "prudente", venne licenziato ed al suo posto fu mandato Badoglio, considerato allora il più capace dei militari italiani. Il problema era quello di mettere alla testa del corpo di spedizione un elemento più quotato militarmente specie in previsioni delle difficoltà di carattere logistico per l’organizzazione del territorio occupato.

Ma le difficoltà maggiori erano quelle finanziarie. Al 30 settembre 1935, cioè ancor prima che la guerra cominciasse, il Tesoro registrava stanziamenti straordinari per speciali esigenze dell’Africa Italiana, nel periodo luglio-settembre, di 4 miliardi e 888 milioni. Dallo scoppio della guerra la spesa era passata indubbiamente a più di un miliardo al mese. Fino alla fine della stagione asciutta si sarebbero spesi dai 15 ai 20 miliardi e, per quanto gli italiani avessero potuto penetrare all’interno del territorio, l’Etiopia, tuttavia, sarebbe stata ancora in grado di continuare la resistenza, anzi, avrebbe potuto approfittare della stagione delle piogge per sferrare consistenti azioni di disturbo e sabotaggio ai danni degli invasori.

Come abbiamo ricordato, le sanzioni da burla attuate dalla Società delle Nazioni avevano solo portato acqua al mulino della demagogica propaganda fascista che presentava i 51 Stati sanzionisti come asserviti alla volontà dell’imperialismo britannico, invidioso della nascente potenza imperiale italiana. La propaganda di regime si sforzava di mostrare il popolo italiano, nel suo insieme, solidale con il governo fascista e, a questo scopo, pronto a dare volontariamente e con entusiasmo, oltre alla vita, tutto quello che sarebbe stato utile per la Patria: oro, ferro, rame, carta, stracci, ecc. «A tale proposito è commovente il gesto del Duce che ha sacrificato all’erario pubblico un centinaio di chilogrammi di bronzo rappresentati da numerosi suoi busti che si trovano nei granai della casa rustica di Romagna. Se non l’erario, certo ci avrà guadagnato l’arte» (Prometeo, n. 125, 1 dicembre 1935).

Ma a parte le battute, la campagna dell’Oro alla Patria e simili era veramente una pagliacciata. Inscenata con tutte le regole propagandistiche di regime, ma spogliata dell’abusata retorica, i dati ufficiale erano lì a dimostrare la pochezza della faccenda: al 15 dicembre erano stati raccolti 93 quintali d’oro che, dedotte le spese del recupero del metallo, significavano tutt’al più cento milioni. La propaganda fascista puntava molto inoltre sulle "fedi" delle spose italiane. Ma quante erano le donne che possedevano l’anello nuziale, o lo possedevano ancora per non averlo impegnato al Monte di Pietà? Ma ammettiamo pure che tutti gli otto milioni di donne sposate avessero fatto il loro dovere patriottico e valutando in media 15-20 lire per ogni anello, anche qui non si sarebbero superati i cento milioni, cioè quanto costavano 3 o 4 giorni di guerra al massimo. Certo nel conto dovevano essere aggiunte le medagliette dei senatori, deputati ed ex-deputati. A tale proposito è interessante ricordare come Caldara, Rigola e compagnia si affrettassero anch’essi a compiere il loro dovere patriottico.

La propaganda dell’Italia "autarchica" e "proletaria" che da sola combatteva contro la plutocrazia internazionale permetteva di dare ulteriori giri di vite e di abbassare ancora il più tenore di vita del proletariato italiano, non esclusivamente per effetto delle sanzioni, ma soprattutto per prepararlo al prossimo conflitto mondiale ed educarlo al regime di guerra.

Il 28 ottobre, a conclusione della riunione delle Corporazioni, presieduta da Mussolini, venivano emanati decreti sulla limitazione dei consumi. In particolare:
1. il martedì divieto di vendita di ogni tipo di carne e chiusura delle macellerie;
2. il mercoledì divieto di vendita di tutte le carni bovine, ovine e suine;
3. la domenica limitazione dell’orario di vendita;
4. divieto, nei ristoranti ed alberghi, di servire più di un piatto di carne o pesce a pasto.

Poiché il venerdì, per precetto di Santa Romana Chiesa, mangiare carne era peccato morale, il divieto fascista si estendeva, di fatto a tre giorni la settimana. La stampa totalitaria assicurava però che dalle restrizioni sarebbe stato escluso il pane «cibo essenziale e sanissimo», grazie al Duce che aveva vinto la «battaglia del grano». «Due etti dell’italianissima robiola nutrono di più di una bistecca straniera», diceva una pubblicità. Ma quanti proletari potevano permettersi, non due etti, ma una fetta trasparente di "italianissima" robiola? Infatti la limitazione dei consumi alimentari, più che dai decreti governativi, era imposta dal continuo aumento del prezzo dei generi di prima necessità.

Per rendersi conto della situazione basta dare un’occhiata ai dati ufficiali dell’indice delle vendite dei generi alimentari. Dato gennaio 1934 uguale a 100, si aveva:
 

1934 1935
aprile 101,77    95,76 
maggio 100,29    94,05
giugno 99,23    90,69
luglio 86,61    76,49
agosto 72,78    64,32

E tutto questo prima che la guerra iniziasse, prima delle sanzioni, prima dei decreti sulla limitazione dei consumi.

Il 1935 si chiudeva e con l’arrivo del nuovo anno anche i bollettini di guerra assumevano una nuova veste. Soprattutto per il fronte Nord, quello più importante, si parlava sempre più spesso di «nulla di nuovo». Ma nulla di nuovo, per un esercito invasore significa che va male, e sopratutto perché ogni giorno che passava 35 milioni di allora se ne andavano. Lo spettro del crollo finanziario incombeva e la stagione delle piogge, che per un’altra metà di anno avrebbe impedito ulteriori avanzate, si avvicinava.

Il problema di Badoglio a questo punto però non era tanto quello di avanzare quanto quello di non dover retrocedere. Non era certo un scherzo tenere un fronte di quattrocento chilometri con un esercito di 200.000 uomini, tenuto conto che per ogni uomo in linea, almeno altri tre soldati dovevano essere adibiti a servizi logistici. Di più il pericolo delle "piccole piogge" era già cominciato rendendo impraticabili le strade appena costruite ed ostacolando l’opera dell’aviazione. Il fronte Sud, quello affidato a Graziani, si estendeva per mille chilometri e con rinforzi spediti d’urgenza aveva a disposizione solo 100.000 uomini.

Il grande spreco delle truppe indigene mandate al massacro per risparmiare quelle nazionali aveva provocato dure reazioni da parte degli ascari, tant’è che gli ultimi bollettini di guerra si sforzavano di sottolineare le perdite delle truppe bianche combattenti. Come Graziani, anche Badoglio chiedeva l’urgente invio di almeno 10.000 alpini e che fossero «soldati veri» e non camicie nere che, a confessioni dello stesso Comando, rappresentavano più un peso che un vantaggio. Era innegabile che le camicie nere godessero di un trattamento di favore e, se nella percentuale dei caduti non rappresentavano più del 10%, nel numero dei malati e delle vittime di incidenti la loro percentuale era di tre volte maggiore.

In Italia, intanto, anche senza tener conto delle esagerazioni di certa stampa antifascista che prospettava il crollo di Mussolini alla fine di ogni mese, vi era tuttavia una situazione di estrema gravità e tensione.

Se poteva essere fasulla la notizia di rivolte di truppe alpine in Alto Adige era però vero che il fenomeno della diserzione con la fuga in Austria era frequente. Manifestazioni di alpini si ebbero invece a Torino dove furono registrate dimostrazioni di protesta nel quartiere operaio di San Paolo. Diserzioni in massa con conseguente fuga alla macchia si verificavano in Calabria. Se a tutto questo si aggiungono gli arresti su vasta scala effettuati in Italia, possiamo farci un idea del consenso del popolo italiano alla guerra d’Africa e della sua lotta a fianco della "nazione proletaria".

Prometeo del 28 gennaio 1936 riportava: «A tale proposito è interessante l’articolo in grassetto dell’”Ami du Peuple”, giornale notoriamente al servizio del regime fascista, in cui si parla che “negli ultimi quindici giorni quattro attentati sono stati organizzati, e falliti contro la vita del Duce”. Di tutto ciò naturalmente non troviamo traccia nella stampa totalitaria».

A metà febbraio la stampa fascista dava fiato alle trombe per esaltare le grande vittoria italiana su Endertà e la conseguente conquista di Amba Aradam. Che l’armata italiana, con una artiglieria che batteva il terreno a 15 chilometri di distanza, con i suoi carri d’assalto, con la sua aviazione da bombardamento, con i suoi settantamila soldati impiegati, fosse riuscita a vincere la battaglia era del tutto naturale. Ci sarebbe mancato altro! Ma la stessa vittoria metteva in evidenza tutte le difficoltà in cui l’esercito italiano si dibatteva, da un punto di vista militare; da quello politico metteva in evidenza altre cose che vedremo in seguito.

Innanzi tutto non furono impiegati ascari, a dimostrazione dello stato di tensione di cui abbiamo parlato prima. Ma soprattutto, dove si trovava Amba Aradam? A meno di 25 chilometri a Sud di Macallè. E questo dimostrava che, dopo quattro mesi di guerra, l’esercito italiano era costretto a battersi in quella zona che potenzialmente dominava dall’aria fino dai primi giorni. E tutto questo quando tra un paio di mesi sarebbe iniziato il periodo delle piogge. A Sud pure Graziani riportava dei successi, ma solo al prezzo di ammassare le truppe in determinati punti lasciando così sguarnita la gran parte del fronte.

Se l’avanzata delle truppe andava più al rilento del previsto non di meno l’aviazione scaricava tonnellate e tonnellate di bombe esplosive, incendiarie e tossiche, dimostrando il nervosismo del comando italiano. Ciò dipendeva dal fatto che per l’Italia il nemico più pericoloso non era il Negus, ma il tempo. Il tempo che voracemente inghiottiva miliardi dopo miliardi. Un onere finanziario che sembrava spropositato per una semplice guerra "coloniale" e che si avvicinava a quello sostenuto nella guerra mondiale del 1915/18, e questo mentre un nuovo e più pauroso conflitto mondiale si profilava all’orizzonte.

Il governatore Azzolini, all’assemblea generale degli azionisti della Banca d’Italia, comunicava che dal 10 ottobre al 31 dicembre 1935, in due mesi e mezzo, la riserva aurea era diminuita di 1.043 milioni. Però, malgrado che le sue casse si vuotassero, la Banca d’Italia registrava 100 milioni di utili netti da ripartirsi fra gli azionisti.

Il sottosegretario Lantini al senato illustrava il netto incremento ottenuto dalle industrie che lavoravano per la "difesa nazionale"; l’industria meccanica, tessile, alimentare, chimica viaggiavano a gonfie vele con un considerevole riassorbimento della disoccupazione (grazie anche ai 60 mila operai inviati nell’Africa Orientale). Il sottosegretario si compiaceva inoltre di notare come nel 1935 il deficit della bilancia commerciale fosse restato quasi ai livelli dell’anno precedente, malgrado i maggiori acquisti di materie prime.

A fare le spese di tutto questo era dunque ancora una volta il proletariato. In pochi mesi i prezzi al minuto erano aumentati del 20-25%, il costo delle materie prime era raddoppiato od addirittura triplicato e la Lira, sui mercati esteri, era stata svalutata di circa il 40%.

Però, quando nessuno se lo aspettava, contrariamente a tutte le previsioni avanzate da tutti gli esperti militari, le notte del 9 maggio 1936, Mussolini dava al mondo lo "storico" annuncio che l’Impero italiano era stato creato. Il fascismo era in un’orgia di trionfo: Sciaboletta, divenuto Re ed Imperatore, insigniva Mussolini della più alta onorificenza per avere preparata, condotta e vinta la guerra; Badoglio veniva nominato Vice-Re d’Etiopia.

La schiacciante superiorità tecnica, l’impiego spietato del bombardamento aereo e dei gasi asfissianti, l’opera di corruzione praticata nei riguardi dei vari ras locali sfruttando i contrasti razziali e religiosi, furono tutti fattori di grande importanza, ma che non bastano da soli a spiegare l’improvviso ed inaspettato crollo dell’impero etiopico, proprio all’indomani della battaglia di Mai Ceu dove gli italiani presero delle sonore batoste. I territori occupati dagli italiani erano ancora poco vasti, le forze armate etiopiche non avevano subito grandi disfatte e potevano, con la stagione favorevole, creare gravi problemi agli invasori. Ma il Negus anziché combattere per mantenere solo nominalmente una parte del suo impero, preferì temporaneamente mettersi a riposo in attesa che fossero le sorti della guerra a restituirgli quello che gli italiani gli stavano togliendo, con l’aggiunta dell’Eritrea. Quindi Ailè Selassiè, preso il treno per Gibuti, passò poi in Palestina apprestandosi a vivere da "rifugiato politico" con quel poco che aveva potuto portarsi dietro nella fretta della fuga: quattro tonnellate d’oro e poche cosucce d’argento.

La popolazioni indigene vennero immediatamente liberate dalla servitù nella quale erano state per secoli tenute dal regime schiavista dei negus e dei ras; poterono quindi gustare le gioie della civiltà capitalista. L’opera civilizzatrice cominciò con l’immediata costituzione dei Fasci mentre, di pari passo, si procedeva alle fucilazioni in massa. In pochi giorni quasi duemila predoni vennero passati per le armi.
 
 

Artigli imperialisti sul Nilo
 

L’Africa, questo continente così prossimo all’Europa, che nella valle del Nilo aveva dato vita ad una delle prime civiltà della storia umana, è stato l’ultimo continente ad essere completamente occupato e spartito tra le potenze imperialistiche.

Il XIX secolo, soprattutto nella sua seconda metà, fu il secolo della spartizione dell’Africa nera, così che, all’inizio del XX (a parte la piccola repubblica di Liberia, che non fa testo) non restavano che solo due Stati indipendenti: il Marocco e l’Etiopia. Il Marocco era sfuggito all’occupazione grazie alle rivalità tra Inghilterra, Francia e Germania che si neutralizzavano a vicenda, finché nel 1912 non cadde sotto le grinfie della Francia. Nel 1935/36 fu la volta dell’Etiopia.

L’avventura coloniale italiana era cominciata molto in ritardo ed è naturale avendo molto in ritardo raggiunto la sua unità nazionale.

Comunque, a partire dal 1857 era iniziata una corrispondenza tra il cardinal Massaia, residente da anni in Abissinia come vicario apostolico dei Galla, ed il ministro degli esteri del Regno di Sardegna. Massaia invitava Casa Savoia ad allacciare rapporti con qualche «principe negro (...) per assicurare vantaggi alla marina mercantile della Sardegna». In una successiva lettera insisteva con il dire che «si sarebbero potuti fare bellissimi trattati». Ed aggiungeva: «Vorrei bene che la Sardegna, la quale da qualche tempo ha preso una posizione gloriosa in politica tra le potenze d’Europa, cercasse allora di mettersi al rango delle altre nazioni».

Per quanto un partito colonialista fosse sempre esistito all’interno del parlamento italiano, Nino Bixio ne era un accanito sostenitore, un piccolo Stato in via di formazione aveva ben più importanti gatte da pelare in casa propria prima di potersi imbarcare in avventure dal dubbio esito. Comunque, nel 1869 (un anno prima della breccia di Porta Pia) un terzetto composto da un ex frate lazzarista (Giuseppe Sapeto), un contrammiraglio (Alfredo Acton) ed un armatore (Raffaele Rubattino), a bordi del Nasser Magid attraversarono l’appena inaugurato canale di Suez su incarico del governo italiano con il mandato di «scegliere il luogo più conveniente, sotto l’aspetto commerciale e militare, a stabilimento di colonia».

Venne così comprata, a nome della società Rubattino, la baia di Assab. Dieci anni più tardi, nel 1889, il governo riscattava quel territorio dalla compagnia Rubattino e vi spediva un Commissario Civile per l’amministrazione in vista della sua trasformazione in colonia.

Il 5 febbraio 1885 veniva occupato, sotto la benevolenza inglese, il porto di Massaua, base per poter occupare il territorio che in seguito venne chiamato Eritrea. Nel 1889 si ebbe la firma del famoso trattato di Uccialli con Menilik; nello stesso anno l’Italia pose sotto protettorato i sultanati di Obbia e dei Migiurtini, spunto per la successiva occupazione della Somalia.

Nel 1893 cominciava le penetrazione italiana nella regione del Tigrè ai danni dell’impero etiopico, ma l’avventura finì male: il 7 dicembre 1895 duemila italiani vennero annientati ad Amba Alagi, il 21 gennaio successivo gli abissini espugnarono Makallè ed il 1° di marzo avvenne la grande disfatta di Abba Garima, presso Adua. Ridotta a più miti consigli, con la pace di Addis Abeba, l’Italia rinunciava al possesso dei Tigrè ed alla pretesa di protettorato sull’Etiopia.

Ma la pace non poteva certo durare all’infinito, con la conquista dell’Eritrea, l’Italia aveva tolto all’Etiopia ogni possibilità di sbocco al mare e quindi era inevitabile che tra i due paesi persistesse un continuo stato di guerra.

Ma altri imperialismi, oltre l’Italia, erano pronti a saltare al collo dell’Etiopia, in special modo l’Inghilterra.

Bisogna innanzitutto tenere presente che le sorti dell’Etiopia non possono essere disgiunte da quelle del Sudan e dell’Egitto a causa di una insopprimibile realtà geografica: il corso del Nilo. E le sorgenti del Nilo si trovano, in massima parte, in Etiopia.

Nel 1872, ’75 ’76, il Negus Giovanni aveva respinto tre successive spedizioni egiziane che tentavano di prendere possesso di quello che veniva chiamato «il Castello d’Acqua». Nel 1868 l’Inghilterra aveva compiuto una spedizione contro l’Etiopia che terminò con la sconfitta ed il suicidio del Negus Teodoro. Dopo aver occupato l’Egitto, nel 1882, gli inglesi avrebbero certo ripetuto il tentativo se il potente impero del Mahdi non avesse creato nell’Alto Egitto e nel Sudan una barriera impenetrabile. Tuttavia l’Inghilterra, attraverso trattati, riuscì (soprattutto nel 1891 e 1894) ad assicurarsi libertà di azione sul Nilo. E, quando l’imperialismo francese, appoggiandosi a Menelik, tentò di mettere pure esso le mani sul corso del grande fiume, Londra non esitò di minacciare la Francia di guerra costringendo quest’ultima a ritirarsi (incidente di Fachoda, 1898).

Da quel momento in poi l’Inghilterra si arrogherà il diritto di determinare ed essere la sola arbitra della politica del Nilo. È partendo da questo dato di fatto che vanno considerati tutti gli avvenimenti successivi.

All’inizio del 1900, dopo la sfaldamento del Mahdi, l’intero corso del Nilo Bianco era sotto il diretto controllo inglese, ma altrettanto non era per il Nilo Azzurro che sgorga dal massiccio etiopico attorno al lago Tana e che contribuiva in gran parte all’irrigazione delle culture di cotone inglese del Sudan.

Con il trattato del 1902 Menelik si era impegnato a non costruire o fare costruire nel Nilo Azzurro o sul lago Tana alcuna opera idrica di nessuna natura senza il preventivo consenso inglese.

La convenzione tripartita del 1906, che tentava di armonizzare gli antagonismi dei tre ladroni (Inghilterra, Francia e Italia) dopo un ipocrita preambolo sulla integrità dell’Etiopia, riconosceva gli interessi legittimi dell’Inghilterra sull’intero corso del Nilo, dell’Italia sull’Eritrea e della Francia a Gibuti.

Nel 1935, con i preparativi di guerra prima, con l’inizio delle ostilità italiane poi, si riaccesero le tensioni con l’imperialismo inglese che vedeva compromesso il suo dominio sull’intero corso fluviale. Com’è allora che gli inglesi, che nel 1898 avevano minacciato di guerra la Francia, lasciarono, pur protestando violentemente, via libera all’Italia quando sarebbe stato sufficiente chiudere il passaggio di Suez? «Tutto questo – spiegava Bilan – dipende dal grado di maturità della conflagrazione mondiale che regolerà la nuova spartizione delle colonie a prescindere dalla conquista isolata da parte di un imperialismo. E l’Italia potrà benissimo perdere, nel caso della guerra mondiale, il bottino precedentemente arraffato» (Bilan, n. 20, giugno-luglio 1935).
 
 

Non guerra fascista, guerra capitalista
 

La Frazione negò nel modo più deciso che la guerra contro l’Etiopia fosse da considerarsi come una impresa fascista. Il capitalismo italiano, qualunque partito borghese fosse stato alla guida del governo, avrebbe risposto allo stesso modo alle esigenze dell’economia nazionale. Erano forse state fasciste le guerre di rapina inglesi e francesi. Come non erano state fasciste le conquiste dell’Eritrea, della Somalia, della Libia.

La Frazione negò anche che si trattasse di una vera e propria guerra coloniale, preferì inserirla in un momento della già in atto seconda guerra mondiale perché oltrepassava i limiti di un conflitto circoscritto ad Italia ed Etiopia e, soprattutto, perché preparava un clima di mobilitazione proletaria attorno alla borghesia dei rispettivi paesi.

In base alla convenzione tripartita del 1906 dove Italia, Francia ed Inghilterra avevano garantito l’indipendenza etiopica (a meno che non si fosse giunti ad uno sfaldamento del potere di quello Stato), nell’agosto 1936 le tre potenze si erano riunite di nuovo a Parigi (naturalmente in assenza dell’Etiopia) per ridiscutere il problema tornato ora all’ordine del giorno. In questa conferenza Francia ed Inghilterra avevano proposto una spartizione dell’impero etiopico lasciandole una indipendenza solo nominale, spartizione nella quale la parte del leone sarebbe toccata all’Italia. Oltre a ciò l’Italia avrebbe ricevuto cospicui aiuti finanziari dell’Inghilterra.

È evidente che se Mussolini avesse potuto scegliere «avrebbe di gran lunga preferito una soluzione pacifica del conflitto che, insieme con i vantaggi territoriali e politici (ed Eden a Ginevra ha dimostrato che essi non erano affatto insignificanti), che garantiva anche la simpatia sonante dei milioni inglesi che gli sarebbero [stati] utilissimi non solo per l’economia italiana ma anche per quella che si conviene chiamare "la messa in valore dell’Etiopia". D’altronde nelle recenti dichiarazioni Mussolini ha affermato chiaramente che esso non intendeva ledere alcun interesse inglese. Perché – si chiedeva Prometeo – dunque Mussolini, in una situazione economica disperata preferisce gettarsi nell’impresa abissina che anche nell’ipotesi di uno sfaldamento totale dell’apparato difensivo del Negus reclamerà l’investimento di capitali il cui rendimento non potrà verificarsi che fra decine e decine di anni? La risposta a questa questione è ben semplice: Mussolini non può fare diversamente, esso non è che uno strumento di forze che non possono essere più controllate» (Prometeo, n. 122, 15 settembre 1935).

La Frazione riteneva che la campagna di Etiopia non derivasse tanto da un bisogno di espansione dell’imperialismo italiano, quanto dallo stato disastroso dell’economia capitalista italiana che non era in grado di sopravvivere se non alla condizione di orientarsi verso la guerra. Mussolini stesso, il 23 marzo 1936, all’Assemblea delle Corporazioni aveva detto: «Nell’attuale periodo storico il fattore guerra è, insieme alla dottrina del fascismo, un elemento determinante della posizione dello Stato di fronte all’economia della nazione», e inoltre «il piano regolatore dell’economia italiana è dominato dalla ineluttabilità che la nazione sia chiamata al cimento bellico».

La Frazione diceva che non esistevano le più elementari condizioni per giustificare una spedizione coloniale. Perché si potesse giustificare una guerra coloniale si sarebbe dovuto avere «un ritmo di accumulazione capitalista tanto intenso che dal fatto di non poterlo contenere nei limiti consentiti dall’economia capitalista ed all’interno delle frontiere, si presenterebbe una possibilità di investimenti a scadenza molto lunga, tali che possono essere quelli effettuati nelle colonie dove i grandi lavori preparatori, e che si scaglionano nel corso di molti anni, sono indispensabili prima di poter trarre dei profitti. Ora, nella attuale situazione, noi assistiamo – in proporzioni molto più gravi che negli altri paesi – ad una stagnazione dei capitali a causa della crisi e dell’impossibilità di vendere i prodotti perfino delle imprese dove il ciclo della produzione industriale è brevissimo; in tali condizioni l’impiego di considerevoli capitali in investimenti a scadenza molto lunga si presenta come una impossibilità assoluta. Una attenta analisi delle condizioni economiche nelle quali si sono effettuate le grandi conquiste coloniali (nelle ultime due decadi del secolo passato e la prima decade del nostro secolo) ci permetterà di confermare la tesi economica che abbiamo enunciato. In effetti è vero che queste conquiste hanno avuto luogo in periodi di crisi e di depressione, ma queste si svolgevano in un periodo storico le cui caratteristiche erano profondamente opposte a quelle della situazione che noi attualmente viviamo. La stagnazione dei capitali e l’impossibilità di loro investimenti nella produzione capitalistica si verificava allorché il debole declino dello sviluppo delle forze di produzione non minacciava ancora le basi stesse del regime borghese: la potenzialità della produzione potevano espandersi sia nella ripresa economica del mercato metropolitano, sia nella creazione di consumatori addizionali nelle colonie. Attualmente siamo di fronte a tutt’altre crisi e depressioni. Queste ultime non rappresentano affatto momenti provvisori di arresto dell’economia capitalista capace di riprendere in seguito il suo slancio, ma sono sostituite da delle fasi di crisi cronica del capitalismo che attraversa il periodo storico del definitivo declino dell’economia borghese. La potenzialità attuale delle forze di produzione urta violentemente contro le basi del regime capitalista incapace di assicurare il loro sviluppo e, da ciò, la congelazione dei capitali si presenta insolubile, il loro scongelamento (la formazione di nuovi profitti) non essendo possibile che nella condizione di una formidabile espansione della massa di produzione, ma questa espansione è d’altra parte inconcepibile nei limiti del regime capitalista» (Bilan, n. 24. ottobre-novembre 1935).

Quindi non di conquista coloniale sarebbe trattato, ma di «preludio della conflagrazione internazionale». A conferma di questa tesi Bilan ricordava l’altra impresa africana dell’Italia, la conquista della Libia. «È assolutamente chiaro che le ripercussioni di questa conquista, nei Balcani prima, negli altri paesi in seguito, sono confluite nel conflitto mondiale e noi possiamo affermare che le premesse della guerra del 1914 le ritroviamo nella spedizione italiana in Libia, spedizione che non fu diretta da un governo reazionario, ma dal capo della sinistra Giolitti, che aveva potuto ottenere l’aiuto indiretto dei socialisti nel piano che si sviluppò con successo per disarmare le organizzazioni proletarie e legarle sempre più strettamente allo Stato capitalista».

Se le ostilità italiane in Africa non dovevano essere considerate come una pura e semplice impresa coloniale, ma acquistavano il connotato di miccia di innesco della futura guerra mondiale, le cui premesse erano ormai mature a livello internazionale, dal nostro punto di vista di classe il problema da valutare in tutta la sua tragica importanza era il ruolo che il proletariato mondiale avrebbe svolto in questa scadenza storica.

Ma prima di vedere quali furono le indicazioni date al proletario, sia italiano sia degli altri paesi, da parte delle organizzazioni di massa che agivano all’interno della classe operaia, dobbiamo accennare ad un secondo punto di vista che si manifestò all’interno della Frazione. Sulla posizione precedentemente esposta; in effetti, non vi era una totale omogeneità all’interno della nostra Frazione, ma vi erano due posizioni. «Riguardo alla valutazione dell’impresa italiana in Abissinia, due sono le posizioni esistenti all’interno della nostra Frazione. Gli uni insistono sul carattere particolare di questa guerra che non può essere assimilata ad una impresa coloniale. Essi si basano sul fatto che il capitalismo italiano, che è stato all’avanguardia nell’opera di strangolamento del proletariato (la sola forza capace di opporsi alla guerra), in seno alle forze imperialiste è forzato a prendere la testa per lo scatenamento della guerra ed insistono sulla maturità delle condizioni economiche e politiche egualmente negli altri paesi, per arrivare alla conclusione che il conflitto italo-abissino rappresenta il prologo della guerra mondiale. Quest’ultima potrebbe avvenire nello spazio di qualche mese o di un lasso di tempo più lungo senza tuttavia la possibilità che una soluzione di continuità intervenga tra la prima manifestazione della guerra e quelli che seguiranno. Gli altri opinano che l’impresa in Abissinia si svolge quando ancora le condizioni per la conflagrazione internazionale non esistono e ne ritrovano la causa nella situazione italiana e soprattutto nella necessità del fascismo, per arrivare alla conclusione che un compromesso avverrà fra i belligeranti apparenti e reali» (Bilan, n. 25, novembre-dicembre 1935).

Il problema era dunque questo: «La guerra in Etiopia è il prologo diretto della conflagrazione internazionale o semplicemente una nuova occasione per accelerarne la preparazione? (...) Tuttavia non esiste nessuna divergenza principale o politica riguardo alle posizioni attorno alle quali il proletariato italiano e internazionale così come gli sfruttati negri potranno organizzarsi in vista della difesa e della vittoria dei loro interessi e della loro lotta contro la guerra: gli uni e gli altri rivendichiamo come sola base di aggregazione degli operai, quella dei loro interessi di classe ed una opposizione simultanea sia contro il fascismo italiano, sia contro le altre forze che lo sostengono apertamente o indirettamente, così come contro il Negus e le potenze imperialiste che ne difendono la causa. Per quella che è la prospettiva nessuna questione di principio divide i membri della nostra organizzazione perché quelli che prevedono l’eventualità di un compromesso fra l’Italia e gli altri imperialismi considerano tuttavia che alla base di questo compromesso si trovi una manifestazione necessaria della solidarietà fra tutti gli imperialismi attorno al fascismo italiano, obbligato a ricorrere alla guerra in Etiopia allo scopo di dirottare in questa direzione il fenomeno, più intenso e più sviluppato in Italia che altrove dal fatto della inferiorità d questo imperialismo nei confronti degli altri» (Bilan, n. 26, gennaio 1936).
 
 

Nessun disfattismo di classe dalle due Internazionali
 

Torniamo ora a vedere l’atteggiamento delle organizzazioni "proletarie" di fronte alla crisi Abissinia.

In Russia, la patria del "socialismo in un solo paese", nessun tipo di manifestazione venne indetta per non allarmare la classe operaia sul significato e la gravità della situazione. «Molto probabilmente – scrive Prometeo – si attende che l’orizzonte si chiarisca e che si profili nettamente quale sia la costellazione nella quale prenderà posto la Russia. Allora il momento sarà venuto per chiamare gli operai russi a battersi nel nome del comunismo e per la vittoria del blocco dove si troverà la Russia» (Prometeo, n. 122, 15 settembre 1935).

Una posizione molto più netta ed oltranzista veniva presa dei partiti socialisti e dalla Seconda Internazionale. Nella sua risoluzione dell’agosto 1935, l’Internazionale Socialista aveva spinto la sua opposizione contro la guerra d’Etiopia fino al punto di invitare i proletari italiani a rivolgere le loro armi contro i dirigenti fascisti. Era la parola d’ordine di trasformare la guerra fra Stati in guerra fra le classi? No, niente di tutto questo, era solo l’agosto e la guerra non era ancora scoppiata! Appena cominciarono le ostilità belliche, il presidente della Seconda Internazionale, in una intervista al Populaire affermava che se la Società delle Nazioni non avesse votato le sanzioni contro l’Italia, si sarebbe fatto diretto appello agli operai di tutti i paesi perché le sanzioni venissero adottate. Si era già ben lontani dalla parola d’ordine di rivolgere le armi contro i fascisti! La Società delle Nazioni votò le sanzioni e anche questa minaccia non ebbe più seguito. Comunque i partiti socialisti non stettero certo con le mani in mano. I laburisti inglesi si schierarono immediatamente per la "guerra antifascista", contro la minaccia dell’imperialismo italiano ai danni delle conquiste coloniali inglesi.

I socialisti belgi proposero l’invio di armi in Etiopia giacche la capitolazione dell’Abissinia avrebbe potuto rappresentare una minaccia per il dominio coloniale del Congo ed una giustificazione dell’invasione del Belgio durante la futura guerra. Entrambi i partiti erano a favore della guerra e chiamavano gli operai dei rispettivi paesi a battersi in nome ed in difesa degli interessi imperialistici nazionali.

I socialisti francesi, al contrario, portavano avanti una politica pacifista, ma, mettendo in evidenza la probabile alleanza italo-tedesca, chiedevano uno spostamento della politica estera francese verso l’Inghilterra e l’applicazione delle "sanzioni pacifiche".

E al proletariato italiano quale indicazione veniva data, visto che era quello che direttamente, sia al fronte sia in patria, gustava i benefici della conquista dell’Impero? A Bruxelles, il 19 ottobre 1935, si tenne il "Congresso degli Italiani". Nella terminologia di classe, congresso degli italiani non significa assolutamente niente; infatti non si trattò di una iniziativa classista, bensì interclassista, anche se era proposta da stalinisti e socialdemocratici. L’invito di partecipare fu mandato a tutti i gruppi politici, economici, culturali, sportivi, ex combattenti che operavano nell’emigrazione. Il tema fondamentale dell’ordine del giorno era quello di prendere le distanze dal regime fascista e dalla guerra di aggressione.

La nostra Frazione che aveva ricevuto l’invito dal PSI elaborò una risoluzione nella quale si dichiarava l’impossibilità di partecipare ad un convegno le cui premesse erano antitetiche alle più elementari nozioni di classe. Il concetto di "italiani", mentre soffocava ogni possibilità di intervento classista da parte degli operai, al tempo stesso rivaleggiava in patriottismo con lo stesso Mussolini dimostrando che i veri interessi dell’Italia sarebbero stati difesi da coloro che si opponevano alla "impresa fascista". Il Congresso anziché fare appello alla classe operaia di tutti i paesi per condurre insieme la battaglia contro il regime capitalista, trasformava i partiti in appendice dei governi di quei paesi, ai quali, per ragioni imperialistiche, si opponevano gli interessi altrettanto imperialistici dell’Italia.

La Frazione, comunque, tentò di partecipare attivamente a tutte le riunioni preparatorie per opporre alle proposte patriottiche dei social-stalinisti, proposte di azioni di classe. I nostri compagni furono però immediatamente fatti segno delle azioni violente degli stalinisti per impedire che la voce dalla Sinistra potesse diffondersi tra la classe operaia.

«Al congresso attuale – scriveva Prometeo – la nostra Frazione oppone l’iniziativa di un convegno di tutta l’emigrazione di classe raccolta negli organismi sindacali dei differenti paesi e questo al fine di stabilire un sistema di rivendicazioni che, inquadrantesi con gli interessi del proletariato di ogni paese, realizzi la premessa indispensabile per lo sviluppo di una azione capace di mobilitare, attorno al proletariato italiano, le sole forze che possono sostenerlo: quelle dei fratelli di classe degli altri paesi. Conformemente alle posizioni precedenti, la nostra Frazione, invita dunque i rari proletari che si fossero perduti nel Congresso degli Italiani, ad abbandonare immediatamente l’aula manifestando così le loro decisioni a dirigersi verso un cammino e per degli obiettivi di classe. Non è possibile svolgere l’azione su due piani: quello della “patria” e quello di classe dei sindacati, quello dell’appello ai capitalisti cosiddetti democratici e l’altro appello ai proletari oppressi da questi capitalismi» (Prometeo, n. 13, 13 ottobre 1935).

Il Congresso si svolse secondo il rito democratico, ossia secondo un piano prestabilito nei minimi dettagli da parte del comitato coordinatore. Tutti gli oratori che si susseguirono alla tribuna erano stati iscritti in precedenza secondo un accordo stabilito tra i partiti partecipanti e questo perché il congresso democratico doveva uscire con un indirizzo unanime. (Unanime è l’oggettivo che i democratici usano al posto di totalitario, caro invece ai fascisti. Anche le parole, a modo loro, fanno politica!).

Per la prima volta, nella storia del movimento operaio, ogni congressista doveva fornire una biografia politica, dettagliata e scritta. È evidente, quindi, che quando i nostri compagni intervenuti chiesero la parola per partecipare al dibattito, questa possibilità fu loro brutalmente negata dagli stalinisti. A ragion del vero non bisogna dimenticare però che con gli stalinisti solidarizzarono i massimalisti, i socialdemocratici, i repubblicani, e (ci dobbiamo meravigliare?)... i delegati della Lega dei Diritti dell’Uomo. Un proletario puntigliosamente insisteva per avere la parola, nell’intenzione di difendere la posizioni della Sinistra, «ti conosco mascherina», si sentì rispondere dal principe della democrazia, Modigliani.

Il Congresso si chiudeva con un appello da inviare al presidente della Società delle Nazioni: «Signor Benes, Presidente della Società delle Nazioni, il Congresso degli Italiani contro la guerra in Etiopia, che nelle circostanze attuali ha dovuto riunirsi all’estero per proclamare il suo attaccamento alla pace ed alla libertà; Raggruppando in una comune volontà di lotta contro la guerra le centinaia di delegati inviati dalle masse popolari italiane e dell’emigrazione italiana, e rappresentanti l’opinione italiana, dai cattolici ai liberali, dai repubblicani ai socialisti ed ai comunisti; Constata, con la più grande soddisfazione, che il Consiglio della Società delle Nazioni ha nettamente distinto nel condannare l’aggressione, la responsabilità del governo fascista da quelle del popolo italiano; Afferma che la guerra d’Africa è la guerra del fascismo e non quella dell’Italia, che essa è stata scatenata contro l’Etiopia e contro l’Europa senza nessuna consultazione del paese a dispetto non solo dei solenni impegni presi di fronte alla Società delle Nazioni ed alla Abissinia, ma anche a dispetto dei sentimenti e dei veri interessi del popolo italiano; Certo di interpretare l’autentico pensiero del popolo italiano, il Congresso dichiara che è dovere della Società delle Nazioni, anche nell’interesse sia dell’Italia che dell’Europa, erigere una barriera impenetrabile alla guerra e si impegna a sostenere le misure che saranno prese dalla Società delle Nazioni e dalle organizzazioni operaie per imporre la fine immediata delle ostilità».

Prometeo del 10 novembre usciva con un articolo intitolato: "Il Congresso di Bruxelles al Soccorso del Fascismo". L’articolo con lucide argomentazioni chiariva come tutta l’azione antifascista avesse portato argomenti alla ideologia e alle giustificazioni fasciste. Sarà sufficiente riportare qualche passo: «È evidente che una tale impostazione della lotta non farà alcuna breccia fra le masse italiane le quali finiranno per cadere prigioniere della manovra di Mussolini il quale avrà buon gioco quando potrà dire: chi dirige la lotta contro il fascismo non è la classe operaia sulla base di un programma proletario e rivoluzionario, chi dirige questa lotta è la Società delle Nazioni all’istigazione di una potenza molto ricca più della nostra, di una potenza imperialista, l’Inghilterra. Posti al bivio e di fronte al dilemma non capitalismo-proletariato, ma Italia-Inghilterra le masse italiane si troveranno nell’impossibilità di scorgere il vero cammino, quello di classe, che può condurre alla lotta per l’abbattimento del fascismo e del capitalismo. Il congresso di Bruxelles ha quindi realizzato la condizione essenziale non per l’abbattimento, ma per il rafforzamento del fascismo».

Un’altra riflessione sul Congresso degli Italiani: i rappresentanti ufficiali delle due Internazionali portarono la loro adesione ufficiale al congresso. «Dobbiamo scorgere in ciò – si chiedeva Bilan – una indicazione definitiva sulla ulteriore evoluzione dei rapporti tra centristi e socialisti? Non lo crediamo. Tuttavia è interessante mettere in evidenza che di fronte alla prima manifestazione della guerra, socialisti e centristi sono stati perfettamente d’accordo nel fare proprie le decisioni ginevrine e capitaliste della sanzioni. Che domani la posizione capitalista sia un’altra e che il fronte delle costellazioni divida socialisti e centristi, è un problema che solo il futuro potrà verificare, ma, anche in questa ipotesi, noi sappiamo già che il capitalismo internazionale non avrà che da indicare la strada che i vecchi come i nuovi traditori intraprenderanno senza esitare, mettendo al servizio del nemico tutta la demagogia che hanno imparato nella battaglia condotta contro le tendenze marxiste che agiscono in seno al proletariato» (Bilan, n. 24, ottobre-novembre 1935).

Un’altra perla: Nenni, il capo del Partito Socialista Italiano, che già aveva aderito al fascismo, che aveva assunto gli atteggiamenti più contraddittori anche in seno al PSI, che da più di una parte era stato accusato di essere una spia dell’OVRA (ma questo vuol dire poco perché anche gli stalinisti lo erano), Nenni ebbe il coraggio di paragonare il congresso di Bruxelles a quello di Zimmerwald. Questo saltimbanco ebbe il coraggio di paragonare una riunione di militanti rivoluzionari per la lotta contro la guerra imperialista ad un congresso interclassista che aveva votato le misure di guerra scelte dall’imperialismo inglese.

Abbiamo visto che, al di là delle discordanze che potevano esistere sulla valutazione della natura della guerra d’Abissinia, la Frazione era unanime nel suo appello verso la classe operaia, i lavoratori e gli sfruttati dei popoli coloniali. La posizione della nostra Frazione discendeva da premesse più volte ricordate e che si riassumevano nella tesi centrale che nella fase della guerra e delle rivoluzioni solo il proletariato internazionale poteva portare aiuto agli sfruttati dei paesi coloniali o pre-capitalistici per abbattere ad un tempo sia i barbari regimi che li opprimevano, sia l’imperialismo colonizzatore. I lavoratori e gli sfruttati abissini quindi non potevano affidare i loro destini né al Negus, né all’imperialismo inglese che avrebbe potuto, caso mai, vantarsi di avere insegnato agli altri capitalismi i più raffinati sistemi d sfruttamento e di massacro. «La posizione della nostra Frazione consiste nel chiamare questi lavoratori ad approfittare della situazione che gli si presenta per sferrare la lotta per i loro interessi di classe, congiungendosi così alla lotta degli operai italiani. Soltanto la concordanza di questi sforzi sarà capace di armonizzarsi con la lotta del proletariato mondiale per la rivoluzione comunista. E non è per niente un caso se nel movimento italiano solo la nostra Frazione difende questa posizione proletaria ed internazionalista».
 
 

Appoggio al fascismo dagli antifascisti
 

Parlando dell’"oro alla Patria" abbiamo ricordato come Caldara, Rigola e tanti altri ex-deputati antifascisti, in segno di solidarietà con la patria nell’ora del cimento, avevano simbolicamente donato le loro medagliette d’oro. E non si creda che si sia trattato di un fenomeno isolato! Il 10 novembre 1935, Prometeo pubblicava un breve trafiletto intitolato: "Incetta di Sporcaccioni". Nel breve articolo si legge: «La guerra in Etiopia serve di comodo pretesto per il ritorno all’ovile – al porcile potremmo dire – di tutte le anime in pena, bramose di inserirsi e partecipare alla lagnanza generale. L’ultimo di data, se non di qualità, il professor Arturo Labriola che, in una lettera all’ambasciatore fascista di Bruxelles esprime la sua piena solidarietà con il “suo paese” impegnato in una azione grave e difficile, ma “gloriosa” e si mette a disposizione del regime. Non ci occuperemmo del cadavere putrefatto dell’emerito Girella, ex sindacalista rivoluzionario(!), finito ministro del re nonché interventista, naturalmente imboscato-profittatore, della guerra imperialistica, se l’antifascismo non lo avesse sbandierato elevandolo a gran maestro (!) della massoneria, presidente della Lega dei Diritti dell’Uomo in Belgio e collaboratore fisso, e lautamente rinumerato, del "Peuple". Ci auguriamo che il governo fascista vorrà mettere alla prova la sua conversione facendolo partecipare alla “gloriosa” guerra di Africa. In tal caso suggeriamo agli abissini, se per avventura riuscissero a beccarlo, affinché le sanzioni riuscissero effettivamente efficaci, non di tagliarli i testicoli, ma di mozzargli la lingua» (Prometeo, n. 124).

Ma i veri sporcaccioni non erano tanto i Girella del tipo di Arturo Labriola, giustamente definiti dai nostri compagni "cadaveri putrefatti"; i veri sporcaccioni erano bensì altri.

Dimitrov, presidente della Terza Internazionale, nel maggio 1936 aveva scritto: «È veramente comico di vedere parolai di “sinistra” di differenti qualità drizzarsi contro questa tattica (cioè di appoggio alla politica dell’imperialismo inglese, n.d.r.) e presentarsi come dei rivoluzionari irriducibili. A sentir loro tutti i governi sono oppressori. Essi si richiamano perfino a Lenin che, durante la guerra imperialista del 1914/18 aveva respinto, in modo, completamente giusto, l’argomento dei social-patrioti: “ci hanno attaccato, noi ci difendiamo”. Ma a quell’epoca il mondo era diviso in due coalizioni di guerra imperialista che in egual misura cercavano di stabilire la loro egemonia mondiale e che, in egual misura, avevano preparato e provocato la guerra imperialista. A quell’epoca non vi era né un paese dove il proletariato avesse vinto, né paesi a dittatura fascista (...) Sono passati i tempi in cui la classe operaia non partecipava in maniera indipendente ed attiva al regolamento delle questioni di importanza vitale, quali sono la guerra e la pace». E Dimitrov precisava quale, secondo lui, era la maniera "indipendente ed attiva". «In casi concreti non si deve escludere un’astensione motivata al momento del voto delle differenti misure di difesa del paese che sono necessarie per rendere più difficile l’attacco dell’aggressore fascista (...) Occorre denunciare ogni tentativo di attenuare la differenza fra Stati fascisti e non-fascisti».

Per concludere e dare una prova della fedeltà russa nei confronti degli imperialismi temporaneamente alleati, affermava: «Non è giusto dire che la causa della pace ci guadagnerebbe se oggi si tentasse una nuova ripartizione delle sorgenti di materie prime delle colonie e dei territori sotto mandato». La Francia e l’Inghilterra potevano stare al sicuro, la Russia e l’Internazionale riconoscevano loro la legittimità dei bottini accaparrati durante la guerra del 14/18 ed il proletariato, aggiogato alle necessità guerresche di questi imperialismi, sarebbe andato al macello per la difesa di questi bottini.

Come si sa la Russia, che non aveva mai interrotto i rapporti economici e politici con gli Stati fascisti (Litvinov, dopo l’entrata degli italiani in Addis Abeba propose l’immediata soppressione delle sanzioni), tre anni dopo, passerà dalla parte dell’imperialismo nazi-fascista.

Per concludere non ci resta che dare una occhiata alla politica di fresca elaborazione del PCI. Al Congresso di Bruxelles, quello che Nenni aveva paragonato a Zimmerwald, Ruggero Grieco, dopo una analisi della situazione italiana, concludeva lanciando un appello all’unità e indirizzava quest’appello agli operai, ai contadini, ai socialisti, ai repubblicani, ai democristiani ed alle... camicie nere. La sua iniziativa non venne troppo gradita, tanto che Togliatti, da Mosca, gli mosse delle critiche mettendo in rilievo l’inopportunità di uscite del genere.

Dopo un periodo (breve, per la verità) di riflessione, la proposta di Grieco venne assunta a posizione ufficiale del partito. Ecco pochi campioni, estratti a caso, dal gran letamaio. Turatevi il naso!! Il Grido del Popolo, 11 aprile 1936. «Noi abbiamo a conquistare alla lotta anche i fascisti della prima ora (...) tra di essi si diffonde l’idea della “seconda rivoluzione anticapitalista”». Lo Stato Operaio, n 5, maggio 1936: «I nostri soldati, le camicie nere, si sono battuti con coraggio, hanno affrontato sacrifici grandissimi, hanno sofferto la sete e la fame, hanno compiuto uno sforzo che dimostra l’alta capacità di abnegazione e di resistenza del nostro popolo magnifico (...) Essi hanno creduto di combattere per fare grande, forte e felice il loro paese; e dietro questo mirabile ideale, per il quale val bene la pena di spendere anche vita, migliaia di nostri fratelli sono morti e migliaia sono rimasti straziati e ammalati per sempre». Lo Stato Operaio, n. 6, giugno 1936: «Noi tendiamo la mano ai fascisti nostri fratelli di lavoro e di sofferenza perché vogliamo combattere insieme ad essi la buona e santa battaglia del pane, del lavoro, della pace (...) Noi comunisti vogliamo fare l’Italia forte, libera, felice. La nostra aspirazione è pure la vostra o fascisti, cattolici, uomini italiani di ogni opinione politica, di ogni fede religiosa».

Nel maggio, in Francia, si era avuta la vittoria del Fronte Popolare. Il PCF, che aveva incentrato tutta la sua campagna elettorale su motivi nazional-sciovinisti, raddoppiò i suoi voti, e dai 10 deputati che aveva passò a 72. La Frazione nella vittoria del Fronte Popolare vide un ulteriore incatenamento della classe operaia francese agli interessi della propria borghesia e del proprio imperialismo. Una conferma a questa nostra valutazione ci venne data proprio dal PCI: Lo Stato Operaio, n. 6, giugno 1936: «Noi italiani dobbiamo ricavare una lezione da quanto si svolge in Francia. E la lezione è questa: una modificazione profonda della situazione italiana è possibile, alla condizione di sviluppare una larga azione di fraternizzazione con le masse fasciste». Lo Stato Operaio, n. 8, agosto 1936: «Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919 (...) Lavoratore fascista assieme a te vogliamo fare forte, libera e felice, la nostra bella Italia».

(continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’archivio della Sinistra:

   L’Impresa "fascista" (?) in Abissinia ("Prometeo", n.120, 21 luglio 1935)