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Comunismo n.97 - luglio 2024 - Anno XLIV
aggiornato al 14 luglio 2024
Il ciclo delle guerre e delle rivoluzioni
Il PCd’I e la guerra civile in Italia negli anni del primo dopoguerra - 10.Una borghesia al contrattacco: A Livorno - Greco Milanese - A Torre di Pordenone - Sostanza e onere della guerra civile
Il marxismo e la questione militare - Parte V - La guerra civile in Russia: Dopo Brest-Litovsk - La repubblica socialista dei lavoratori di Finlandia - La Legione Cecoslovacca - Il fronte nord - Operazioni finali nella guerra civile
La teoria marxista delle crisi - Le Teorie sul Plusvalore: David Ricardo
Ricapitolando sulla questione cinese - 7. Il Partito tra il I e il II Congresso: Precisazioni sull’atteggiamento verso il movimento nazional-rivoluzionario - La linea di Maring e l’opposizione all’interno del PCdC
L’India dalle origini allo Stato nazionale - 7. Marx e il dominio inglese sull’India: 49. La superiorità europea e la necessità del Capitale - 50. Le contraddizioni sciolte da Marx - 51. Il dominio della Compagnia e la resistenza al nuovo modo di produzione - 52. La borghesia inglese detta le condizioni - 53. La recessione nel mondo contadino - 54. La chiarezza del marxismo - 55. Il commercio nel primo Ottocento - 56. La grande rivolta dei sepoys - 57. «L’opera di rigenerazione non traspira da un mucchio di rovine eppure, è già cominciata»
La Internazionale dei Sindacati Rossi - 5. Gli anarchici e l’Internazionale Sindacale Rossa
Lettura marxista della nazionalità curda: Introduzione - La preistoria - Le ribellioni curde da Ubeydullah (1879) a Said (1925)- Il nuovo nazionalismo laico della Repubblica di Ağrı (1926-30) e il massacro di Dersim (1937-38) - La Repubblica autonoma di Mahabad (1941-45) e il Partito Democratico del Kurdistan
Le ideologie della borghesia. Parte 1. Dalle strutture alle sovrastrutture: Il monismo marxista e i dualismi della borghesia - L’ideologia della fine delle ideologie - Ragione borghese e fede religiosa - Conoscenza nascosta in miti e religioni - In principio era il verbo - Tempo dei greci, degli ebrei, dei marxisti - Magia e filosofia greca - La presunta superiorità dei moderni






Il ciclo delle guerre e delle rivoluzioni

“Sì, la guerra è evitabile” si legge nel nostro testo “Dialogato coi Morti”, scritto nel 1956, all’indomani del XX Congresso del Partito Comunista Russo, quando la coesistenza pacifica, fondata sulla emulazione tra i due presunti sistemi, quello del mentito socialismo alla Stalin e quello capitalistico della potenza vittoriosa, avrebbe dovuto garantire un periodo di pace da equilibrio nel mondo uscito dalla seconda guerra mondiale.

Questo non escludeva che si sviluppassero guerre locali e limitate nello spazio e nel tempo. Ma storicamente si reputava non ancora possibile lo svilupparsi di uno scontro diretto tra le superpotenze. Nemmeno dopo la crisi dei missili di Cuba il Partito vide vicino la guerra imperialistica, anche se il mondo parve trovarsi sull’orlo dell’abisso.

Qual è quindi il significato di questa espressione, quando per la nostra dottrina si definisce non evitabile lo scontro imperialistico nel mondo borghese?

La propaganda della pace, se non è accompagnata dall’appello all’azione rivoluzionaria delle masse, può soltanto seminare delle illusioni, corrompere il proletariato inculcandogli la fiducia nell’umanitarismo della borghesia e facendo di esso uno strumento imbelle della diplomazia degli Stati belligeranti.

Parlare di guerra in generale per i comunisti è privo di senso storico e di classe. È un concetto che lasciamo, con tutte le loro contraddizioni, ai pacifisti d’ogni risma.

La posizione del Partito riguardo alla guerra in generale, in termini di analisi, valutazione e senso storico non può essere univoca. Sotto il generico termine guerra noi intendiamo processi storici e scontri di natura e segno tutt’affatto differenti. Non usiamo mai un concetto generale, ma parliamo sempre di casi e situazioni diverse per cause, estensione, durata ed effetti.

Fin dal 1848 Marx aveva annientata ogni ideologia pacifista-umanitaria che prospettasse la fine delle guerre per la generale persuasione sulla loro inutilità. La tesi di Marx contro i democratici borghesi di “Pace e Libertà” nel 1848 era la stessa di Lenin contro i socialisti guerrafondai del 1914.

Noi neghiamo che per la emancipazione di classe operaia ci sia un obiettivo Pace distinto da quello Socialismo. Ci aspettiamo più la Rivoluzione dalla guerra, che la Pace dal Capitalismo. Non conosciamo altra via per seppellire la guerra che l’uccisione del sistema borghese.

Dal 1848 al 1871 scoppiarono una serie di guerre che erano ancora utili, per lo stesso radicalismo borghese dei Mazzini, Blanc, Kossuth e simili. Non avevano ovviamente coscienza che la guerra tra nazioni non sarebbe finita con la Pace Universale, ma con la rivoluzione di classe supernazionale.

Noi siamo, è ben chiaro, per la piena validità attuale della dottrina di Lenin sulla guerra, la quale non è altro che la dottrina di Marx enunciata al suo nascere storico, definitivamente asserita dopo la guerra franco-prussiana e la Comune parigina, con cui si erano chiuse le guerre rivoluzionarie di sistemazione liberale: Tutti gli eserciti nazionali sono ormai confederati contro il Proletariato!

Questo è un concetto di importanza capitale che premettiamo ad ogni analisi o considerazione sui conflitti in atto, che hanno tutti, ormai, lo stigma del più generale scontro tra i capitalismi imperialistici.

Un capitolo a parte sono state le lotte di emancipazione nazionale nelle colonie, progressive, nella nostra visione dialettica. È nostra la potente teorizzazione della Terza Internazionale al Congresso di Baku, che inquadrò le lotte dei popoli delle colonie nella strategia e nella tattica della rivoluzione comunista internazionale.

«Quando Lenin stabilì che la tappa imperialista del capitalismo conduce alla guerra, egli non credeva ancora ad una serie successiva di guerre mondiali, ma attendeva che al delinearsi della prima il proletariato, almeno di Europa, si levasse in piedi e la fermasse. «La sua formula fu “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”. Ma la formula era alternante: o comincia e si sviluppa la guerra delle nazioni, o scoppia in ciascuna la guerra civile, le borghesie sono rovesciate, e la guerra non “scatta”.

«La grande occasione leninista fu perduta, adunque nel 1914 perché tutti o quasi i partiti operai non solo non bloccarono i cantieri, le ferrovie e i corpi d’armata, ma marciarono con la guerra nazionale».

Un altro aspetto per noi fondamentale della guerra è quando sia mossa dall’esigenza di portare “sulla punta delle baionette” – allora si diceva così, oggi si dovrebbe dire sull’ogiva dei missili – la rivoluzione sociale. La prospettiva di allora era generosa e gigantesca, saldare la rivoluzione in Russia, vincitrice in una terribile guerra civile scatenata dalle potenze capitalistiche occidentali, con l’insurrezione in Germania. E la giovane Repubblica dei Soviet, sull’onda della vittoria, avanzò contro la Polonia. Ma l’Armata Rossa fu bloccata alle porte di Varsavia. Però i comunisti della Terza Internazionale non disconobbero, anche se fallita, questa guerra, fatta per la rivoluzione e solo per la rivoluzione.

Un’altra armata rossa entrò in una distrutta Varsavia il 17 gennaio del 1945: ma quella era di opposta natura, anche se innalzava la bandiera rossa.

Dal discorso di Lenin nel settembre del ‘20 al C.C del Partito comunista russo: «Il periodo difensivo della guerra contro l’imperialismo mondiale era terminato e noi potevamo e dovevamo approfittare della situazione militare per avviare una guerra offensiva (...) Cercammo di attaccarli in modo da contribuire a sovietizzare la Polonia. Nell’attuale situazione internazionale dobbiamo limitarci a una posizione difensiva nei confronti dell’Intesa ma, nonostante la nostra prima sconfitta, passeremo ripetutamente da una politica difensiva a una offensiva finché non l’avremo definitivamente annientata».

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Se allora la prospettiva storica era articolata e gravida di possibilità per la rivoluzione mondiale e per l’emancipazione delle colonie, la fase attuale è invece quella dello scontro imperialistico.

Contrariamente a quanto avvenuto nella prima guerra mondiale, nella seconda non si oppose al suo inizio nessuna resistenza delle classi lavoratrici, e a maggior ragione non ne seguì nessuna rivoluzione. E i partiti proletari non si trovarono a denunciare la guerra dei mostri imperialisti. Quelli comunisti nati dopo il 1914 nei venti anni tra le due guerre si erano totalmente snaturati, quando non falcidiati dalle repressioni di Stalin.

«Oggi chi rivendica ancora la tesi di Lenin afferma che, ricostituitesi le condizioni di tipo imperialistico anche nei paesi vinti, dopo un certo ciclo la guerra si presenterà, con una sola alternativa (del tutto improponibile se già oggi scoppiasse): che la rivoluzione proletaria possa strozzarla sul nascere. Dalla terza guerra nascerebbe la rivoluzione se prima del suo scoppio, che tutto, alla seconda metà del passato secolo, faceva ritenere ancora ben lontano, sarà risorto il movimento di classe».

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In questa fase storica, nel complesso quadro dello scontro imperialistico in atto, aperto o minacciato, sono attualmente due i punti focali nei quali si determinano i combattimenti, distanti migliaia di chilometri, ma prossimi alla stessa area europea. Anche se nel Pacifico si apre un altro punto caldo di potenziale scontro.

In questa morsa rimane debole e impotente l’Europa, chiamata con brutale decisione ad allinearsi dalla parte dell’occidente. L’Europa, i cui governi sono schierati tramite il braccio armato americano contro il “pericolo” ai confini orientali, avverte l’ineluttabile avvicinarsi dello scontro generale, ma è incapace di una posizione complessiva autonoma dall’imperialismo d’oltre oceano e in ordine sparso si mette al riparo sotto l’ombrello NATO, anche in evidente contrasto con i propri interessi immediati.

In poche parole si condensano le indecisioni dell’eterogenea Unione Europea, incapace di presentarsi come un insieme coeso di nazioni, ma pure consapevole della inevitabilità della guerra borghese. Sono le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Josep Borrell: “La guerra non è imminente, non spaventiamo i cittadini”. Mentre subito dopo è ribadita la necessità di “prepararsi per il futuro e aumentare le proprie capacità di difesa”. A noi si lascia il compito di ricordare quale ignobile eufemismo si nasconda dietro la parola “difesa” e quanto sia nella natura delle potenze borghesi più forti scatenare la loro guerra d’offesa contro quelle più deboli.

A fronte di tali manifestazioni d’impotenza, per gli Stati Uniti la guerra in Ucraina, pur fra vari fallimenti, ha già raggiunto un risultato di un qualche rilievo: essi hanno ribadito la propria supremazia sulla vecchia Europa, che si rivela sempre più incapace di trasformarsi in una potenza che possa giocare un ruolo politico autonomo sulla scena internazionale.

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La situazione generale sia del fronte sia della popolazione è così difficile che da molte parti in occidente si preme per arrivare a una trattativa. Ma il “tavolo di trattative” non è la nostra prospettiva, che non prevede alcuna pace borghese. Cosa potrà frenare e poi liquidare la guerra tra gli Stati?

«Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento rivoluzionario di classe internazionale, assolutamente opposto alla politica dei governi, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari». Questo è il nostro principio, il cardine della nostra dottrina.

Il mondo del Capitale è giunto al punto critico della sua parabola, e i mostri imperialisti sono costretti a sviluppare la loro dinamica di scontro globale. Il teatro è il mondo. Ogni volta che cresce la tensione sul controllo di certi cruciali snodi strategici, si acuisce inevitabilmente la contesa fra gli Stati più forti e si inducono le potenze di secondo rango a prendere partito, sviluppando il processo di definizione degli schieramenti imperialistici rivali.

Questo non è ancora definito. Il quadro, ben lungi dall’essere stabilizzato, è in pieno movimento. Tale geometria variabile delle alleanze si constata, per esempio, nella cospicua presenza russa in Siria. In oltre dieci anni di guerra i raid dell’aviazione israeliana sulla Siria sono stati quasi quotidiani a colpire le milizie iraniane e le forze di Damasco. Tuttavia la Russia non ha mai difeso i propri alleati in Siria e lascia che Israele continui a effettuare i suoi mortiferi attacchi. La sola premura che la Russia chiede e ottiene da Israele è che i raid vengano comunicati in anticipo per non coinvolgere le truppe russe. Le comunicazioni arrivano soltanto a ridosso dell’attacco per evitare che le milizie iraniane possano mettersi in salvo.

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Verso l’oppressione nazionale dei palestinesi si conferma la totale indifferenza della borghesia mondiale, appena dissimulata da frasi e appelli di circostanza.

Non ci sono alternative all’evidenza che soltanto il proletariato mediorientale vi potrà porre rimedio. I proletari arabi e i musulmani dovranno rifiutare la propaganda antisemita con la quale le loro borghesie li illudono di lottare contro l’imperialismo, l’unità araba e la Palestina indipendente, mentre da parte loro i proletari ebrei e israeliani dovranno rifiutare di rendersi complici della propria borghesia nell’oppressione dei palestinesi.

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Dal 2014 la guerra si sta preparando in Europa, per dar sfogo alle tensioni imperialistiche che camminavano di pari passo con le crisi ricorrenti.

Della guerra in Europa si può dare una spiegazione su tre livelli, tutti validi e in certo modo interconnessi. Può essere letta come aggressione di uno Stato a un altro per motivi diversi e diversamente giustificati: dalla difesa di una presunta componente nazionale che langue sotto l’oppressione dello Stato ucraino, e avrebbe portato a una guerra mai denunciata ma combattuta da anni dalla componente russofona dell’est contro lo Stato centrale. Considerazione che è facile rovesciare attribuendo alla Russia il suo innesco e sviluppo, dopo che, configurata come guerra civile, arriverebbe fino all’annessione da parte dello Stato invasore della parte più sviluppata e ricca di materie prime.

Con altrettanta ragionevolezza storica si può considerare che lo scontro tra NATO e Russia sia guerra per “interposta persona”, col mandare al massacro i proletari ucraini in luogo dei cittadini degli Stati occidentali.

Infine avrebbe il fine della rottura tra la Germania e la Russia, con il suo straordinario patrimonio di materie prime ed energia portato in dote al più forte capitalismo europeo per sviluppare ulteriormente il suo straordinario potenziale industriale. Con l’aggravante che la Germania è, o era, il capofila dell’Europa unita, quindi un potenziale competitore imperialista, insieme con Russia e Cina, che il Cancelliere federale Scholz si è affrettato a visitare per “salvare il salvabile” di una potenza industriale che sta andando in crisi.

Questi ultimi due aspetti sono il punto cruciale del percorso storico dello scontro imperialistico, e danno indicazioni chiare su come il primo imperialismo del mondo si prepari alla guerra mondiale prossima ventura e raccolga sotto di sé, a questo scopo, i propri alleati nel mondo.

Dalla grande crisi del 2008, che il mondo borghese ha saputo controllare e smorzare, a quella attuale aggravata da tre anni di pandemia, sono succedute fasi di ripresa e successiva ricaduta, a intervalli più ridotti, che si sono riflessi in una propensione bellica sempre più estesa, quasi in preparazione dell’evento ultimo negli anni a venire.

Parlare di “ragionevolezza”, di buona volontà per trovare accordi pacificatori tra i predoni imperiali, farsi l’idea che già dal 2008 la guerra avrebbe potuto essere evitata con i giusti trattati, come ad esempio quelli stilati a Minsk, significa non avere idea della forza mostruosa dei contrasti tra i capitali, che supera ogni volontà di uomo.

Alle condizioni presenti, parlare di vittoria per l’una o per l’altra parte è nella sostanza un puro non senso, uno slogan per confondere e ingannare il proletariato. Una cosa è chiara per noi che siamo storicamente contro ogni guerra tra imperialismi, e combattiamo da oltre un secolo solo per la guerra tra le classi: la guerra tra gli Stati è la cifra del mondo capitalistico al suo punto più alto di degenerazione e diffusione sull’intero orbe terracqueo.

Per ora c’è un solo vero sconfitto, il proletariato internazionale, in specie quello ucraino, quello russo, il palestinese e l’israeliano. Questa guerra è contro di loro, uomini portati su fronti opposti da interessi borghesi, camuffati da difesa della libertà nazionale contro un invasore o di una componente nazionale o razziale o religiosa.

Su questi temi che non sono propri dei proletari ma opposti ai loro interessi di classe, prende ampiezza la menzogna, sempre riproposta nelle guerre precedenti e giustificatrice delle carneficine della prima e della seconda guerra mondiale, dell’aggressore e dell’aggredito, e la difesa o conquista di una Patria nazionale.

La neutralità o indifferenza non è la posizione di classe dei comunisti. Il proletariato internazionale deve essere contro l’una e contro l’altra borghesia, i suoi interessi sono opposti a ogni collaborazione nazionale, soprattutto quando una borghesia guerreggia in difesa del suo Stato. Ogni guerra tra Stati è in realtà una guerra al proletariato, nazionale ed internazionale, sulle cui spalle va a poggiare l’immane peso dei lutti, della miseria, dello sforzo bestiale per la ricostruzione economica capitalista. Intanto ogni Stato, sconfitto o vittorioso, integro o smembrato dal vincitore, resta comunque lo strumento di dominio della borghesia.

Le sofferenze della popolazione vengono negate o stravolte in senso nazionalistico. Ma sappiamo da pur flebili testimonianze che reazioni antimilitariste ci sono e nemmeno tanto ridotte. Dalla parte russa la stampa esercita una censura totale, e le notizie diffuse dalla stampa occidentale sono distorte e stravolte a fini di parte. Lo stesso accade in Ucraina, in Israele, in Palestina. Soltanto chi si mette completamente dalla parte dei proletari che non hanno patria, non hanno bandiera e sono contro patrie e bandiere nazionali, soltanto a questi, noi che facciamo “il tifo” soltanto per la rivoluzione internazionale, è dato essere assolutamente sopra ogni parte combattente. Questo è il senso della nostra “non indifferenza”.







Il PCd’I e la guerra civile in Italia negli anni del primo dopoguerra

10. Una borghesia al contrattacco

(continua dal numero scorso)


Capitoli esposti nella riunioni generali dal gennaio 2020 al settembre 2021


A Livorno

Quando abbiamo trattato dell’insurrezione di Viareggio del maggio 1920 accennammo al fatto che, in solidarietà, Livorno scese immediatamente in sciopero e per due giorni la città rimase quasi completamente in mano ai rivoltosi. Come a Viareggio così a Livorno la CGL, che intendeva mantenere la protesta nei limiti di uno sciopero pacifico di un solo giorno, non fu in grado di controllare il movimento. Infatti a Livorno si erano già formate squadre di “Guardie Rosse” e di “Ciclisti rossi”, che durante le lotte contro il caro-viveri e l’occupazione delle fabbriche avevano dato prova di una buona organizzazione. Per due giorni si erano susseguiti violenti scontri armati tra la popolazione e le forze dell’ordine.

Per riportare l’ordine «una nave da guerra venne fatta entrare nel Porto Mediceo (...) Un migliaio tra carabinieri e guardie regie venne mandato a Livorno via mare (...) I fatti di Livorno ebbero un grosso impatto sugli stranieri; come riferiva l’ambasciatore inglese “la città era stata per due giorni quasi completamente in mano ai rivoltosi”» (Tobias Abse, “Sovversivi e fascisti a Livorno”).

«Alla vigilia del Congresso nazionale del Partito Socialista Italiano (...) apparvero chiare le intenzioni dei fascisti che volevano non solo disturbare, ma addirittura impedire lo svolgimento del Congresso. Furono create apposite squadre di vigilanza, composte da ex combattenti della guerra 1915-18 iscritti alla “Lega Proletaria Combattenti”. In questo modo i congressisti poterono svolgere normalmente i lavori e quasi tutti i tentativi dei fascisti di aggredire isolatamente i delegati vennero frustrati dal pronto intervento delle squadre che impartirono dure lezioni agli aggressori. Vista l’efficacia del metodo, il 9 febbraio 1921, in una riunione tenutasi nella sede della “Fratellanza Artigiana” (...), le Squadre di vigilanza, di cui ero stato il responsabile, furono trasformate in permanenti “Squadre di Azione antifascista”, che più tardi dovevano dare origine agli “Arditi del Popolo” comandate dal tenente Dante Quaglierini. Molti furono gli antifascisti – in maggioranza comunisti – caduti in queste dure lotte» (“La lotta armata al fascismo in forma organizzata”. Testimonianza di Dino Frangioni, reperibile in rete).

Per “ripulire il teatro Goldoni ed ornarlo del tricolore”, a fine marzo 1921 vi si tenne il primo congresso regionale dei Fasci di combattimento. Nell’occasione non si verificarono grandi conflitti, ma la città non si mostrò ospitale nei confronti dei fascisti, tanto che Mario Piazzesi, nel suo diario annotava: «Ben poco il fascismo ha fatto in questa città di mare, visi torvi circolano lungo le strade, ostili queste case (...) ostile la città che nessuna pietà dimostra per il povero Botti assassinato giorni fa. E passa, il breve corteo, in strade deserte, dove i ben pensanti non sentono il dovere di esporre un tricolore abbrunato per salutare questo ragazzo che per difendere la loro vigliaccheria, ha bruciato i suoi bei diciott’anni (...) Si sono rintanati nelle case questi sudicioni, come al tempo del congresso dei rossi nel gennaio. Che importa loro del nostro morto? (...) Poi ci si riversa al “Goldoni”, lo stesso teatro del congresso rosso» (“Diario di uno squadrista toscano”).

Oltre al manifesto atteggiamento avverso della cittadinanza nei confronti dei fascisti non si verificò nessun incidente significativo, salvo una sparatoria non lontano dalla ferrovia tra fascisti di fuori Livorno mentre andavano a prendere il treno. «L’intervento armato delle guardie regie permise agli squadristi di raggiungere la stazione e lasciare così l’inospitale Livorno» (Marco Rossi, “Livorno ribelle e sovversiva”).

L’edizione romana dell’“Avanti!” del 14 aprile, per la cronaca di Livorno, riportava questo trafiletto: «La Giunta municipale pubblicò un manifesto per la nota questione del pane separando ben nettamente la sua responsabilità da quella dell’autorità prefettizia. Il manifesto ch’è stato letto attentamente da molti cittadini, non ha avuto, s’intende, l’approvazione dei fascisti i quali sono andati in giro per la città a stracciare quanti manifesti capitavano sotto mano. Poco male! Provvederemo alla ristampa e alla nuova affissione».

Poco male? Ragazzate da prendere con la massima sufficienza? Vediamo di leggere lo stesso giornale del giorno successivo: «Ieri un gruppo di fascisti reduci dalla spedizione di Cecina e dunque inebriati dalle loro prodezze punitive, hanno voluto fare la festa anche in città (...) Si sono avventati contro la Camera del lavoro completamente incustodita. Non v’era dunque provocazione di sorta da parte nostra, neppure per la presenza di qualche compagno (...) Ciò non toglie che i signori fascisti abbiano potuto compiere indisturbati la loro razzia devastando mobili e carte che hanno gettato dalla finestra. Naturalmente il proletariato ha dignitosamente reagito. Il Consiglio Generale delle Leghe riunito d’urgenza ha proclamato lo sciopero generale (...) Tutti i cittadini sono invitati ad una dignitosa protesta per ritornare subito al fecondo ritmo delle lotte civilmente intese (...) Intanto il sindaco e i compagni deputati Modigliani e Capocchi hanno lungamente conferito col prefetto» (“Avanti!” edizione romana, 15 aprile). Ancora dall’“Avanti!” edizione romana del 17 aprile: «Lo sciopero è terminato: tutti i lavoratori che hanno saputo rispondere degnamente alla provocazione fascista hanno ripreso il lavoro».

Questi trafiletti del giornale socialista, apparentemente equilibrati ed obiettivi, nella realtà sono di una infamia inverosimile; si parla di fascisti che tornano da una spedizione inebriati per le loro prodezze compiute a Cecina; ma a Cecina in circa cento squadristi, tra livornesi e pisani, avevano occupato la cittadina seminando violenza e terrore, tra l’altro devastando il circolo socialista ed incendiando tutto il mobilio dopo averlo accatastato in piazza. Ma questa, per il quotidiano socialista sembra essere una cosa naturale, scontata, essendo una spedizione punitiva, forse per vendicarsi delle batoste subite l’anno precedente per mano di un proletariato armato e guidato dal sindaco comunista Ersilio Ambrogi. Invece a Livorno no, a Livorno la devastazione della Camera del Lavoro era avvenuta senza che vi fosse stata “provocazione di sorta da parte nostra, neppure per la presenza di qualche compagno”. Perché la presenza di qualche proletario all’interno della Camera del lavoro avrebbe potuto costituire “provocazione”!? A quel punto, solo per il fatto che l’attacco era stato “immotivato” venne proclamato lo sciopero, anzi, “una dignitosa protesta per ritornare subito al fecondo ritmo delle lotte civilmente intese”. L’“Avanti!” si affretta poi a dire che dopo la dignitosa protesta i lavoratori “hanno ripreso il lavoro”.

Molto diverso è il resoconto che possiamo leggere sul quotidiano comunista. Dopo aver detto dello sciopero immediatamente attuato dai lavoratori, compresi i vigili del fuoco, l’articolo prosegue: «Nel corso della sera avvennero vari conflitti per opera dei fascisti (...) l’episodio più grave si svolse verso le 23 in prossimità di Piazza Cavour dove i carabinieri aggredirono un gruppo di operai. I militi fecero uso delle armi e alle detonazioni arrivarono altri colleghi i quali riuscirono a trarre in arresto... [seguono i nominativi di una decina di arrestati].

«Questa mane lo sciopero generale è completo. Nelle vie del centro soltanto pochi negozi sono aperti. Squadre di scioperanti vanno in giro per la città imponendo la chiusura dei negozi che son rimasti aperti. Dal canto loro i fascisti girano anch’essi, i giornali non sono usciti (...) Anche questa mane si sono avuti da deplorare numerosi incidenti. Il primo si è svolto in via Cavour dove è avvenuto un clamoroso tafferuglio fra fascisti e sovversivi (...) In via Piave si è avuto uno scambio di revolverate. Anche in piazza Vittorio Emanuele fascisti e sovversivi sono venuti alle prese, ma il pronto intervento della forza ha impedito che il tumulto degenerasse in tragedia (...) Verso le 11 infine i fascisti hanno assalito un gruppetto di comunisti. I fascisti hanno fatto uso delle armi (...) Il fermento dura vivissimo» (“L’Ordine Nuovo”, 15 aprile).

Nel quotidiano comunista del giorno successivo si legge: «Lo sciopero generale di protesta, come ieri già annunziammo, si è attuato compatto (...) I tipografi hanno deliberato di non più stampare il giornale fascista che si pubblica a Livorno (...) Verso le 18,30 fascisti e sovversivi si scontravano in via Garibaldi. I fascisti stavano per avere la peggio quando sopraggiunsero in loro soccorso alcune compagnie del 3° bersaglieri, che occuparono gli sbocchi di via Garibaldi e via Tetrazzini. Ma i sovversivi non cedettero che palmo a palmo il terreno. La moschetteria echeggiava sinistramente. Gli assaliti ripararono fino alla sede del partito repubblicano, che servì come baluardo. Gli assaliti vi si asserragliarono e dalle finestre accolsero fascisti e bersaglieri a colpi di rivoltella. Dopo lunga resistenza, agli asserragliati essendo venute a mancare le munizioni ed essendo molti di essi feriti, si dovettero cedere. Le porte furono sfondate e nel locale si precipitarono bersaglieri e fascisti. Tutto fu messo a soqquadro e devastato. Un immenso incendio divampò nella notte. Accorsero anche i mitraglieri e due mitragliatrici furono piazzate davanti alla sede del partito repubblicano. A quando a quando echeggiavano colpi di fucile e plotoni di bersaglieri si slanciavano dietro ai fuggiaschi, contro coloro che sostavano e contro chi, animosamente, ritornava all’assalto. La fucileria è durata tre ore. Triste è il bilancio della serata: sono stati colpiti a morte certi Mario Testa e Donato Marchi. Vi furono pure 10 feriti tra cui uno gravemente. Sono stati eseguiti una quindicina di arresti. In città regna grande fermento» (“L’Ordine Nuovo”, 16 aprile).

Un poco differente, riguardo all’atteggiamento dei bersaglieri, è il ricordo di Dino Frangioni che però nella sostanza conferma le cronache dell’“Ordine Nuovo”

«Il 14 aprile del 1921 ci fu l’assalto alla sede del Partito Repubblicano, in via Pellegrini. Anche in questa occasione la resistenza organizzata mise in fuga i fascisti che abbandonarono sul terreno numerosi feriti. Tutto il popolare rione fu presto in fermento; la determinazione di liquidare una volta per sempre i briganti neri si faceva strada negli animi esasperati. Il prefetto inviò allora urgentemente sul posto i bersaglieri del 3° Reggimento di stanza alla caserma Lamarmora. Ma i bersaglieri si rifiutarono di sparare sulla folla e allora giunsero alcuni autocarri carichi di carabinieri: due cittadini persero la vita e numerosi altri vennero feriti».

L’“Avanti!” (edizione romana) del 17 aprile riportava la notizia che «il Comitato del Fascio ha pubblicato un manifesto con cui declina la responsabilità dell’attacco alla Camera del Lavoro». È significativo come gli “eroi” in camicia nera, ogni volta che le prendevano si affrettassero a dichiarare che “non erano stati loro”. Vigliacchi loro e doppiamente vigliacchi i socialisti che facevano finta di crederci!

Da quanto scrive Marco Rossi, se non proprio la maggioranza, ma almeno una grandissima parte del proletariato era di fede anarchica mentre, di contro, «il neonato Partito comunista d’Italia incontrò serie difficoltà ad affermarsi, tanto che nel dicembre 1921 nella circoscrizione di Livorno poteva contare su appena 253 iscritti. Tale limitato numero di adesioni scese a 216 nel 1922».

Torniamo, a questo riguardo, a leggere “L’Ordine Nuovo”: «Il gruppo comunista costituitosi subito dopo il Congresso della Frazione comunista tenuto ad Imola contava ben pochi aderenti, ed era nella sua totalità composto da operai.

«Pur mancando di propagandisti per le riunioni si poterono nelle votazioni riportare un promettente numero di affermazioni.

«Durante il Congresso del partito, la piccola schiera di comunisti fu di non lieve aiuto ai compagni di tutta Italia qui radunati. Sopraggiunto poi il Congresso confederale trovò nei compagni livornesi valido aiuto per i lavori che il Congresso stesso richiedeva. Fu certo non lieve e facile compito trovare un locale in cui insediare la sezione locale. Di sette sezioni di cui era formato il partito socialista, in una sola la maggioranza risultò comunista, e questa sezione mancava di un locale proprio. Dopo incessanti ed assidue ricerche, fu necessario prendere un locale di proprietà comunale, ma in condizioni tali che è occorsa una somma non indifferente di denaro per rendere il locale frequentabile.

«Appena la sezione è stata in grado di funzionare, si è notato un risveglio di promettenti energie; le adunate numerosissime lo attestano. Attualmente le sezioni di Livorno sono tre (Centro, Ardenza e Salviano). In questi giorni sarà costituita la sezione di Montenero, così di fronte alle sei sezioni socialiste le nostre quattro tra non molto compiranno un’opera di assorbimento di elementi operai socialisti unitari, che con tutta evidenza sentono il disagio delle continue resipiscenze dei cosiddetti uomini autorevoli del loro partito. «Con il Congresso provinciale tenuto nella sezione di Livorno si è stabilito un ordine di lavoro da svolgere all’Elba, lavoro che darà indubbiamente ben presto i suoi frutti. Vi è già all’Elba la sezione di Rio Marina. In questi giorni saranno costituite altre tre sezioni.

«Nei vari stabilimenti della nostra città i gruppi comunisti, sebbene ancora un poco slegati, funzionano con attività intensa, trovandosi però spesso di contro l’ostilità dei socialisti, che ricorrono spesso a mezzi biasimevoli pur di combattere i comunisti. I piccoli gruppi comunisti del Consiglio comunale e provinciale esplicano la loro attività critica in modo soddisfacente.

«Se si considerano le condizioni ambientali della città c’è da restar soddisfatti del lavoro compiuto dal primo gruppo di comunisti, prevalentemente operai che con relativa cultura e mezzi irrisori hanno saputo in sì poco tempo raggruppare intorno al Partito Comunista forze non indifferenti» (“L’Ordine Nuovo”, 1 maggio).

Ma vediamo cosa scrive Marco Rossi a proposito della organizzazione armata del proletariato labronico: «Secondo il rapporto del 16 luglio 1921, trasmesso dal prefetto al Ministro dell’Interno, erano state formate cinque squadre (...): rispettivamente composte da comunisti (circa 200 aderenti), socialisti (100), anarchici (circa 90), repubblicani (presumibilmente un centinaio), oltre una quinta unitaria, che (con circa 300 elementi) si era assunta l’incarico “di non permettere il passaggio di fascisti da via Garibaldi, dalla via provinciale pisana e adiacenze”».

Si evince chiaramente come l’organizzazione di gran lunga più forte fosse quella costituita dai comunisti, mentre sembrerebbe che di Arditi del Popolo ancora nemmeno se ne parlasse. Invece balza immediatamente agli occhi il fatto che gli anarchici, alla prova dei fatti, non fossero poi quei terribili rivoluzionari che pretendono di essere. Infatti basta sfogliare qualche pagina dello stesso volumetto per leggere che «anche a Livorno l’adesione degli anarchici agli Arditi del Popolo fu sostanzialmente una scelta individuale e slegata anche dall’appartenenza alle diverse tendenze libertarie».

Riguardo agli Arditi del Popolo, sembra si sia trattato di un raggruppamento locale che autonomamente si era attribuito questo nome, infatti al Direttorio nazionale non risultava l’esistenza di una sezione livornese aderente. Inoltre il prefetto, in una “riservata” del 23 agosto presentava questa organizzazione come molto poco irreggimentata.

Ma, a parte tutto ciò, la caratteristica del proletariato labronico fu sempre quella di rispondere violentemente a tutti gli attacchi legali ed illegali della reazione borghese.

Un altro scontro armato si ebbe il 17 maggio, all’indomani delle elezioni. «Un’avventata quanto provocatoria scorribanda fascista in Borgo Cappuccini iniziata (...) tra inni fascisti strappando le bandiere rosse esposte nel quartiere, si concluse malamente per gli squadristi [che] vennero fatti oggetto di alcuni spari e, in Via delle Navi, rimase ucciso Giorgio Moriani, figlio di un generale dell’esercito, e furono feriti altri due squadristi» (M. Rossi).

Naturalmente i fascisti del loro giovane camerata ne fecero un martire, ucciso con un proiettile alla nuca; quindi o sparato da uno di loro oppure raggiunto mentre si dava alla fuga. Ma questo ai fascisti poco interessava, all’eroe venne intitolata la strada dove era stato colpito. A questo proposito interessante è un ricordo del capo rabbino Elio Toaff: «Durante tutto il periodo fascista c’era una strada dove i fascisti non passavano, non potevano passare: era via delle Navi, che poi loro chiamarono Giorgio Moriani, martire fascista. Il marmo con questo nome della strada non ha mai resistito più di due giorni perché lo tiravano giù» (“Obiettivo Livorno. Una città fra due censimenti”, novembre 1989).

Dal 17 al 19 luglio si ebbero altri gravi scontri tra proletari e fascisti coadiuvati dalle forze dell’ordine. Provocazioni si erano avute da ambo le parti fino a che la notte tra il 17 ed il 18 i fascisti assaltarono e devastarono il circolo anarchico di Studi Sociali. Immediata fu la proclamazione dello sciopero generale e fin dal mattino si ebbero vari scontri con fascisti e guardia regia. Il giorno seguente lo scontro armato aumentò di intensità; a sostegno dei fascisti si schierarono carabinieri, guardia regia e bersaglieri che, fecero uso persino della mitragliatrice, mentre a rinforzo arrivavano fascisti da Firenze e da varie altre città. Furono giorni di vera guerra civile.

Non potendo avere ragione di una classe operaia determinata a non farsi sottomettere si tentò il ricorso alla “pacificazione degli animi”. Leggendo il quotidiano socialista apprendiamo che il questore di Livorno aveva convocato i rappresentanti del Fascio e degli Arditi del Popolo ai quali si aggiunse l’onorevole Capocchi (socialista e sindacalista Fiom) i quali firmarono un accordo di tregua. «L’on. Capocchi promise inoltre di portare una parola di pace tra gli organizzati che lo amano vivamente. [... Da parte sua] il Direttorio degli Arditi del Popolo dichiara che non saranno i primi a far partire la provocazione, ma in pari tempo non saranno passivi alla minima violenza a danno del proletariato» (“Avanti!”, edizione romana, 20 luglio).

Dunque, gli Arditi del Popolo, non solo accolgono l’invito a trattare e firmano la tregua con i fascisti, perché, secondo la loro concezione, conforme a quella degli anarchici, sarebbe stata possibile una convivenza democratica e pacifica tra tutti quanti gli orientamenti politici. Ma dichiarano pure che “non saranno i primi ad attaccare”. Bella strategia militare di questi presunti rivoluzionari! Non essere i primi ad attaccare significa lasciare al nemico l’iniziativa, dove e quando vuole. Ma, erano veramente nemici?

Il giorno successivo sullo stesso giornale si legge: «Stamane [19 luglio] i fascisti fiorentini sono partiti e la calma è tornata. Domani gli operai torneranno al lavoro».

Giusto, veniamo ora alla questione lavoro. Il giorno 20 i bonzi sindacali non si limitarono a decretare la fine dello sciopero generale e la ripresa del lavoro. «Negli uffici dell’Unione Industriali Livornese, si tenne un incontro tra i rappresentanti degli Industriali (...) rappresentanti degli operai (...) e rappresentanti politici della città (...) Ne uscì un comunicato congiunto. Riferendosi alla lettera dell’Unione Industriali del 18 luglio, nella quale si annunciava che essa “avrebbe proceduto all’attuazione della serrata degli stabilimenti qualora si fossero verificate ingiustificate sospensioni del lavoro” (...) L’on. Ciano [Costanzo Ciano] invitava gli industriali a voler sospendere l’applicazione di tale misura onde collaborare alla definitiva pacificazione della città. Gli industriali accettavano l’invito di Ciano ma avvertivano “esplicitamente e formalmente” gli operai che [in futuro] avrebbero immediatamente messo in atto la serrata se “si fossero verificati scioperi, fermate, abbandoni di lavoro ingiustificati”» (T. Abse).

Naturalmente sarebbero stati loro, gli industriali, a stabilire se uno sciopero fosse o non fosse “giustificato”. Gli industriali facevano il loro interesse di classe e dai nemici ci si deve aspettare la guerra, su tutti i fronti. Sono invece i falsi amici gli infami. Quale fu la conclusione dell’incontro? La conclusione fu che «le rappresentanze operaie prendono atto delle dichiarazioni degli industriali e riconoscono la buona volontà da essi dimostrata per la pacificazione della città impegnandosi per la parte loro per la regolare ripresa del lavoro domani mattina» (Citazione ripresa da T. Abse).

Per sapere cosa facessero i sindacati a difesa degli operai livornesi basta continuare la lettura del testo: «Quel giorno Sereni, il dirigente sindacale socialista, e Moretti, il suo omologo anarco-sindacalista, spedirono al nuovo presidente del consiglio Ivanoe Bonomi, un telegramma per protestare “contro invasione armata mezzo camion blindati avvenuta ieri opera fascisti seminando ovunque terrore odio”, e chiedendo “quali misure verranno prese contro le autorità che ne permisero partenza, transito e permanenza”». I bonzi chiedevano al Governo quali misure avrebbe preso? Perché non era sotto gli occhi di tutti la posizione del governo e dei suoi organi centrali e periferici?

Infatti la pace sociale durò meno di 24 ore: il giorno 21 veniva arrestato il capo degli Arditi del Popolo, Quaglierini, con l’accusa di avere ucciso un brigadiere dei carabinieri. Nel suo rapporto il prefetto scriveva che, a causa del fermento causato da questo arresto, «domani si farà sciopero generale con tutte le gravi conseguenze di disordini e nuovi conflitti. Intanto saputosi dell’arresto. Il fascio da parte sua minaccia intervenire e fare intervenire i fascisti di fuori, specie di Firenze, qualora il Quaglierini fosse messo in libertà, oppure proletariato si abbandoni sciopero» (Citazione ripresa da T. Abse).

Lo sciopero ci fu, e fu seguito dalla serrata padronale.

L’11 agosto scoppiarono nuovi disordini e conflitti armati che portarono al ferimento del segretario del fascio e alla morte di due operai anarchici. Livorno fu teatro di continui scontri, più volte i fascisti di varie città toscane tentarono di occuparla e assoggettarla, ma vennero regolarmente respinti. Ricorda Dino Frangioni: «Troppo lunga sarebbe la cronaca di tutte le lotte, gli eroismi, le vittorie di quel cruciale 1921: 16 marzo, 15 maggio, 24 luglio, con fierezza, come le battaglie durante le elezioni politiche del maggio e cento e cento altri episodi in cui molti compagni lasciarono la vita costringendo il fascismo a segnare il passo. Il 16 agosto Livorno è in allarme: folti gruppi di fascisti fiorentini sono giunti in città a bordo di numerosi camion per “liquidare i rossi” (...) Ma ecco sopraggiungere un gruppo di operai portuali; i fascisti sono caricati e ne nasce una rissa furibonda; i briganti neri stanno ricevendo quel che non avrebbero voluto, ma ecco accorrere in loro difesa, della vicina caserma, le guardie regie le quali non esitano a sparare».

Quindi, visto che troppo lunga sarebbe una dettagliata cronaca di tutti i fatti di sangue occorsi in questa città ribelle, salteremo al primo maggio 1922.

Ha scritto Marco Rossi: «Lo svolgimento del Primo Maggio 1922 fu il prologo di quanto sarebbe avvenuto nell’agosto successivo. Le manifestazioni dei lavoratori furono proibite, mentre il centro della città e le sedi politiche vennero presidiate dalle forze dell’ordine e militari che, in piazza Vittorio Emanuele, posizionarono quattro mitragliatrici su camion».

Il nostro organo di partito riportava questa relazione sulla manifestazione: «Il comizio indetto dall’Alleanza del Lavoro con l’adesione dei comunisti, riuscì imponentissimo. Il Teatro San Marco era gremito di lavoratori. L’accesso al teatro era sorvegliato da enorme apparato di forza pubblica; tutti i lavoratori vennero accuratamente perquisiti» ("Il Comunista", 4 maggio).

Gli interventi seguirono questo ordine: per primo prese la parola il presidente dell’Alleanza del Lavoro livornese, seguirono una giovane socialista, un repubblicano e un anarchico. «Tutti, unanimemente, affermarono che non è questa l’ora delle parole vane e della vuota demagogia. Ma con pari unanimità, essi si astennero dall’accennare, sia pur di sfuggita, a tutti gli argomenti concreti che interessano oggi così da vicino la popolazione lavoratrice. Riscossero tutti calorosissimi applausi quando accennarono con voce commossa alle ragioni ideali per cui l’unità proletaria è oggi una necessità».

Per ultimo il nostro compagno Ugo Arcuno iniziò il suo intervento prendendo spunto dall’affermazione fatta da tutti coloro che lo avevano preceduto, ossia che era giunta l’ora di mettere da parte la retorica e la demagogia e di affrontare i veri problemi del proletariato e passò ad esporre l’atteggiamento dei comunisti sulla Alleanza del Lavoro, alla quale aderivano senza riserva alcuna, ma senza desistere dalla loro tenace e continua polemica contro i suoi dirigenti socialdemocratici. Passò poi a parlare della Internazionale di Amsterdam accennando, tra l’altro, al guerrafondaismo del signor Albert Thomas, ex ministro francese delle munizioni e ora tutore dell’Internazionale sindacale gialla. Altri argomenti tentò di trattare il nostro compagno, quali la Conferenza di Genova, la conferenza delle tre internazionali di Berlino, etc. Dovette però più volte interrompersi a causa di gravi incidenti e tumulti causati soprattutto da anarchici e repubblicani che scalmanati non cessavano di urlare frasi del tipo: «Oggi è il primo maggio! Parlaci del primo maggio, non è questa la sede per fare propaganda di partito!!».

Nessuna protesta fu però rivolta verso il sindaco di Livorno, Prof. Mondolfo, quando, presa la parola a chiusura del comizio «pronunciò poche frasi evangeliche, circa la pacificazione degli animi... nei rapporti della lotta contro la reazione».

Comunque, nel dopocena, il compagno Arcuno, presso la sezione del partito comunista e alla presenza di alcune centinaia di lavoratori, espose dettagliatamente la posizione del partito nei confronti dell’Alleanza del Lavoro.

L’“Avanti!” edizione romana del 3 maggio, in un brevissimo trafiletto scrive che «nel pomeriggio una squadra di fascisti, capitanati dal segretario Vaccari, percorse i quartieri popolari col proposito evidente ed espresso di festeggiare un Primo Maggio di sangue. Sono stati sparati molti colpi di rivoltella». Il quotidiano del PSI, forse per mettere in pratica le indicazioni sulla pacificazione degli animi impartite dal sindaco socialista, evitò di riportare che la polizia aveva arrestato diversi proletari e perquisito la sezione del Partito Comunista.

Nell’estate del 1922 Livorno era ormai una delle pochissime città che manteneva in vita una amministrazione comunale di sinistra, con a sindaco il socialista Mondolfi.

L’adesione allo sciopero generale dell’agosto era stata totale, sia in città sia al porto

Dal primo al cinque agosto da tutti i luoghi della Toscana giunsero a Livorno migliaia di fascisti che a bordo di camion blindati percorrevano i quartieri popolari della città sparando e terrorizzando. Come sempre succedeva, anche in questa occasione le incursioni fasciste avvenivano sotto la protezione delle autoblinde di carabinieri e guardia regia. Malgrado ciò il proletariato labronico, per quanto inferiore in armamenti, affrontò ovunque con coraggio le orde degli aggressori, infliggendo loro non poche perdite. Vennero devastate sedi politiche comuniste e socialiste ed assassinati esponenti politici di spicco.

Il quotidiano socialista riporta la seguente cronaca: «Nella notte è stato invaso il Municipio (...) Alle 10 una fortissima colonna composta di oltre mille fascisti sboccava in Piazza Vittorio. Il marchese Perrone ha intimato a gran voce all’Amministrazione comunale socialista di dimettersi entro le 12 (...) Alle 12 si è svolto nel gabinetto del prefetto un colloquio, in cui il sindaco, professore Mondolfo, e l’assessore Cardan, a nome della Giunta, hanno rassegnato le dimissioni nelle mani del prefetto» (“Avanti!”, 4 agosto). Commentava il nostro giornale: «I socialisti che sedevano al Comune non hanno saputo far di meglio che rassegnare le proprie dimissioni nelle mani del prefetto.

«È noto che il sindaco socialista di Livorno era l’evangelico Prof. Mondolfo, uomo senza dubbio onestissimo, ma con pari certezza convinto, sebbene in buona fede, contro-rivoluzionario. Queste dimissioni che certo in primo tempo non gioveranno al rafforzamento delle posizioni del proletariato livornese, sono uno dei tanti effetti della taumaturgica tattica collaborazionista. I fascisti livornesi, tuttora pochi e disorganizzati non hanno il diritto di affermare che questa è una loro vittoria. Essa è semplicemente la sconfitta della viltà e della inettitudine socialdemocratica (...)

«Le esperienze di questi giorni faranno sì, senza dubbio, che nuove masse proletarie si aggiungano alla minoranza comunista che è stata e resta in prima linea al posto di combattimento, per continuare la lotta con sempre maggior vigore, sul terreno della lotta di classe. Un Comune socialista è caduto. Se cento lavoratori entreranno, anche per questo, nei ranghi comunisti, la caduta del Comune socialista sarà stata assai utile alla classe lavoratrice» (“Il Comunista”, 5 agosto).

E che l’occupazione di Livorno da parte della guardia bianca non potesse venir considerata una vera vittoria del fascismo erano gli stessi fascisti a doverlo ammettere.

«Il marchese Perrone che oggi dirige il grosso delle bande di Toscana ben dice attraverso una intervista sul “Telegrafo” che la vittoria dei suoi briganti nel modo come è avvenuta lo ha lasciato poco soddisfatto e convinto che il silenzio presente preluda ad una reazione a breve scadenza. D’altra parte è ovvio riconoscere che i quartieri popolari hanno sempre risposto agli attacchi fascisti con l’unico mezzo consentito dalla situazione che era insostenibile stante la sfacciata assistenza della forza pubblica alle azioni dei lanzi, ed il colpo di sorpresa adottato dai sovversivi ha dimostrato di essere efficace in quanto le perdite fasciste non sono state indifferenti» (“Il Comunista”, 10 agosto).


Greco Milanese

Sul “Corriere della Sera” del 21 marzo 1921, riferito al giorno precedente, si leggeva: «Verso le 19,30 è apparsa in Corso Buenos Aires e poi in Viale Venezia una vettura pubblica che procedeva al passo, circondata da una quarantina di giovani. Essi intimavano intorno: - Scopritevi! C’è un fascista morto! Giù il cappello!- La folla obbediva reverente e qualche negozio anzi si affrettava a chiudere. Entro la vettura, sorretto da due amici, era il doloroso carico di un giovane esanime, avvolto nel tricolore (...) La salma, trasportata alla sede dei Fasci, è stata adagiata entro gli uffici dell’Avanguardia studentesca, trasformata in camera ardente. Intorno al cadavere, composto tra le bandiere e i fiori, hanno montato la guardia tutta la notte i fascisti».

Era il 20 marzo 1921, domenica, a Milano si erano svolte, separatamente e senza provocare incidenti, manifestazioni commemorative della Comune di Parigi e delle 5 Giornate. Il prefetto Lusignoli, comunque, da solerte ed ottimo tutore dell’ordine pubblico, fin dal mattino aveva ordinato a una compagnia di bersaglieri di circondare la palazzina dell’ex dazio di Porta Venezia che ospitava la sede centrale del Partito Comunista d’Italia. Contemporaneamente un folto gruppo di agenti investigativi e guardie regie procedevano alla perquisizione, all’arresto di tutti coloro che si trovavano all’interno, al sequestro di tutto il materiale indistintamente e all’occupazione militare dei locali. Nel pomeriggio più o meno la stessa sorte era toccata agli uffici del quotidiano “Umanità Nova” e alla sede dell’USI.

Dal “Corriere della Sera” del 21 marzo apprendiamo del sequestro, nella sede comunista, di «tre bombe a mano di vario tipo, un cartoccio di polvere bianca e uno di polvere nera, tre caricatori, dieci rivoltelle di vario calibro, una falce, una baionetta e un tirapugni. I presenti – che furono tutti arrestati – affermano che le armi dovevano servire a respingere un eventuale assalto fascista (...) Analoga perquisizione negli uffici del giornale anarchico “Umanità Nova” e alla sede dell’Unione Sindacale, ma senza risultato. Vennero però tratti in arresto alcuni individui sospetti».

Da ciò gli anarchici imparino che l’essere disarmati non salva dalla galera!

Ma l’episodio di guerra civile che a noi preme ricordare è quello avvenuto, alle porte di Milano, nel piccolo Comune operaio di Greco. Anche qui, da qualche tempo, si era costituito il locale Fascio di combattimento, ma dato che si trattava di una popolazione quasi esclusivamente proletaria, il fascismo non avrebbe avuto possibilità di un qualche sviluppo, a meno che il paese non venisse espugnato con le armi e la sua popolazione sottoposta a un regime di terrore.

Alla solenne cerimonia in ricordo delle 5 Giornate, oltre alle autorità civili e militari, debitamente incolonnati e muniti delle loro bandiere, avevano preso parte i fascisti, gli appartenenti all’Avanguardia studentesca, gli Arditi, i Legionari fiumani, i Nazionalisti, i reduci e i garibaldini. Ed erano intervenuti pure una quarantina di fascisti di Greco. Dopo la commemorazione i fascisti di Milano non se la sentirono di rimandare a casa da soli i loro camerati e ad essi si aggregarono «in una colonna di circa 1.500 [millecinquecento], divisi per scaglioni, con 5 o sei bandiere» (“Corriere della Sera”, 22 marzo).

«Fascisti, arditi e studenti, comandati da ufficiali in divisa – insistiamo soprattutto su quest’ultimo particolare – hanno girato in lungo e in largo, schiamazzando ed ingiuriando tranvieri ed operai e portandosi finalmente in una delle località più popolari e più sovversive di Milano: a Greco Milanese» (“Avanti!”, 22 marzo).

Ma neanche questi andarono da soli, perché ci fu la scorta della scorta. Infatti «la polizia di Milano, non appena ebbe conoscenza di questo numeroso corteo (...) prese tutti i provvedimenti che erano necessari, e fece seguire i dimostranti da auto-blindate e da forze di cavalleria» (Corradini, sottosegretario all’Interno, resoconto parlamentare del 22 marzo 1921).

Dagli atti parlamentari si viene a sapere che si sarebbe trattato di una spedizione punitiva a seguito di una “provocazione” dei proletari del luogo i quali avevano affermato che i fascisti non avrebbero mai osato avvicinarsi a un centro esclusivamente operaio come quello di Greco Milanese.

Secondo una testimonianza riportata dall’“Avanti!” i fascisti che avanzavano emettendo grida ostili al socialismo, alla vista di un grembiule rosso appeso ad asciugare a una finestra al terzo piano di una casa, avrebbero lanciato il grido “A noi!” e «incominciarono a sparare contro le finestre della casa, mentre alcuni di loro (...) sempre sparando salirono fino al terzo piano, abbatterono una porta (...) rompendo vetri e sparando (...) aperta la finestra agitarono un gagliardetto tra le urla e le grida dei fascisti che stavano nella strada» (“Avanti!”). A quel punto il proletariato, armato come poteva rispose, come poté ma non si fece sopraffare. Per la descrizione del conflitto ci baseremo sul resoconto del “Corriere della Sera”, così non si dirà che abbiamo esagerato. «La scena divenne presto tumultuosa e tragica (...) Dagli angoli delle vie, e particolarmente da via Insegnamento nella quale, è la sede di un Circolo comunista, sbucarono individui armati. S’iniziò così uno scambio di colpi d’arma da fuoco: sui fascisti piovevano rivoltellate e si dice anche colpi di moschetto, nonché colpi di sasso anche dalle finestre. Il rumore degli spari fecero accorrere le guardie regie [che] s’addossarono al muro, sparando i moschetti contro la casa d’angolo di via Transiti, finché ottennero di far ritirare i più accaniti, tra i quali si distingueva un giovane anarchico, piantato in mezzo alla via, che sparava ciecamente con la rivoltella, e perfino giovinastri e ragazzi che, accovacciati presso i mucchi della ghiaia, si sollevavano spesso a lanciare sassi. Gli avversari non potevano avvicinarsi; il conflitto, dopo qualche sosta, riprendeva violento, e non si può calcolare quanti colpi siano stati sparati: si dice parecchie centinaia [Turati nel suo intervento alla Camera parlò di «oltre duemila colpi di rivoltella sparati in poco più d’un’ora» - n.d.r.]. La battaglia durò dalle 17,30 alle 18,30. Prima che giungessero due camion di guardie regie (...) Accorse un plotone di guardie regie a cavallo (...) che, con una carica improvvisa, separò i contendenti. Fermatisi poco oltre Loreto gli autocarri, le guardie regie giunsero a passo di corsa, accolte da colpi di rivoltella, ai quali risposero coi moschetti, inseguendo e disperdendo alcuni dei più accaniti nelle ostilità». E così i fascisti vennero salvati da quell’ira proletaria che si stava abbattendo su di loro.

Il bilancio della battaglia fu di due morti (il giovane fascista e una donna trovatasi per caso nel mezzo dello scontro armato) e decine di feriti. Inoltre, riportato l’ordine, carabinieri e guardie regie procedettero all’arresto di circa 200 proletari che si erano macchiati del crimine di essersi difesi.

Alla sera contro il Circolo “Ordine e Libertà”, dove erano radunati un gruppo di fascisti di Greco, venne lanciata una bomba; i fascisti rintracciato il presunto lanciatore dopo averlo malmenato lo consegnarono alla P.S. Si trattava del sindaco comunista di Arena Po, tale Giovanni Furlani. L’“Avanti!” notava però che «il Furlani è mutilato di tutte e due le mani».

Ma, al di là della repressione statale antioperaia, dobbiamo mettere in evidenza la infame attitudine del Partito Socialista tramite il suo portavoce in Parlamento. Filippo Turati, da consumato traditore, nel pieno di una guerra civile dove i proletari erano regolarmente ammazzati, aveva il coraggio di mettere in guardia la borghesia. «Il fascismo non è un fenomeno di antisocialismo a profitto della borghesia; esso è invece un fenomeno di antiborghesia. Ormai di fronte a questi fatti di vero brigantaggio, si tratta di sapere se si vuol condurre il Paese alla guerra civile: questo è un problema che s’impone alla responsabilità, non tanto del Governo, quanto del paese e della sua rappresentanza». E concludeva: «Si tratta di sapere, o signori, se siamo o no, se le nostre azioni ci fanno o no complici dell’assassinio della Patria Italiana» (Atti parlamentari, 22 marzo).

Il discorso di Turati ha una sua logica: se il Partito Socialista è contro la guerra civile, cioè a fianco e, di fatto, a difesa della borghesia, chi combatte il socialismo combatte la borghesia. È un dato di fatto che fascismo e socialismo avevano e combattevano lo stesso comune nemico: il comunismo e la rivoluzione. Se poi anche il Partito Socialista, le sue organizzazioni e i suoi esponenti, anche di spicco, vennero travolti dalla reazione, dipese solo dal fatto che questa è la sorte che la storia riserva ai servi sciocchi del capitale.

L’esempio di Greco Milanese dimostra da solo la determinazione del proletariato che, anche se naturalmente svantaggiato di fronte a un nemico appoggiato dal potere statale, era sempre pronto a rintuzzare le bravate fasciste.

Rimanendo in ambito milanese vogliamo citare un passaggio di un rapporto di polizia del 24 novembre 1931 con oggetto: “Movimento comunista di sinistra nella regione lionese”. Si tratta di una relazione molto interessante che documenta l’attività di lotta e di proselitismo fatta dai compagni della nostra “Frazione all’estero”. L’estensore, un commissario di polizia, non nasconde la sua ammirazione per i nostri compagni che «riescono a far sempre seguaci [... rafforzando] la loro influenza in Francia». Poi, facendo un confronto con i responsabili locali del PCI, dice: «La mancanza di buoni elementi nell’organizzazione comunista ufficiale e la pigrizia di quelli esistenti (...) ha fatto sì che (...) i loro aderenti passano sotto l’influenza dei “prometeisti”».

L’estensore passa poi a descrivere le caratteristiche e i compiti (presenti e passati) di alcuni compagni. Tra gli altri cita un compagno «conosciuto per “Bruno il Rosso”»: «A Milano abitava a fianco dell’abitazione dell’ex deputato comunista Luigi Repossi che lo iniziò al movimento dove in seguito emerse. Nel 1922 gli fu affidata la direzione delle squadre di difesa e con esse partecipò alla resistenza di quel rione di Milano – che mi pare – nel 1923 tenne in iscacco per tre giorni le forze fasciste e di polizia (...) Riparato all’estero (...) abbandonò il partito per la frazione».


A Torre di Pordenone

Sull’“Ordine Nuovo del 14 maggio 1921 leggiamo: «Pordenone, cittadina industriale del Friuli, aveva visto svilupparsi le organizzazioni politiche ed economiche proletarie in modo sorprendente. Nelle ultime elezioni amministrative il comune passava in mano ai socialisti. Dopo Livorno in seno al Consiglio si costituiva una vivace e combattiva minoranza comunista. Le sezioni comuniste di Pordenone e di Torre erano tra le più attive del Friuli. A Torre s’era pure costituito un gruppo femminile. Verso la fine di aprile la questura ordinava una perquisizione a Torre di Pordenone, ma nonostante il forte apparato di forze e le minuziose ricerche, nulla fu possibile scoprire».

Infatti uno studente fascista, in una sua lettera inviata ad un giornale comunista, aveva scritto: «Vi facciamo disarmare dalla polizia prima di venirvi incontro (...) Con noi sono gli ufficiali dell’esercito che ci forniscono di armi e munizioni» (A. Tasca, “Nascita e avvento del fascismo”).

Continua l’“Ordine Nuovo”: «In occasione del primo maggio a Pordenone sono stati tenuti imponenti comizi. Tanta attività proletaria aveva suscitato nei fascisti il desiderio di dare al movimento di Pordenone un colpo forte. Infatti cominciarono verso i primi di maggio a raggrupparsi nei dintorni fascisti forestieri. A Spilimbergo una quindicina di bolognesi avevano cominciato la loro opera di terrore. In occasione della inaugurazione del gagliardetto del Fascio udinese non mancarono di fare qualche provocazione, ma ebbero buone lezioni. Gli operai di Torre obbligarono i fascisti a restituire una bandiera rossa asportata da Spilimbergo e quelli di Borgo Meduna somministravano loro anche una dose di bastonate».

Ma la violenza reazionaria borghese sul proletariato friulano non aveva atteso l’organizzazione e il dispiegamento delle squadre fasciste; già negli anni precedenti, ad opera di esercito e forze dell’ordine, si era più volte sparato ed ucciso proletari manifestanti.

Pordenone rappresentava il maggiore centro industriale del Friuli con conseguente grande consistenza numerica proletaria, sia in città sia nei paesi limitrofi. Oltre alle forti organizzazioni di classe “rosse”, sviluppate erano anche quelle “bianche” che, anche se di ispirazione cattolica, non erano meno agguerrite. Tanto è vero che il segretario del partito fascista di Udine, a fine aprile, aveva dichiarato di voler «combattere implacabilmente il bolscevismo rosso e quello bianco, forse questo più temibile del primo».

Il 15 maggio si sarebbero tenute le elezioni politiche, ed anche qui, come nel resto d’Italia, la campagna elettorale fu caratterizzata da un crescendo di provocazioni, attentati, incursioni ed assassinii fascisti compiuti ai danni di piccole e medie borgate. Ma lo scopo a cui tendevano era la conquista di Pordenone, a ragione considerata “la roccaforte del bolscevismo friulano”.

Il giorno 10 gruppi di studenti fascisti di Udine si recavano di buon mattino a Pordenone attuando azioni provocatorie tali da giustificare il successivo arrivo di soccorsi in loro aiuto. Saputa la notizia, gli operai del cotonificio Amman abbandonavano il lavoro per predisporsi alla difesa. Altrettanto fecero gli edili, richiamati dal prolungato suono delle sirene. Nel frattempo arrivava in città il primo di due camion partiti da Udine, con a bordo i fascisti che sparavano all’impazzata; a questi gli operai risposero con una fitta sassaiola. Di fronte alla pronta reazione proletaria i fascisti pensarono bene di uscire immediatamente dalla città per evitare il peggio, mentre il secondo camion evitò prudentemente di entrarci. Nel corso della sparatoria i fascisti, come al solito, avevano colpito e freddato un loro compagno di spedizione. Naturalmente la morte del giovane fascista venne attribuita ad un agguato comunista. Un fascista ammazzato, da qualunque parte fosse giunta la pallottola, faceva comunque comodo, rappresentava un comodo alibi per dare seguito ad una vasta opera di terrore contro la “barbarie comunista”.

Nel pomeriggio i proletari che si erano concentrati nel centro della città furono fatti segno di colpi di arma da fuoco sparati da alcuni fascisti che si trovavano all’interno dell’Albergo Tre Corone. «Gli operai rispondevano anche qui con una fitta sassaiola, aiutati dalle donne che trasportavano i sassi. Durante la lotta una bomba scoppiò nell’albergo Tre Corone e un’altra davanti al Caffè Nuovo. Per tutta la serata la città rimase in possesso degli operai, malgrado le esortazioni del sindaco socialista che voleva che gli operai rientrassero nelle loro abitazioni» (“Ordine Nuovo”).

Ad integrazione della cronaca riportata dall’“Ordine Nuovo” possiamo aggiungere che i fascisti erano usciti dall’albergo in precipitosa fuga per rifugiarsi all’interno della caserma dei carabinieri. Intervennero quindi “a riportare l’ordine” reparti di carabinieri a cavallo e militari del IV Genova Cavalleria, ma proletariato e popolazione seppero resistere alle cariche, mantenendosi padroni della piazza. Si seppe allora che ingenti quantitativi di squadristi si stavano concentrando a Sacile per sferrare il loro attacco la mattina successiva.

«Parteciparono all’azione le squadre di Vittorio Veneto (...) quelle del Friuli, di Codroipo, Venezia, Udine e Conegliano (...) gli squadristi triestini» (Chiurco, “Storia della rivoluzione fascista”).

Allo scopo di “riportare la calma” il sindaco socialista si rivolse alle autorità di pubblica sicurezza chiedendo la difesa della città dalla incursione fascista in via di attuazione. Non c’è bisogno di dire che ebbe piena assicurazione che quella stessa cavalleria che aveva appena caricato la folla proletaria, sarebbe stata disposta a bloccare le vie d’accesso della città. Questo fece sì che buona parte dei proletari che erano scesi in piazza se ne tornassero alle loro case, cosa che non fecero né i comunisti né quegli operai più coscienti che, pur non aderendovi, seguivano le indicazioni del nostro Partito. Questi ripiegarono sul quartiere operaio e comunista di Torre predisponendosi alla difesa militare.

Nel frattempo le forze dell’ordine e l’esercito dislocati nelle vie d’accesso a Pordenone, non solo non impedirono l’avanzata dei fascisti, ma naturalmente fecero con essi causa comune. Il loro primo obiettivo fu la devastazione del palazzo municipale, poi passarono alla bastonatura indiscriminata di quanti fossero riconosciuti come operai, quindi all’incendio del negozio di un noto socialista e alla devastazione della Camera del Lavoro. La stessa sorte toccò agli studi legali dell’avvocato Guido Rosso, il sindaco socialista che aveva fatto opera di “pacificazione” e a quello di Enea Ellero, padre Giuseppe, candidato socialista per la Camera dei deputati. (Non dimentichiamoci questo nome: Giuseppe Ellero!).

Ad Udine, a celebrazione dell’impresa, fu affisso un manifesto già prestampato: «Pordenone la rossa, la roccaforte del bolscevismo friulano è stata espugnata questa notte e si trova ora completamente in nostra mano. Sul Municipio sventola il tricolore. I capi partito, che ieri sera aizzavano la massa contro i fascisti sono fuggiti e le loro case signorili sono state devastate».

Pordenone non venne “espugnata”, fu occupata. Non ci furono scontri, il sindaco socialista aveva fatto affidamento sulla protezione delle forze dell’ordine; era Torre che ora i fascisti si disponevano ad espugnare. Ma a Torre, quella notte il proletariato non aveva dormito, si era preparato alla difesa. Vennero scavati fossati, innalzate barricate, sbarrate le vie d’accesso con reticolati e cavalli di frisia.

A dare man forte erano giunti operai e lavoratori delle località limitrofe, compresi i contadini “bianchi”, armati delle loro doppiette. Ricordiamoci questo: i contadini “bianchi” più di una volta si schierarono, armi alla mano, dalla parte dei “rossi” per opporsi alle bande fasciste. Quelle armi che nella meticolosa perquisizione dei carabinieri non erano state trovate, ora venivano fuori. «Bombe rudimentali vennero costruite in fretta (...) Da parte di alcuni alpini dell’VIII reggimento, che poi, assieme al IV Genova Cavalleria, sarebbe stato impiegato nell’attività di repressione dei moti, vennero fornite armi da guerra (...) Altre armi furono procurate da operai occupati nel deposito militare della Comina (...) Mitraglie vennero collocate in punti dominati: Una sul campanile (...) un’altra sul “Palazzo” e una terza sulla “Specola” della cooperativa» (Teresina Degan, “Barricate antifasciste Torre di Pordenone”).

Da l’“Ordine Nuovo”: «Nella lotta febbrile uomini, donne, fanciulli, vecchi gareggiavano a chi facesse di più. Per tutto il giorno è continuato l’assalto dei fascisti, senza risultato. Verso sera nuclei di cavalleria, alpini e carabinieri si avvicinarono a Torre».

Un quartiere cittadino non avrebbe certamente potuto tener testa all’esercito nazionale e chi coordina e dirige la difesa ha su di sé anche la responsabilità della vita dei suoi uomini e della popolazione tutta. Furono queste considerazioni a spingere un nostro compagno a cercare una via d’uscita la meno cruenta possibile.

«Il compagno Sartor Pietro, maestro di Torre, usciva allora da una trincea circondato da un gruppo di giovani donne, e si recava a parlamentare con il comando della truppa, ed offriva la resa senza combattimento, se in Torre non fossero entrati i fascisti. Approfittando della tregua gli operai provvidero a mettere al sicuro i mezzi di difesa. Alle 22 la truppa entrava in Torre, gloriosa fortezza proletaria.

«Furono subito eseguite perquisizioni con esito quasi negativo. Naturalmente numerosi compagni ed operai vennero arrestati e tra questi il giovane maestro Sartor, che condotto a Pordenone tra i carabinieri, venne anche bastonato dai fascisti e dai militi della benemerita che dovevano scortarlo».

Il piccolo paese di Torre non avrebbe potuto ingaggiare battaglia contro l’esercito nazionale. Naturalmente: preceduti e seguiti da camion di carabinieri furono fatti entrare i fascisti.

I proletari non subirono inermi le violenze degli squadristi ma continuarono a rispondere colpo su colpo. Il parroco, don Lozer, nei suoi “Ricordi di un prete” scriveva: «Torre sembrava un campo di battaglia: Avendo gli squadristi sparato contro qualche casa e minacciato persone, provocarono gli antifascisti, si sparava dietro il muro alto di fronte alla canonica, si sparava dal ponte del canale, si sparavano colpi dalla tintoria».

Nei giorni successivi nuovi nuclei di fascisti arrivarono da Bologna, Ferrara, Padova. Venezia, Trieste che, armati di moschetti militari, percorrevano le vie cittadine. Perquisendo, bastonando, arrestando.

I circa 45 arrestati furono accusati di aver formato «un corpo armato per suscitare la guerra civile (...) di aver fatto parte del corpo armato sopradescritto (...) di avere fra loro, mediante barricate, transennamenti, armamento, spari d’arma da fuoco contro le persone (...) commesso un fatto diretto a suscitare la guerra civile», e di altre simili atrocità contro la civile convivenza.

Da parte sua il proletariato scese compatto in sciopero per 10 giorni chiedendo ed ottenendo la quasi totale liberazione dei detenuti. Nemmeno un fascista venne indagato per avere portato distruzione e morte ai danni del proletariato e delle sue istituzioni.

Pochissimi giorni dopo i sanguinosi scontri, il 15 maggio, si tennero le elezioni politiche: le prime dopo la scissione di Livorno. Ecco come i due partiti che ne rivendicavano la guida chiamarono il proletariato alle urne.

- L’“Avanti!”, organo del Partito Socialista, titolava: «Il proletariato alle urne, contro la violenza, per il diritto umano», «Sopra il turbine dell’odio borghese, il Socialismo elevi l’Idea!», «I proletari affrontino sereni l’ira nemica», «Operai, contadini, impiegati! La scheda socialista è la vostra arma». Ed altre amenità simili che evitiamo di riportare.

- “Il Comunista”, organo centrale del PCd’I, molto più semplicemente affermava: «Votando per il Partito Comunista il proletariato afferma che la sua finale vittoria di classe non si otterrà con la scheda, ma nelle grandi battaglie dell’insurrezione».

Nella illusione di poter inviare un difensore della classe operaia nel parlamento borghese i lavoratori di Pordenone elessero il loro primo deputato socialista. Altra dimostrazione, questa, che il proletariato, per quanto combattivo e pronto a prendere le armi per difendersi e per offendere, non è di per sé rivoluzionario; diviene rivoluzionario solo quando è diretto dal partito della rivoluzione, il partito comunista.

Fu l’avvocato Giuseppe Ellero il deputato socialista eletto. Quel proletariato estremamente combattivo, ma non rivoluzionario, riponeva ancora fiducia nel Partito Socialista, partito del disarmo, e nei suoi rappresentanti. Ingenuamente confidava che l’avvocato Ellero, avendo pure egli subìto la violenza fascista, potesse rappresentare un valido aiuto alla causa proletaria.

Infatti il neo deputato non mancò di assurgere in men che non si dica agli onori della cronaca; assieme ad altri suoi colleghi socialisti si distinse per avere immediatamente preso contatto con i fascisti proponendo l’infame “patto di pacificazione”. Inoltre svolse anche opera di spia quando, a seguito dell’uccisione di uno squadrista, dava ai fascisti precise informazioni sull’autore dell’omicidio: un operaio comunista.

I fatti di Pordenone e di Torre in particolare non interessarono molto il Partito Socialista, tutto rivolto alla campagna elettorale con gli slogan che abbiamo appena ricordato. Sfogliando l’“Avanti!” di quei giorni troviamo che Pordenone fu ricordato di sfuggita solo in due occasioni.

Il 13 maggio, per dire che, a seguito di una spedizione fascista, «essendosi allontanati da Pordenone gli amministratori socialisti, si prevede imminente la nomina di un commissario prefettizio per la amministrazione del comune». Un bell’esempio di coraggio! Neanche una parola sulla virile risposta proletaria, nemmeno due giorni dopo nel trafiletto dal titolo “Il terrore a Torre di Pordenone”.

Ma, se non parlò della lotta ingaggiata dai lavoratori, il giornale socialista si rammaricò di un’altra cosa molto triste per quel partito: «L’astensione dalle urne è inevitabile, poiché gli oratori ed organizzatori sono arrestati, le schede ed altre cose bruciate, la popolazione terribilmente minacciata». Sempre il giorno 15 maggio, in polemica con il “Corriere della Sera”, l’“Avanti!” scriveva: «È falso, falsissimo, che l’Avanti! Non abbia fatto parola delle gesta dei comunisti a Pordenone; è falso che l’Avanti! non dia che la cronaca dei delitti che compiono i fascisti».

Ancora una volta il Partito Socialista dichiarava apertamente di volersi tenere estraneo a ogni tipo di violenza, come se nel pieno di guerra di classe si potesse restare arbitri equidistanti, senza parteggiare né per l’una né per l’altra delle classi in lotta, denunciando sia i crimini commessi dai fascisti sia quelli dei comunisti.

Da parte nostra non possiamo certamente chiudere la rievocazione delle giornate di Pordenone senza riportare ampiamente quanto venne scritto, riferito all’uso della violenza, dall’organo centrale del Partito Comunista, “Il Comunista” del 19 maggio. L’articolo, se prende spunto dai fatti accaduti in quei giorni a Torre, chiarisce in maniera magistrale l’atteggiamento del comunismo rivoluzionario nei confronti della violenza: di tutta la violenza, quella rivoluzionaria come quella della reazione.


Sostanza e onere della guerra civile

«È vano discutere. Chi fu il primo a lanciar la pietra? A chi risalgono le responsabilità? Tali domande noi non le poniamo a simiglianza di coloro che giocano sugli episodi la loro usurpata fama di uomini politici (...)  Tanto noi quanto i nostri avversari non siamo né provocatori né provocati. La lotta che noi combattiamo è generata da cause che sfuggono alla volontà degli individui ma che questi debbono saper interpretare per trarne le conclusioni logiche ed inevitabili (...)

«Le condizioni svantaggiose nelle quali lotta la classe lavoratrice non può essere una diminuzione di merito per le facili vittorie dell’avversario. Appunto perché la lotta di classe non è un torneo di lottatori che si cimentino per la gioia di un premio volgare; ed il più forte, pur sapendo di esserlo ha il dovere di esercitare la sua forza per tentare di uccidere l’avversario più debole. Il debole di oggi può essere il più forte domani. La preoccupazione di vincere definitivamente domina i combattenti delle due schiere; e l’insidia e la frode si intrecciano alla leale competizione per fiaccare la potenza del nemico e sgominarlo.

«Se pure il proletariato italiano soffre oggi una provocazione su vasta scala, organizzata nei più piccoli particolari dallo Stato centrale, la risposta che egli dà o darà domani non potrà commisurarsi alla entità del danno oggi patito, ma andrà oltre la valutazione di una misura assai arbitraria di reazione e di sforzo (...)

«Ci si lasci dire che i comunisti di Torre di Pordenone hanno compiuto il loro dovere. Hanno resistito come potevano. Per ora non avremmo potuto chiedere di più alla loro fedeltà. Chi fu il primo? Come si svolsero i fatti? (...) Ciò che conta è che i comunisti del piccolo paese friulano hanno voluto e saputo combattere. Si potrebbero fare recriminazioni alla loro tattica, ma noi non le faremo. (...) Cosa vale un errore di metodo nello svolgimento di un fatto che ha un significato più ampio, che è un esempio di vasta proporzione? Il metodo, la tattica migliorano con l’esperienza.

«Contro i comunisti di Torre di Pordenone, come contro i comunisti d’Italia, le truppe erano seguite dai corpi ausiliari, dai volontari bianchi [in questo caso “bianchi” sta per fascisti - n.d.r.], dalle formazioni che domani entreranno negli effettivi dell’esercito bianco (...) La borghesia ha vinto nella battaglia di Torre di Pordenone, in cui tre colonne di cavalieri e di alpini attaccarono la piccola fortezza rossa.

«Ma la borghesia non ha sempre vinto fino ad ora? E non vincerà ancora molte volte? Bisogna mettersi in condizioni di indebolirla, organizzando le masse e dando ad esse una disciplina militare. Se domani, come è inevitabile, le forze rivoluzionarie dovessero avere il sopravvento sulla truppa della reazione, la borghesia chiamerà la nazione alle lotte civili, come oggi fa il Partito Socialista.

«Ma noi non abbiamo firmato alcun patto né per oggi né per l’avvenire, ed abbiamo libertà d’azione per oggi e per domani.

«L’episodio di guerra civile svoltosi nel Friuli vuole essere ancora un insegnamento. Che i compagni vi meditino e si preparino. In loro nome noi possiamo inviare ai comunisti di Pordenone il saluto solidale di tutti i compagni italiani».

(continua al prossimo numero)









Il marxismo e la questione militare
(Indice del lavoro)

Parte quinta
Le guerre rivoluzionarie del proletariato

(continua dal numero scorso)


La guerra civile in Russia


Capitoli esposti alle riunioni generali del gennaio e maggio 2022


Dopo Brest-Litovsk

L’accettazione del trattato di pace fu un faticoso punto di passaggio fondamentale, forse il più vitale, del cammino che conduceva dalla guerra imperialista alla guerra civile in ogni paese, come Lenin aveva dichiarato nel 1914.

Nei precedenti rapporti abbiamo esposto scritti di Lenin che demoliscono la tesi della sinistra del Partito che invocava la guerra santa ai tedeschi. L’accettazione della pace a ogni costo con l’imperialismo germanico non era di rinuncia alla rivoluzione internazionale e non contraddiceva il principio della guerra rivoluzionaria. La guerra delle classi non ha pacifismi, non ha coesistenze di eserciti in armi e tanto meno di Stati politici nazionali.

Sottostare alla pace di Brest-Litovsk mirava contemporaneamente a promuovere la rivoluzione mondiale e alla sopravvivenza della repubblica dei Soviet, poiché era a tutti chiaro che solo la presa del potere in altri paesi fosse la garanzia anche della sicurezza della dittatura del proletariato in Russia. Questi due aspetti della politica estera del Partito bolscevico furono semplicemente strumenti diversi di quell’unico coerente obbiettivo.

Nell’opuscolo “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky”, dell’ottobre-novembre 1918, implacabile attacco allo scritto di Kautsky “La dittatura del proletariato”, Lenin precisa: «Per definire il carattere di una guerra (è essa reazionaria o rivoluzionaria?) non bisogna accertare chi abbia attaccato o in quale paese si trovi il “nemico”, ma bisogna stabilire quale classe conduca la guerra, di quale politica sia la continuazione di questa guerra. Se la guerra è una guerra reazionaria imperialistica, condotta cioè da due raggruppamenti mondiali della borghesia imperialistica, aggressiva, di rapina, reazionaria, ogni borghesia (anche se di un piccolo paese) diventa complice della rapina, e il mio dovere, il dovere di un rappresentante del proletariato rivoluzionario, è di preparare la rivoluzione proletaria mondiale, come unico mezzo di salvezza dagli orrori della carneficina mondiale. Non devo ragionare dall’angolo visivo del “mio” paese (poiché questo è il ragionamento di un misero cretino piccolo borghese nazionalista, che non sa di essere una marionetta nelle mani della borghesia imperialistica), ma dall’angolo visivo del mio contributo alla preparazione, alla propaganda, all’accelerazione della rivoluzione proletaria mondiale» (Lenin, O.C. Vol. XXVIII, pag. 291).

I confini russi dopo Brest-Litovsk

Pesanti e umilianti furono le condizioni imposte dalla Germania e dai suoi alleati alla Russia sovietica nel trattato firmato il 3 marzo 1918: cedere la Polonia Orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina e la Transcaucasia, quasi un quarto della sua superficie, con circa 56 milioni di abitanti, il 32% della popolazione. Ad eccezione dell’Ucraina, il territorio più vasto e culla dell’impero russo, gli altri territori erano abitati da popolazioni non russe, conquistati dallo zarismo in varie epoche precedenti. La Turchia impose all’ultimo momento alcune richieste territoriali nel Caucaso: i distretti strategici di Kars, Batum e Ardahan.

In termini produttivi significava un terzo del raccolto, l’80% delle fabbriche di zucchero, del 73% della produzione di ferro, il 75% della produzione di carbone e di 9.000 imprese industriali su un totale di 16.000 e un terzo delle strade ferrate, il tutto rappresentava il 27% del reddito del Paese.

Le clausole del trattato imponevano la smobilitazione dell’esercito, il ritiro dall’Ucraina e dalla Finlandia e la rinuncia per i bolscevichi alla propaganda internazionale, in particolare in Germania e Austria-Ungheria, volta ad ottenere il sostegno alla rivoluzione russa.

In seguito ai vari decreti del governo sovietico sul non riconoscimento del debito estero delle obbligazioni zariste, per la nazionalizzazione delle proprietà dei cittadini stranieri e la confisca delle attività estere, la Germania impose alla Russia una clausola addizionale, firmata il 27 agosto, per cui la Russia avrebbe corrisposto a compensazione 6 miliardi di marchi.

Tutto ciò acuì i contrasti nel Partito bolscevico e nel governo dei Soviet, chiamato a ratificarlo, sollevando preoccupazioni sul piano interno e su quello militare, dovute alla disastrosa impotenza dell’esercito a controllare il territorio russo, aperto e indifeso a qualunque invasione.

Le preoccupazioni non erano solo russe. Due giorni dopo la firma del trattato, il colonnello americano R. Robins (ufficialmente responsabile della CRI in Russia, quindi non tenuto a rispettare il divieto assoluto del presidente Wilson a tutti i suoi funzionari di intrattenere relazioni con il governo dei Soviet) chiese una dichiarazione scritta da telegrafare a Washington in merito alla eventualità di una mancata ratifica del trattato e di ripresa delle ostilità con la Germania. Questa, redatta da Trotzki e confermata da Lenin, poneva tre precise domande: 1) il governo sovietico poteva contare sull’appoggio di Stati Uniti d’America, Gran Bretagna e Francia in una eventuale guerra contro la Germania? 2) quali le condizioni per la fornitura di equipaggiamento militare, mezzi di trasporto e generi essenziali? 3) quali aiuti, soprattutto dagli Stati Uniti?

Furono posti in modo più confidenziale altri due quesiti, il primo nel caso di una occupazione giapponese di Vladivostok, sul Mar del Giappone, chiedeva quali azioni e aiuti avrebbero intrapreso gli alleati e in particolare gli americani, il secondo quali aiuti attraverso Murmansk e Arcangelo avrebbe fornito il governo inglese.

Le stesse domande furono rivolte oralmente a R.H.B. Lockhart, primo rappresentante della Gran Bretagna in Russia, che le telegrafò a Londra.

Dal 6 all’8 marzo si riunì il VII Congresso del Partito con uno scarso numero di delegati: 47 con diritto di voto deliberativo e 59 con voto consultivo, in rappresentanza di 313.766 iscritti. Lenin nel “Rapporto sulla guerra e la pace” vi ribadì la necessità di accettare le dure condizioni del trattato: «Se la rivoluzione europea tarda a nascere ci attendono durissime sconfitte, perché non abbiamo esercito, perché non abbiamo organizzazione, e perché non possiamo risolvere subito questi due problemi. Se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario ma un chiacchierone; e se propongo di andare avanti così, non è perché questo mi piaccia, ma perché non c’è altra via, perché la storia non è stata così piacevole da far maturare la rivoluzione dappertutto allo stesso tempo (…) Ottima cosa è se il proletariato tedesco sarà in grado di insorgere. Ma voi l’avete già calcolato, avete scoperto uno strumento capace di indicare in anticipo il giorno preciso in cui nascerà la rivoluzione tedesca? No, questo non lo sapete e nemmeno noi lo sappiamo. Voi puntate tutto su una carta. Se la rivoluzione nasce, tutto è salvo. Certamente! Ma se essa non si presenterà come noi desideriamo, se non vincerà domani, che faremo allora?» (O.C. Vol.XXVII, pag. 87).

L’opposizione alla linea di Lenin fu incentrata sulla necessità di continuare la guerra per non abbandonare la Finlandia sovietica e sulla non necessità di una tregua per riorganizzare le forze sovietiche.

Lenin paragonò la condizione della Russia a quella della Prussia quando Napoleone impose l’umiliante pace di Tilsit: la certezza di non poter sostenere il minimo attacco tedesco e di cadere nelle mani della Germania in pochi giorni. I finlandesi rossi non sarebbero stati traditi ma aiutati, ritirandosi in tempo. Minacciò inoltre di dimettersi dal governo qualora il trattato non fosse approvato.

Nonostante la forte opposizione il Congresso sostenne Lenin con 28 voti contro 12 e 4 astenuti. La risoluzione così terminava: «Nella convinzione che la rivoluzione operaia matura immancabilmente in tutti i paesi belligeranti, preparando una inevitabile e piena sconfitta dell’imperialismo, il Congresso dichiara che il proletariato socialista di Russia appoggerà con tutte le sue forze e con tutti i mezzi a sua disposizione il movimento rivoluzionario fratello del proletariato di tutti i paesi» (pag. 102).

Ma una nota aggiunta stabiliva di non pubblicare quest’ultima parte e impegnava tutti i membri del Partito a mantenerla segreta pubblicando solo la parte di accettazione della ratifica. Si davano inoltre pieni poteri al CC di interrompere in qualsiasi momento le trattative di pace con gli Stati imperialistici nonché di dichiarare loro la guerra.

Il Congresso inoltre approvò a maggioranza la nuova denominazione del partito in Partito Comunista Russo con l’aggiunta tra parentesi “bolscevico”. Fu eletto il nuovo Comitato Centrale composto da 15 membri e 8 candidati. G. Cičerin, capo delegazione a Brest-Litovsk, fu nominato ministro degli esteri del governo sovietico e Trotzki comandante in capo dell’Armata Rossa con l’arduo compito di organizzarla in modo efficiente.

L’opposizione alla firma del trattato fu aspra anche per altre organizzazioni politiche che ancora partecipavano alla rivoluzione, in particolare i Socialisti Rivoluzionari, che intendevano continuare la guerra a fianco dell’Intesa.

Ma, contrariamente a quanto atteso, non si ebbe il tempo per consolidare il potere sovietico e attuare le più urgenti richieste della rivoluzione. Si aprì un periodo di crisi interna e esterna su tre vitali terreni: 1) la coalizione delle formazioni armate bianche, sostenute dai paesi dell’Intesa, intervenne direttamente, anche se ancora marginalmente, nel conflitto; 2) la grave carestia e la fame che devastava tutta la Russia; 3) le difficoltà per la organizzazione dell’Armata Rossa e l’impegno di tutte le strutture dei Soviet per recuperare quanto era rimasto dell’apparato produttivo industriale e agricolo.

Nel giro di pochi mesi si aprirono i fronti: caucasico intorno a Kuban; Sud con le battaglie di Caricyn (poi Stalingrado); Est con numerosi scontri con l’armata cecoslovacca in ritirata; Nord contro gli ex alleati; la guerra civile in Siberia.

Intanto la Germania si affrettava a consolidare i molti vantaggi ottenuti dal trattato incorporando Estonia, Lettonia, Lituania, tutta la Polonia orientale; ora confinava con la Russia Bianca, a 700 chilometri a sud di Pietrogrado, e con l’Ucraina. Il 13 marzo 1918 i tedeschi avevano occupato Černigov, 140 chilometri a nord di Kiev.


La repubblica socialista dei lavoratori di Finlandia

Mentre si svolgevano le trattative di pace, nella vicina Finlandia si stava tragicamente concludendo il tentativo di istituire una repubblica comunista.

W.H Chamberlin così commenta le “legittime” avanzate tedesche: «La pace di Brest-Litovsk fu la campana funebre dei neonati governi sovietici dell’Ucraina e della Finlandia» (“Storia della rivoluzione russa”). Riassumiamo dal Chamberlin integrando sulla complessa situazione finlandese con dati da “La Rivoluzione sotto assedio” di F.Dei.

Il 6 dicembre 1917, a seguito della rivoluzione in Russia, i finlandesi proclamarono l’indipendenza e inviarono delegati al governo dei soviet per richiederne il riconoscimento. Questo fu concesso il 31 dicembre.

Nei primi mesi del 1918 erano scoppiati violenti scontri tra i finlandesi Rossi e i Bianchi. Le organizzazioni politiche dei Rossi e dei Bianchi erano state in una quasi parità numerica nelle elezioni della Dieta nell’estate 1917: sui 200 seggi disponibili 90 andarono ai Rossi mentre 95 ai Bianchi. Venne costituito un governo non socialista, diretto da P.E. Svinhufvud.

I due partiti disponevano anche di proprie organizzazioni paramilitari. La Guardia Rossa disponeva di 30.000 elementi ben motivati e armati sotto il comando di un anziano ufficiale, Aaltonen, già membro del Partito Socialdemocratico.

Era anche presente un contingente di forze russe: 40.000 fanti comandati dal colonnello Svečnikov, concentrati prevalentemente a Vyborg in Carelia e a Tampere nel Sud-Ovest, e 20.000 della flotta del Baltico nei porti meridionali.

A Pietrogrado il Comitato esecutivo dei soviet aveva diramato l’ordine ai comandi di sostenere con discrezione la lotta dei rivoluzionari finlandesi, avendo attenzione a non creare contenziosi con la Germania. I soldati russi però premevano per rientrare in Russia e farla finita con ogni guerra. Non fu creato un comando unico tra i Rossi finlandesi e i russi, i quali agivano in modo autonomo, creando seri problemi di gestione strategica.

Il borghese senato finlandese incaricò il generale Mannerheim, che aveva servito per 30 anni nell’esercito zarista ed era da poco rientrato in Finlandia, di costituire un esercito. Furono chiamati alla difesa della patria democratica contro i Rossi tutti i volontari locali più ex prigionieri di guerra tenuti in Germania, più circa 26.000 combattenti non inquadrati, che avrebbero comunque servito il governo.

Tra le truppe bianche finlandesi più fedeli erano 1.800 giovani che durante la guerra erano fuggiti in Germania al fine di addestrarsi e organizzarsi per una rivolta contro l’oppressore impero zarista. Questi ritornarono in Finlandia in formazioni militari ben armate dando sostegno alle manovre anticomuniste della Germania.

Ne risultò un disomogeneo amalgama di circa 40.000 unità, grosso modo gli stessi dell’opposta formazione, ma di difficile gestione.

Due aspetti condizionarono la strategia complessiva. Il primo geografico. La Finlandia è una vasta area pianeggiante, con ridotta visuale a distanza. Le vie di comunicazione sono scarse, fangose durante il disgelo primaverile, inutilizzabili per il rapido trasferimento di artiglieria pesante. Gli spostamenti sono più agevoli in inverno con gli specchi d’acqua gelati. In quelle aree, inframmezzate di laghi, fiumi, paludi e foreste, sono impossibili ampie e profonde manovre di cavalleria, fondamentale arma d’attacco delle truppe russe.

Il secondo riguardava la composizione sociale della popolazione: al Nord, agricolo, era composta di piccoli contadini indipendenti, confluiti in massa nelle Guardie Bianche, mentre al Sud, dove erano concentrate le industrie e i cantieri navali, la popolazione era prevalentemente proletaria e aderì in gran parte agli ideali bolscevichi inquadrandosi nelle Guardie Rosse.

Fu presto evidente che una rivoluzione proletaria stava maturando anche in Finlandia. Il 26 gennaio 1918 il governo di Svinhufvud fu rovesciato da uno sciopero generale e da un intervento armato di 4.500 Guardie Rosse che occuparono i centri nevralgici di Helsinki senza incontrare particolare resistenza. Svinhufvud e il suo governo fuggirono verso il Nord. Da Pietrogrado giunsero ordini alle truppe russe di disarmare la Guardia civile Bianca, ma ciò non avvenne. In breve i rivoluzionari presero il controllo della parte meridionale della Finlandia.

In questa fase iniziale le Guardie Rosse godevano di un discreto vantaggio strategico e numerico e disponevano dei continui arrivi dalla Russia, attraverso la Carelia, di armi e munizioni. Non furono però in grado di consolidare questo vantaggio estendendo il territorio che controllavano e di ridurre all’impotenza la Guardia Bianca, nonostante Mannerheim non fosse ancora in grado di dispiegare il suo esercito, ancora in via di organizzazione.

Mannerheim stabilì la sua base organizzativa nella città portuale di Vaasa, nella parte mediana del lungo golfo di Botnia tra Svezia e Finlandia, ottimamente servita da importanti ferrovie che collegano il paese da est a ovest, considerandola la base da cui partire per riconquistare il paese.

Grazie al fattore sorpresa, la buona conoscenza del territorio delle sue truppe migliori e lo scarso impegno militare delle truppe russe delle guarnigioni locali, che preferirono in buona parte arrendersi senza combattere, le audaci manovre offensive di Mannerheim in soli 10 giorni riuscirono a controllare tutto il nord della Finlandia, catturando migliaia di prigionieri russi e molto materiale bellico.

Nella figura in bianco è l’area controllata dai Bianchi e la loro offensiva finale, in grigio l’offensiva tedesca e in rosso l’area rimasta sotto il controllo dei Rossi. La rete ferroviaria è in tratteggio.

La Finlandia risultò divisa in due: un governo comunista nel Sud e nel Sud-Ovest; nella parte settentrionale un’autorità che sosteneva il governo bianco di Svinhufvud e la formazione di una repubblica democratica borghese. E.H. Carr così sintetizza la situazione: «Il Governo provvisorio [russo, n.d.r.] si trovò allora, paradossalmente, a riconoscere sia il governo borghese di Helsinki, sia l’embrionale governo operaio che cercava di rovesciarlo».

Il 2 febbraio 1918 parte l’offensiva dei finlandesi Rossi, ora affidata all’ex colonnello Svečnikov divenuto comandante delle Guardie Rosse del settore occidentale. Si proponeva di riprendere il controllo della vitale linea ferroviaria attaccando il nodo principale di Vilppula, 85 chilometri a nord-est di Tampere, e tagliare così in due l’esercito bianco. Ma la prima offensiva fu fermata dalle difese di Mannerheim. Ne furono organizzate altre 2, il 12 e il 21 febbraio, sempre con lo schema dell’attacco frontale, saggiando differenti punti delle difese bianche, ma non portarono alcun risultato.

L’insuccesso degli attacchi rossi fu dovuto principalmente al fatto che furono lanciati tardivamente, quando il fronte bianco era riuscito a consolidarsi lungo le linee ferroviarie. Le Guardie Rosse invece lamentavano la carenza di mezzi di trasporto e una insufficiente distribuzione di vettovaglie e munizioni. Inoltre le truppe e i comandanti finlandesi rossi avevano poco addestramento, esperienza e capacità di operare manovre coordinate sul campo di battaglia: spesso le offensive assumevano la forma di una serie di scontri isolati con inutile dispendio di munizioni e uomini.

Il 1° marzo fu proclamata, in un documento inviato al governo sovietico, la Repubblica Socialista dei Lavoratori di Finlandia. Il progetto della nuova costituzione, frettolosamente in gran parte copiata da quella svizzera, prevedeva un sistema parlamentare e non vi si accennava ad alcun tipo di consigli dei lavoratori.

Il 3 marzo la firma del trattato di pace Brest-Litovsk venne ad imporre alla Russia di ritirare le sue truppe e navi. Continuò segretamente l’invio di armi e istruttori. Nello stesso giorno il sopravvissuto borghese Senato finlandese richiese ufficialmente l’assistenza militare della Germania.

Il 7 marzo fu firmato un trattato di pace tra il governo tedesco e il governo bianco della Finlandia, nell’intenzione di porre fine alla guerra civile contro il governo operaio socialista. Il generale Mannerheim richiese a Ludendorff l’invio di truppe tedesche, nominalmente solo in funzione antirussa.

Iniziò il ritiro delle truppe russe stanziate in Finlandia.

I due opposti eserciti si organizzavano febbrilmente perché si avvicinava la stagione del disgelo, che rende difficile ogni spostamento.

Iniziò la seconda fase della guerra civile.

Mannerheim distribuì i suoi 12.000 uomini in 4 gruppi d’assalto, più le riserve, per un’offensiva avvolgente su Tampere, allo scopo di annientare il contingente occidentale delle forze rosse. In Carelia i Bianchi avrebbero tenuto una difesa passiva lungo il fiume Vuoksi, poco a nord di Pietrogrado.

Il 10 marzo partiva una corposa offensiva rossa con 15.000 combattenti, pari ai 2/3 del totale, su quel fronte, volta a riconquistare il controllo della ferrovia, ma non riuscì nell’intento. Le ondate dei giorni successivi, fino al 14 marzo, non portarono a nulla se non a fiaccare il morale delle truppe.

Il 14 marzo iniziava la manovra avvolgente su Tampere, che non ebbe successo perché mancò della necessaria preparazione e armamento. Le Guardie Rosse, che avevano opposto una insufficiente resistenza, dovettero ritirarsi su Tampere dove si prepararono a un assedio. Si cercava di isolarla dal resto della Finlandia rossa. Gli attacchi furono inizialmente neutralizzati dall’artiglieria rossa diretta da esperti ufficiali russi. Gli scontri si protrassero per 3 giorni. La situazione si complicò per i bianchi con l’arrivo di rinforzi rossi e la notizia che il contingente bianco sul Vuoksi era in difficoltà e doveva arretrare.

Il 3 aprile un primo corpo di spedizione tedesco di 9.000 fanti esperti e ben organizzati al comando del generale Rüdiger von der Goltz sbarcò dietro le linee rosse a Hangö, una penisola a 100 chilometri ad ovest di Helsinki per una rapida offensiva contro le città.

Il 6 aprile dopo sanguinosi scontri Tampere cade in mano ai Bianchi. Dell’Armata Rossa occidentale, forte di 25.000 uomini, 2.000 morirono per la difesa della città e 11.000 furono fatti prigionieri.

Mannerheim lasciò una minima parte delle sue truppe a contrastare la ritirata dei Rossi da Tampere e spostò la restante a sud est nel tentativo di conquistare la Carelia rossa, dove ancora i Bianchi tenevano le linee sul Vuoksi. Era anche sua intenzione prendere il controllo della ferrovia Vyborg-Pietrogrado per tagliare una principale via di fuga verso la Russia e impedire l’arrivo di rifornimenti e rinforzi. Intendeva anche dimostrare la determinazione dei finlandesi di conquistare con le armi la loro indipendenza senza l’intervento dei tedeschi, ai quali non volevano sottomettersi.

Von der Goltz al suo primo contingente ne aggiunse un secondo di 3.000 fanti, sbarcato ad est della capitale con lo scopo di tagliare la via di fuga dei combattenti rossi lungo la costa. In pochi giorni caddero Tampere, poi Helsinki e la situazione precipitò per i Rossi bloccati a Tampere dai Bianchi.

Lo Stato maggiore rosso, per non cadere nelle mani dei nemici, si ritirò via nave a Vyborg, lasciando le truppe senza un comando centrale. Anche la marina russa, per evitare uno scontro con quella tedesca, lasciò Helsinki. Le unità rosse sopravvissute alla caduta di Tampere ed Helsinki, circa 40.000 uomini, iniziarono una ritirata verso est per congiungersi al fronte careliano.

Il 20 aprile presso la cittadina di Lahti, a metà strada tra le due città, le truppe di Mannerheim e di von der Goltz si incontrano per dare inizio all’accerchiamento dei Rossi. I combattimenti durarono diversi giorni con molti disperati tentativi dei Rossi di sfondare l’accerchiamento.

Nello stesso giorno partiva una concertata offensiva in Carelia per il controllo della ferrovia. L’attacco si concentrò su Vyborg con due attacchi principali a nord e a sud della città. Durò con alterne vicende una settimana. Il 27 aprile i comandanti rossi, nell’impossibilità di tenere la città e avendo ricevuto una richiesta di resa incondizionata, abbandonarono via nave Vyborg per riparare a Pietrogrado. Ai combattenti, rimasti infine senza guida, non rimase che la resa.

Conquistate le città più importanti residui scontri minori continuarono lungo la costa. Il 2 maggio 1918 cadde l’ultima forza rossa sul fronte occidentale finlandese e 25.000 combattenti, con 50 cannoni e 200 mitragliatrici, insieme a migliaia di civili, si consegnarono alle truppe di Mannerheim.

Vinta la guerra civile si scatenò il sanguinoso vendicativo terrore borghese, gonfio di odio. Nei mesi successivi circa 80.000 prigionieri ex combattenti rossi furono rastrellati e duramente maltrattati. Secondo uno studio del governo finlandese del 2004, i morti in battaglia furono 3.414 fra i Bianchi e 5.199 fra i Rossi. I dispersi risultano 46 Bianchi e 1.767 Rossi. Le fucilazioni sommarie eseguite risultano: 1.424 Bianchi e 7.370 Rossi. Ma i morti nei campi di prigionia, prevalentemente per denutrizione, condizioni igieniche, climatiche e malattie, furono 4 bianchi e 11.652 rossi! La maggior parte delle vittime si verificò quindi al di fuori dei campi di battaglia, nei campi di prigionia e nelle campagne di terrore.


La Legione Cecoslovacca

Era composta di soldati volontari cechi e slovacchi che avevano combattuto a fianco delle forze dell’Intesa, arruolati con la promessa di un aiuto alla realizzazione di uno Stato indipendente cecoslovacco, al tempo parte integrante dell’Impero austroungarico. Analoghe forze volontarie erano state costituite in Russia con lo stesso scopo e integrate nell’esercito zarista. Molti prigionieri di guerra cechi e slovacchi erano confluiti nelle forze dell’Intesa e nella Legione Cecoslovacca, un minor numero, invece, si era unito alle forze bolsceviche. La Legione, forte di 50.000 uomini, era un corpo ben strutturato, organizzato e armato.

Dopo la firma del trattato di Brest-Litovsk si giunse a un accordo tra i bolscevichi e il comando della Legione per il loro libero transito verso Vladivostok, utilizzando la Transiberiana, sulla quale rimpatriava il grande numero di prigionieri dei vari eserciti. Da laggiù sarebbero stati imbarcati per gli Stati Uniti, destinati a un periodo di nuovo addestramento per poi essere reimpiegati, sempre come truppe volontarie, sul fronte occidentale in Europa.

Permaneva in loro la concreta speranza di poter poi rientrare in una Repubblica indipendente cecoslovacca. Questa sarà proclamata il 28 ottobre 1918, suo primo presidente T.G. Masaryk, uno dei promotori della Legione Cecoslovacca. Allo scoppio della guerra aveva abbandonato la carica al parlamento viennese per rifugiarsi negli Stati Uniti, dove continuò ad operare per l’indipendenza cecoslovacca. Consigliò i comandanti militari della Legione di non interferire negli affari interni della repubblica sovietica. Riuscì anche ad ottenerne un primo riconoscimento dal presidente Wilson.

Per le pessime condizioni del materiale rotabile, della via ferrata e della gran massa di uomini e materiali da trasportare in entrambi i sensi di marcia, i convogli avanzavano molto lentamente distribuendo quei volontari su una estensione di oltre mille chilometri.

La situazione precipitò il 25 maggio in seguito a un non chiarito scontro tra soldati di formazioni diverse; il comando bolscevico locale fece arrestare alcuni legionari ritenuti i responsabili dell’esecuzione a sangue freddo di un soldato ungherese. Al rifiuto di liberarli i comandanti della Legione decisero di occupare la città dando inizio alla “Rivolta della Legione”, come fu poi chiamata. Il comando bolscevico ritirò allora il permesso di transito alla Legione, frammentata in 6 gruppi molto distanti tra loro. Si scatenarono allora alcune aspre battaglie tra le disorganizzate truppe bolsceviche dei Soviet locali e quelle più esperte della Legione, il cui comando aveva l’obiettivo principale di ricompattare i vari gruppi e di proseguire per Vladivostok. La Legione in pochi giorni riuscì a controllare un’ampia fascia intorno alla ferrovia dal Volga fino a Vladivostok, dove era già arrivata una prima colonna, appropriandosi di una grande quantità di equipaggiamento militare e civile.

I suoi successi dettero la spinta alla formazione di un variegato numero di gruppi paramilitari antibolscevichi e indipendentisti siberiani, impropriamente denominati Armata Bianca. In realtà questi gruppi non furono mai in grado di costituire una struttura unica e organizzata ma rimasero una sorta di confederazione disomogenea in varie regioni con obiettivi spesso discordanti.

Gli Alleati comunque ordinarono alla Legione Cecoslovacca di attaccare la Russia sovietica e conquistare Ekaterinburg, dove lo Zar e la sua famiglia si trovavano prigionieri. L’operazione fu conclusa con successo soprattutto per la disorganizzazione delle truppe bolsceviche, non in grado di fermare la contemporanea avanzata della Legione Cecoslovacca e delle formazioni dell’Armata Bianca. A fronte di questa offensiva, Sverdlov, in qualità di presidente del Comitato esecutivo dei Soviet, con l’assenso di Lenin autorizzò l’esecuzione dello Zar e della sua famiglia, temendo che una sua liberazione desse vigore a qualche movimento di restaurazione monarchica. Il 12 luglio la decisione finale fu presa dal Soviet degli Urali ed eseguita il 17.

Grazie all’intenso lavoro di Trotzki l’Armata Rossa crebbe di numero ed efficienza e in breve, in questo settore, respinse i corpi cecoslovacchi dalle posizioni che avevano conquistato. Questi ripresero il loro trasferimento verso Vladivostok.

Qui dal mese di novembre si aprì il fronte siberiano, durato fino al luglio 1920, con la presenza di truppe giapponesi (70.000), americane (5.000), italiane (1.400 alpini), un migliaio scarso di inglesi e un centinaio di francesi.

Con la costituzione nell’ottobre 1918 della nuova repubblica cecoslovacca tutti i legionari vollero lasciare la Russia per tornare nel proprio paese. Conclusero un accordo con i bolscevichi per la consegna dell’oro imperiale, da loro detenuto, e del controrivoluzionario Kolčak. Secondo i rapporti della Croce Rossa americana, circa 68.000 legionari furono evacuati da Vladivostok. Una minima parte confluì nell’Armata Rossa, un’altra più consistente nell’Armata bianca.


Il fronte Nord

È dell’8 marzo 1918 il primo sbarco di un piccolo contingente di truppe britanniche a Murmansk, sul mare di Barents, fino al 1916 un piccolo villaggio ingranditosi per la costruzione della ferrovia Kola-Pietrogrado. Pur trovandosi al 69° parallelo nord, ben oltre il circolo polare artico, il suo porto alla foce del fiume Kola è libero dai ghiacci per tutto l’anno per l’influsso di uno dei rami caldi della Corrente del Golfo.

In questo porto le potenze dell’Intesa avevano sbarcato truppe e materiale per gli eserciti russo e rumeno. Per contrastarli i tedeschi avevano cercato di prendere il controllo delle ferrovie Kola-Pietrogrado e Arcangelo-Vologda-Mosca, attraverso le quali passavano quei rifornimenti.

Con successivi rinforzi gli alleati avevano militarizzato una vasta zona attorno a Murmansk, inglobando i porti di Kandalaksha e Kem, lungo la ferrovia per Pietrogrado, dove erano situati molti depositi militari. Da lì sarebbero partite le azioni contro i finlandesi bianchi, utilizzando specialmente la Legione finnica, composta da cacciatori locali ben conoscitori dei luoghi e delle dure condizioni di vita e di combattimento a quelle latitudini.

Nel giro di pochi mesi però l’atteggiamento degli alleati dell’Intesa cambiò radicalmente, soprattutto dopo il decreto dell’8 febbraio del governo bolscevico che annullava il cospicuo debito russo contratto dallo zarismo. Si interruppe quindi bruscamente la collaborazione coi bolscevichi in funzione anti-tedesca e si aprì il fronte Nord della guerra civile.

Lo scopo primario degli alleati divenne allora impedire sia ai bolscevichi sia ai tedeschi di impadronirsi dell’enorme quantità di materiale accumulato nei depositi, oltre un milione di tonnellate per un importo di 2,5 miliardi di dollari. (Analoghi giganteschi depositi erano stati costituiti a Vladivostok). Il secondo obiettivo era sostenere la Legione Cecoslovacca. Il terzo consisteva nel sostenere il fronte orientale della guerra civile russa, dove le forze bianche locali e il corpo cecoslovacco stavano avendo la meglio su quelle bolsceviche. Tutto doveva concorrere al contrasto della rivoluzione bolscevica e alla sua diffusione in tutta l’Europa.

Ritorniamo alla cronologia.

Il 10 marzo, poiché Pietrogrado si trovava ora troppo vicina al nuovo confine tedesco il Partito bolscevico decise di spostare a Mosca la sede del governo e gli organi centrali del Partito.

In particolare pesò molto la situazione nella vicina Finlandia, dove le formazioni dei Rossi, non più sostenuti dalle truppe bolsceviche, erano in seria difficoltà a sostenere la controffensiva bianca. In più il borghese governo finlandese aveva ufficialmente richiesto l’assistenza militare della Germania per porre fine alla guerra civile.

La pace separata tra la Russia sovietica e la Germania venne a sconvolgere gli assetti strategici dei belligeranti, duramente provati da 4 anni di guerra, che ora si riteneva nelle ultime fasi decisive. I governi francese e britannico, fortemente impegnati sul fronte occidentale, non potevano assegnare truppe e risorse adeguate al fronte nord e a quello siberiano, per cui chiesero aiuto agli americani. Questi, a suo tempo, già avevano sostenuto con aiuti economici e militari il governo provvisorio di Kerensky, che nel marzo 1917 si era impegnato a continuare la guerra contro la Germania. La rivoluzione bolscevica di ottobre aveva nuovamente cambiato la situazione.

Nonostante il parere contrario del Dipartimento della Guerra, il presidente americano Wilson nel luglio 1918 decise di inviare un contingente americano con la consegna: «custodire le scorte militari che potrebbero essere successivamente necessarie alle forze russe e fornire l’aiuto che potrebbe essere accettabile per i russi nell’organizzazione della propria autodifesa». Questa posizione per nulla bellicosa, di non ingerenza politica e neutralità, rivela l’intenzione americana di voler instaurare buoni rapporti diplomatici e commerciali con i Soviet russi.

Ma a luglio le relazioni diplomatiche e di collaborazione militare nel settore Nord tra Russia sovietica e forze dell’Intesa si inaspriscono. L’Inghilterra rifiuta di evacuare le sue navi dai porti di Murmansk e di Arcangelo, al contrario il 1° luglio nuove truppe britanniche sbarcano a Murmansk. In risposta Mosca invia 3.000 soldati di rinforzo. Gli ex-alleati divengono gli organizzatori di una forza internazionale di occupazione, ufficialmente solo interessata alla protezione dei depositi militari.

Il contingente maggiore era inglese, con una flotta di 20 navi con 2 portaerei, vari corpi di fanteria tra cui la legione slavo-britannica composta di volontari russi anti-bolscevichi, e due corpi di artiglieria da campagna canadesi, per un totale di 14.378 uomini. La formazione aerea disponeva di bombardieri, idrovolanti e un caccia. Il contingente americano di 5.000 unità, provenienti dai freddi inverni del Michigan, contava un corpo di fanteria, genieri, un ospedale da campo e 2 compagnie ferroviarie, destinate all’esercizio della linea da Murmansk a Pietrogrado. Un incrociatore completava la formazione. Il contingente francese di 2.000 uomini era prevalentemente composto da truppe coloniali e da un corpo della Legione Straniera composta da volontari antibolscevichi reclutati in loco. Il contingente italiano disponeva di 1.350 uomini di fanteria, fucilieri e mitraglieri, 50 carabinieri più gli organici di assistenza.

La forza complessiva raggiunse 23.762 uomini. Vi erano non meglio quantificate forze bianche russe di quello che era stato l’Esercito del Nord del governo provvisorio di Kerensky, più un migliaio di fanti serbi e polacchi delle forze dell’ammiraglio Kolčak che operavano al seguito del corpo britannico. Il comando dell’operazione fu affidato ai britannici. Ma in generale quasi tutti gli organici furono reclutati tra militari feriti in precedenti combattimenti; solo in minima parte erano di origine montana, abituati a condizioni climatiche rigide.

Ad opporsi al contingente internazionale era la Sesta e la Settima Armata Rossa, inizialmente mal equipaggiata e non adeguatamente preparata.

Questo emerse nelle prime battaglie del maggio 1918 tra i russi appoggiati dai britannici contro i Bianchi finlandesi. Questi, attraversato il confine, avevano conquistato la città russa di Pečenga, circa 100 km a nord di Murmansk. L’obiettivo della controffensiva era, riconquistata la città, impedire ai Bianchi di consegnarla ai tedeschi, che si presumeva avrebbero utilizzato la baia come base per i loro sottomarini.

Lo sbarco ad Arcangelo, del 2 agosto, fu preceduto il giorno prima da un colpo di mano del capitano zarista G. Chaplin alla guida di forze antibolsceviche, coordinato dal generale inglese Poole, per destituire il governo sovietico locale e bloccare la risposta delle forze bolsceviche. Fu insediato dagli inglesi un governo fantoccio di stampo socialista-popolare affidato a N. Čajkovskij ma nei fatti era Poole che dirigeva la città, e instaurata la legge marziale. Lo sbarco fu preceduto dall’affondamento di vario naviglio russo tra cui 3 incrociatori e con il bombardamento delle postazioni degli 800 difensori bolscevichi che dovettero arretrare.

Gli esperti militari riferirono a Lenin dell’impossibilità di contrastare lo sbarco nemico da parte della loro residua marina rossa e della guardia costiera. Sconsigliarono anche l’uso delle loro squadriglie aeree, inadatte al contrasto. Nei giorni seguenti si consolidò la presenza del contingente internazionale anche a Murmansk.

Lo Stato maggiore britannico aveva predisposto due linee di penetrazione da Arcangelo: una in direzione Mosca lungo la ferrovia per Vologda, sede del comando russo, che si intendeva conquistare; la seconda sulla linea Kotlas-Viatka per collegarsi al fronte est della controrivoluzione tenuto dai cecoslovacchi, che tentavano di raggiungere Arcangelo da cui potersi imbarcare per raggiungere il fronte occidentale in Europa. L’uso della ferrovia era obbligato per l’assenza di strade in quell’immenso territorio boscoso disseminato di fiumi, laghi e acquitrini. Furono impiegati treni blindati. Successivamente la direttrice d’attacco utilizzò la navigazione sui fiumi Vaga e Dvina armando una flottiglia di 11 battelli convertiti all’uso militare, con discreta artiglieria.

Ben presto Poole si rese conto che senza consistenti rinforzi la conquista di Vologda non sarebbe stata possibile. Decise allora di formare un’armata di volontari russi, reclutata tra la popolazione locale, spinta per la fame dalla misera paga, oltre che da convinzioni anticomuniste. A differenza di altri settori della guerra civile qui non vi erano cosacchi e ufficiali cui affidarsi per costituire un’armata affidabile, ma prevalentemente contadini senza alcuna esperienza militare. Trotzki definì quello strano amalgama “la zuppa anglo-francese” e inviò altri rinforzi scelti tra i marinai del Baltico e la fanteria dell’esercito rosso locale, ben esperti e motivati.

Lenin ordinò di tenere a tutti i costi Kotlas e Vologda e, piuttosto che un’offensiva con contrasto diretto, si preferì attrezzare linee di difesa con trincee e fortificazioni, più utili nel duro inverno quando ci sono solo alcune ore di luce al giorno e temperature rigidissime.

Con l’arrivo nel settembre delle promesse truppe americane si ebbero i primi parziali e limitati successi degli alleati, che però avanzavano molto lentamente per la mancanza di carte geografiche e di mezzi di trasporto. Le controffensive russe ripresero la maggior parte delle posizioni perse, favorite dal fatto che le cannoniere inglesi sulla Dvina erano state ritirate prima che il fiume congelasse.

Il 14 ottobre il nuovo comandante inglese W.H. Ironside, considerato che ora controllava un territorio grande quasi la Francia ma con solo 600.000 abitanti, con l’inverno in arrivo decise di non allungare ulteriormente la linea del fronte e si mise sulla difensiva. Prima dell’arresto delle operazioni spostò la linea d’attacco principale verso est nella speranza di unirsi all’esercito russo di Kolčak, che in primavera sapeva avrebbe spinto il suo “Esercito russo” verso occidente. Ironside riuscì con nuovi arruolamenti di volontari a formare un’armata russa bianca di circa 4.500 uomini, organizzata su 5 reggimenti di fanteria, 4 batterie di artiglieria e 1 compagnia di genieri, al comando del generale russo Maruševskij. Fece realizzare una serie di fortini con nidi di mitragliatrici posti in posizione avanzata rispetto alla forza principale e all’artiglieria.

In Carelia, a sud di Murmansk le operazioni militari si svolsero lungo la ferrovia per Pietrogrado, distante 1.330 Km. Gli alleati, avanzati per 600 chilometri, furono fermati da una tenace offensiva di forze rivoluzionarie internazionali, guidati I.D. Spiridonov, un operaio di Pietrogrado.

La sospensione delle attività decise dal comando inglese permise alla 6° Armata Rossa di riorganizzarsi e di aumentare i suoi organici, in vista di passare al contrattacco. Il nuovo punto di forza era la 18° Divisione costituita dagli operai altamente politicizzati di Pietrogrado, appositamente giunti dalla ex capitale, portando gli effettivi a circa 13.000 uomini.

L’11 novembre 1918 a Compiègne presso Parigi fu firmato l’armistizio tra la Germania e i Paesi dell’Intesa, che sancì la fine della Prima guerra mondiale. Nei giorni precedenti era partita la controffensiva bolscevica, favorita dal fatto che il vento artico aveva congelato il fiume e il mare attorno ad Arcangelo mentre a sud i fiumi erano ancora navigabili, permettendo alle cannoniere russe e alla loro artiglieria pesante di tornare al fronte e cannoneggiare pesantemente le postazioni nemiche. Trotzki pianificò con cura l’attacco principale sulla Dvina, con epicentro nella cittadina di Tulgas, utilizzando 2.000 soldati rossi e 5 cannoniere. Seguì una settimana di scontri con alterni risultati, interrotti dal precipitare della temperatura a meno 25 gradi con tutti i corsi d’acqua ghiacciati e uno spessore di neve ghiacciata di oltre un metro.

I bolscevichi intensificarono l’agitazione politica e la propaganda contro la guerra nell’esercito alleato, soprattutto tra le file degli elementi russi, creando disordine e rivolte. L’11 dicembre a Pinega un discreto numero di soldati bianchi, provati anche dal pessimo trattamento loro riservato, si rifiutarono di andare a combattere dando luogo a un primo ammutinamento di massa. Una loro generale diserzione avrebbe messo in serio pericolo il fronte Est delle operazioni. In rappresaglia Ironside ordinò la fucilazione di 13 organizzatori accusati di bolscevismo. Il morale dei soldati crollò rapidamente non solo per la reazione militare dell’Armata Rossa ma perché, dopo la firma dell’armistizio e la fine della guerra, quei soldati si chiedevano per chi, contro chi e per che cosa stessero combattendo in quelle regioni artiche. Tutti attendevano un rapido ritiro dalla Russia.

Ma, nonostante le proibitive condizioni climatiche, i combattimenti continuarono nei mesi di gennaio e febbraio nel settore di Arcangelo e di Murmansk. Nel fronte più settentrionale gli attacchi alleati contro le forze bolsceviche furono significativi: un treno che portava rinforzi all’Armata Rossa fu fatto deragliare e gli uomini in fuga furono uccisi dai tiri delle mitragliatrici. A fine febbraio Ironside controllava una vasta porzione di territorio.

Il 20 gennaio 1919, a una temperatura di -45°, si ebbe una battaglia presso Šenkursk, saliente del fronte internazionale, che dopo alcuni giorni di combattimenti cadde in mano bolscevica obbligando gli alleati ad arretrare notevolmente. Questa battaglia rappresentò un punto di svolta dell’intera guerra. Si estesero le proteste anche ai soldati inglesi, che spesso non consumavano pasti caldi per molti giorni; i numerosi ammutinamenti dei russi bianchi, che godevano di un trattamento inferiore rispetto le altre truppe, demoralizzarono profondamente i soldati alleati che iniziarono anche loro ad ammutinarsi mettendo in forse le offensive pianificate. Il 25 aprile un battaglione russo bianco si ammutinò; 300 di loro, passati ai bolscevichi, si voltarono e attaccarono le truppe alleate presso Tulgas. Diverse truppe britanniche e alleate si erano rifiutate di combattere e, uccisi i propri ufficiali, si erano unite ai bolscevichi.

Ciononostante ancora nel maggio le offensive alleate nell’area attorno al lago Onega registrarono limitati successi, favorite dall’uso di aerei e idrovolanti che bombardavano navi e battelli bolscevichi provocando la distruzione di 7 navi tra cui un cacciatorpediniere corazzato.

Tra maggio e giugno iniziò il rimpatrio delle forze inglesi e francesi, parzialmente sostituite da un nuovo reclutamento di volontari inglesi, a cui era stato assicurato l’impiego solo a scopo difensivo. Il governo canadese rimpatriò tutto il suo contingente, seguito da quello americano.

Nel settore di Arcangelo i soldati francesi si rifiutarono di prestarsi ad ogni azione militare che non fosse di difesa. Sono del 3 luglio grandi proteste dei soldati della compagnia italiana per il prolungato dispiegamento in Russia, tanti mesi dopo l’armistizio. Il 10 luglio una unità bianca sotto il comando inglese si ammutinò uccidendo gli ufficiali britannici, 100 soldati disertarono per unirsi ai bolscevichi. Nei giorni seguenti le truppe australiane bloccarono un altro ammutinamento bianco. Il 20 luglio 3.000 soldati bianchi nella città chiave di Onega, a sud-ovest di Arcangelo, si ammutinarono e consegnarono la città ai bolscevichi. La perdita della città, unica via terrestre in inverno con Murmansk, ebbe un grande impatto negativo sul morale delle restanti truppe inglesi il cui comando non si fidò più dei reparti bianchi. Successivi tentativi di riprendere la città fallirono per il rifiuto delle restanti truppe a partecipare a nuovi combattimenti


Operazioni finali nella guerra civile

Si susseguirono numerose e incisive le azioni di sabotaggio, sostenute anche da finlandesi rossi, con imboscate e distruzioni di ponti e di tratti di ferrovia per ostacolare l’evacuazione delle truppe. Operazioni minori avvennero tra marzo e aprile contro i convogli blindati americani che tentavano di rientrare su Arcangelo per il rimpatrio, avvenuto per il grosso del contingente nel mese di luglio.

Nel settore principale di Arcangelo nell’agosto e settembre 1919 i britannici tentarono una serie di offensive che risultarono tra le più sanguinose di tutta la guerra civile. Lo scopo era risollevare il morale delle truppe bianche con la riconquista della città di Onega, che avvenne il 10 settembre.

Anche nel settore di Murmansk furono lanciati attacchi per consentire il ritiro britannico. All’inizio di settembre il rifiuto di una compagnia di volontari inglesi di partecipare a un attacco sul fiume Nurmis, ritirandosi dalle loro linee, determinò l’arresto di 93 soldati. Sottoposti alla corte marziale 13 furono condannati a morte e tutti gli altri a severe condanne ai lavori forzati. Successivamente il governo, sotto pressione, revocò le condanne a morte e ridusse le altre pene.

Il 27 settembre le ultime truppe alleate partirono da Arcangelo. Il 12 ottobre Murmansk fu abbandonata.

Nel dicembre, mentre l’Armata Rossa a ogni combattimento migliorava la sua organizzazione ed efficienza, i resti dell’Armata Bianca della Russia settentrionale, rimasta sola, scarsamente disciplinata e con difficoltà di approvvigionamento, crollò rapidamente quando i bolscevichi lanciarono una controffensiva.

Il 21 febbraio 1920 l’Armata Rossa entrava in Arcangelo e il 13 marzo a Murmansk. I resti del governo bianco, tra cui il capitano Chaplin fuggirono in Francia su un rompighiaccio.

Dal punto di vista strategico il comando inglese commise il grave errore di organizzare la campagna su due fronti con diverse direttrici contemporaneamente, in un territorio vasto e inaccessibile, disponendo di limitate forze effettive, contando su incerti arruolamenti di inesperti volontari locali.

(segue al prossimo numero)









La teoria marxista delle crisi

1. Le Teorie sul Plusvalore
(continua dal numero scorso)
Capitolo esposto alla riunione generale del settembre 2022

1.3 David Ricardo


1.3.1 Breve biografia

David Ricardo nacque nel 1772 a Londra. I genitori appartenevano a famiglie ebree sefardite espulse nel XV secolo dalla Penisola Iberica; il padre Abraham, ricco agente di cambio, proveniente da Amsterdam si era stabilito di recente in Inghilterra. Pare che abbia frequentato una scuola ebraica ad Amsterdam, la stessa di Spinoza. A quattordici anni iniziò la carriera commerciale. Ma a 21 anni il suo matrimonio con Priscilla Ann Wilkinson, una quacchera, causò un conflitto con la famiglia e fu costretto a cavarsela da solo. Avviò la carriera di agente di cambio.

Nel 1799, durante un soggiorno a Bath, gli capitò di prendere in prestito una copia della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith. Ma il suo interesse per l’economia politica stava già crescendo dopo la decisione della Gran Bretagna di abbandonare il Gold Standard (1797) e il crollo della borsa di Amburgo. Nel 1809 iniziò anche l’attività di economista e pubblicò un primo articolo apparso anonimo sul “Morning Chronicle” dal titolo The Price of Gold. Il successivo pamphlet, The High Price of Bullion, a Proof of the Depreciation of Bank Notes avviarono l’inchiesta che porterà al celebre Bullion Report dell’agosto 1810. Ricardo divenne uno dei protagonisti della cosiddetta "Bullion Controversy"; ne difese il Rapporto in tre lettere al “Morning Chronicle” e con un pamphlet. Terminata la difesa, passò all’attacco con una lettera al Cancelliere dello Scacchiere e al capo dell’opposizione suggerendo il ripristino della convertibilità, evitando però la coniazione effettiva della moneta aurea ammettendo soltanto la convertibilità dei biglietti di banca in lingotti ai fini dei pagamenti internazionali; sostituendo cioè il sistema aureo “tradizionale” con il Gold Bullion Standard.

Dopo il 1811 l’attenzione di Ricardo si spostò alla questione delle conseguenze dell’apertura di nuovi mercati sul tasso di profitto, interesse probabilmente collegato al tema delle restrizioni al commercio del mais che era stata sollevata davanti al Parlamento nei primi mesi del 1813. Nel febbraio del 1815, quando la questione delle leggi sul mais arrivò davanti al Parlamento per il terzo anno di seguito, Ricardo pubblicò il suo Essay on the Influence of a Low Price of Corn on the Profits of Stock, nel quale dimostrò l’inefficacia delle restrizioni all’importazione, ma il partito del libero scambio venne sconfitto.

Ricardo, che pensava che la Banca fosse “un’istituzione inutile che si arricchisce con i profitti che appartengono giustamente al pubblico”, pubblico l’opuscolo Proposals for an Economical and Secure Currency. Questo proponeva di far riprendere i pagamenti in contanti alla Banca d’Inghilterra, rendendo le sue banconote convertibili in lingotti d’oro, invece che in monete. Probabilmente il piano di Ricardo ebbe un’influenza decisiva sulla decisione del 1819 di tornare al Gold Standard. È sempre del 1815 l’inizio della stesura, dietro impulso di Mill, di una nuova edizione del Saggio sui Profitti; lavoro che si concluderà nel 1817 con la pubblicazione della sua opera principale On the Principles of Political Economy, and Taxation.

Nel 1819 Ricardo entrerà in Parlamento. Nella discussione sulla Legge di bilancio il Cancelliere dello Scacchiere, il ministro delle finanze, aveva proposto un pesante aumento della tassazione indiretta. Ricardo nel dibattito accennò ad un piano per ripagare l’intero debito nazionale in quattro o cinque anni per mezzo di una tassa sulla proprietà. Questa proposta sembra aver fatto cambiare la sua reputazione alla Camera.

Gli anni 1821 e 1822 furono di grave crisi nell’agricoltura; la preoccupazione riguardava soprattutto i prezzi bassi (quello del mais nel 1822 raggiunse il minimo storico) e l’aumento del peso della tassazione. Gli agrari attribuirono la crisi alla politica deflazionistica legata al ritorno all’oro. Ricardo, al contrario, sostenne che l’apprezzamento della moneta era principalmente dovuto alla condotta dei direttori della Banca, i quali, essendo “ignoranti dei principi della moneta”, non avevano seguito il suo piano di pagamenti in oro, e con i loro acquisti di oro da coniare avevano causato un inutile aumento del suo valore; inoltre sosteneva che l’aumento del carico fiscale non poteva spiegare la crisi.

L’ultimo dei suoi lavori fu un Piano per l’istituzione di una Banca Nazionale. L’attenzione di Ricardo durante l’ultimo periodo della sua vita fu dedicata piuttosto alla teoria del valore: il problema di una misura invariabile del valore lo aveva ossessionato fin dalla pubblicazione dei suoi Principi, ed era al centro delle discussioni che ebbe in questo periodo principalmente con Malthus.


1.3.2 Teoria generale ed economia classica

Nonostante l’amicizia che legava Ricardo a Bentham la sua analisi economica non è strettamente utilitarista, cioè volta alla ricerca dell’utile immediato e al sistema filosofico corrispondente; se dai Principi emerge una tale concezione ciò avviene perché Ricardo subisce il modo di pensare dominante, la mentalità dell’uomo d’affari del capitalismo secondo cui il guadagno giustifica i mezzi e il successo è la misura di sé.

Lo schema liberistico è apparentemente più rigido rispetto a Smith perché non giustifica nessun intervento statale oltre a quello di un piccolo prelievo fiscale necessario per l’esercizio delle sue funzioni essenziali; tuttavia questo individualismo nasce più dal pessimismo verso le capacità regolatrici dello Stato in economia che dalla fiducia in un ordine naturale. Lo schema generale è sostanzialmente pessimistico perché mette in evidenza l’incapacità del sistema a realizzare uno sviluppo regolare e continuo con l’ineluttabile tendenza verso la stasi.

Il problema che Ricardo si pone è espresso nella prefazione alla prima edizione dei Principi: «Il prodotto della terra, tutto quanto si ricava dalla sua superficie grazie all’impiego combinato di lavoro, macchine e capitale, viene ripartito tra le due classi della collettività, vale a dire tra il proprietario del terreno, il proprietario delle scorte o capitali necessari per coltivarlo e i lavoratori, che con l’opera loro lo coltivano. Essenzialmente diverse sono, nei diversi stadi della società, le quote parti del prodotto complessivo attribuite a ciascuna di tali classi, denominate rendita, profitto e salari, dipendendo esse principalmente dalla fertilità del suolo, dall’accumularsi di capitale e popolazione, nonché dall’abilità, dal talento e dagli strumenti di cui ci si vale nella coltura. Determinare le leggi che regolano tale distribuzione è il problema principale dell’economia politica».

A differenza di Smith, Ricardo dimostra che anche nel capitalismo il valore di scambio delle merci è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle, ipotizzando che siano prodotte con capitali di uguale composizione organica, in modo che il valore di scambio possa essere calcolato semplicemente come rapporto fra le diverse quantità di lavoro vivo.

Ne deriva che il valore di scambio è indipendente dal prezzo delle merci. Come Smith, anche Ricardo accetta la tesi per cui domanda ed offerta totali si eguagliano, cosicché la maggiore o minore domanda di una determinata merce può elevare o diminuire il suo prezzo di mercato, ma alla variazione in una direzione in un determinato settore produttivo corrisponderà necessariamente una variazione in senso opposto in un altro settore.

La teoria del valore è sostenuta quindi dall’ipotesi dell’eguale sviluppo tecnico dei vari settori produttivi e dall’affermazione che la rendita non è una componente del costo di produzione. Questa seconda tesi è una rielaborazione della teoria della rendita di Malthus, ovvero il principio dei rendimenti decrescenti delle terre messe a coltura.

Quando la popolazione cresce e bisogna provvedere una maggiore quantità di derrate, non è possibile trovare terre di uguale fertilità o di eguale distanza dal mercato rispetto a quelle già coltivate; sarà necessario ricorrere a terreni meno fertili o più lontani o intensificare l’impiego di capitali. Il prezzo dell’alimento base (il grano) in un mercato concorrenziale necessariamente si eleverà al prezzo di quello coltivato sui terreni peggiori, quindi il suo prezzo aumenterà. La differenza che si viene a creare fra il costo di produzione sul terreno peggiore e i minori costi sostenuti sulle terre di grado migliore costituirà la rendita differenziale dei proprietari di questi terreni. L’aumento della popolazione necessariamente connesso allo sviluppo economico porterà continuamente alla coltivazione di terreni sempre peggiori avvantaggiando quindi la classe dei proprietari terrieri.

Esclusa la rendita dal costo di produzione il problema della determinazione di salari e profitti si semplifica; anche in questo caso Ricardo elabora un principio già enunciato da Malthus: la popolazione varia nello stesso senso dei salari e questa variazione è sufficiente a riportare i salari al livello minimo, di sussistenza. Il salario “naturale”, il «prezzo occorrente a porre i lavoratori, nel loro complesso, in condizioni di sussistere e di perpetuare, senza aumenti né diminuzioni, la loro progenie» è quindi determinato da una legge demografica, anche se ammette che il livello di sussistenza possa elevarsi essendo legato non alle pure esigenze di vita fisica, ma anche alle abitudini di consumo dei lavoratori. La teoria ricardiana del profitto poggia sull’affermazione che «i profitti dipendono dai salari, i salari nel lungo periodo dal prezzo del grano e dei beni di prima necessità, il prezzo del grano e dei beni di prima necessità dalla fertilità dell’ultima terra coltivata».

La teoria dello sviluppo di Ricardo è il tentativo di spiegare come le «proporzioni in cui l’intero prodotto viene diviso fra proprietari fondiari, capitalisti e lavoratori» si modificano per effetto dell’accumulazione, fattore determinante dello sviluppo stesso, ma che mette in moto forze in grado di rallentarne il ritmo fino ad annullarlo.

Contrapponendosi a Richard Jones e d’accordo con Smith, sostiene che l’unico reddito non speso in consumi necessari o di lusso è il profitto; poiché il consumo della borghesia è minimo in confronto ai propri redditi, si può considerare che la massa globale dei profitti sia accumulata come capitale, e questo si converta in domanda di lavoro produttivo.

In assenza di aumento della composizione organica del capitale, accumulazione e domanda di lavoro crescono allo stesso ritmo con cui crescono i profitti.

Se nella ripartizione capitalisti e lavoratori sono antagonisti, perché la quota di reddito degli uni cresce a detrimento di quella degli altri, nello sviluppo dell’accumulazione presentano interessi coincidenti perché i salari crescono all’aumentare dei profitti.

Ricardo, concordando con Malthus, ammette che la popolazione non rimarrà stazionaria, perciò le esigenze dell’accresciuta popolazione porteranno alla coltivazioni di nuovi terreni. Se la disponibilità di terreni di uguale fertilità fosse illimitata il capitalismo potrebbe realizzare uno sviluppo equilibrato, ma, accettando la teoria dei rendimenti decrescenti, la maggiore quantità di mezzi di sussistenza necessari per l’accresciuta popolazione può ottenersi solo a un costo crescente, con la conseguenza che si avrà un aumento delle rendite, un aumento dei salari nominali necessario per mantenere al livello di sussistenza i salari reali, un decremento tendenziale sia del saggio sia della massa del profitto.

Per ovviare a questo «melanconico stato stazionario» Ricardo propone il miglioramento delle tecniche produttive agricole; l’abolizione dei dazi sui cereali, che permetterà la loro importazione da paesi dove la fertilità marginale della terra è ancora elevata; la limitazione della crescita della popolazione; l’abolizione delle leggi sui poveri.

L’intero schema si basa nell’ipotesi di assenza di progresso tecnico, con conseguente aumento della domanda di lavoro in proporzione all’accumulazione di capitale. Dello sviluppo tecnico Ricardo sembra ritenere che sia in grado di avvantaggiare tutte le classi e riassorbire la disoccupazione, ma nelle edizioni successive dei Principi sostiene che il rialzo dei salari induce i capitalisti a sostituire lavoro con macchine con crescita del capitale fisso rispetto al capitale variabile, con drastica diminuzione della domanda di lavoro.


1.3.3 Valore e tempo di lavoro

Ricardo parte dalla determinazione del valore di scambio delle merci mediante la quantità di lavoro, ma il carattere di questo lavoro non viene ulteriormente esaminato. Se due merci sono equivalenti – oppure sono equivalenti in una determinata proporzione – esse in quanto valori di scambio sono uguali. La loro sostanza è il lavoro. Perciò esse sono valore. La loro grandezza è diversa a seconda che contengano più o meno di questa sostanza. Cioè, i valori delle merci stanno fra loro come le quantità di lavoro che sono richieste per la loro produzione.

Il suo metodo è partire dalla determinazione della grandezza di valore della merce mediante il tempo di lavoro e indagare poi se i restanti rapporti, le categorie economiche, contraddicono questa determinazione del valore o in quale misura essi la modifichino. Questo modo di procedere mostra la sua insufficienza scientifica non solo nel modo della rappresentazione (formale), ma conduce ad erronei risultati, perché salta dei termini medi necessari cercando la congruenza delle categorie economiche tra loro.

Smith stesso si muove con grande ingenuità in una contraddizione continua. Da un lato segue il nesso interno delle categorie economiche, ossia la struttura nascosta del sistema economico borghese. Dall’altro vede il nesso quale esso è dato apparentemente nei fenomeni della concorrenza e quale si presenta all’osservatore non scientifico, come a colui che è impigliato e interessato praticamente nel processo della produzione borghese. In Smith questi due modi di concepire o corrono disinvolti parallelamente, o s’incrociano e si contraddicono continuamente. Il compito di Smith era infatti duplice: da un lato penetrare nell’intima fisiologia della società borghese, dall’altro descrivere per la prima volta da una parte le forme esternamente manifestantesi, di rappresentare il loro nesso quale si manifesta esternamente, e in parte ancora di trovare per questi fenomeni una nomenclatura e dei concetti logici corrispondenti, quindi di riprodurli per la prima volta nel processo del pensiero.

Ricardo afferma che il punto di partenza della fisiologia del sistema borghese è la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro. E costringe ora la scienza a rendersi conto della misura in cui le restanti categorie corrispondano o contraddicano a quel punto di partenza. Questo è il grande significato storico di Ricardo. Strettamente connesso a questo merito scientifico è il fatto che esprima il contrasto economico delle classi e che perciò nell’economia viene colta nella sua radice la lotta storica e il processo del suo divenire.


1.3.4 Valore “assoluto” e “relativo”

Ricardo chiama il valore “valore di scambio”, e lo definisce, assieme a Smith, come «il potere di acquistare altri beni». Poi arriva alla definizione reale del valore come una quantità relativa fra due merci che vengono prodotte mediante il lavoro. Valore relativo non significa qui altro che il valore di scambio, determinato dal tempo di lavoro. Ma può avere anche un altro significato, in quanto cioè si esprima il valore di scambio di una merce nella quantità di un’altra. «Due merci mutano in valore relativo, e noi vogliamo sapere in quale delle due la variazione ha (...) avuto luogo» (“Principles on Political Economy”).

Ricardo chiamerà più tardi questo valore relativo anche valore comparativo. La variazione che noi vogliamo conoscere è, se il tempo di lavoro necessario per lo zucchero o per il caffè cambia, se lo zucchero costa un tempo di lavoro due volte maggiore di prima o se il caffè costa un tempo di lavoro due volte minore di prima e quale di queste variazioni nel tempo di lavoro necessario alla loro rispettiva produzione ha prodotto questa variazione nel loro rapporto di scambio. Questo valore relativo di zucchero e caffè – il rapporto in cui essi si scambiano – è quindi diverso dal valore relativo nel primo significato. Nel primo significato il valore relativo dello zucchero è determinato dalla massa di zucchero che, in un determinato tempo di lavoro, può essere prodotta. Nel secondo caso il valore relativo di zucchero e caffè esprime il rapporto in cui vengono scambiati l’uno con l’altro, e i cambiamenti in questo rapporto risultano da un cambiamento del valore relativo nel primo significato nel caffè o nello zucchero. Variazioni nel loro valore relativo, cioè quando il valore di scambio dello zucchero viene espresso in caffè e viceversa, si mostreranno solo allorché le variazioni nel loro valore relativo nel primo significato, cioè valori determinati dalla quantità di lavoro, sono inegualmente cambiate, quindi hanno avuto luogo cambiamenti relativi.

Cambiamenti assoluti, se sono di uguale grandezza e procedono nella stessa direzione, non produrranno nessuna variazione nei valori relativi. Perciò, che io esprima i valori di due merci nelle loro quantità, o che io rappresenti ambedue i valori nella quantità d’una terza merce, questi valori relativi e i loro cambiamenti vanno distinti dai loro valori relativi nel primo significato, cioè in quanto essi non esprimono altro che un cambiamento del tempo di lavoro richiesto per la loro propria produzione, e quindi del tempo di lavoro in esse stesse realizzato.


1.3.5 Prezzo di costo e valore

In un tempo dato in differenti branche d’industria capitali di uguale grandezza devono fruttare uguali profitti qualunque sia il loro tempo di circolazione e indipendentemente dall’ammontare dei differenti plusvalori prodotti, a seconda delle loro componenti organiche. Capitali di uguale grandezza producono merci di valori ineguali e fruttano perciò profitti ineguali, perché il valore è determinato dal tempo di lavoro e la massa di tempo di lavoro che un capitale realizza non dipende dalla sua grandezza totale, ma dalla grandezza del capitale variabile.

In secondo luogo: anche posto che capitali di uguale grandezza producano valori uguali, tuttavia, a seconda di loro diversi tempi di circolazione, diverso è il periodo in cui essi possono appropriarsi di uguali quantità di lavoro non pagato e trasformarle in denaro. Questo dà quindi una seconda differenza nei valori, plusvalori e profitti che in un determinato periodo capitali di uguale grandezza possono fruttare nelle differenti branche.

Perciò, se il saggio del profitto deve essere uguale, come percentuale sul capitale investito per un anno, così che capitali di uguale grandezza fruttino in periodi di tempo uguali profitti uguali, allora i prezzi delle merci devono essere differenti dai loro valori. Questo prezzo di costo di tutte le merci insieme, la loro somma, sarà uguale al loro valore. Il profitto complessivo sarà del pari uguale al plusvalore complessivo che questi capitali insieme fruttano nel periodo considerato. Il profitto medio, e quindi anche il prezzo di costo, sarebbe solo immaginario se non prendessimo la determinazione di valore come fondamento. Questa perequazione dei plusvalori nelle differenti branche non muta niente nella grandezza assoluta del plusvalore complessivo, muta solo la sua ripartizione. La determinazione stessa di questo plusvalore risulta però solo dalla determinazione del valore mediante tempo di lavoro. Senza di essa, il profitto medio è media di niente.

Tuttavia in Ricardo resta avvolto nel mistero come dalla semplice determinazione del valore delle merci derivi il profitto e un saggio generale del profitto. L’unica cosa che dimostra è che i prezzi delle merci, in quanto sono determinati da un saggio generale di profitto, sono assolutamente differenti dai valori delle merci. Ed egli giunge a questa differenza supponendo come dato il saggio di profitto. Quando gli si rimprovera un eccesso d’astrazione, il rimprovero inverso sarebbe quello legittimo; la mancanza di forza d’astrazione, l’incapacità di dimenticare nei valori delle merci i profitti.

Ricardo dice che capitali di uguale grandezza producono merci di uguali valori se il rapporto delle loro componenti organiche è il medesimo. Nelle loro merci si incorporano allora le stesse quantità di lavoro, e quindi uguali valori. Capitali di uguale grandezza producono invece merci di valore diseguale quando la loro composizione organica è differente, soprattutto quando la parte esistente come capitale fisso sta in rapporto diverso con la parte spesa in salari. Poiché solo la parte di logorio del capitale fisso entra nella merce come componente del suo valore, questo diventa assai differente a seconda del maggiore o minore capitale fisso che è impiegato nella produzione della merce. In secondo luogo la parte spesa in salari è minore, e quindi anche il lavoro complessivo che è incorporato nella merce da una data giornata lavorativa di uguale lunghezza, che costituisce il plusvalore.

Perciò se questi capitali di uguale grandezza, le cui merci hanno valori ineguali, devono fruttare uguali profitti, allora il valore delle merci deve essere differente dai prezzi, determinati dal saggio generale di profitto su una data spesa di capitale. Non ne consegue che i valori mutino la loro natura, ma che i prezzi sono diversi dai valori.

Il saggio generale di profitto non è niente altro che la perequazione dei differenti saggi del plusvalore nelle diverse merci.


1.3.6 Valore individuale e valore di mercato

«Il valore di scambio di tutte le merci (...) è sempre determinato non dalla minore quantità di lavoro che è sufficiente a produrle in circostanze particolarmente propizie (...) ma dalla quantità di lavoro maggiore che deve essere necessariamente impiegata nella loro produzione da coloro i quali non dispongono di tali agevolazioni, da coloro che continuano a produrle nelle circostanze meno favorevoli».

La tesi può venire espressa così: il valore di una merce prodotta di una particolare sfera di produzione è determinato dal lavoro che è richiesto per produrre l’intera massa, la somma totale delle merci corrispondenti alla sfera di produzione, e non dal tempo di lavoro particolare che è richiesto per ogni suo singolo capitalista. Le condizioni generali di produzione e la produttività generale del lavoro in una sfera particolare di produzione sono le sue condizioni medie di produzione e la sua produttività media. La quantità di lavoro da cui quindi è determinato per esempio un dato metro di stoffa di cotone non è la quantità di lavoro che si trova in esso ma la quantità media con cui tutti i produttori di cotone sul mercato producono un metro di stoffa di cotone.

Le condizioni particolari in cui i singoli capitalisti producono si dividono necessariamente in tre gruppi. Gli uni producono in condizioni medie, vale a dire che le condizioni individuali di produzione in cui essi producono coincidono con le condizioni generali di produzione in quella sfera. Il saggio del profitto medio coincide con quello loro individuale. La produttività del loro lavoro è quella media. Il valore individuale delle loro merci coincide con il valore generale di queste merci. Un altro gruppo produce in condizioni migliori di quelle medie. Il valore individuale delle loro merci sta al di sotto del loro valore generale, al quale possono venderle. Un terzo gruppo infine produce al di sotto delle condizioni medie di produzione.

Il valore delle merci espresso in denaro è il prezzo di mercato. Questo prezzo sta ora al di sopra ora al di sotto del valore di una merce e gli corrisponde solo casualmente. Ma in un certo periodo le oscillazioni si bilanciano e si può dire che la media dei prezzi effettivi di mercato coincide con il valore di mercato.

In parte la concorrenza dei capitalisti fra loro, in parte quella fra compratori della merce e i capitalisti, operano qui in modo tale che il valore di ogni singola merce in una sfera particolare di produzione è determinato dalla massa complessiva del tempo di lavoro sociale che la massa complessiva delle merci di questa particolare sfera di produzione richiede, e non dai valori individuali delle singole merci.

Da ciò risulta che in ogni circostanza i capitalisti che appartengono al primo gruppo, le cui condizioni di produzione sono più favorevoli delle condizioni medie, si appropriano di un sovrapprofitto, e quindi il loro profitto sta al di sopra del saggio generale di profitto di questa sfera. La concorrenza perequa i differenti valori individuali al valore di mercato causando la differenza dei profitti individuali e le loro deviazioni dal saggio medio di profitto della sfera. La concorrenza stabilisce lo stesso valore di mercato per merci che sono prodotte in condizioni di produzione inegualmente vantaggiose e quindi con ineguale produttività del lavoro e che quindi rappresentano quantità individuali di tempo di lavoro di ineguale grandezza. La merce prodotta nelle condizioni più vantaggiose contiene meno tempo di lavoro di quella prodotta in condizioni più svantaggiose, ma si vende allo stesso prezzo, come se contenesse il medesimo tempo di lavoro.


1.3.7 Legge del plusvalore e legge del profitto

Da nessuna parte Ricardo tratta il plusvalore separandolo e distinguendolo dalle sue forme particolari di profitto e rendita. Perciò le sue considerazioni sulla composizione organica del capitale sono limitate alle differenze tramandate dai fisiocratici, quali risultano dal processo di circolazione (del capitale fisso e circolante), mentre da nessuna parte egli tocca le differenze della composizione organica entro il processo di produzione. Donde la sua confusione fra valore e prezzo di costo, l’errata teoria della rendita, le errate leggi sulle cause dell’aumento e della caduta del saggio di profitto, ecc.

Saggi del profitto e saggio del plusvalore sono identici solo in quanto il capitale anticipato si identifica col capitale direttamente speso in salario. Nelle sue considerazioni sul profitto e sul salario, Ricardo astrae ora anche dalla parte costante del capitale, quella non spesa in salario. In questo senso prende in considerazione il plusvalore e non il profitto, perciò si può parlare in lui di una teoria del plusvalore. D’altro canto, però, crede di parlare del profitto in quanto tale, e in realtà dappertutto si frammischiano punti di vista che partono dal presupposto del profitto e non del plusvalore. Dove Ricardo espone esattamente le leggi del plusvalore, le falsifica per il fatto che le esprime immediatamente come leggi del profitto. D’altro canto vuole esporre le leggi del profitto immediatamente, senza i termini medi, come leggi del plusvalore.

Quando parliamo della sua teoria del plusvalore, parliamo dunque della sua teoria del profitto, in quanto egli confonde questo col plusvalore, dunque considera il profitto solo in riferimento al capitale variabile. È tanto insito nella natura della cosa che il saggio del plusvalore possa essere trattato solo in riferimento al capitale variabile che Ricardo tratta l’intero capitale come capitale variabile e astrae dal capitale costante, benché se ne faccia occasionalmente menzione nella forma di anticipazioni.

Se il profitto fosse messo in rapporto alla quantità di lavoro impiegata, allora uguali capitali frutterebbero profitti molto diseguali, essendo il loro profitto uguale al plusvalore prodotto nel loro proprio settore produttivo, e questo non dipende dalla grandezza del capitale in generale ma dalla grandezza del capitale variabile. Dato il saggio del plusvalore, la sua massa per un capitale determinato dipende non dalla grandezza totale del capitale ma dalla quantità di lavoro impiegata. Dato il saggio generale del profitto, la massa del profitto dipende dal totale del capitale impiegato e non dalla quantità di lavoro. Ricardo parla espressamente di settori, come il ramo dei trasporti, il commercio estero e rami d’industria in cui è richiesto un macchinario costoso; cioè che impiegano proporzionalmente molto capitale costante e poco capitale variabile. Dato il saggio del profitto, la sua massa dipende in generale dalla grandezza dei capitali anticipati. Ma ciò non distingue i settori in cui vengono impiegati grandi capitali e molto capitale costante da quelli in cui vengono impiegati piccoli capitali costanti. Ma capitali di uguale grandezza fruttano profitti di uguale grandezza.


1.3.10. Quantità di lavoro e “valore” del lavoro

«Il valore di una merce, o la quantità di ogni altra merce per cui essa viene scambiata, dipende dalla quantità relativa di lavoro che è necessaria alla sua produzione e non già dal maggiore o minore compenso che viene pagato per questo lavoro». La determinazione del valore delle merci mediante il tempo di lavoro non coincide il compenso per questo tempo di lavoro. Ricardo si rivolge fin da principio contro la confusione operata da Smith fra la determinazione del valore delle merci mediante la quantità proporzionale di lavoro richiesta per la loro produzione e il prezzo del lavoro.

«Adam Smith il quale così esattamente ha definito la sorgente originaria del valore di scambio e che per essere obbligato ad attenersi conseguentemente al fatto che tutte le cose diventano più o meno pregiate a seconda del maggiore o minore lavoro che viene impiegato alla loro produzione, ha (...) stabilito un’altra misura base del valore e parla di cose che sono più o meno pregiate a seconda che si scambieranno per più o meno di questa misura base (...) come se queste due espressioni fossero equivalenti e come se, in quanto il lavoro di un uomo è diventato due volte produttivo e può produrre perciò la quantità doppia di una merce, ricevesse necessariamente in cambio di essa il doppio della quantità precedente».

Smith però non afferma da nessuna parte che queste due espressioni siano equivalenti; al contrario: poiché nella produzione capitalistica il salario dell’operaio non è più uguale al suo prodotto e quindi la quantità di lavoro che una merce costa e la quantità di merce che l’operaio può acquistare con questo lavoro sono due cose differenti, per questo motivo la quantità necessaria di lavoro contenuta nelle merci cessa di determinare il loro valore, e questo viene determinato dalla quantità di lavoro che io posso acquistare con una massa determinata di merci. Perciò il lavoro, anziché la quantità di lavoro necessario, diventa la misura dei valori. Ricardo risponde giustamente dicendo che la quantità di lavoro contenuta in due merci non è assolutamente influenzata da quanto di queste quantità di lavoro spetta agli operai stessi.

Se la quantità di lavoro era la misura dei valori delle merci prima dell’introduzione del salariato non c’è nessuna ragione perché non lo debba restare dopo l’introduzione del salario. Ricardo risponde giustamente che Smith può usare ambedue le espressioni finché esse erano equivalenti, ma che questa non è una ragione per adoperare l’espressione errata anziché quella esatta non appena esse hanno cessato di essere equivalenti.

Ma con ciò Ricardo non ha risolto il problema che è la ragione intima della contraddizione di Smith. Valore del lavoro e quantità di lavoro restano espressioni equivalenti finché si tratta di lavoro oggettivato. Cessano di esserlo non appena lavoro oggettivato e lavoro vivo vengono scambiati. Due merci si scambiano in rapporto al lavoro in esse oggettivato. Il tempo di lavoro è la loro misura base.

Il lavoro salariato è una merce. Esso è addirittura la base su cui ha luogo la produzione dei prodotti in quanto merci. Per esso non si verificherebbe la legge del valore. Quindi questa non domina in generale la produzione capitalistica. Qui c’è una contraddizione ed è il primo problema in cui cade Smith. Il secondo è che il valore di una merce non starebbe in rapporto al lavoro che essa contiene, ma in rapporto al lavoro altrui pagato. Questo sarebbe il secondo motivo per affermare che con l’inizio della produzione capitalistica il valore delle merci viene determinato non dal lavoro che esse contengono, ma dal lavoro vivo in esse retribuito, dal valore del lavoro.

Ricardo non avverte la presenza di questo problema in Smith. Conformemente a tutta l’impostazione della sua indagine, gli basta provare che il mutevole valore del lavoro non elimina la determinazione di valore delle merci diverse dal lavoro stesso mediante la quantità relativa di lavoro in esse contenuta.

Ma in che cosa si distingue la merce lavoro da altre merci? La prima è lavoro vivo, le altre lavoro oggettivato. Quindi sono solo due diverse forme di lavoro. Perché per l’una vale una legge che non vale per l’altra, dal momento che la differenza è solo formale? Ricardo a ciò non risponde perché non serve dire che: «Non è forse il valore del lavoro (...) variabile, poiché esso non solo, come tutte le altre cose (...) viene influenzato dal rapporto fra domanda e offerta (...) ma anche dalla variazione di prezzo dei viveri e delle altre cose necessarie alla vita per le quali viene speso il salario del lavoro?».

Che il prezzo del lavoro cambi, come quello delle altre merci, con domanda e offerta, secondo Ricardo stesso non prova niente, quando si tratta del valore del lavoro, così come questa variazione di prezzo con offerta e domanda non prova niente per il valore delle altre merci.

Ma che i salari siano influenzati da «la variazione di prezzo dei viveri e delle altre cose necessarie alla vita per le quali viene speso il salario» prova altrettanto poco perché il valore del lavoro sia determinato diversamente dal valore delle altre merci. Poiché anche queste vengono influenzate dalla variazione di prezzo di altre merci che entrano nella loro produzione.

La questione è proprio questa: perché il lavoro e le merci, con le quali il lavoro di scambia, non si scambiano secondo la legge dei valori, secondo le quantità relative di lavoro? Posta però così la questione è in sé insolubile perché si contrappone lavoro come tale alla merce, una quantità determinata di lavoro immediato in quanto tale, a una quantità determinata di lavoro oggettivato.

Il valore di una merce è uniformemente determinato dalla quantità di lavoro oggettivato richiesto per la sua produzione, dalla quantità di lavoro vivo richiesto per la sua produzione. Le quantità di lavoro non sono affatto influenzate dalla distinzione formale se il lavoro sia oggettivato o vivo. Se questa distinzione è indifferente nella determinazione di valore delle merci, perché essa diventa di così decisiva importanza se un lavoro passato (capitale) viene scambiato con lavoro vivo?


1.3.11 “Valore” della capacità lavorativa

Per determinare il plusvalore anche Ricardo come i propri predecessori deve determinare il valore della capacità lavorativa. Come viene determinato il valore, o prezzo naturale, del lavoro? Secondo Ricardo non è nient’altro che l’espressione monetaria del lavoro. «Il lavoro ha, come tutte le altre cose che sono comprate e vendute e che possono essere aumentate o diminuite nella loro quantità (...) il suo prezzo naturale e il suo prezzo di mercato. Il prezzo naturale del lavoro è il prezzo che è necessario a mettere in condizione gli operai (...) di esistere e di riprodurre la loro stirpe senza aumenti o diminuzioni». «La capacità dell’operaio di mantenere se stesso e la sua famiglia che è richiesta per conservare il numero degli operai (...) dipende dal prezzo dei viveri, degli oggetti necessari alla vita e degli agi che sono necessari al sostentamento dell’operaio e della sua famiglia. Se il prezzo dei viveri e degli oggetti necessari alla vita sale, salirà anche il prezzo naturale del lavoro» (Ivi).

Quindi il valore del lavoro è determinato dai mezzi di sussistenza tradizionalmente necessari in una data società per il sostentamento e la riproduzione degli operai. Ma secondo quale legge è così determinato? Ricardo non ha altra risposta se non che la legge dell’offerta e della domanda riduce il prezzo medio del lavoro ai mezzi di sussistenza necessari al suo sostentamento, determinando cioè il valore mediante domanda e offerta.

Egli avrebbe dovuto parlare, anziché del lavoro, di capacità di lavoro. Ma con ciò il capitale si sarebbe rappresentato anche come le condizioni di lavoro oggettive che si contrappongono, in quanto potenza resasi autonoma, all’operaio. E il capitale si sarebbe subito rappresentato come rapporto sociale determinato. Così esso si distingue per Ricardo dal lavoro immediato solo in quanto lavoro accumulato. Ed è qualcosa di semplicemente tecnico, un semplice elemento nel processo lavorativo, dal quale non può essere mai sviluppato il rapporto fra operaio e capitale.

Ricardo distingue tra salari nominali e reali. Il salario nominale è il salario espresso in denaro. Il salario nominale è «il numero di sterline pagato annualmente l’operaio», ma il salario reale è «il numero delle giornate lavorative necessarie per ottenere queste sterline». Poiché i salari corrispondono ai mezzi di sussistenza del lavoratore, e il valore di questi salari è uguale al valore di questi mezzi, anche il valore di essi è manifestamente uguale ai salari reali, uguale al lavoro che essi possono acquistare. Se il valore dei mezzi di sussistenza muta, muta il valore dei salari reali. Supponiamo che i mezzi di sussistenza dell’operaio constino semplicemente di grano e che la sua quantità necessaria di mezzi di sussistenza sia 1 quarter di grano al mese. Se aumenta o diminuisce il valore del quarter di grano, allora aumenta o diminuisce il valore del lavoro mensile. Ma per aumenti o diminuisca il valore del quarter di grano esso è sempre uguale al valore di un mese di lavoro. E qui noi abbiamo la ragione nascosta per la quale Smith dice che non appena il capitale, e per conseguenza il lavoro salariato, intervengono, non sarebbe la quantità di lavoro impiegata sul prodotto, ma la quantità di lavoro che esso può acquistare che regola il suo valore. Il valore del grano determinato dal tempo di lavoro, cambia; ma finché viene pagato il prezzo naturale del lavoro, la quantità di lavoro equivalente al quarter di grano, resterebbe la stessa.


1.3.12. Il plusvalore

Il singolo operaio, in cambio del suo salario non produce direttamente i prodotti di cui vive, ma merci, del valore dei suoi mezzi di sussistenza. Se consideriamo il suo consumo giornaliero medio, il tempo di lavoro che è contenuto nei quotidiani mezzi di sussistenza costituisce una parte della sua giornata lavorativa. La merce prodotta durante questa parte della giornata lavorativa ha lo stesso valore, ossia è un tempo di lavoro di uguale grandezza di quello contenuto nei suoi quotidiani mezzi di sussistenza. Dipende dal valore di questi (e quindi dalla produttività sociale del lavoro, non dalla produttività del singolo ramo in cui egli lavora) la grandezza della parte della sua giornata lavorativa dedicata alla riproduzione del suo valore.

Ricardo presuppone che il tempo di lavoro contenuto nei quotidiani mezzi di sussistenza sia uguale al tempo di lavoro giornaliero che l’operaio deve lavorare per riprodurre il loro valore. Ma con ciò non esprime la chiara comprensione del rapporto, non rappresentando immediatamente una parte della giornata lavorativa dell’operaio come finalizzata alla riproduzione del valore della sua propria capacità lavorativa. Non viene in chiaro l’origine del plusvalore, e di conseguenza la giornata lavorativa complessiva è considerata come una grandezza fissa, sono ignorate le differenze nella grandezza del plusvalore, e la produttività del capitale, la costrizione al pluslavoro, a quello assoluto, e poi il suo immanente impulso ad accorciare il tempo di lavoro necessario. Non è quindi sviluppata la legittimazione storica del capitale. Smith aveva invece già espresso la formula esatta. Se era importante risolvere il valore in lavoro, era altrettanto importante risolvere il plusvalore in pluslavoro.

Ricardo parte dalla realtà presente della produzione capitalistica. Il valore del lavoro è minore del valore del prodotto che esso crea. L’eccedenza del valore del prodotto sul valore dei salari è uguale al plusvalore. Ricardo dice profitto, ma identifica qui profitto con plusvalore. Per lui è un fatto che il valore del prodotto è maggiore del valore dei salari, ma come questo risulti resta oscuro. La grandezza della giornata lavorativa complessiva viene perciò erroneamente presupposta come fissa e da ciò seguono conseguenze erronee. L’ingrandimento o l’impiccolimento del plusvalore può perciò essere spiegato solo con la crescente o decrescente produttività del lavoro sociale che produce i mezzi di sussistenza. È compreso, cioè, solo il plusvalore relativo.

Se l’operaio avesse bisogno di tutta la sua giornata per produrre i suoi propri mezzi di sussistenza non sarebbe possibile alcun plusvalore, quindi nessuna produzione capitalistica e nessun lavoro salariato. Perché quella esista, la produttività del lavoro sociale deve essere sufficientemente sviluppata affinché esista una qualche eccedenza della giornata lavorativa complessiva sul tempo di lavoro necessario alla riproduzione dei salari. Ma se con un tempo di lavoro dato la produttività del lavoro può essere molto diversa, anche con una data produttività il tempo di lavoro può essere molto diverso.

Se deve essere presupposto un certo sviluppo della produttività del lavoro perché possa esistere un pluslavoro, la semplice possibilità non crea ancora la sua realtà. L’operaio deve essere costretto a lavorare oltre quella grandezza, e questa costrizione la esercita il capitale. Da qui nasce la lotta per la determinazione della giornata lavorativa normale. Questo manca in Ricardo.

Al grado più basso dello sviluppo della produttività sociale del lavoro, quando il pluslavoro è relativamente piccolo, la classe di coloro che vivono del lavoro altrui sarà in generale piccola in rapporto al numero degli operai. Essa può crescere in misura rilevante nella misura in cui si sviluppa la produttività, e quindi il plusvalore relativo. Di una grandezza data una parte può crescere solo in quanto l’altra diminuisce e viceversa. Ma trattandosi di grandezze crescenti può non esserlo. La giornata lavorativa è questa grandezza crescente.

Data la durata della giornata lavorativa, dato il tempo di lavoro necessario, quindi dato il saggio del plusvalore, la massa del plusvalore dipende dal numero di operai occupati dallo stesso capitale. Il saggio del profitto, che è uguale al rapporto fra il plusvalore e il capitale anticipato, dipende quindi dalla grandezza del plusvalore.

Cadendo il saggio del plusvalore il saggio del profitto aumenta, aumentando il saggio del plusvalore il saggio del profitto cade. Ma è falso identificare le leggi sull’aumento e la caduta del saggio del plusvalore con le leggi sull’aumento e la caduta del saggio del profitto. Capitali di uguale grandezza ma di composizione organica differente impiegano un numero ineguale di operai, e quindi producono un plusvalore e un profitto ineguali.

«Il lavoro di un milione di uomini nelle manifatture produrrà sempre lo stesso valore». Cioè il prodotto del loro lavoro giornaliero sarà sempre il prodotto di un milione di giornate lavorative. Ma conterrà lo stesso tempo di lavoro solo se fosse stabilita in generale la stessa giornata lavorativa. Tuttavia anche allora la tesi è errata nella forma generale qui espressa. Se il capitale anticipato consistesse solo in capitale variabile, presupposto sempre presente in lui come in Smith, allora Ricardo avrebbe ragione nella misura in cui parla del capitale dell’intera società, ma la produzione capitalistica si divide in settori e in aziende diverse.

Benché il capitale costante fisso impiegato nel processo lavorativo entri solo nel sua quota di logorio nel processo di valorizzazione del prodotto, il capitale costante non appare nel valore del prodotto annuo. Considerare solo il logorio del capitale fisso è importante per la determinazione del saggio generale di profitto.

Durante lo stesso periodo di produzione di un anno, ciò che in una sfera di produzione appare come capitale costante, appare come parte del valore di una materia prima all’interno di un’altra sfera, così che una gran parte del capitale speso annualmente che appare come capitale costante dal punto di vista del singolo capitalista o della sfera particolare di produzione, si risolve in capitale variabile dal punto di vista della classe dei capitalisti. Il valore del capitale costante appare di nuovo, è riprodotta nel prodotto.

Col crescere della proporzione del capitale costante rispetto a quello variabile cresce anche la produttività del lavoro. In seguito a ciò una parte del capitale esistente viene costantemente svalorizzata, conformandosi il suo valore non al tempo di lavoro che originariamente è costato, ma al tempo di lavoro con cui può essere riprodotto, che diminuisce costantemente con la crescente produttività del lavoro. Tuttavia, benché il suo valore non cresca in proporzione alla sua massa, esso cresce perché la sua massa cresce più rapidamente di quanto diminuisca il suo valore.

Tornando all’esempio di Ricardo, presupposta data la giornata lavorativa, il valore del prodotto del lavoro annuo di un milione di salariati sarà molto diverso a seconda della diversità della massa di capitale costante che entra nel prodotto. Sarà maggiore, nonostante la crescente produttività del lavoro, là dove il capitale costante costituisce una grande parte del capitale complessivo. Col progresso della produttività del lavoro sociale che si accompagna al concrescere del capitale costante, questo andrà a costituire una parte relativamente sempre maggiore delle merci prodotte da un singolo capitale.

Così la proporzione della parte di valore che il singolo operaio crea diminuirà sempre più rispetto al prodotto del suo lavoro passato, che gli si fa di contro come capitale costante. Con ciò l’estraniazione e l’antitesi fra la capacità di lavoro e le condizioni obiettive del lavoro, resesi indipendenti nel capitale, crescono costantemente.

(segue al prossimo numero)










Ricapitolando sulla questione cinese


(
contina dal numero scorso)


7. Il Partito tra il I e il II Congresso


Capitolo esposto alle riunioni generali del maggio 2021 e gennaio 2022


7.1 - Precisazioni sull’atteggiamento verso il movimento nazional-rivoluzionario

Al Congresso dei Comunisti e delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente, del gennaio 1922, l’Internazionale definì con chiarezza i rapporti fra il movimento nazional-rivoluzionario da una parte e il movimento proletario rivoluzionario dall’altra nei paesi dell’Estremo Oriente, questione affrontata nei rapporti di Zinoviev e Safarov.

Significative sono anche le risposte che furono date alle obiezioni dei delegati del Kuomintang che intervennero al Congresso, in cui emerge chiaro il modo di rapportarsi con un partito non comunista, ma col quale bisognava percorrere insieme un pezzo di strada in un paese come la Cina, dove era all’ordine del giorno una rivoluzione doppia, senza nascondere le proprie convinzioni sul futuro del corso della lotta di classe, senza ammainare la bandiera del comunismo, e senza procedere a minime revisioni dell’impianto teorico, organizzativo e tattico precedentemente stabilito. Fu uno degli ultimi momenti di chiarezza rivoluzionaria che avrebbe lasciato spazio di lì a poco tempo alle ambivalenze per convenire ad accordi col Kuomintang, fino a sfociare nell’aperto tradimento compiuto sotto la direzione stalinista.

Ai delegati del Kuomintang, che dipingevano il loro partito con toni socialisteggianti e arrivavano a dichiarare che il loro potere nel Sud della Cina ricalcava il modello dei Soviet, sostenendo anche di essere in accordo con tutte le principali rivendicazioni della rivoluzione in Russia, l’Internazionale rispose molto francamente di non essere così ingenua da immaginare che questo partito fosse un partito comunista. Il Kuomintang era considerato un partito democratico-rivoluzionario, col quale si sarebbe potuta stabilire una collaborazione per perseguire i fini della rivoluzione nazionale, ma a precise condizioni, ben delineate dai vertici del comunismo mondiale, che si traducevano in precise consegne per i giovani partiti comunisti come quello cinese.

Questo l’intervento del rappresentante dell’Internazionale:

«Dobbiamo sostenere e stiamo sostenendo ogni movimento democratico-borghese nei paesi coloniali e semi-coloniali, nella misura in cui questo movimento democratico borghese è veramente per l’emancipazione nazionale dei popoli oppressi. Credo che questa affermazione racchiuda le nostre posizioni in poche parole. Da questa affermazione, che è stata ufficialmente fatta al Secondo Congresso del Comintern e che è già contenuta nel Manifesto del suo Primo Congresso, abbiamo chiaramente fissato il nostro punto di vista.

«Noi diciamo: nei paesi coloniali e semi-coloniali il primo periodo del movimento rivoluzionario deve essere necessariamente un movimento democratico nazionale. Noi diamo il nostro sostegno a questo movimento se è diretto contro l’imperialismo. Noi lo sosteniamo, lo abbiamo sempre sostenuto, e faremo così nel futuro, ma, d’altra parte, non possiamo riconoscere questa lotta come la nostra lotta, come la lotta per la rivoluzione proletaria. Se affermassimo ciò sbaglieremmo, faremmo un pessimo servizio agli operai e ai contadini di Cina e Corea, alle masse contadine, alle masse proletarie e semi-proletarie di Cina e Corea che hanno un compito più alto da assolvere di quello dell’emancipazione nazionale (…)

«Se noi, comunisti di Cina o Corea, solleviamo la parola d’ordine di un governo democratico, di una imposta sul reddito unitaria, della nazionalizzazione della terra, che sono le parole d’ordine della rivoluzione democratica, dimostreremmo di essere pronti a cooperare con tutte le organizzazioni onestamente nazional-democratiche, se hanno a cuore gli interessi della maggioranza degli sfruttati del loro paese.

«Ma, per altro, il proletariato e gli elementi del semi-proletariato si devono organizzare in modo indipendente nei loro sindacati di classe. I sindacati che si sono formati adesso come organizzazioni corporative di arti e mestieri direttamente collegati con il Partito Kuomintang non possiamo considerarli come sindacati di classe. Non capiscono la teoria classista, non sono gli organi della lotta di classe del proletariato per la sua emancipazione.

«Quindi in rapporto a voi, seguaci del Partito Kuomintang, così come con i nostri alleati, amici e compagni, allo stesso tempo vi diciamo apertamente e francamente: stiamo sostenendo e continueremo a sostenere la vostra lotta in quanto è una rivolta nazionale e democratica per l’emancipazione nazionale. Ma allo stesso tempo noi continueremo a portare avanti indipendentemente il nostro lavoro comunista di organizzazione del proletariato e delle masse semi-proletarie in Cina. Questa è la causa delle masse proletarie stesse, e deve essere compiuta dagli operai cinesi, dal proletariato cinese. In questo senso il movimento dei lavoratori cinesi si deve sviluppare in modo completamente indipendente dalla mentalità radicale borghese e dalle organizzazioni e partiti democratici».

In questa risposta si rifletteva quanto l’Internazionale aveva sostenuto al recente Congresso e nelle assise precedenti, il cui punto centrale riguardava il fatto che, per arrivare a un accordo con gli elementi nazional-radicali e democratici, le masse proletarie di Cina non dovevano rinunciare alla propria visione e al compito di organizzare il proprio partito di classe.

Si trattava di una questione fondamentale, rivolta a giovani partiti comunisti che, come abbiamo visto nel caso delle origini del PCdC, mancavano di una consolidata tradizione marxista e rivoluzionaria. Per di più si muovevano in un contesto dove il ritardo dello sviluppo capitalistico aveva prodotto una esigua classe operaia che aveva sulle sue spalle il gigantesco compito di una rivoluzione doppia, che poteva essere realizzata solo in unione con le sterminate masse sfruttate dell’immensa Cina, costituite principalmente da centinaia di milioni di contadini.

A tal riguardo, un altro punto molto importante di cui si discusse fu la questione della nazionalizzazione della terra. Il rappresentante del Kuomintang aveva affermato che il governo del Sud della Cina aveva preso in considerazione la nazionalizzazione della terra, ma che tale progetto non era stato realizzato perché questa importante misura rivoluzionaria richiedeva che la Repubblica cinese fosse estesa su tutto il territorio della Cina e non solo su una parte di esso. Era necessario quindi prima di tutto liberare la Cina dall’imperialismo e dai Signori della guerra e instaurare la democrazia nel paese.

A questa tesi espressa dal rappresentante del Kuomintang fu risposto molto francamente:

«Questo non è il modo corretto di affrontare la questione. A condizione che si voglia organizzare le masse sotto il nostro vessillo avendo la maggioranza del popolo dalla nostra parte noi dobbiamo toccare gli interessi vitali delle masse, perché queste masse ci seguano fino in fondo, che siano pronte a morire per la nostra e la loro causa.

«Per i contadini cinesi della Cina del Sud la questione della nazionalizzazione della terra non è una cosa da regolare dall’alto con riforme amministrative, per loro è una necessità vitale. Noi dobbiamo comunque avanzare questa misura rivoluzionaria anche in una piccola porzione del paese per mostrare ai contadini cinesi che vivono nei territori occupati dalle forze ostili che dove un regime democratico viene instaurato i contadini vivono mille volte meglio e che i loro interessi sono mille volte più sicuri.

«Senza una chiara comprensione di ciò, senza un corretto atteggiamento sulla questione della terra, le grandi masse non possono essere trascinate nella lotta dalla nostra parte».

La questione non era di poco conto. Il problema si sarebbe posto non appena la controrivoluzione, rappresentata dallo stalinismo, si affermò ai vertici dell’Internazionale, imponendo al partito in Cina la tattica menscevica della cosiddetta “rivoluzione per tappe”, che sostanzialmente prevedeva di condurre a termine prima la tappa borghese e poi passare a quella socialista.

Tale tattica applicata alla rivoluzione cinese riprendeva la ideologia di Sun Yat-sen. Nella dottrina di Sun Yat-sen, a ognuno dei “tre principi del popolo” – sintetizzati in nazionalismo, democrazia e benessere – che non potevano essere intesi in senso socialista, corrispondeva una tappa dello sviluppo della rivoluzione borghese: la prima era quella militare, che puntava all’unificazione della Cina; la seconda avrebbe dovuto addivenire alla democrazia, cioè alla eliminazione delle classi pre-borghesi; la terza doveva assicurare il benessere, cioè lo sviluppo del capitalismo.

Stalin riprenderà la teoria delle “tappe” di Sun Yat-sen, attribuendole un nuovo significato: antimperialista, agraria, sovietica. Secondo le tesi di Stalin, durante la “prima tappa”, quella antimperialista, che puntava alla lotta di liberazione del paese dalle potenze straniere, era esclusa la possibilità per i comunisti di porre la questione agraria, sacrificando in questo modo gli interessi delle masse contadine e il futuro stesso della rivoluzione in Cina per la riuscita della campagna militare contro gli oppressori stranieri.

Ma all’inizio del 1922 la corretta impostazione della prospettiva rivoluzionaria in Cina poteva avere ancora risonanza in una assise internazionale. Al Congresso dei Comunisti e delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente fu affermato chiaramente: «È necessario condurre una accanita battaglia non solo contro l’imperialismo straniero, non solo contro i saccheggiatori Dudziun, ma anche contro gli usurai indigeni nei villaggi e contro la borghesia indigena nelle città». Non si predicava, quindi, la rivoluzione per tappe, che slegava la lotta antimperialista dalla questione agraria, ma la lotta di classe contro la borghesia che opprimeva le masse cinesi ed era in combutta coi capitalisti stranieri.

In conclusione, per quanto riguarda i rapporti con il Kuomintang non c’erano dubbi sulla netta separazione da quel partito della borghesia cinese. Al contrario di quanto sarà imposto successivamente, lo svolgimento della lotta rivoluzionaria in Cina aveva come assunto di base l’indipendenza politica del giovane Partito Comunista.

La conclusione del rappresentante dell’Internazionale è una sintesi precisa di come avrebbe dovuto essere condotta la lotta rivoluzionaria in paesi come la Cina:

«Riassumendo, noi diciamo che, nei paesi coloniali e semi-coloniali, come Cina e Corea, che sono attualmente le colonie del capitale straniero, l’Internazionale Comunista e i Partiti Comunisti sono obbligati a sostenere il movimento nazional-democratico. In questi paesi il Partito Comunista deve spingere per l’abbattimento dell’oppressione imperialista e appoggiare le rivendicazioni democratiche, come la nazionalizzazione della terra, l’auto-governo ecc. Nello stesso momento, comunque, i Partiti Comunisti non devono abbandonare il loro programma comunista, così come non devono astenersi dall’organizzare la classe operaia in sindacati, indipendentemente dall’influenza borghese. Né devono astenersi da organizzare la classe operaia in un Partito Comunista indipendente».

Il Congresso dei Comunisti e delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente fu l’occasione per i comunisti cinesi di ricevere dall’Internazionale la tattica riguardante il movimento rivoluzionario nazionale. Ai delegati dei piccoli partiti comunisti d’Oriente fu raccomandato di non tenersi in disparte ma di penetrare in profondità tra le masse che a milioni, come ad esempio in Cina, iniziavano la lotta per l’indipendenza e la liberazione nazionale.

Dovendo rapportarsi con masse rivoluzionarie rispetto alla quale il proletariato era estremamente ridotto dal punto di vista numerico si poneva il problema di stabilire una connessione con altri partiti politici: in generale, si trattava di procedere a una lotta in unione con tutte quelle forze rivoluzionarie che combattevano gli oppressori interni, le classi borghesi, i Signori della guerra, e gli oppressori stranieri. Solo in questo senso i comunisti cinesi furono esortati a cooperare con il Kuomintang.

Al rientro in Cina dei delegati che avevano partecipato al Congresso dei Comunisti e delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente fu riportato a tutto il Partito quanto stabilito a livello internazionale sui rapporti col movimento nazional-rivoluzionario. Si rendeva così inevitabile un completamento di quanto elaborato al Primo Congresso del PCdC. Si sarebbe posta al Secondo Congresso del Partito la necessità di dotarlo di un programma all’altezza del compito da assolvere di fronte a un movimento nazional-rivoluzionario.

L’atteggiamento da assumere in una rivoluzione doppia come quella che attendeva la Cina poneva ai comunisti cinesi la necessità di sciogliere diverse questioni. In generale, non essendo all’ordine del giorno una rivoluzione comunista condotta esclusivamente dal proletariato, si trattava di chiarire la natura e i compiti della rivoluzione in Cina, definire le forze rivoluzionarie e il ruolo del Partito Comunista.

Nello specifico, invece, era da stabilire in che modo si sarebbe dovuta realizzare la cooperazione tra il PCdC e il Kuomintang, dato che era l’unico partito in Cina che, bene o male, si poteva considerare rivoluzionario. Benché le decisioni del Secondo Congresso dell’Internazionale fossero chiare sull’atteggiamento dei comunisti nei paesi arretrati, subito dopo il Primo Congresso del Partito emerse la questione se la cooperazione con il Kuomintang avesse dovuto realizzarsi mantenendo una organizzazione separata o se bisognasse penetrare al suo interno. Tale questione fu alla base dei travagli interni del PCdC e delle tensioni con gli inviati e i vertici del Comintern.

Inoltre alcune sezioni locali del Partito, data la sua debolezza teorica, organizzativa e circa la tattica, si erano aperte a una collaborazione con forze ostili al movimento rivoluzionario. A Pechino Li Dazhao manteneva contatti sia con elementi moderati del “Movimento per la Nuova Cultura” sia addirittura con la cricca militarista del Chili. Con questi elementi si intrapresero attività congiunte, come il “Movimento per il buon Governo”. A Canton la sezione locale era divisa in due orientamenti, una parte sosteneva Sun Yat-sen, l’altra Chen Jiongming: il primo auspicava che il potere nel Guangdong servisse da base a una campagna contro il nord per unificare il paese, il secondo voleva mantenere il Guangdong una provincia autonoma. Nell’Hunan poi alcuni comunisti locali, come Mao Zedong, erano per una federazione di province autonome.

La prospettiva di un’unione con il movimento nazional-rivoluzionario, e in particolare col Kuomintang, trovò spazio nella “Prima Dichiarazione del PCdC sulla situazione attuale” del 15 giugno 1922. La pubblicazione di questo documento si era resa necessaria per chiarire la posizione del Partito sul cosiddetto “Movimento per il buon Governo”.

Nella prima metà del 1922 si erano avuti dei cambiamenti nella politica interna cinese. Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio c’era stata la guerra tra la cricca militarista del Chili e quella del Fengtien per il controllo del governo di Pechino. La vittoria della cricca del Chili aveva cacciato verso nord, oltre la Grande Muraglia, quella del Fengtien, più legata all’imperialismo giapponese.

In ambienti del nazionalismo cinese la sconfitta dei Fengtien era valutata positivamente perché avrebbe indebolito la presa del Giappone sulla Cina e si nutrivano speranze nell’insediamento a Pechino di un governo antigiapponese e patriottico guidato da Wu Peifu, Signore della guerra del Chili. Venne quindi fuori la proposta di un “buon governo”, formato dagli uomini migliori della nazione, indipendentemente dalla loro affiliazione politica, che avrebbe limitato il potere dei Signori della guerra. Basato sul Parlamento e su una Costituzione, avrebbe raggiunto l’unità nazionale attraverso l’instaurazione di una federazione di province autonome, mettendo fine alla guerra civile in modo pacifico. Attorno a questa proposta si sviluppò una notevole propaganda che riscosse un largo sostegno pubblico. Erano evidenti i desideri di strati sociali tendenti al compromesso.

Da ambienti del Movimento per la Nuova Cultura emerse la speranza che il PCdC appoggiasse la proposta del “buon governo”, e Li Dazhao si fece portavoce nel Partito di questa istanza della borghesia cinese, dalla quale provenivano alcuni dei primi membri del Partito e che continuava a costituire un ambiente contiguo al giovane e piccolo Partito.

Fu chiaro che prima dell’imminente Secondo Congresso del Partito c’era la necessità di prendere posizione sulla situazione politica corrente in una dichiarazione che facesse proprie le direttive chiaramente delineate al recente Congresso dei Comunisti e delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente.

Contro le illusioni piccolo borghesi il Partito aveva chiaro che la Conferenza di Washington non apriva alcuna possibilità per l’emancipazione della Cina dall’oppressione straniera e che, sebbene i recenti eventi politici andassero nella direzione di una diminuzione dell’influenza giapponese sul paese, la Cina avrebbe comunque continuato ad essere oppressa da tutte le potenze imperialistiche. Era chiaro anche che senza una lotta rivoluzionaria non si sarebbe potuto sradicare il sistema di potere dei Signori della guerra ponendo fine alla infinita guerra civile.

Quindi la proposta del “buon governo” avrebbe solo ostacolato lo sviluppo delle forze rivoluzionarie e creato illusioni anche in ambienti vicini al movimento nazional-rivoluzionario e deviato sulla via della conciliazione con forze apertamente reazionarie. Il senso della Dichiarazione era, quindi, di attaccare questa tendenza al compromesso e riaffermare la necessità dell’unione di tutte le forze rivoluzionarie contro i Signori della guerra e gli oppressori stranieri.

La Dichiarazione mosse un invito al Kuomintang, agli altri partiti democratici e a tutti i gruppi rivoluzionari socialisti ad un convegno che aveva come scopo la realizzazione di un “fronte unito democratico” per la lotta contro i Signori della guerra e le potenze straniere.

Era, però, il Kuomintang il vero destinatario di questa proposta, considerato un partito “relativamente” rivoluzionario e democratico. Benché il suo programma non fosse ritenuto completamente elaborato, gli si riconosceva il carattere democratico dei Tre Principi del Popolo e del suo piano di sviluppo economico, e si riconosceva il suo spirito democratico per la partecipazione, fino ad allora, al movimento rivoluzionario.

Inoltre nella Dichiarazione si evidenziava come il governo di Canton, diretto da Sun Yat-sen, capo del Kuomintang, tra il 1921 e il 1922, ed avesse contrastato il movimento dei lavoratori, abolito i regolamenti di polizia sull’ordine pubblico e la sicurezza nazionale e la legge che privava i lavoratori del diritto di sciopero.

Ma nella Dichiarazione c’erano anche delle precise critiche rivolte al Kuomintang e al suo atteggiamento nel movimento rivoluzionario nazionale. I comunisti criticavano l’atteggiamento di vicinanza con gli imperialisti e la periodica cooperazione con i militaristi del Nord. Il Kuomintang aveva tenuto un atteggiamento conciliatorio già in due occasioni, nel 1912 con Juan Shikai, quando questi fece delle promesse per sostenere la Repubblica, e nel 1916 con Duan Qirui, che aveva proposto il ripristino del parlamento. Per mantenere il suo posto nel movimento rivoluzionario il Kuomintang avrebbe dovuto abbandonare questa politica conciliatoria e di compromesso con i Signori della guerra, tendente ad accordarsi ancora una volta con i militaristi del Nord. Il ripristino del parlamento e della costituzione, l’abolizione del sistema di potere dei Signori della guerra e la smobilitazione delle truppe si sarebbero potute realizzare solo per mezzo di una lotta rivoluzionaria proprio contro i Signori della guerra.

A tal fine venivano criticate anche le illusioni pacifiste dei piccoli borghesi che rappresentavano un ostacolo alla lotta contro i Signori della guerra. Soltanto rovesciando il potere dei Signori della guerra si poteva arrivare al disarmo degli eserciti e all’abolizione del sistema militarista, alla soppressione delle spese per il sostentamento degli eserciti, e quindi della esorbitante tassazione, alla fine delle continue guerre, nonché alla eliminazione dell’influenza delle potenze straniere sul paese.

Nella Dichiarazione il PCdC, rappresentante dell’avanguardia del proletariato in lotta, indicava come compito urgente per il proletariato di unirsi ai partiti democratici per opporsi ai Signori della guerra e creare, così, un governo democratico, avanzando come scopi immediati una serie di rivendicazioni tipiche della rivoluzione democratica.

Con questa Dichiarazione il PCdC si poneva nella direzione di una cooperazione con il Kuomintang, ma questo passo non contemplava certo la forma che l’alleanza assunse successivamente: l’ingresso dei comunisti nel Kuomintang.


7.2 - La linea di Maring e l’opposizione all’interno del PCdC

Un ruolo importante nelle discussioni che portarono a decidere la collaborazione tra il Partito Comunista di Cina e il Kuomintang fu svolto da Henk Sneevliet, conosciuto con lo pseudonimo di Maring, a partire dal giugno del 1921 inviato dell’Internazionale in Cina.

Maring era un olandese, attivo nel movimento socialista e sindacale del suo paese. Nel 1913 si era trasferito nelle Indie Orientali Olandesi, dove nel 1914 fu tra i fondatori dell’Associazione Socialdemocratica Indonesiana, in cui la tendenza di sinistra prevalse su quella fabiana della destra.

Durante la guerra l’Associazione, che combatteva il militarismo coloniale, si attirò le simpatie del Sarekat Islam (Unione dell’Islam), un movimento tra il politico e il religioso che lottava contro l’oppressione olandese. Maring fu tra i principali promotori della tattica di cooperazione con il Sarekat Islam. Tra le ragioni che giustificavano tale tattica, come risulta nel rapporto che ne diede Maring al Secondo Congresso dell’Internazionale, vi era il fatto che il Sarekat Islam era presentato come un partito di massa con un seguito operaio e contadino, sottacendo però che ne facevano parte anche commercianti indigeni che avevano come fine la protezione dell’industria e del commercio locale dalla concorrenza straniera. Sulla considerazione del Sarekat Islam come un partito di massa operaio e contadino si basava la tattica di far entrare in questo partito i membri dell’Associazione Socialdemocratica e di organizzarvi una sua ala sinistra, praticamente un’anticipazione di ciò che avverrà in Cina con l’ingresso dei comunisti nel Kuomintang, che fu proprio Maring a perorare.

Come abbiamo scritto nel 1967, l’esperienza indonesiana ebbe una certa rilevanza nell’approccio di Maring alla questione cinese: «In Indonesia sorge fin dal 1914 un Partito Socialista di sinistra che mantiene un atteggiamento di opposizione di fronte alla guerra, che appoggia la rivoluzione d’Ottobre, che subito dopo la fine della guerra è in grado di formare e dirigere i sindacati, e che il 23 maggio 1920 assume ufficialmente il nome di Partito Comunista d’Indonesia aderendo all’Internazionale Comunista. Ma questo stesso partito socialista pratica la tattica del noyautage e del fronte unico avanti lettera nei confronti di un movimento che difende gli interessi particolaristici dei commercianti indigeni, che appoggia la guerra imperialista, che accetta i compromessi più vergognosi con l’amministrazione coloniale, e che fa propria l’ideologia del panislamismo. Non fu dunque per caso che Sneevliet poté tenere a battesimo la tattica disastrosa della collaborazione dei comunisti col Kuomintang in Cina, tattica che rinnegava le Tesi nazionali e coloniali del II Congresso dell’Internazionale Comunista e che doveva portare a una sconfitta catastrofica la rivoluzione proletaria in Cina e nell’Asia intera» (“Imperialismo e lotta dei popoli coloniali nella sanguinosa esperienza dell’Indonesia”, Il Programma Comunista, 1967 n.9).

Maring, dopo aver partecipato al Secondo Congresso dell’Internazionale, dove fu tra i principali relatori sulla questione nazionale e coloniale, arrivò a Shanghai nel giugno del 1921 come rappresentante dell’Internazionale in Cina, partecipando alla fondazione e all’organizzazione del Partito Comunista.

Dopo un anno Maring fece ritorno in Russia, dove nel luglio del 1922 presentò al Comitato Esecutivo dell’Internazionale (ECCI) un rapporto sulla sua attività in Cina dal 10 dicembre 2021 alla fine di aprile 1922. Nel suo rapporto Maring descriveva la situazione cinese e avanzava delle proposte per il lavoro in Cina.

Al centro del rapporto di Maring non era il Partito Comunista di Cina, ma il Kuomintang. Maring apriva riferendo dei primi contatti che aveva avuto con questo partito. Sun Yat-sen gli avrebbe detto, in un primo incontro nel dicembre del 1921, di considerarsi “un bolscevico”. In tre lunghe successive discussioni Sun Yat-sen avrebbe parlato della possibilità del riconoscimento e dell’alleanza con la Russia sovietica. Ma Sun Yat-sen non andò oltre la manifestazione di un generale interesse per le proposte di Maring, informandolo che un’alleanza russo-cinese poteva essere realizzata solo dopo la sua campagna contro i Signori della guerra del Nord.

Mentre da un lato Sun Yat-sen sosteneva che la Cina e la Russia insieme avrebbero potuto realizzare la liberazione dell’Asia, dall’altro affermava che una prematura alleanza con la Russia avrebbe provocato un immediato intervento delle grandi potenze: se non ci fossero stati legami con la Russia, si sarebbe potuto risolvere la questione cinese senza l’intervento delle grandi potenze. Per il momento si sarebbe stabilito un contatto informale con la Russia sovietica, con la disponibilità ad inviare una missione a Mosca.

La cautela verso una possibile alleanza con la Russia sovietica era già di per sé un indicatore che il “bolscevismo” del dottor Sun Yat-sen non aveva alcun fondamento e rifletteva l’illusione di alcuni ambienti della borghesia nazionalista cinese nella possibilità di venire ad accordi con le grandi potenze.

Inoltre Maring portava argomentazioni che facevano ampio affidamento alle potenzialità di un collegamento non con il movimento operaio e comunista di Cina, ma quasi esclusivamente con la Russia sovietica.

Maring mise in risalto la fragilità della posizione di Sun Yat-sen, che si fondava sul sostegno di alcuni generali, che già diverse volte si erano alleati con lui e poi lo avevano abbandonato.

In questo modo si sottometteva la fondamentale strategia di appoggio ai movimenti nazional-rivoluzionari nei paesi arretrati alla utilità di costruire una relazione tra il Kuomintang, che aveva la sua base di potere nel sud della Cina, e lo Stato sovietico. In tale approccio il Partito Comunista di Cina era quasi del tutto ignorato, andando a sostituire allo scontro tra due partiti solo temporaneamente alleati nella lotta nazional-rivoluzionaria l’alleanza tra il Kuomintang e la Russia sovietica, con effetto disastroso per le sorti della rivoluzione in Cina, in anticipazione dell’abbandono della rivoluzione mondiale come perno della politica estera della Russia.

Una parte molto estesa del rapporto di Maring riguardava la natura del Kuomintang. Si soffermò sulla composizione dei suoi membri. Ne scaturiva una sorta di “blocco di classi diverse” costituito dei seguenti elementi: 1) gli intellettuali, per lo più che avevano preso parte alla rivoluzione del 1911, alcuni dei quali si definivano socialisti; 2) dei borghesi, individuati nei capitalisti cinesi d’oltremare; 3) i soldati dell’esercito meridionale; 4) i lavoratori.

Maring distingueva i capitalisti cinesi d’oltremare dalla borghesia cinese locale. Secondo Maring i capitalisti di Cina erano strettamente legati al capitale straniero ed erano quindi portati ad esserne soggetti. Invece i capitalisti cinesi all’estero, in una situazione diversa, appoggiavano e sostenevano economicamente gli intellettuali radicali del Sud. Mentre la borghesia all’interno doveva essere collocata nella stessa categoria dei capitalisti stranieri, i capitalisti d’oltremare erano da considerare amici della rivoluzione nazionale. Con questa lambiccata costruzione Maring veniva ad escludere che la borghesia locale aderisse al Kuomintang, dipingendone un quadro non corrispondente alla realtà.

Nello schema descritto da Maring era assente l’elemento contadino, benché la questione agraria non sfuggisse all’attenzione di Maring. I contadini non potevano esser compresi nel “blocco di classi diverse” per il semplice motivo che dal Kuomintang erano completamente ignorati. Quelle grandi masse contadine che erano invece la forza sociale su cui bisognava far leva per lo sviluppo di un movimento rivoluzionario in paesi arretrati come la Cina.

La questione contadina era ben presente all’Internazionale che aveva ripetutamente sostenuto che il principale alleato nei paesi dove era all’ordine del giorno la rivoluzione doppia erano proprio le sterminate e misere masse contadine. Le Tesi sulla questione nazionale e coloniale auspicavano di «instaurare un legame il più stretto possibile tra il proletariato comunista dell’Europa occidentale e il movimento rivoluzionario contadino dell’Oriente, delle colonie e dei paesi arretrati».

Altro grosso abbaglio in Maring era sul presunto legame del Kuomintang con la classe operaia. Lo stesso sciopero vittorioso dei marittimi di Hong Kong, sostenuto dagli operai di Canton, aveva portato Maring a sopravvalutare la presa del Kuomintang sul proletariato. Maring riferì che i dirigenti del Kuomintang avevano sostenuto l’organizzazione sindacale a Canton e durante gli scioperi si erano schierati dalla parte dei lavoratori, come nell’importante sciopero dei marittimi. Addirittura, Maring scriveva che l’intero sciopero era stato guidato dai capi del Kuomintang e da esso sostenuto economicamente e che 12.000 marinai a Canton, Hong Kong e Shantou avevano aderito al Kuomintang.

Come già abbiamo visto, il Kuomintang nell’area cantonese aveva stabilito dei legami con i settori operai che ancora mantenevano le vecchie tradizioni corporative. Già al Primo Congresso dei sindacati cinesi del maggio 1922, quando il proletariato cinese aveva iniziato a dotarsi di moderni sindacati classisti, le parole d’ordine dei comunisti avevano superato il corporativismo dei sostenitori del Kuomintang.

Benché Maring non definisse il Kuomintang il partito della borghesia cinese, ma dalla sua composizione lo facesse apparire un “blocco di classi diverse”, il suo programma non lasciava dubbi sulla sua natura: «Il suo carattere è nazionalista. Ha tre principi: si oppone al dominio straniero; è per la democrazia; ed è per una vita degna per tutti i cittadini».

Maring scriveva che quest’ultima rivendicazione era da Sun Yat-sen intesa in senso socialista. Ma già lo stesso Lenin, diversi anni prima, nello scritto “Democrazia e populismo in Cina”, aveva individuato l’origine del presunto socialismo dei democratici cinesi come Sun Yat-sen. «Senza un immenso slancio spirituale e rivoluzionario delle masse la democrazia cinese non avrebbe potuto abbattere il vecchio ordinamento in Cina né proclamare la repubblica. Un simile slancio presuppone e genera il più sincero interesse per le condizioni delle masse lavoratrici, l’odio più cocente per i loro oppressori e sfruttatori. In Europa e in America, da dove i cinesi avanzati, tutti i cinesi animati da questo slancio hanno tratto queste idee di libertà, è già all’ordine del giorno la liberazione dalla borghesia, cioè il socialismo. Di qui, inevitabilmente, nasce la simpatia dei democratici cinesi per il socialismo, il loro socialismo soggettivo».

Aldilà di questo “socialismo soggettivo”, Lenin non si faceva illusioni sulle dottrine politiche dei democratici cinesi e aveva individuato due caratteri dei sogni socialisti del populista cinese: «la speranza di risparmiare alla Cina la via del capitalismo, di prevenire il capitalismo» e l’esigenza di una riforma agraria radicale.

Ma ciò non bastava per farne la dottrina del proletariato rivoluzionario. Fin dal 1912 Lenin aveva smascherato il populismo cinese, che pretendeva di dipingersi di rosso, e aveva stabilito l’atteggiamento del futuro partito proletario in Cina, che avrebbe dovuto diffidare della borghesia poiché più essa si proclamava “rivoluzionaria”, più “socialismo” metteva nella sua ideologia, più aveva possibilità di mantenere il controllo sul proletariato.

Il rapporto di Maring descriveva anche la situazione nel Sud, base del potere del Kuomintang. Attorno al partito nazionalista si opponevano variegati schieramenti fra i quali gli eserciti dei militari che si spartivano il controllo della Cina. Maring riconosceva che la posizione di Sun Yat-sen era minata nella stessa Cina meridionale, in particolare dal generale Chen Jiongming.

Nella sua permanenza a Canton Maring ebbe modo di incontrare diverse volte questo generale. Benché da Signore della guerra di una provincia meridionale si opponesse alla cricca dei militaristi del Nord, nello stesso tempo era molto critico nei confronti del Kuomintang, in particolare era apertamente contrario alla spedizione contro il Nord. Non credeva nell’unificazione della Cina, e puntava su una federazione di province autonome. Per questo avrebbe limitato il movimento nazionalista al Guangdong.

Anche Chen Jiongming si dichiarava “socialista”, e riteneva possibile nella provincia del Guangdong, con i suoi 30 milioni di abitanti, istituire il capitalismo di Stato. Un “socialismo in una sola provincia”! Per raggiungere questi obiettivi disse a Maring di valutare la possibilità di fondare un nuovo partito socialista. Maring scriveva anche che il generale sosteneva economicamente un quotidiano con una direzione comunista e aveva sempre aiutato i lavoratori in sciopero. Il generale sembrava ben disposto verso la Russia sovietica, dove voleva inviare un proprio rappresentante, e si era dichiarato disponibile, anche, all’istituzione di un ufficio del Comintern a Canton. Probabilmente la ragione di tanta disponibilità risiedeva nel desiderio di avere dei consiglieri militari russi per riorganizzare il suo esercito. Le pose di questo personaggio, non certo il solo nella Cina di quel tempo, erano tipiche di figure ambigue che alzavano la bandiera rossa per ingannare i proletari. I comunisti avrebbero dovuto prendere inequivocabilmente le distanze e scacciare l’illusione che da queste manovre potesse trarre vantaggio lo sviluppo della rivoluzione, anche solo democratico-nazional-borghese, in Cina.

Infine nel suo rapporto Maring faceva emergere la descrizione del giovane Partito Comunista di Cina. «A Shanghai ero diventato molto pessimista sul movimento in Cina e sulle sue possibilità. Nel Sud mi sono convinto che un lavoro fruttuoso era possibile». Maring dipingeva una situazione piuttosto negativa, con i comunisti lontani dall’essere entrati in stretto contatto con le masse lavoratrici.

Si espresse in termini molto negativi sulla situazione di Shanghai, che avrebbe dovuto essere la città più importante per il radicamento del PCdC dato che era il centro cinese più avanzato dal punto di vista industriale, dove era presente un numeroso e concentrato proletariato.

Invece riteneva ci fosse una situazione più favorevole nel Sud e in particolare a Canton, non per la forza del PCdC ma per la presenza del Kuomintang. Maring riferiva dei progressi fatti dall’organizzazione sindacale che a Canton contava circa 50.000 operai sindacalizzati, con la presenza di alcuni sindacati moderni, di cui il più importante era quello dei marittimi. Altre unioni operaie presentavano vecchie forme di organizzazione che però stavano avviandosi per diventare sindacati moderni. Anche nell’area cantonese la diffusione del capitalismo aveva portato alla formazione di un giovane e abbastanza numeroso proletariato.

Ma dal punto di vista della prospettiva rivoluzionaria Maring riteneva che, sebbene Shanghai fosse stato il punto di partenza per la diffusione del comunismo tra il giovane proletariato cinese, dal momento in cui si fosse deciso di puntare sul Kuomintang per le sorti della rivoluzione cinese, la importanza di Shanghai sarebbe stata offuscata da Canton, che i dirigenti sovietici iniziarono a considerare come il laboratorio politico dove sperimentare l’unione tra i comunisti e i nazionalisti del Kuomintang.

Maring scriveva nel suo rapporto all’Internazionale: «Ho suggerito ai nostri compagni di rinunciare al loro atteggiamento elitario verso il Kuomintang e che inizino a sviluppare attività all’interno del Kuomintang, attraverso il quale si può accedere molto più facilmente ai lavoratori e ai soldati del Sud. Il piccolo gruppo non deve rinunciare alla sua indipendenza; al contrario, i compagni devono decidere insieme quali tattiche dovrebbero seguire all’interno del Kuomintang. I capi del Kuomintang mi hanno detto che permetteranno ai comunisti la propaganda all’interno del loro partito».

Maring proponeva ai militanti del Partito Comunista di Cina di entrare nel Kuomintang, chiedendo loro di abbandonare la loro posizione di esclusione dal partito nazionalista adottata a partire dal loro primo Congresso. I comunisti cinesi sarebbero dovuti entrare nel Kuomintang come individui e usare la sua forma di organizzazione piuttosto libera per prenderne il controllo dall’interno. Maring riteneva che le blande forme organizzative di questo partito avrebbero permesso con facilità lo sviluppo di un’attività verso le masse. Evidentemente si rifaceva all’esperienza maturata in Indonesia.

Ma subito contro la tattica dell’ingresso nel Kuomintang si levarono le proteste dall’interno del PCdC. Non è chiaro quando e in che circostanze Maring presentò ai comunisti cinesi questa proposta. Probabilmente fu tra il marzo e l’aprile del 1922, al suo ritorno a Shanghai dopo il viaggio nel Sud della Cina. In ogni caso la questione dell’adesione dei comunisti al Kuomintang fu l’oggetto della lettera che Chen Duxiu il 6 aprile 1922 inviò a Voitinsky, dalla quale emergono chiaramente le resistenze dei comunisti cinesi alla proposta di Maring, considerata totalmente inaccettabile.

Alla base di questa opposizione erano diverse ragioni, elencate nella lettera: la divergenza negli scopi e nella politica dei due partiti; la politica del Kuomintang di cooperazione con gli Stati Uniti e con alcune cricche militariste; la negativa considerazione che si aveva del Kuomintang al di fuori del Sud della Cina, ritenuta volta esclusivamente al potere e al profitto, per cui con l’ingresso nel Kuomintang il PCdC avrebbe perso la fiducia di vasti settori, specialmente tra i giovani; la previsione che nel Kuomintang non sarebbero state tollerate le posizioni dei comunisti. Inoltre, data l’ostilità tra Sun Yat-sen e Chen Jiongming, l’adesione al Kuomintang avrebbe portato all’ostilità di Chen verso il PCdC, precludendo la possibilità di sviluppare una qualsiasi attività nel Guangdong.

Nella lettera Chen Duxiu riferiva che il PCdC aveva considerato la proposta di aderire al Kuomintang e che unanimemente era passata una risoluzione di totale disapprovazione. Dato che Chen Duxiu specificava che a rigettare la proposta erano stati i compagni del Guangdong, di Pechino, Shanghai, Changsha e Wuhan, praticamente tutte le sezioni del PCdC, sembrerebbe che l’opposizione alla tattica dell’adesione al Kuomintang fosse generale di tutto il Partito.

La pressione di Maring sul PCdC per la collaborazione con il Kuomintang si spostò nell’ambito dell’Internazionale dove Maring riportò la sua proposta. L’adesione dei comunisti a un partito borghese veniva negata non ritenendo il Kuomintang un partito borghese. Invece di considerare la reale collocazione delle classi e dei ceti e dei corrispondenti partiti, si faceva largo la nefasta distinzione tra una borghesia ideologicamente di destra e una di sinistra. La tattica dell’ingresso nel Kuomintang si basava sulla illusione che la borghesia liberale potesse essere o diventare rivoluzionaria.

Si chiedeva ai comunisti di entrare nel Kuomintang per favorirvi la formazione di un’ala sinistra. Accadrà, e non avrebbe potuto essere altrimenti, che tutte le ali sinistre del Kuomintang, tali di volta in volta individuate, finirono per affogare nel sangue la rivoluzione proletaria in Cina.

Tutto questo sarebbe stato possibile prevedere. Bastava volgere lo sguardo alle esperienze passate delle lotte tra le classi nel passaggio alla società borghese, quando il proletariato lotta insieme ai borghesi per l’abbattimento dell’ancien regime. Già sa, come era successo nella Francia del ’48, che gli alleati del momento saranno i nemici dalla prima ora dopo la vittoria, pronti a far massacri tra i proletari. Dirà lapidario Trotzki: «Il Kuomintang è il partito della borghesia liberale durante la rivoluzione, della borghesia liberale che si trascina dietro gli operai e i contadini, e poi li tradisce».

Quello che bisognava dire allora era che costringendo i comunisti a sottomettersi al Kuomintang si sarebbero rafforzati la borghesia e i proprietari terrieri, e, per non guastare i buoni rapporti col nazionalismo borghese, si sarebbero frenate le masse realmente rivoluzionarie. Facendo entrare il Partito Comunista nel Kuomintang lo si avrebbe sottomesso ad una disciplina e direzione borghese, e si sarebbe posto la giovane forza rivoluzionaria del proletariato agli ordini della borghesia; che l’ingresso dei comunisti nel Kuomintang avrebbe gettato confusione nelle file del Partito e tra i proletari, sarebbe andato a confondere l’organizzazione di classe e avrebbe distrutto l’indipendenza politica del Partito, condizione indispensabile per la vittoria rivoluzionaria.

(segue al prossimo numero)








L’India dalle origini allo Stato nazionale


(continua dal numero scorso)


7. Marx e il dominio inglese sull’India

Rapporto presentato alla riunione generale di Parma nel gennaio 2016



49. La superiorità europea e le necessità del Capitale

La rivoluzione industriale che si era sviluppata in Inghilterra nella seconda metà del Settecento cambiò radicalmente l’economia mondiale influenzando il resto del mondo. Nello stesso periodo storico i sistemi politici delle maggiori nazioni d’Occidente attraversarono una profonda trasformazione a seguito della guerra di indipendenza americana (1773-1783), della rivoluzione francese (1789-1799) e del successivo periodo napoleonico (1799-1814).

Numerose potenze europee dettarono il loro dominio diretto o indiretto su grandi aree dell’Asia e nel corso dell’Ottocento si estesero prima all’Africa mediterranea poi a quella sub-sahariana.

Il mutato rapporto di forza tra Stati europei e asiatici fu l’inizio della ritirata di quello che, fin dal Quattrocento, veniva considerato il nemico più pericoloso al di fuori dell’Europa, l’impero turco. Gli Ottomani iniziarono a ripiegare nel corso del Settecento sotto la spinta degli imperi austriaco e in particolare russo, che solo minimamente erano stati influenzati dalla rivoluzione industriale.

Le idee e la morale cosmopolita che si erano sviluppate durante l’illuminismo vennero negate in atteggiamenti nei confronti delle società non europee di superiorità, poi di disprezzo e infine razzisti. Era una regressione ideologica legata alle richieste del Capitale, utile a una giustificazione etico-culturale di un riordino di classe dell’economia mondiale imposto e mantenuto con la forza delle armi.

Un caso esemplare per quel che riguarda l’India fu la pubblicazione a Londra, nel 1817, della History of British India di James Mill, storico ed economista scozzese che non era mai stato nel subcontinente, non conosceva alcuna lingua indiana e che spesso si era basato su fonti interpretate in maniera superficiale o errata.

La superiorità europea e la inferiorità degli indiani si spiegò con gli effetti snervanti del clima, fenomeno che, per una qualche strana ragione, non avrebbe affetto i borghesi inglesi residenti nella regione. Questo non impedì la cristallizzazione, da parte del governo coloniale, delle differenze di casta e religione, sovrastrutture ereditate ma utilissime all’introduzione e al consolidamento del capitalismo.


50. Le contraddizioni sciolte da Marx

Se da una parte il legame economico tra metropoli e colonie, nato nell’era della rivoluzione industriale, in conseguenza della superiorità politico militare dell’Europa, devastò larghe parti dell’Asia e dell’Africa, dall’altra la necessità stessa di far funzionare il nuovo sistema sociale indusse le potenze capitaliste ad esportare in alcune colonie quelle stesse sovrastrutture ideologiche e le medesime tecnologie che erano alla base delle nuove società ormai impregnate di capitali.

Marx, attraverso alcuni articoli sull’India per il New York Daily Tribune, aveva evidenziato con molta chiarezza la "missione" degli inglesi. «L’Inghilterra in India ha da compiere una duplice missione: distruttiva da un lato, rigeneratrice dall’altro, dissolvere l’organizzazione sociale asiatica e insieme gettare le fondamenta materiali di una società di tipo occidentale». Metteva allo stesso tempo in guardia gli indiani che «non raccoglieranno i frutti dei nuovi elementi sociali gettati tra loro dalla borghesia britannica finché nella stessa Gran Bretagna le attuali classi dominanti non saranno soppiantate dal proletariato industriale, o finché gli stessi indiani non saranno diventati abbastanza forti da spezzare il giogo britannico».

Risulta quindi evidente la portata delle contraddizioni che la storia poneva da sciogliere. In quel periodo il capitalismo inglese stava realizzando una serie di importanti infrastrutture in India, prima fra tutte aprire l’era delle strade ferrate, migliaia di chilometri di ferrovie che garantirono grassi interessi agli investitori britannici. Inoltre vennero predisposti un sistema telegrafico e un complesso di regolari navigazioni tramite navi a vapore. «L’unità politica dell’India, più solida e molto più estesa che non fosse sotto i Mogol, era la premessa iniziale della sua rigenerazione. Ora il telegrafo rafforzerà e perpetuerà l’unità imposta dalla spada britannica» (“I risultati futuri della dominazione britannica in India”, Londra, 22 luglio 1853).

Queste opere costituirono la necessaria premessa per lo sviluppo dei primi nuclei industriali moderni, che fino alla vigilia della prima guerra mondiale erano concentrati essenzialmente nelle enclavi di Calcutta, nell’attuale Bengala Occidentale, a Bombay (oggi Mumbai), capitale dello Stato del Maharashtra, e ad Ahmedabad, nello Stato federato del Gujarat.

Con la seconda guerra anglo-maratta, e più specificamente nella battaglia di Assaye del 23 settembre 1803, combattuta presso l’omonimo villaggio dell’India centrale tra l’esercito britannico e un’armata di Principi Maratthi, il potere maratto venne definitivamente distrutto, aprendo il predominio della Compagnia inglese in tutto l’altopiano del Deccan. La vittoria fu possibile grazie al sempre più attrezzato esercito della Compagnia, struttura militare indispensabile al funzionamento dell’intero sistema coloniale, anche se per il suo mantenimento si doveva ricorrere al 40% del gettito fiscale complessivo. Marx così commentava nel suo articolo pubblicato il 25 giugno 1853 nel New York Daily Tribune: «Se anche non sapessimo nulla della storia passata dell’Indostan, non basterebbe il fatto, grande e incontestabile, che a tutt’oggi l’Inghilterra tiene in schiavitù l’India servendosi di un esercito indiano mantenuto a spese dell’India stessa?»

L’India forniva inoltre altri due importanti contributi. Il primo era l’utilizzo di quadri intermedi nelle burocrazie delle altre colonie dell’Inghilterra. Il secondo era il reclutamento di forza lavoro a contratto (indentured labour), che fu ingaggiata dal 1834 fino alla fine della prima guerra mondiale, mediante il quale circa 2 milioni di lavoratori indiani venivano a sostituire gli schiavi in seguito all’abolizione del loro commercio all’inizio del XIX secolo. Questi lavoratori erano impiegati in piantagioni e miniere a Ceylon, nelle isole Mauritius, in Africa, nei Caraibi, nel Sud-est asiatico e nel Pacifico. Si stipulavano contratti di lunga durata, dieci anni e oltre. In alcune zone, ad esempio le Mauritius, la Guyana britannica e le isole Figi, questo processo finì per modificare la stessa composizione demografica locale a favore degli immigrati indiani che, scaduti i tempi di lavoro contrattuale, spesso si stabilirono permanentemente in quelle terre.

L’abbondanza di forza lavoro in India era provocata dal ristagno dell’economia indotto dal regime coloniale. Quella trasformazione economica e sociale fu drammatica, nella prima metà dell’Ottocento provocando una forte recessione economica, invertendo la tendenza dei secoli precedenti. Marx scriveva: «Non vi è dubbio che le sciagure inflitte all’Indostan dalla Gran Bretagna sono di un genere essenzialmente diverso e mille volte più concentrate di tutto ciò che il paese dovette soffrire in epoche precedenti».


51. Il dominio della Compagnia e la resistenza al nuovo modo di produzione

Oltre all’imposta terriera, una corposa fonte di introiti per la Compagnia era rappresentata dai monopoli. Quelli già esistenti, creati dagli Stati indiani pre-coloniali, furono in genere mantenuti; alcuni di essi, in particolare quello del sale, degli alcolici e soprattutto dell’oppio furono rafforzati in quanto molto redditizi.

Inoltre, fino al 1833 la Compagnia mantenne un ruolo importante nella gestione del commercio dei tessili, non esitando ad imporre una pesante tassazione aggiuntiva sulle attività di quei mercanti e produttori che non erano alle proprie dipendenze.

Per la gestione dei monopoli e per l’appropriazione di una buona parte dell’eccedenza agricola la Compagnia fece ricorso a una politica di coercizione su larga scala.

La progressiva conquista dell’India e la sottomissione dei superstiti Stati indiani limitarono quella possibilità di emigrare da una regione all’altra di cui si erano avvalse le classi contadine nel periodo precedente. Nonostante ciò all’inizio dell’Ottocento esistevano ancora terre vergini che offrivano ai contadini poveri una via di fuga. Gruppi tribali e commercianti itineranti potevano sopravvivere negli interstizi del nascente sistema sociale. La reazione della Compagnia fu la sistematica distruzione delle foreste – secondo una pratica già seguita dagli inglesi in Irlanda e Scozia – e la sedentarizzazione imposta ai gruppi nomadi e seminomadi.

Nel 1831 la Compagnia assunse la diretta amministrazione del regno del Mysore, nell’India meridionale, ex Stato vassallo dell’Impero Vijayanagara, e nel 1854 annesse la regione cotoniera del Berar, già amministrata dal Niẓām di Hyderābād, come pagamento degli arretrati richiesti per il mantenimento delle truppe inglesi. Infine nel 1856 fu annesso anche l’Awadh, il più grande fra gli Stati vassalli del Nord.


52. La borghesia inglese detta le condizioni

Nel corso dei primi decenni dell’Ottocento, l’operato della Compagnia fu progressivamente ostacolato dalla crescente ostilità di una buona parte della classe dominante inglese, che vedeva nei suoi privilegi economici una limitazione delle potenzialità di sviluppo di sua maestà il Capitale.

La situazione degenerò fino alla decisione, da parte della Corona, di abolire il monopolio della Compagnia sui commerci fra Inghilterra e Asia nel 1813 e nel 1833 fra India e Cina. Nel 1854, il residuo privilegio di poter reclutare il personale civile e militare in servizio in India, fu demandato ad un sistema di concorsi.

Il ridimensionamento commerciale della Compagnia ebbe come importante conseguenza una politica di espansione militare che durò fino alla grande rivolta del 1857. L’obiettivo era di incrementare il gettito ottenuto dall’imposta terriera e la strategia fu favorita dal fatto che il formidabile apparato militare era certamente molto costoso ma praticamente invincibile.

Il risultato fu che fino alla vigilia della rivolta dei soldati indiani si ebbe una politica di espansione ininterrotta che si manifestò lungo tre direttive: il raggiungimento dei confini geografici del subcontinente, l’assorbimento degli Stati vassalli sopravvissuti alla prima fase della conquista. Il raggiungimento dei confini del subcontinente fu completato nel 1849, con la definitiva distruzione di quello che era stato il potente regno Sikh del Punjab.

Così Marx commentava «Fra il 1838 e il 1849, nelle guerre contro i sikh e gli afgani, la potenza britannica si assicurò definitivamente le frontiere etniche, politiche e militari del continente indiano, con l’annessione forzata del Punjab e del Sind. Erano queste regioni indispensabili per respingere qualsiasi invasione proveniente dall’Asia centrale e contrastare l’avanzata russa verso le frontiere della Persia (...) È soltanto dal 1849 che esiste il grande impero anglo-indiano unito» (“La Compagnia delle Indie orientali: storia e risultati”, New-York Daily Tribune, 11 luglio 1853).

L’incorporazione degli Stati vassalli continuò fino alla fine del regime della Compagnia nel 1858, ma non la politica d’espansione al di fuori dei confini naturali del subcontinente che proseguì fino allo scoppio della prima guerra mondiale.

Oltre alle numerose guerre di conquista, la prima metà dell’Ottocento fu un susseguirsi pressoché ininterrotto di ribellioni.

Da un punto di vista strettamente economico questa politica di espansionismo finì per aggravare, come avvenuto per l’impero moghul al tempo d’Aurangzeb, i problemi finanziari che si intendevano risolvere. Quando la Compagnia fu “abolita” nel 1858 la Corona ereditò un cospicuo deficit, essenzialmente legato a questa politica di conquista. Un debito il cui pagamento divenne responsabilità del nuovo governo indiano della Corona, quindi dei contribuenti indiani. In estrema sintesi gli indiani finirono per pagare i debiti contratti dagli inglesi per conquistare l’India.


53. La crisi nel mondo contadino

La crisi depressiva si acuì ulteriormente manifestandosi in una contrazione della circolazione monetaria e in una diminuzione del valore dei prodotti agricoli rispetto all’argento con cui venivano pagate le imposte. In parte questo fu determinato da ragioni internazionali, al di fuori della capacità di controllo del governo coloniale e in seguito della corona inglese, come ad esempio l’innalzamento del valore relativo dell’argento a seguito delle mancate esportazioni dall’America latina, causate dall’inizio delle lotte per l’indipendenza.

Un altro fattore centrale fu rappresentato dalla decisione, da parte del governo della Compagnia, di chiudere diverse zecche presenti nelle maggiori città a partire dagli anni venti: una scelta politica di centralizzazione del potere economico che limitava appunto l’emissione di moneta.

Tale decisione ebbe due nefaste conseguenze economiche sulla popolazione rurale. La prima fu il calo della circolazione monetaria a cui corrispose la crescita del valore dell’argento coniato rispetto a quello delle derrate agricole che determinò la diminuzione dei guadagni dei coltivatori e l’aumento della quota di ricchezza prelevata dalla Compagnia mediante l’imposta. La seconda fu la diminuzione di valore del metallo prezioso non coniato. Le famiglie contadine, infatti, conservavano una parte considerevole dei loro risparmi sotto forma di monili in metallo prezioso. In caso di bisogno venivano venduti, a un prezzo di poco inferiore a quello intrinseco del metallo, a mercanti e piccoli finanzieri indigeni, che ne ricavavano un certo guadagno trasformandolo in monete nelle zecche locali. La chiusura delle zecche rese più costosa e, quindi, più difficile tale transazione, soprattutto nel caso di immissione massiccia di monili sul mercato diventava antieconomico acquistare metallo prezioso non coniato che quindi doveva essere trasportato in zecche geograficamente distanti.


54. La chiarezza del marxismo

Se il mondo contadino subiva una netta recessione tutto il sistema del villaggio indiano vacillava sotto i colpi del capitale britannico e l’artigianato tradizionale andava distrutto. Così Marx, oltre all’indagine sulle caratteristiche della società indiana tradizionale, approfondiva le conseguenze che su quel vecchio mondo aveva avuto l’arrivo dei commerci britannici e delle cannoniere, cioè del capitalismo.

«Per quanto mutevole debba apparire il volto politico del passato storico dell’india, le sue condizioni sociali rimasero inalterate dall’antichità più remota fino al primo decennio di questo secolo. Il telaio e il filatoio a mano, intorno ai quali crescevano miriadi e miriadi di filatori e tessitori, erano i perni di questa società. Da tempi immemorabili l’Europa importava gli stupendi tessuti prodotti dalla manodopera indiana, scambiandoli contro i suoi metalli preziosi (...) Fu l’invasore inglese a spezzare il telaio e il filatoio a mano. L’Inghilterra cominciò a espellere le cotonine indiane dal mercato europeo; poi introdusse nell’Indostan i suoi filati ritorti; infine inondò dei suoi manufatti cotonieri la patria stessa del cotone. Dal 1818 al 1836 l’esportazione di ritorti inglesi in India crebbe nel rapporto di 1 a 5200 (...) Le comunità familiari erano basate sull’industria casalinga in quella peculiare combinazione di tessitura a mano, filatura a mano, agricoltura a mano che le rendevano autosufficienti. L’intervento inglese, avendo collocato il filatore nel Lancashire e il tessitore nel Bengala, o spazzato via tanto il filatore quanto il tessitore indù, ha distrutto queste piccole comunità semibarbare e semicivili, facendone saltare in aria la base economica e in tal modo causando la più grandiosa e, a dire il vero, l’unica rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto» (“La dominazione Britannica in India”).

Inondando l’India dei suoi manufatti cotonieri l’Inghilterra aveva decretato la morte delle tessiture indiane e sradicato quella combinazione tra industria agricola e manifatturiera che era una delle caratteristiche peculiari del “sistema villaggio” indiano. Inoltre, gli stessi rapporti di proprietà della terra erano stati profondamente trasformati mediante i sistemi zamindari, gli antichi collettori di imposta del Bengala trasformati dagli inglesi, come abbiamo precedentemente descritto, in grandi proprietari terrieri a scapito della tradizionale proprietà comune del suolo.

Marx però non si limita a denunciare la politica economica degli inglesi in India, la rapacità della compagnia e del governo britannico, la miseria inflitta dallo sfruttamento capitalistico: i suoi scritti esprimono comunque disprezzo per il mondo indiano tradizionale.

«Ora, per quanto sia sentimentalmente deprecabile lo spettacolo di queste miriadi di laboriose comunità sociali, patriarcali e inoffensive, disorganizzate e dissolte nelle loro unità, gettate in un mare di lutti, e i loro membri singoli privati a un tempo della forma di civiltà tradizionale e dei mezzi ereditari di esistenza, non si deve dimenticare che queste idilliache comunità di villaggio, sebbene possano sembrare innocue, sono sempre state la solida base del dispotismo orientale; che racchiudevano lo spirito umano entro l’orizzonte più angusto facendone lo strumento più docile della superstizione, asservendolo a norme consuetudinarie, privandolo di ogni grandezza e di ogni energia storica (...) Non si deve dimenticare che queste piccole comunità erano contaminate dalla divisione in caste e dalla schiavitù; che assoggettavano l’uomo alle circostanze esterne invece di erigerlo a loro sovrano, e, trasformando uno stato sociale auto evolvendosi in un destino naturale immutabile, alimentavano un culto degradante della natura il cui avvilimento si esprime nel fatto che l’uomo, il signore della natura, si prostra in adorazione ai piedi di Hanuman, la scimmia, e di Sabbala, la vacca».

Nello stesso articolo ribadiva il compito storico del capitalismo britannico. «È vero, nel promuovere una rivoluzione sociale nell’Indostan, la Gran Bretagna era animata dagli interessi più vili, e il suo modo di imporli fu idiota. Ma non è questo il problema. Il problema è: può l’umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione dei rapporti sociali dell’Asia? Se la risposta è negativa, qualunque sia il crimine perpetrato dall’Inghilterra, essa fu, nel provocare una simile rivoluzione, lo strumento inconscio della storia».

Nell’articolo “I risultati futuri della dominazione britannica in India” leggiamo: «L’Inghilterra in India ha una doppia missione da compiere: una distruttiva, l’altra rigeneratrice: demolire l’antica società asiatica, e gettare le basi materiali della società occidentale in Asia (...) La macchina a vapore ha messo l’India in rapida e regolare comunicazione con l’Europa, ne ha connesso i porti principali con quelli dell’intero Oceano sud-orientale, l’ha strappata all’isolamento che era la prima causa della sua stagnazione (...) In India il sistema ferroviario diverrà il battistrada dell’industria moderna (...) Infine l’industria moderna, frutto del sistema ferroviario, abbatterà la tradizionale divisione del lavoro sulla quale poggiano le caste indiane, questi ostacoli fatali al progresso e alla potenza dell’India».


55. Il commercio nel primo Ottocento

Nel primo decennio dell’Ottocento il commercio internazionale dell’India si svolgeva sull’asse India-Inghilterra e su quello India-Cina-Inghilterra. In entrambi la bilancia commerciale dell’India continuava a rimanere ampiamente positiva. Le esportazioni verso l’Inghilterra erano composte soprattutto da indaco e, in misura minore, da argento; in ritorno l’India aveva materiale di tipo militare per un valore nettamente inferiore a quello delle merci esportate. Le esportazioni verso la Cina, composte dalla fine del XVIII secolo essenzialmente di cotone grezzo, videro gradualmente crescere l’oppio che, nei primi decenni del XIX secolo, ridusse al minimo ogni altro tipo di esportazione. In ritorno la Cina vendeva porcellane e tè, ma solo una parte di queste merci restava in India, la più cospicua era riesportata in Inghilterra.

Il monopolio arrogatosi dalla Compagnia – fino al 1813 sui commerci fra Inghilterra e Asia e fino al 1833 su quelli fra India e Cina – le diede una posizione dominante nei traffici internazionali, permettendole di inviare in Inghilterra, sotto forma di merci e di metallo prezioso, la ricchezza di cui si appropriavano i suoi azionisti.

Col venire a cessare il monopolio sul commercio al di fuori dell’India in parte continuò l’invio di metallo prezioso (e anche questo dovette contribuire non poco al processo di deflazione e di depressione). Ma la parte maggiore di questi trasferimenti avvenne attraverso attività di sostegno finanziario ai commerci di mercanti privati. Fra queste vi era l’emissione di lettere di cambio che venivano acquistate in Inghilterra per essere poi scontate in India. Gli operatori economici inglesi che volevano operare in India versavano una certa somma alla Compagnia in Inghilterra e ne ricevevano un’altra, un po’ inferiore, una volta arrivati nel subcontinente. In questo modo i borghesi inglesi potevano disporre in India, con minimo rischio, del capitale monetario necessario per le proprie attività commerciali in Asia.

La comunità inglese in India – composta di funzionari, ufficiali, soldati, mercanti – fu sempre di limitata consistenza numerica. Con l’inizio dell’Ottocento cessò del tutto quel poco di integrazione sociale che nel secolo precedente aveva caratterizzato i rapporti tra inglesi e indiani. L’atteggiamento degli inglesi nei confronti degli indiani si trasformò nella dichiarata convinzione della propria innata superiorità e l’unico rapporto con gli autoctoni socialmente accettabile era quello padrone-servitore. Anche in quelle famiglie che continuarono a risiedere in India (mercanti, finanzieri e, più tardi, industriali), l’atteggiamento rimase quello di una comunità in esilio.


56. La grande rivolta dei sepoys

Il governo della Compagnia, in estrema sintesi, era sostanzialmente un regime che, fin dall’inizio, non aveva esitato a divorare a più riprese i propri collaboratori indigeni e che, più che su organici rapporti d’alleanza, aveva basato il proprio dominio esclusivamente con la minaccia e con l’uso della forza da parte di una efficiente macchina militare.

Sebbene questa struttura fosse solida e ben strutturata, nella prima metà dell’Ottocento i rapporti fra le truppe indiane e il corpo ufficiale inglese si deteriorarono, soprattutto nell’esercito di stanza nel Nord del subcontinente, dal Punjab al Bengala. Intere regioni furono inghiottite da una gigantesca rivolta che divampò in seguito a un ammutinamento delle truppe indiane della Compagnia ma che ben presto coinvolse consistenti strati della popolazione, sia urbana sia rurale. Il pretesto della rivolta fu la distribuzione di nuove cartucce lubrificate con grasso animale, il contatto col quale violavano i dettami religiosi indù. I soldati che si opponevano furono accusati di insubordinazione.

Il 10 maggio 1857 i sepoys di stanza a Meerut (Mirat), una guarnigione militare a circa settanta chilometri a nord di Delhi, si ammutinarono e, favoriti dalla maldestra reazione dei loro ufficiali, marciarono sull’antica capitale dei Moghul. Qui convinsero i soldati indiani a sollevarsi e a massacrare gli europei impadronendosi della città costringendo l’ultimo imperatore Moghul, un riluttante Bahadur Shah II, a porsi a capo della rivolta. Questa rapidamente da fenomeno locale si estese a tutto il territorio fra il neo-conquistato Punjab e il Bengala. I ribelli ebbero la tendenza a raggrupparsi intorno ai rappresentanti del potere Moghul che si pensava avessero motivi di risentimento nei confronti del governo della Compagnia. Accanto ai sepoys e ai loro spesso riluttanti capi si schierarono diversi proprietari terrieri grandi e piccoli con i loro seguaci personali, le confraternite contadine delle zone comprese fra Delhi e l’Awadh e le popolazioni tribali come i Gujar, che erano da poco state costrette alla sedentarizzazione. Molti di questi gruppi, nonostante le differenze di classe, condividevano la sottomissione a una pressione fiscale intollerabile che li aveva spinti vicini alla rovina e in molti casi costretti a indebitarsi pesantemente nei confronti di finanzieri indigeni che, non a caso, divennero uno dei primi bersagli dei rivoltosi.

Gli inglesi, di fatto, non possedendo alcun piano di emergenza per fronteggiare una rivolta così estesa, furono colti di sorpresa e lenti a reagire adeguatamente.

Ma, nonostante i successi iniziali, il fallimento della grande rivolta era scontato poiché, in sintesi, l’obiettivo dei rivoltosi era la impossibile restaurazione dell’antico regime. Anche nelle aree dove ebbe il maggior seguito, la scelta di schierarsi contro gli inglesi non fu unanime. Coloro che in qualche modo avevano guadagnato dalla politica economica della Compagnia, mercanti e finanzieri, si schierarono attivamente dalla parte degli inglesi e in particolare molti zamindari i quali si erano trasformati da funzionari Moghul, incaricati dell’esazione delle imposte, in proprietari terrieri.

Altri, come i banchieri indigeni e i mercanti di Delhi, evitarono di dare un appoggio attivo ai rivoltosi. Nel Punjab gli afghani e molti principi si schierarono dalla parte della Compagnia, così come le truppe sikh e quelle nepalesi. Per gli inglesi di fondamentale importanza fu l’appoggio dei sikh, che riconquistarono Delhi con le loro truppe irregolari, diventando, da allora in poi, il reparto scelto dell’esercito anglo-indiano.

Un’altra causa del fallimento della rivolta fu la debolezza organizzativa degli insorti, incapaci di darsi un comando unificato. Le forze anti-britanniche erano formate dai sepoys ammutinati e da un insieme di bande e di eserciti privati dalla provenienza più disparata: notabili con i loro dipendenti, bande di contadini armati, elementi tribali e anche una parte della criminalità che non aveva ottenuto una fetta di torta dalla Compagnia. A formare il nucleo centrale delle forze ribelli erano i battaglioni dei sepoys, ma dal momento che tutti gli ufficiali superiori degli ammutinati erano stati inglesi, ad inquadrarli ora vi erano ex ufficiali subordinati ed ex sottufficiali con una scarsa preparazione per compiti di stato maggiore.

È indicativo che, nonostante gli ordini pressanti di Bahadur Shah e del suo entourage, i sepoys di Delhi non arrivarono mai a organizzare un contrattacco generale contro le numericamente esigue truppe inglesi che, dal giugno 1857, si erano attestate nei pressi della città.

Superato lo shock iniziale, l’esercito inglese prese rapidamente l’iniziativa. Il punto di svolta nella controffensiva britannica fu la riconquista di Delhi fra il 14 e il 21 settembre del 1857. Entro la fine dello stesso anno furono espugnate le altre principali basi dell’insurrezione, in particolare le città di Kanpur e di Lucknow, entrambe nell’Uttar Pradesh.

Le superstiti forze ribelli si ritirarono nel territorio a sud del fiume Chambal e dello Yamuna, il più grande affluente del Gange. Ciò che rimase dell’insurrezione furono bande di disperati che fuggivano combattendo, incalzati dalle truppe della Compagnia. Molti degli ultimi ribelli trovarono rifugio nelle aree ancora coperte da foreste vergini, specie alle falde dell’Himalaya, dove la maggior parte di loro perì di fame e malattie.

Marx ed Engels seguirono con attenzione l’evolversi della rivolta esprimendo pubblicamente le loro riflessioni in diversi articoli. Marx oltre a descrivere il grande ammutinamento militare intravvide un principio di carattere nazionale riconoscibile dal fatto che «musulmani e indù, mettendo da parte le loro mutue rivalità, si erano uniti contro i loro comuni padroni». Nell’articolo “La Rivolta Indiana” sempre per il Tribune, sottolinea: «C’è qualcosa nella storia umana di simile a un meccanismo punitivo. Ed è una legge del contrappasso storico che questo strumento sia forgiato non dagli offesi, ma da coloro che offendono. Il primo colpo inferto al monarca francese fu scagliato dalla nobiltà, non dai contadini. La rivolta indiana non è cominciata dai Ryots, torturati, disonorati e spogliati dagli inglesi, ma dai Sepoys, ben vestiti, nutriti, accuditi, viziati e coccolati».


57. «La rigenerazione non traspira da un mucchio di rovine eppure è già cominciata»

In conclusione, la rivolta che ebbe luogo nell’India settentrionale e tutti gli avvenimenti descritti provocarono la completa estinzione della dinastia imperiale Timur. Ma altresì il definitivo scioglimento della Compagnia delle Indie, che aveva assolto al proprio compito di strumento di dominio e che l’insurrezione aveva portato al completo tracollo finanziario. Già da tempo la compagnia non era più solo una società mercantile, con la riforma del suo statuto realizzata dal Parlamento nel 1813 aveva perso il monopolio del commercio e con un’ulteriore modifica nel 1833 le era stato fatto espressamente divieto di praticare ogni commercio. Era quindi divenuta un’agenzia governativa, che continuava però a pagare i dividendi ai suoi azionisti. L’atto del 1858 pose fine a questa anomalia quando la Corona inglese assunse la diretta responsabilità del governo dei territori dell’India.

Il governatore generale aggiunse al suo titolo quello di viceré e la Commissione di controllo divenne l’India Office, in pratica un ministero per l’India presieduto da un segretario di Stato col rango di ministro. Infine, le azioni e i debiti della Compagnia vennero riscattati dalla Regina Vittoria e trasformati nel nucleo iniziale di quel debito pubblico dell’India nei confronti dell’Inghilterra che doveva rimanere una costante dei rapporti economici fra i due paesi fino alla vigilia della seconda guerra mondiale.

«Gli Inglesi furono i primi conquistatori superiori, e quindi impermeabili alla civiltà indù. Essi la distrussero polverizzando le comunità indigene, sradicandone l’industria (...) Le pagine di storia del loro dominio in India registrano quasi soltanto distruzioni. L’opera di rigenerazione non traspira da un mucchio di rovine, eppure è già cominciata» (“I risultati futuri della dominazione britannica in India”, Londra, 22 luglio 1853).

(segue al prossimo numero)









La Internazionale dei Sindacati Rossi


(
continua dal numero scorso)


Rapporti esposti alle riunioni generali da gennaio a settembre 2022


5. Gli anarchici e l’Internazionale Sindacale Rossa

Possiamo affermare che, a livello internazionale, l’anarco-sindacalismo ante prima guerra mondiale si riconosceva in quella che era la posizione di indipendenza dai partiti politici adottata dalla CGT francese.

In Francia, tra fine ’800 ed i primi del ’900, il sindacalismo rivoluzionario era riuscito ad organizzare la maggioranza del movimento operaio. La Fédération des Bourses du travail fu uno dei maggiori centri di influenza sindacalista-rivoluzionaria e pure la CGT nacque, si sviluppò e per più anni si mantenne sulle medesime posizioni.

Ad Amiens nel 1906 fu adottata la famosa “Charte” di cui riportiamo alcuni passaggi: «La CGT raggruppa, al di là di ogni scuola politica, tutti i lavoratori coscienti della necessità di lottare per la scomparsa dei salariati e del padronato (...) Nell’opera rivendicativa quotidiana, il sindacalismo persegue il coordinamento degli sforzi operai, l’accrescimento del benessere dei lavoratori mediante la realizzazione di miglioramenti immediati, quali la riduzione delle ore di lavoro, l’aumento dei salari ecc. Ma questo impegno è solo un aspetto della pratica del sindacalismo, il quale prepara l’emancipazione integrale che si può realizzare solo mediante l’espropriazione dei capitalisti, preconizza lo sciopero generale come mezzo d’azione, e ritiene che il sindacato, oggi organismo di resistenza, sarà, in futuro, il raggruppamento responsabile della produzione e della distribuzione, base della riorganizzazione sociale (...) Per quanto riguarda gli individui, il Congresso afferma che, fuori dal raggruppamento corporativo, gli iscritti al sindacato sono totalmente liberi di partecipare alle forme di lotta corrispondenti alle loro concezioni filosofiche o politiche e si limita a esigere, in cambio, che non vengano introdotte nel sindacato le opinioni professate all’esterno (...) Le organizzazioni confederate, in quanto raggruppamenti sindacali, non debbono preoccuparsi dei partiti e delle sette che, all’esterno e collateralmente, possono perseguire in tutta libertà la trasformazione sociale».

Dunque le sue caratteristiche erano:
     a – organizzazione aperta indistintamente a tutti i lavoratori;
     b – azione di difesa e miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia;
     c – sindacato guida rivoluzionaria per l’abbattimento del regime borghese e, a conquista ottenuta, organizzatore della produzione e distribuzione. In altre parole al sindacato spetterebbe la guida della nuova organizzazione sociale;
     d – gli iscritti, come abbiamo visto, potevano appartenere a qualsiasi “concezione filosofica o politica”, ma ne era vietata la manifestazione all’interno del sindacato. Ossia, veniva negata la possibilità di lotta/confronto politico. In definitiva il sindacato, per struttura, programma e finalità, si comportava esattamente da partito;
     e – veniva però ammesso che partiti, o altro tipo di organizzazione sociale, potessero anch’essi aspirare alla trasformazione sociale, ma in totale separazione dal movimento sindacale. In seguito, nella evoluzione teorica di quello che in Francia sarà chiamato il “sindacalismo puro”, non solo veniva negata ogni possibilità di rapporto tra sindacato e partito, ma si giunse fino all’affermazione che il partito fosse nocivo alla classe lavoratrice per il semplice fatto di essere una organizzazione esterna al processo di produzione, ossia perché esso rappresenta una comunità di “idee” anziché essere una comunità di interessi.

All’inizio del ’900 molti furono i sindacati di ispirazione anarco-sindacalista che si vennero a formare, tra i tanti ricorderemo gli IWW (Industrial Workers of the World) in America, la spagnola CNT (Confederación Nacional del Trabajo), la SAC in Svezia, la CGT in Portogallo, l’USI in Italia, la FAU (Unione operaia libera) in Germania, la FORA in Argentina, etc., etc.

Ci fu chi, ritenendo che la rivoluzione sociale fosse all’ordine del giorno, fino da allora propose la fondazione di una internazionale su base sindacalista rivoluzionaria.

Nel febbraio 1913, il NAS (Nationaal Arbeids Secretariaat) olandese, con il sostegno dell’inglese ISEL (Industrial Syndicalist Education League of England) propose la convocazione di un congresso per gettare le basi della Internazionale sindacalista rivoluzionaria. Il Congresso si tenne a Londra, dal 27 settembre al 2 ottobre 1913, con la partecipazione di 38 delegati in rappresentanza di 65 federazioni di Argentina, Austria, Belgio, Brasile, Cuba, Inghilterra, Germania, Olanda, Italia, Polonia, Spagna e Svezia. A rappresentare l’italiana USI vennero inviati Alceste De Ambris ed Edmondo Rossoni, entrambi futuri interventisti, e non solo. La francese CGT si dichiarò contraria a questa iniziativa; neppure gli IWW parteciparono, anche perché si sono sempre considerati loro stessi una internazionale.

Naturalmente il convegno non raggiunse l’obiettivo che si era proposto, limitandosi alla formulazione di una dichiarazione di principi. «Il Congresso, riconoscendo che la classe operaia in ogni paese soffre della schiavitù del sistema capitalista e statalista, si dichiara per la lotta di classe, per la solidarietà internazionale e per l’organizzazione indipendente delle classi lavoratrici, basata sulla libera associazione. Questa organizzazione mira allo sviluppo materiale e intellettuale immediato delle classi lavoratrici e, in futuro, all’abolizione di questo sistema. Il Congresso dichiara la lotta di classe una conseguenza inevitabile della proprietà privata dei mezzi di produzione e distribuzione, e sostiene la socializzazione di questa proprietà e lo sviluppo dei sindacati in organizzazioni di produttori, in grado di farsi carico della gestione di produzione e distribuzione. Riconoscendo che i sindacati internazionali non raggiungeranno questo scopo che quando cesseranno di essere divisi da differenze politiche e religiose, dichiara che la lotta è di natura economica tale da escludere qualsiasi azione delle corporazioni governative o dei membri di queste corporazioni e dipende interamente dall’azione diretta dei lavoratori organizzati. Di conseguenza, il 1° Congresso fa appello ai lavoratori di tutti i paesi per organizzarsi in sindacati industriali indipendenti e unirsi sulla base della solidarietà internazionale per ottenere la loro emancipazione e liberarsi dalla dominazione capitalista e statale» (da: Alfred Rosmer, "Le Congrès de Londres", "La Vie ouvrière", 20 octobre 1913).

Il Congresso di Londra fu un utopistico tentativo di dare forma organizzata al sindacalismo rivoluzionario internazionale. I delegati tedeschi avevano addirittura proposto la fondazione di un sindacato internazionale.

Il Congresso dopo aver fissato un prossimo appuntamento ad Amsterdam per il 1915 decise la pubblicazione di un Bollettino Internazionale del Movimento Sindacalista, il primo numero del quale apparve nell’aprile 1914.

La rivoluzione sindacalista non arrivò, e nemmeno si ebbe l’Internazionale sindacalista rivoluzionaria; arrivò invece il 1914 e si ebbe l’internazionale delle Union Sacrée. In Francia, Léon Jouhaux, che nel 1912 aveva affermato: «Se viene dichiarata la guerra, ci rifiuteremo di andare al fronte», si fece immediatamente fautore dell’Union Sacrée sostenendo di avere dalla sua parte tutto il sindacalismo francese. Con poche diverse sfumature, nei paesi colpiti dal conflitto le confederazioni libertarie, o parti di esse, subiranno tutte la stessa sorte.

A guerra terminata come i socialdemocratici anche gli anarco-sindacalisti tentarono di ritessere le file di una loro organizzazione internazionale, anche se quella risultata dal Congresso di Londra del 1913 era stata più che una realtà una pia intenzione.

Tutto quello che nel 1919 riuscirono a compiere, date le evidenti difficoltà materiali, fu un incontro tra olandesi e tedeschi. Nello stesso anno nacque la FAUD (Freie Arbeiter Union Deutschlands). Al suo Congresso Costituente fu rinnovata la proposta di dar vita alla Internazionale Sindacalista e allo stesso tempo venne espressa solidarietà alla Repubblica Sovietica Russa.

Nel frattempo, a Mosca, nasceva la III Internazionale.

Ancora una volta ricorderemo come inizialmente buona parte del sindacalismo rivoluzionario avesse aderito all’internazionale comunista, e questo per più di un motivo. Da un lato giocava a loro favore il modo con cui questa nuova Internazionale era stata inizialmente concepita. Infatti nella sua piattaforma dichiarava di voler «realizzare un blocco con quegli elementi del movimento operaio rivoluzionario che, sebbene non fossero appartenuti in precedenza al Partito socialista, sono ora collocati in tutto e per tutto sul terreno della dittatura proletaria nella sua forma sovietica, cioè con gli elementi del sindacalismo».

Una ulteriore spinta a un avvicinamento a Mosca derivava dalla necessità di doversi contrapporre al sindacalismo riformista che già si era organizzato nell’Internazionale gialla di Amsterdam.

Determinante era poi il fatto che il proletariato internazionale vedeva nella rivoluzione russa, nel Partito bolscevico, in Lenin la guida, la prefigurazione della riscossa e della vittoria internazionale sul regime borghese. Inoltre il proletariato russo, sebbene vittorioso, proseguiva eroicamente la sua battaglia contro l’intervento alleato, contro Kolčak, Denikin, Wrangel, etc., in una parola, contro il fronte unico della reazione mondiale. Come avrebbero potuto le organizzazioni proletarie che si definivano rivoluzionarie voltare le spalle a Mosca? Avrebbe significato essere di colpo abbandonate dalle masse operaie. Quindi a quel tempo, i sindacalisti non si dichiaravano contrari, in linea di principio, alle proposte di Mosca e alla dittatura del proletariato.

Non fu da meno neanche Armando Borghi, l’anarchico italiano ferocemente anticomunista. Sul “Sindacato Rosso” del 9 settembre 1922, a firma V. Ortiz, leggiamo: «Debbo affermare che non al solo Kibalchich [Victor Serge - n.d.r.] dichiarò di essere partigiano della dittatura del proletariato e della rivoluzione russa, ma egli lo diceva a chiunque lo volesse ascoltare, e mi affermava seriamente che senza una dittatura sarebbe impossibile conservare la vittoria rivoluzionaria, ed era deciso a propagandarlo in Italia (...) Io ricordo una visita che noi due facemmo allo Smolny (...) ivi trovammo un militante comunista assai noto, Borghi si intrattenne con lui, e, secondo la sua abitudine, gli manifestò il suo entusiasmo per l’opera che chiamava “gigantesca” compiuta dai bolscevichi. Al momento di lasciare lo Smolny, Borghi abbraccia calorosamente il compagno promettendogli che farebbe conoscere al popolo italiano la necessità della dittatura e dell’adesione alla III Internazionale».

Come già aveva fatto la FAUD, la CNT nel dicembre 1919 dichiarò «di aderire provvisoriamente all’Internazionale comunista per il suo carattere rivoluzionario, in attesa che la CNT di Spagna organizzi e convochi il Congresso Generale dei Lavoratori che discuterà e stabilirà i principi secondo cui deve essere governata la vera Internazionale dei lavoratori». Dei delegati spagnoli, solo Angel Pestaña riuscì a raggiungere Mosca; il delegato dall’USI, Armando Borghi, arrivò solo a Congresso terminato.

Invece FAUD e NAS convocarono una conferenza sindacalista internazionale, che si tenne a Berlino, dal 16 al 21 dicembre 1920. Oltre naturalmente ai promotori parteciparono all’incontro quattro organizzazioni argentine, una minoranza della CGT francese, rappresentanti inglesi, dell’Europa continentale e degli IWW. A causa degli arresti dei loro delegati la CNT e l’USI non poterono essere rappresentati. Altri sindacati, come norvegesi e danesi, si limitarono ad inviare messaggi di approvazione. Era presente anche un osservatore dei sindacati russi; il quale si limitò a gettare forti dubbi sul motivo della Conferenza, dato l’imminente Congresso di fondazione dell’Internazionale sindacale rossa. Gli olandesi presentarono delle tesi per chiarire quale carattere, secondo loro, avrebbe dovuto assumere la nuova Internazionale, insistendo sul fatto che l’organizzazione rivoluzionaria della produzione e della distribuzione avrebbe dovuto essere gestita dai sindacati rifiutando le interferenze dei partiti politici. Questo è ciò che ponevano come condizione per la loro adesione all’Internazionale sindacale di Mosca.

Al contrario i francesi si opponevano a tutto ciò che avrebbe potuto indebolire l’unità rivoluzionaria chiedendo quindi di aderire comunque al Profintern. «Al momento – affermarono – si tratta di costituire un sindacato internazionale capace di un’azione rivoluzionaria e di lasciare da parte ogni questione secondaria di dottrina, sulle quali possiamo a priori non essere d’accordo» (da: Arthur Lehning, “La naissance de l’Association internationale des travailleurs de Berlin: du syndicalisme révolutionnaire à l’anarchosyndicalisme”).

Infine, allo scopo di redigere una dichiarazione finale venne nominata una commissione composta dai rappresentanti degli IWW, del FAUD e del NAS, mentre la delegazione francese aveva già abbandonato il convegno.

Questo il documento approvato all’unanimità:

«1 - L’Internazionale Rivoluzionaria del Lavoro prende il suo posto senza alcuna riserva sul terreno della lotta di classe rivoluzionaria e del potere della classe operaia.

«2 - L’Internazionale Rivoluzionaria del Lavoro tende alla distruzione e al rifiuto del regime economico, politico e spirituale del sistema capitalista e dello Stato. Tende alla fondazione di una società comunista libera.

«3 - La Conferenza rileva che la classe operaia è la sola in grado di distruggere la schiavitù economica, politica e spirituale del capitalismo con la più severa applicazione dei suoi mezzi di potere economico che trova espressione nell’azione diretta rivoluzionaria della classe operaia per raggiungere questo obiettivo.

«4 - L’Internazionale Rivoluzionaria del Lavoro prende quindi il punto di vista che la costruzione e l’organizzazione della produzione e della distribuzione è compito dell’organizzazione economica in ogni paese.

«5 - L’Internazionale Rivoluzionaria del Lavoro è del tutto indipendente da ogni partito politico. Nel caso in cui la Internazionale Rivoluzionaria del Lavoro decida di agire, e i partiti politici o altre organizzazioni si schierassero con essa – o in senso inverso – l’attuazione di questa azione potrà essere eseguita congiuntamente con questi partiti e organizzazioni.

«6 - La Conferenza fa urgentemente appello a tutte le organizzazioni sindacali rivoluzionarie e industriali per la partecipazione al congresso convocato per il 1 maggio 1921 a Mosca dal Consiglio Provvisorio della Internazionale sindacale rossa, per fondare un’Internazionale Sindacale Rivoluzionaria in unione a tutti i lavoratori rivoluzionari nel mondo» (“Communication concernant la Conférence syndicaliste internationale tenue à Berlin du 16 au 21 décembre 1920").

Un ufficio di informazione sindacalista internazionale fu incaricato di far conoscere questa risoluzione alle altre organizzazioni sindacaliste-rivoluzionarie che non avevano partecipato alla Conferenza e di mantenere i contatti con il Consiglio provvisorio dell’ISR. Così, quando si aprirono i lavori del Primo Congresso del Profintern, quasi tutte le organizzazioni sindacaliste rivoluzionarie erano rappresentate, ad eccezione della Confederação General do Trabalho del Portogallo e del FAUD, che entrambi, pur favorevoli alla creazione di un sindacato internazionale, rifiutarono di andare a Mosca senza aver prima avuto garanzie reali sulla piena indipendenza della futura organizzazione.

A Congresso ormai chiuso Lozovskij affermava: «Il primo Congresso internazionale dei Sindacati rivoluzionari ha completamente assolto questo compito: fondere le disunite forze rivoluzionarie, creare una unica direttiva e una base unica per la salda organizzazione dei sindacati rivoluzionari di classe (...) Dopo lunghe e febbrili discussioni, dopo lotte e concessioni reciproche, ha trovato la sua forma definitiva (...) La deliberazione decisiva per tutto il programma del movimento sindacale internazionale è senza dubbio quella riguardante i rapporti tra l’Internazionale comunista e l’Internazionale dei sindacati rossi (...) Su questa questione, la decisione approvata, mentre stabilisce l’indipendenza dell’Internazionale dei sindacati rossi nei rapporti organizzativi, insiste però nella necessità assoluta, nella lotta, di unità d’azione e di stretta collaborazione con l’Internazionale comunista. Il Congresso motiva tale concessione con la considerazione che la borghesia a sua volta ha proceduto a un concentramento di forze, avendo essa già da un pezzo coordinato le sue organizzazioni politiche ed economiche per la lotta comune (...) Non solo la maggioranza del Congresso, ma anche la minoranza sindacalista rivoluzionaria, sostenitrice dell’indipendenza del movimento sindacale, ha riconosciuto la necessità di stabilire i più stretti rapporti con la III Internazionale, quale avanguardia in tutto il mondo del movimento operaio rivoluzionario».

Una dichiarazione di questo genere poteva far presupporre che ogni dissapore tra comunisti e anarco-sindacalisti si fosse chiarito e appianato, mettendo al primo posto la necessità di realizzare un fronte unico rivoluzionario internazionale da contrapporre alla controrivoluzionaria Internazionale gialla di Amsterdam, asservita alle varie borghesie nazionali e all’imperialismo internazionale.

Purtroppo le cose non andarono proprio in questo modo. L’apparente unità di intenti conseguita fu determinata soprattutto dalla disorganizzazione degli anarco-sindacalisti. Mentre i comunisti si presentarono con una unica, definita posizione sul ruolo e sull’azione sindacale, gli altri avevano posizioni alquanto diverse in ogni aspetto della attività sindacale, cosa che contribuì ad aggravare la loro posizione minoritaria. Ad esempio i sindacalisti francesi accettavano la tattica della permanenza e azione all’interno dei sindacati riformisti, mentre quelli degli altri paesi erano decisamente ostili a questa tattica. Analogamente l’atteggiamento nei confronti dell’Internazionale comunista, della dittatura del proletariato, della collaborazione con i partiti comunisti variava da un gruppo nazionale all’altro. Comunque rimaneva il fatto che per i sindacalisti rivoluzionari l’indipendenza dai partiti e dall’Internazionale politica rappresentavano una condizione irrinunciabile, come aveva stabilito il recente Convegno di Berlino (dicembre 1920).

In conclusione le organizzazioni anarco-sindacaliste, al di là della loro opposizione quasi unanime alle tesi della maggioranza congressuale, non erano riuscite a presentarsi con una piattaforma comune. Si ricordi come già al Convegno di Londra (1913) non erano stati in grado di formulare un programma comune su cui poter fondare una loro Internazionale sindacalista da contrapporre alla Federazione Sindacale Internazionale.

La maggior parte dei delegati anarco-sindacalisti, già durante gli ultimi giorni del Congresso, cominciarono a tenere delle riunioni separate nel non riuscito tentativo di elaborare una posizione comune.

Il 14 luglio, tre organizzazioni tedesche, la FAU, la AAUD (Unione operaia generale tedesca) e il sindacato tedesco dei marinai, indirizzarono alle altre organizzazioni sindacali minoritarie un documento di forte opposizione nel quale veniva dichiarato: «Le nostre organizzazioni in questa Internazionale sono già private dei loro diritti. Esse dipenderanno dalla III Internazionale (...) Questa subordinazione esige da noi la rinuncia all’indipendenza delle nostre Organizzazioni (...) Nell’interesse del movimento operaio internazionale è necessario creare un’Internazionale composta di organizzazioni indipendenti intimamente legate fra loro (...) D’altra parte siamo convinti che il raggruppamento internazionale delle Organizzazioni indipendenti al di fuori dell’ISR avrebbe come conseguenza una dispersione ancora maggiore delle forze della classe operaia (...) Perciò proponiamo a tutte le Organizzazioni indipendenti che si trovano nell’opposizione in questo Congresso di stipulare fra loro un accordo, pur restando all’interno dell’ISR (...) Lo scopo principale di questo accordo dovrà essere il seguente: trasformare l’ISR in una vera internazionale, garantire la sua indipendenza, preoccuparsi dell’attività rivoluzionaria pratica lottando contro tutte le tendenze riformiste e opportuniste, smascherandole spietatamente».

Lozovskij definì questo documento “equivoco, demagogico, assolutamente inammissibile”.

Ancora una volta l’opposizione di minoranza se concordava con la critica rimaneva divisa sulla condotta da seguire. Due erano le posizioni maggiormente espresse. Una che sosteneva la necessità di restare all’interno della ISR come minoranza organizzata, l’altra affermava l’inutilità della permanenza nell’Internazionale di Mosca perché i comunisti sarebbero comunque restati padroni del gioco: gli anarco-sindacalisti avrebbero dovuto fondare una loro Internazionale indipendente. A questo proposito dobbiamo aggiungere che non solo non esisteva una generale intesa tra le loro organizzazioni nazionali, ma a volte il dissenso era anche all’interno della stessa organizzazione. Lo stavano a dimostrare gli esempi di Francia e Italia dove all’interno delle confederazioni anarco-sindacaliste esisteva sia la frazione a favore della adesione all’ISR sia quella scissionista.

Riferendoci soltanto alle più importanti organizzazioni possiamo dire che negli Stati Uniti l’Esecutivo degli IWW raccomandò all’Organizzazione di non aderire all’ISR; in Spagna la CNT sconfessò le decisioni prese dai suoi delegati a Mosca; la stessa cosa successe ai delegati sindacalisti rivoluzionari italiani che vennero sconfessati dagli anarchici; in Germania, come vedremo, su iniziativa della FAUD nascerà la Internazionale anarco-sindacalista.

Dalla rivendicazione della piena indipendenza dai partiti e dall’Internazionale comunista, gli anarco-sindacalisti, dando largo fiato agli anarchici russi fuoriusciti, passarono ben presto alla aperta denigrazione del bolscevismo e del regime russo. Già all’indomani del Congresso di fondazione del Profintern fu evidente che l’obiettivo che stava alla base della nuova organizzazione, ossia riunire tutti i settori del movimento sindacale di classe, non si sarebbe potuto realizzare a causa del sabotaggio degli anarco-sindacalisti.

Nell’ottobre 1921 la FAUD celebrò il suo XIII Congresso, a Düsseldorf, e contemporaneamente, con i delegati stranieri presenti, fu tenuta una conferenza nel corso della quale fu nuovamente auspicata la costituzione di una Internazionale Sindacalista indipendente. Sulla base della dichiarazione di Berlino del dicembre 1920 (eccetto, ovviamente, l’ultimo paragrafo).

Nella risoluzione adottata si legge: «Constatato che il Congresso dell’Internazionale sindacale rossa non ha portato alla fondazione di una vera Internazionale sindacalista, i rappresentanti delle organizzazioni sindacaliste di Germania, Paesi Bassi, Svizzera, Cecoslovacchia, Stati Uniti riuniti in occasione del Congresso della FAUD sono convinti della necessità di organizzare un nuovo congresso internazionale». L’USI si associò a questa risoluzione.

Riepilogando, ecco come si presentava la situazione a soli pochi mesi dopo la nascita dell’ISR. Tra le organizzazioni presenti a Mosca nell’estate del 1921, gli IWW, la Federación Regional Obrera Argentina, la Federación Regional Obrera de Uruguay, sindacalisti dei paesi scandinavi, USI e CNT opteranno per non aderire a Mosca. La FAUD e la CGT portoghese non avevano nemmeno partecipato. Soltanto i francesi e gli olandesi sembravano propendere per l’adesione, mentre gli anarco-sindacalisti degli altri paesi si dichiararono nettamente contrari al Profintern. Si proponevano ora (ancora una volta) di darsi una organizzazione che riunisse gli anarco-sindacalisti del mondo intero, con il bel risultato di spezzare il movimento sindacale di classe.

Intanto in Francia, a fine 1921, la scissione della CGT divenne inevitabile. Nel giugno 1922, al Congresso di Saint-Étienne, venne fondata la CGT-Unitaire.

Con un anticipo di due mesi “Il Sindacato Rosso” dell’8 aprile aveva scritto: «Uno dei problemi più assillanti che le forze rivoluzionarie francesi saranno fra poco chiamate a risolvere è quello dei rapporti internazionali, e precisamente quello della loro adesione, sia pure sotto determinate garanzie, all’Internazionale dei Sindacati Rossi che ha sede a Mosca, oppure il loro passaggio nel campo di una terza internazionale esclusivamente sindacalista-anarchica che dovrebbe sorgere dietro iniziativa della sparuta schiera dei sindacalisti tedeschi. Intorno a questo problema si è già iniziata in seno alla C.G.d.L.U. [leggasi: CGTU - n.d.r.] francese una appassionatissima discussione fra i partigiani di Mosca e quelli chiamiamoli così, di Berlino (...) La C.G.d.L.U. di Francia raccoglie nei suoi ranghi tutti coloro che considerano la tattica dei Jouhaux e di Amsterdam come perniciosa e traditrice della classe operaia. La sua unità poggia quindi su di un dato prevalentemente negativo in quanto che la comune avversione alla tattica riformista e social-patriotta non presuppone una unità di programma nei riguardi dell’azione da esplicarsi per meglio giungere all’abbattimento del potere borghese e al trionfo della classe lavoratrice. Questo programma è attualmente in via di elaborazione e sta trovando la sua espressione e consistenza definitiva appunto attraverso il dibattito sui rapporti internazionali».

Il confronto-scontro che vi si stava svolgendo risentiva di tutta la tradizione e l’ideologia del sindacalismo francese. La parte che voleva rompere definitivamente con Mosca si richiamava espressamente alla “Charte d’Amiens” secondo cui il sindacato è tutto e deve bastare a tutto negando qualsiasi possibilità di rapporto con il Partito, considerato elemento perturbatore che deforma la specifica fisionomia del sindacato operaio e lo riduce all’impotenza. Gli aderenti a questa impostazione negavano, di conseguenza, lo Stato proletario e la sua temporanea dittatura.

L’altra parte invece, pur sostenendo l’assoluta indipendenza dell’organizzazione sindacale da quella partitica, si dichiarava pronta ad andare verso Mosca in quanto vedevano nell’Internazionale dei sindacati rossi l’organizzazione mondiale in grado di riunire tutti i sinceri rivoluzionari senza che nessuno di loro dovesse abdicare alle proprie idee. «Essi – scriveva “Il Sindacato Rosso” – hanno modificato radicalmente il loro pensiero nei riguardi della dittatura proletaria e trovano che essa in realtà, lungi dall’essere in contrasto con la formula del federalismo, è chiamata a completarla in quanto rappresenta l’azione mentre che il federalismo non è che una formula di organizzazione».

Al Congresso di Saint-Étienne come rappresentante dell’Internazionale sindacale rossa partecipò Lozovskij che svolse un lungo e ben articolato intervento. Qui non c’è possibilità di riferirne nei dettagli; possiamo però ricordare la successione dei maggiori argomenti trattati, dopo una brevissima presentazione: Attuale situazione del mondo capitalista; Rivoluzione russa e borghesia internazionale; Riformismo internazionale e rivoluzione sociale; Anarchismo internazionale e rivoluzione russa; Stato borghese - Stato proletario - estinzione dello Stato; Ruolo dei sindacati nella rivoluzione sociale; Legame organico tra rivoluzione di Russia e movimento internazionale; Internazionale sindacale: suoi principi e sua forza; Autonomia e indipendenza nazionali; Indipendenza internazionale; Internazionale sindacale-anarchica indipendente; Decisioni di Berlino.

Inutilmente Armando Borghi tentò di opporsi a Lozovskij nel tentativo di impedire l’adesione dei sindacalisti francesi al Profintern. La perdita della Francia fu uno smacco mal digerito dagli anarco-sindacalisti e da Borghi in particolare che, denigrando il potere sovietico, aveva sperato di far pendere l’ago della bilancia verso la costituenda internazionale di Berlino.

Non dobbiamo però tacere il fatto che fin dal suo inizio l’unità della nuova CGT fu precaria e che, allo scopo di mantenerne l’adesione, il 2° Congresso del Profintern sarà obbligato a proclamare la sua indipendenza dal Comintern, ossia rompere quel legame organico che era stato affermato al momento della sua fondazione. Solo a questa condizione la CGTU, al Congresso di Bourges, nel novembre 1923, dichiarerà di poter aderire all’ISR. Negli anni successivi gli anarco-sindacalisti cominceranno ad abbandonare la CGTU, fino a che nel novembre 1926, sotto l’egida dell’AIT di Berlino, decisero di fondare un’organizzazione separata, la terza CGT.

In Olanda, dopo il Congresso costitutivo del Profintern, il NAS si presentava sempre più diviso. A metà 1922 un referendum tra gli iscritti rifiutò l’affiliazione all’ISR, ma le citate decisioni del 2° Congresso del Profintern riaprirono la questione e la maggioranza del Comitato olandese decise di non partecipare al Congresso costitutivo dell’AIT (L’Internazionale anarco-sindacalista). Nel 1923 il Congresso NAS e un nuovo referendum confermarono la tendenza a favore del Profintern. A quel punto, a giugno, la minoranza si staccò per formare un nuovo sindacato: il Nederlands Syndicalistisch Vakverbond, che aderì all’AIT di Berlino. Comunque il NAS non aderì al Profintern che a dicembre 1925, per poi uscirne di nuovo nel 1927.

In Italia dal 10 al 14 marzo 1922 l’Unione Sindacale Italiana tenne il suo Congresso nazionale, a Roma, in Via del Seminario, nella sede del Partito Socialista. Anche la scelta del luogo ha il suo significato; i super rivoluzionari anarchici non trovarono niente di meglio che riunirsi presso i socialdemocratici, avversari a parole ma di fatto alleati sia nella frammentazione del movimento operaio sia nella lotta anticomunista e nella denigrazione del regime sovietico.

Andrès Nin, che comunista non era (almeno a quella data) ricordava nuovamente l’elegante voltafaccia di Borghi che a Mosca si dichiarava per la dittatura del proletariato e in Italia diffamava il comunismo e lo Stato russo: «Si sa che l’USI aveva aderito nel 1919 all’Internazionale comunista e che Borghi, suo segretario generale, durante il suo soggiorno a Mosca, nel 1920, aveva ratificato questa adesione. In occasione del Congresso costitutivo dell’ISR i due delegati dell’USI, Vecchi e Mari, diedero la loro approvazione alle decisioni adottate e firmarono un patto coi rappresentanti del Partito Comunista per la coordinazione dell’azione in Italia. Durante il nostro primo Congresso (dell’ISR), Borghi che era stato arrestato al suo ritorno da Mosca, era stato rilasciato dopo qualche mese e intraprendeva repentinamente una campagna d’una violenza inaudita contro l’ISR e la rivoluzione russa. Parallelamente una vera offensiva contro i bolscevichi era scatenata dagli anarchici, e specialmente dal loro quotidiano: “L’Umanità Nova”» (“Il Sindacato Rosso”, 13 maggio).

Su “Correspondance Internationale” n.30 dell’aprile, in “L’attitude des Anarchistes italiens”, leggiamo: «L’ingenuità dei capi anarchici italiani si trasforma in perfidia appena si trovano dinanzi al problema della Russia dei Soviet. Proprio loro, che durante il periodo della demagogia rivoluzionaria del dopoguerra celebravano la Russia dei Soviet e che forse non avrebbero opposto resistenza ad un governo sovietico in Italia, oggi, sotto la reazione, conducono la campagna più accanita contro il governo dei Soviet, contro l’I.C., contro il P.C.d’Italia. La stampa borghese ed i giornali fascisti riproducono degli estratti dell’“Umanità Nova”, quotidiano anarchico (...) Questa attitudine degli anarchici fa incontestabilmente il gioco della socialdemocrazia deviando le masse dal dritto cammino della rivoluzione (...) I dirigenti anarchici sindacalisti dell’USI non si differenziano per niente dai capi socialdemocratici della CGL. Forse non sarebbe esagerato dire che questi ultimi sono più onesti, essendo meno demagoghi».

Riferendosi al Congresso dell’USI Lozovskij aveva scritto: «I problemi che questo Congresso dovrà trattare, se non risolvere, sono parecchi e tutti importantissimi. Uno però indubbiamente sovrasterà tutti gli altri, ed è quello riguardante il mantenimento o meno dell’adesione dell’Unione all’Internazionale dei sindacati rossi di Mosca. Da qualche tempo sull’organo “Guerra di classe” i dirigenti dell’USI, ispirati soprattutto dagli anarchici, stanno facendo contro l’Internazionale rossa di Mosca una campagna che non ha nulla da invidiare a quella della stampa borghese internazionale. Contro questa campagna e perché l’unità internazionale del proletariato non sia infranta, è sorta in seno all’USI una frazione capitanata dall’amico Nicola Vecchi, la quale ha anche un proprio giornale “L’Internazionale” (...) Io penso – continuava Lozovskij – che il Congresso che ha avuto luogo a Mosca, nel mese di luglio dello scorso anno, abbia definito il compito [dell’ISR] in maniera sufficientemente precisa. Bisognerebbe tuttavia sapere: i sindacalisti italiani sono contro il programma adottato dal nostro Congresso? (...) No, essi aderiscono alle risoluzioni accennate. Ma pur aderendo alle risoluzioni essenziali essi dichiarano di essere in opposizione a quelle in cui si parla di intese fra la III Internazionale e l’Internazionale dei sindacati rossi (...) Borghi è stato in Russia, ha dichiarato di aderire all’Internazionale comunista ed una volta partito ha cominciato a fare propaganda contro di essa (...) Non si può cambiare il proprio punto di vista e dopo l’adesione all’Internazionale comunista (...) condurre la lotta non soltanto contro l’internazionale comunista, ma anche contro l’ISR che è, come ognuno sa, una organizzazione indipendente, legata all’Internazionale comunista solo da una rappresentanza reciproca» (“Il Sindacato Rosso”, 11 marzo 1922).

Sentiamo ora cosa, a proposito del Congresso, ci racconta Borghi: «All’ordine del giorno vi era l’adesione alla Internazionale Sindacale di Mosca. I moscoviti si batterono non da leoni, ma da vipere. Il voto del Congresso fu contro Mosca e contro i moscovizzati. Fu vittoria di principii, non di raggiri burocratici, o di influenze finanziarie, o di altri mezzi e mezzucci loschi, coi quali la corrente dei “dirigenti” trionfa in molti movimenti operai e politici» (Borghi, “Mezzo secolo di anarchia”).

Vediamo invece cosa scrivevamo noi a proposito della vantata “vittoria di principii”: «Gli anarchici che amano proclamarsi ad ogni momento nemici di ogni dittatura, ne hanno esercitata una invece, imponendo a mezzo del Comitato Esecutivo, nel quale essi avevano la maggioranza, un sistema di votazione che metteva le organizzazioni operaie più importanti nella impossibilità di esprimere la loro volontà» (“Il Comunista”, 6 maggio).

Appare quindi evidente come i bonzi, siano essi socialdemocratici o anarchici, sempre bonzi sono e da bonzi si comportano, mantenendosi in maniera truffaldina al vertice delle rispettive organizzazioni.

L’“Appello dell’Esecutivo dell’ISR all’USI”, del marzo, afferma:

«In questo momento nel quale il proletariato italiano aspira con maggior veemenza all’unità fra i ranghi nazionali ed internazionali, gli anarchici hanno fatto adottare al Congresso dell’USI delle decisioni opposte alle sue aspirazioni profonde. È veramente curioso vedere questi estremisti agire praticamente nella maniera medesima dei dirigenti riformisti della CGL (...)

«La Repubblica dei Soviet è una minaccia costante al capitalismo internazionale, e la caduta di essa segnerebbe lo sfacelo del movimento rivoluzionario in tutti gli altri Stati.

«È in questo difficile momento, in cui la unità rivoluzionaria e la simpatia cordiale del proletariato sono più che mai necessari alla rivoluzione russa, che in certi centri del movimento operaio, si intraprende una campagna di calunnie odiose contro la Repubblica dei Soviet (...)

«In nessun altro paese come l’Italia la rivoluzione russa è stata accolta con tanto entusiasmo. Fu in questo entusiasmo che trovarono le loro origini le vostre grandi agitazioni e i vostri movimenti rivoluzionari il cui slancio aveva fatto concepire la speranza che il vostro paese avrebbe dato il segnale della lotta decisiva contro la borghesia nell’Europa Occidentale. Ora invece, e proprio in Italia, dove la campagna contro la rivoluzione russa ha preso attualmente un carattere particolarmente odioso, nel loro furore settario gli anarchici non esitano a mettere in pericolo il movimento rivoluzionario internazionale e a distruggere le organizzazioni combattive del proletariato».

Naturalmente in maniera pretestuosa già al Consiglio generale dell’ottobre 1921 i dirigenti della frazione Borghi erano riusciti a fare approvare una risoluzione in cui si richiedeva un nuovo congresso dell’ISR da tenersi al di fuori dei confini sovietici. A questa pretestuosa e insensata richiesta l’ISR non poteva che rispondere: «Noi semplicemente ricordiamo che questa medesima domanda è stata formulata l’anno scorso dai dirigenti riformisti della CGL italiana, quando i delegati di tutte le nazioni si trovavano già a Mosca (...) Noi abbiamo già dichiarato che sarebbe stato per noi un grandissimo piacere che il Congresso si fosse riunito a Milano, a mo’ d’esempio. Ma noi dobbiamo ricordare come nel 1920 il compagno Pestaña, delegato della CNT spagnola, venisse arrestato in Italia nel suo ritorno dalla Russia, e dalla vostra polizia consegnato a quella della Spagna, che da quell’epoca lo trattiene ancora in prigione (...) Ad ogni modo quello che bisogna dedurre dall’attitudine degli anarchici italiani è che essi preferiscono qualsiasi Stato borghese alla prima Repubblica Proletaria vittoriosa».

Lozovskij tornò sull’argomento in maniera chiara e inequivocabile: «Tale vostra proposta noi l’accettiamo con piacere: assicurateci la possibilità di tenere il Congresso a Milano e noi non mancheremo di intervenirvi. Il Comitato Esecutivo dell’ISR in merito ha già preso la seguente deliberazione: “Si accetta la proposta avanzata dall’Unione Sindacale Italiana di convocare il congresso in altro luogo che non sia la Russia. Si invita l’Unione Sindacale Italiana a dare assicurazione che al detto congresso abbiano la possibilità di assistervi il Comitato Esecutivo e la delegazione russa” (...) Se credete prendere voi l’iniziativa della convocazione noi vi prenderemo parte. Voi sapete, pertanto, che da voi, in Italia, voi non potete difendere le vostre Camere del Lavoro, che i fascisti vi attaccano in pieno giorno, che voi non potete affatto difendere la libertà delle vostre organizzazioni – dove volete dunque che noi convochiamo un congresso di 200 o 250 persone: in Francia? in Spagna? in Germania? Dove? Forse al Polo Nord?

«Si sarebbe potuto prendere una tale esigenza per una facezia, ma quando il Congresso sindacalista di Düsseldorf adotta una risoluzione analoga e il C.G. dell’Unione Sindacale lo conferma, lo scherzo diventa di cattivo gusto.

«Dopo di ciò – spero – che non si potrà più accusarci di non aver voluto convocare il congresso all’estero (...).

«Infine e allo scopo di meglio convincere i Sindacalisti, debbo dichiarare che se il congresso si riunisse a Milano od a Honolulu, io continuerò a rimanere un comunista ed a difendere i miei punti di vista comunisti. Mi sembrerebbe di offendere i Sindacalisti se elevassi il dubbio che il loro pensiero avesse a cambiare a seconda del luogo in cui si trovano» (“Il Sindacato Rosso”, 11 marzo).

Sulla proposta di tenere il Congresso dell’ISR fuori dalla Repubblica Sovietica interveniva anche Andrès Nin che, dopo aver ribadito gli stessi concetti espressi da Lozovskij, aggiungeva: «A meno che gli amici dell’USI non abbiano in vista la Germania dove recentemente hanno consegnato nelle mani del boia del mio paese i compagni Nicolau, Conceptión e in cui ho potuto constatare personalmente la tolleranza, durante il mio soggiorno nelle prigioni democratiche di Ebert» (“Il Sindacato Rosso”, 13 maggio).

Date simili premesse l’esito del Congresso anarco-sindacalista era scontato in anticipo; come scrivemmo nel “Sindacato Rosso” era già un fatto compiuto prima che una volgare montatura di Congresso intervenisse a dargli una specie di consacrazione ufficiale. Infatti la frazione Borghi avendo la maggioranza del Comitato Esecutivo e disponendo dell’organo ufficiale dell’USI, “Guerra di classe”, si trovava nella condizione di adottare quel truffaldino sistema di votazione che gli avrebbe garantito la maggioranza. A questo proposito si veda “Il Sindacato Rosso” del 13 maggio.

La frazione di Vecchi, espressione del sindacalismo rivoluzionario, che tendeva ad impedire un nuovo sgretolamento delle forze rivoluzionarie in campo internazionale, partecipò al Congresso con l’intento di riaffermare l’adesione dell’USI all’Internazionale sindacale di Mosca, ritenuta del tutto naturale. Di contro Borghi e gli anarchici determinati a spezzare il fronte proletario internazionale a qualunque prezzo. Come pretestuosa condizione per il mantenimento della loro adesione all’ISR gli anarchici italiani ponevano la «esclusione assoluta di qualsiasi legame con il Komintern o qualunque partito politico». La risoluzione recitava: «Il quarto Congresso dell’USI (...) dà mandato al Comitato Esecutivo di prendere accordi con le organizzazioni sindacaliste di tutto il mondo per organizzare saldamente una internazionale sindacalista nel caso previsto che l’ISR si rifiuti di accettare le suesposte ed irrevocabili condizioni».

Ricordiamo ancora una volta come gli anarchici dell’USI nel 1919 avessero aderito alla III Internazionale, ma, scrivevamo ne “Il Sindacato Rosso” del 18 marzo, «essi aderirono all’Internazionale comunista per un meschino calcolo opportunistico; per una bassa considerazione di bottega. Come gli opportunisti finsero di schierarsi con Mosca per la tema di essere abbandonati dalle masse e non potere, in conseguenza, più manovrarle verso le secche del collaborazionismo, così i libertari credettero conveniente ai loro particolari interessi di mascherarsi come i più fieri depositari del comunismo internazionale, unicamente perché speravano di strappare le masse alla Confederazione e di vedere ingrossare le file dell’organizzazione da loro capeggiata e diretta. Bassa politica di sensali quindi, e di mercantesse da suburra. Come i socialdemocratici, così i libertari hanno sfruttato la rivoluzione russa ed il partito che l’ha compiuta e difesa col sangue dei suoi adepti migliori (...) Il pretesto, naturalmente, per giustificare la doppiezza propria e la propria viltà era a portata di mano, ed era il legame esistente fra l’Internazionale comunista e quella dei Sindacati rossi (...) Quel legame, però, non significava e non significa affatto subordinazione dell’Internazionale sindacale all’Internazionale politica: esso stabilisce semplicemente una reciproca rappresentanza in seno agli esecutivi (...) Se si vuole arbitrariamente parlare di subordinazione, questa devesi intendere in senso bilaterale, poiché tanto è subordinata, da un punto di vista burocratico, l’Internazionale sindacale a quella politica, quanto l’Internazionale politica a quella sindacale: identicamente (...) Il vero motivo del distacco dei sindacalisti-libertari dall’Internazionale dei Sindacati rossi è il rifiuto reciso, assoluto opposto da questa alla scissione dei sindacati e la parola d’ordine lanciata dall’Internazionale comunista di andare fra le masse (...) Se l’Internazionale dei Sindacati rossi avesse ordinato la scissione nei sindacati, e se l’Internazionale comunista si fosse limitata alla semplice predicazione astratta dei principi del comunismo (...) certo i sindacalisti libertari non sarebbero insorti con tanta violenza contro di essa. Il legame esistente fra le due Internazionali, lungi dal rendersi pesante, avrebbe servito ai loro scopi particolari e sarebbe stato sicuramente gradito».

Nel nostro giornale veniva pure messo bene in evidenza come l’avversione anarchica nei confronti di tutti i partiti rivelava che il movimento anarchico si comportasse, di fatto, esattamente come un partito. Il citato articolo terminava con questa considerazione: «Essi si son messi per una strada che non ha nulla da invidiare a quella dei D’Aragona e dei Serrati: forse è peggiore. Non devono quindi attendersi un trattamento diverso da parte dei comunisti: i quali non sono usi a piantare nelle reni della rivoluzione il coltello di Maramaldo, dopo averla turpemente sfruttata in nome del sindacalismo libertario».

Ma anche all’interno della stessa USI una forte frazione di minoranza (che avrebbe potuto anche essere maggioranza se la corrente anarchica, istruita sui truffaldini metodi democratici, non avesse barato, proprio come i socialdemocratici nei congressi della CGL) si oppose decisamente all’uscita dalla Internazionale dei sindacati rossi. A questo proposito non c’è niente di meglio che citare ampi passaggi di un articolo dell’“Internazionale”, organo della corrente sindacalista rivoluzionaria dell’USI.

«Con un processo di sviluppo, che va di pari passo con gli avvenimenti, è sorta (...) la Terza Internazionale Sindacale che va sotto il nome di Internazionale dei sindacati rossi. La sua forza propulsiva è immensa. Popoli vergini che si affacciano ora alla ribalta della vita dell’organizzazione, scossi dalla febbre rivoluzionaria, vanno ad essa. Ad essa andarono pure i rappresentanti dei popoli latini: Italia, Francia, Spagna. L’entusiasmo per la rivoluzione russa delle folle nostre, scosse perfino gli scettici della Confederazione Generale del Lavoro, al punto di figurare essi i rappresentanti in Italia dei sindacati più rossi (...)

«Se D’Aragona e Dugoni ci tenevano a passare allora per i rappresentanti legittimi della Terza Internazionale, cosa mai avrebbero dovuto far coloro che avevano una tradizione rivoluzionaria e che rappresentavano l’Unione Sindacale Italiana?

«Fu in questo periodo che “Guerra di Classe” [Organo ufficiale dell’USI - n.d.r.] cominciò a fregiare la propria testata con tanto di “aderente alla Terza Internazionale” (...)

«Con i soliti cavilli procedurali di cui sono maestri i riformisti, la Confederazione Generale [leggasi: CGL - n.d.r.] ritirò la propria adesione da Mosca (...) Se vi era in quel caso una ragione di più perché l’Unione Sindacale Italiana valorizzasse l’Internazionale dei sindacati rossi di Mosca era quello (...) Noi in Italia avremmo a quest’ora la rappresentanza ufficiale di una Internazionale di un valore morale incomparabile (...)

«Purtroppo pochi uomini (...) hanno lavorato a rompere l’unità rivoluzionaria che si andava formando attraverso l’influsso benefico della grande Russia dei Soviet.

«E così fra il dilagare delle polemiche fratricide si è venuti al Congresso ultimo dell’Unione Sindacale Italiana (...) Ci soffermiamo solo a rilevare quelle discussioni e deliberazioni che si riferiscono alla Internazionale dei sindacati rossi di Mosca e alla organizzazione di una conferenza internazionale sindacalista.

«L’idea di una conferenza internazionale sindacale è ottima in sé e noi pure della ISR l’approviamo, riservandoci però di sostenere in essa la tesi dell’adesione all’Internazionale di Mosca (...)

«È triste il dover constatare che tra le file del proletariato (...) ci siano quelli che vogliono, cercano e fanno di tutto per sabotare le naturali tendenze rivoluzionarie e unitarie del proletariato! Eppure è così! La Quarta Internazionale che i sabotatori dell’unità proletaria cercano di mettere in piedi sarà evanescente. Ma non importa. Ci sarà modo lo stesso di farne una quinta e forse anche una sesta, quando la quarta che si sta per costruire non soddisferà più le mire degli egocentrici iniziatori (...)

«Si può star certi che la Conferenza altro non sarà che una accademia di denigrazione contro la rivoluzione russa contro l’Internazionale rossa (...) Non s’imbrogliano le carte col dire che la Conferenza si fa per discutere sulla possibilità dell’entrata nell’Internazionale rossa: si dica apertamente (...) che si vuole costituire una nuova internazionale sindacale che di nome sarà Sindacalista ma che effettivamente sarà di tutt’altra scuola, cioè anarchica. È proprio destino che le cose serie debbano finire in farsa?!» (Articolo riprodotto da “Il Lavoratore” del 17 giugno).

Il Congresso Internazionale dei Sindacati anarchici, deciso nell’ottobre 1921, di fatto non fu che una Conferenza e si tenne a Berlino dal 16 al 18 giugno 1922.

Presero parte a questa riunione, scrivevamo su “Il Sindacato Rosso” dell’1 luglio:

«1) I rappresentanti della FAUD tedesca, organizzazione che non ha influenza sul movimento operaio e che nessuno mai ha preso sul serio; 2) Il gruppo Borghi dell’Unione Sindacale italiana, gruppo che perde di giorno in giorno la sua influenza sulle masse e che malgrado la sua fraseologia rivoluzionaria combatte praticamente la rivoluzione russa ed i suoi sostenitori italiani; 3) Come rappresentante di paesi scandinavi lo sconosciuto Jansen.

«I rappresentanti della CGTU francese e della centrale sindacale russa hanno ufficialmente dichiarato che essi non avrebbero assistito alla conferenza se non a titolo di informazione. Le organizzazioni sindacaliste rivoluzionarie dell’Olanda e della Spagna, del Portogallo, dell’America del Nord e di altri paesi, non erano rappresentate.

«Abbiamo invece incontrato alla conferenza una sedicente minoranza anarchica dei Sindacati russi, minoranza la quale non è mai esistita e che non esiste nemmeno oggi nel movimento sindacale russo. In qual modo due emigrati anarchici i quali non hanno mai partecipato al movimento sindacale russo hanno potuto prendere parte alle discussioni in qualità di delegati dei Sindacati russi con voto deliberativo, questo è un segreto degli organizzatori della conferenza di Berlino».

Come si vede alla conferenza prese parte soltanto un esiguo numero di organizzazioni anarco-sindacaliste e con una influenza sulla classe operaia molto limitata, o addirittura del tutto presunta. Ma se questo non bastasse ad alcune altre organizzazioni anarco-sindacaliste venne negata la partecipazione poiché dichiaratamente favorevoli alla adesione all’Internazionale sindacale di Mosca.

I libertari, gli anti-autoritari, i legalitari anarchici, Borghi in testa, diedero prova della loro correttezza escludendo dalla Conferenza la frazione Vecchi che di fatto rappresentava la maggioranza effettiva dell’USI. Lo stesso trattamento venne riservato anche alle Unioni tedesche Gelsenkirchen (Unione dei lavoratori manuali e intellettuali di Germania) e Schifffahrtsbund (Unione dei marinai tedeschi) benché in base al regolamento interno datosi dalla Conferenza stessa ne avessero pieno diritto.

I compiti principali che la conferenza si era prefissa includevano la discussione di “principi e tattiche” e la definizione dell’atteggiamento adottato dal sindacalismo rivoluzionario nei confronti dell’ISR. Naturalmente si trattava di un argomento del tutto pretestuoso dal momento che in anticipo era stato stabilito di rompere ogni legame con Mosca e alle organizzazioni del sindacalismo rivoluzionario contrarie a tale decisione era stata impedita la partecipazione. Infatti l’argomento della riunione fu uno solo: attacco continuo nei confronti della rivoluzione russa e della Repubblica sovietica, accusata di persecuzioni contro anarchici ed anarco-sindacalisti. Rivolto al delegato dei sindacati russi uno dei due rappresentanti della “minoranza anarchica russa” sentenziò: «Questi signori che si presentano qui a titolo di delegati dei sindacati rossi di Russia – e se sono rossi, è del sangue degli operai e dei contadini che continuano a reprimere per conservare il loro potere – noi li consideriamo come rappresentanti del governo russo, della Čeka, di quella che perseguita ed arresta gli operai rivoluzionari, degli stessi che ci hanno arrestato ed espulso» (“Bulletin international des syndicalistes révolutionnaires et industrialistes", nn.2-3, Berlino, agosto 1922).

Venne approvata la mozione Rocker, che in dieci paragrafi sintetizzava il programma dell’anarco-sindacalismo. La mozione, che verrà poi assunta a dichiarazione di principi dalla Internazionale anarco-sindacalista, venne dallo stesso Rocker così riassunta: «Il sindacalismo rivoluzionario, basato sulla lotta di classe, tende all’unione di tutti i lavoratori manuali e intellettuali nelle organizzazioni economiche di combattimento che lottano per la loro liberazione dal giogo del lavoro salariato e dall’oppressione statale. Il suo obiettivo consiste nella riorganizzazione della vita sociale sulla base di un comunismo libero, attraverso l’azione rivoluzionaria della classe operaia stessa. Ritiene che solo le organizzazioni economiche del proletariato siano in grado di conseguire un tale obiettivo, e si rivolge quindi ai lavoratori nella loro qualità di produttori e creatori di ricchezza sociale, in opposizione ai moderni partiti politici dei lavoratori che non potranno mai essere considerati dal punto di vista della riorganizzazione economica. Il sindacalismo rivoluzionario è un nemico convinto di qualsiasi monopolio economico e sociale e tende alla loro abolizione per mezzo di comunità economiche e organismi amministrativi degli operai dei campi e delle fabbriche sulla base di un libero sistema di consigli svincolati da ogni subordinazione a qualsiasi potere o partito politico. Contro la politica statale e di partito, erige l’organizzazione economica del lavoro; contro il governo degli uomini, la gestione delle cose. Il suo scopo, quindi, non è la conquista del potere politico, ma l’abolizione di qualsiasi funzione statalista nella vita sociale. Ritiene che con il monopolio della proprietà deve anche sparire il monopolio del dominio, e che ogni forma di Stato, compresa la "dittatura di proletariato", non potrà mai essere strumento di emancipazione, ma sarà sempre fonte di nuovi monopoli e nuovi privilegi».

Infine, la dichiarazione precisava: «È solo nelle organizzazioni economiche rivoluzionarie della classe operaia che si trova la forza in grado di raggiungere la sua liberazione e l’energia creativa necessaria per riorganizzazione della società sulla base del comunismo libero».

Riguardo al punto dell’ordine del giorno che la conferenza avrebbe dovuto trattare, ossia i rapporti tra gli anarco-sindacalisti e l’Internazionale dei Sindacati Rossi, possiamo dire che tutta la discussione sia ben sintetizzata con queste brevi frasi dell’anarchico russo Alexandre Schapiro: «Ebbene, o porremo delle condizioni talmente limitate [per la nostra adesione] che l’ISR sarà felice di accettare e non appena avremo aderito ci accorgeremo di essere mani e piedi legati, oppure metteremo condizioni così dure che sappiamo in anticipo che esse saranno respinte dall’ISR. Nel primo caso, si tratterebbe di tradire il sindacalismo rivoluzionario o prepararsi a lasciare l’ISR al più presto, come nel caso della Spagna e l’Italia. Nel secondo caso, è agire come demagoghi, e non possiamo mai permetterci questo lusso da bolscevichi. Di conseguenza, qui alla Conferenza non ci resta che porre le basi di un’organizzazione internazionale sindacalista, o almeno fare i preparativi necessari per organizzare una tale Internazionale, e lasciare che i russi decidano se sono d’accordo oppure non con i nostri principi. Riteniamo che la partecipazione dei sindacalisti al 2° Congresso dell’ISR sia inutile e persino pericolosa».

Da parte sua Rocker chiarì: «È ora di chiedersi cos’è l’ISR? Se non avrà la possibilità di accaparrarsi i sindacalisti, fuori dalla Russia, rimarrà solo a Bukhara, in Palestina e forse nel Kamchatka».

Ecco chiaramente espresso quale fosse il programma dell’anarco-sindacalismo, boicottare, spezzare, distruggere l’unità del proletariato rivoluzionario internazionale.

Con un bel po’ di faccia tosta, la Conferenza votò una risoluzione in cui si affermava che il Profintern «di fatto non rappresenta, né dal punto di vista dei principi, né da quello degli statuti, un’organizzazione internazionale capace di unire il proletariato rivoluzionario mondiale in un organismo di lotta», e decise di nominare un ufficio provvisorio incaricato di convocare, a Berlino, nel novembre 1922, un congresso internazionale dei sindacalisti rivoluzionari. Fecero parte di questo ufficio Rudolf Rocker, Armando Borghi, Angel Pestaña, Albert Jensen e Alexandre Schapiro.

Abbiamo già messo in evidenza come i presunti rivoluzionari dell’anarco-sindacalismo si servissero degli stessi mezzucci usati dalla peggiore scuola socialdemocratica. Ma ci furono alcuni casi in cui la loro ipocrisia (essendo più piccoli e più meschini) superò quella dei socialdemocratici.

La fondazione dell’internazionale anarchica era stata da molti anni vagheggiata e mai erano riusciti a metterla in piedi non avendo mai trovato un comune programma che li potesse aggregare, essendo anarchici...

Ora, nell’estate 1922, una parte di queste organizzazioni nazionali sembrava avessero trovato una sintesi nella “mozione Rocker” e quindi ritennero fosse giunta la loro ora, il momento di spezzare il movimento rivoluzionario internazionale. Ma la loro ipocrisia fu tale che non ebbero nemmeno il coraggio di appellarsi ai loro principi, dovevano farne ricadere la responsabilità sull’attitudine settaria e dittatoriale del Profintern. A tale scopo avevano fissato la data del loro Congresso di fondazione a dopo lo svolgimento del 2° Congresso dell’ISR. E quando, per ragioni organizzative, il Profintern rimandò a dicembre il Congresso, pure gli anarco-sindacalisti si sentirono obbligati a posticipare il proprio, altrimenti come avrebbero potuto dare la colpa della scissione alla non accettazione delle loro proposte da parte dell’ISR? Ed ecco la motivazione del loro rinvio: «[Per] il desiderio profondo e cosciente di non forzare la scissione. [Per] non chiudere irrevocabilmente la porta a tutte le possibilità di azione comune».

Di fronte ad una così spudorata ipocrisia l’ex sindacalista-rivoluzionario Andrès Nin scriveva:

«Così dunque coloro che alla Conferenza di Berlino hanno gettato le basi di una nuova Internazionale e boicottato tutti gli aderenti e simpatizzanti dell’ISR, esprimono ora il “desiderio profondo e cosciente di non forzare la scissione” e si mostrano “ansiosi per non chiudere la porta a tutte le possibilità d’azione comune” (...)

«Non siamo noi che, nel dicembre 1920, abbiamo tentato a Berlino, nella conferenza sindacalista “preliminare” di sabotare il Congresso costitutivo dell’ISR; non siamo noi che, malgrado la decisione adottata dall’organizzazione, abbiamo impedito ai sindacalisti tedeschi di partecipare allo stesso Congresso; non siamo noi che, nell’ottobre 1921, abbiamo preso a Düsseldorf la deliberazione di convocare una Conferenza per creare una nuova Internazionale (...)

«Ma limitiamoci alla Conferenza del mese di giugno (...) Prendete il Bollettino edito in occasione della Conferenza e vi troverete, nella pagina 12 dell’edizione francese, quanto segue: “Per i sindacalisti, il punto di vista internazionale si presenta nel modo stesso seguito dai sindacalisti rivoluzionari nei loro differenti paesi ove hanno delle organizzazioni autonome, identicamente debbono essi creare un’Internazionale sindacalista autonoma (...)

«Nella pagina 20 vi troverete questo titolo che dice molto sulla volontà unitaria degli organizzatori della Conferenza: “Verso una Internazionale Sindacalista. Perché l’Organizzazione d’una Internazionale Sindacalista Rivoluzionaria è necessaria ed indispensabile” (...)

«È a Mosca che si è lavorato seriamente per la vera unità della classe operaia e per la rivoluzione. Il proletariato rivoluzionario l’ha ben compreso ed è per questo che la Conferenza di Berlino fu uno scacco e che la sedicente Internazionale non sarà che una organizzazione scheletrica senza alcun contatto con le masse e la cui efficacia rivoluzionaria sarà nulla» (“Il Sindacato Rosso”, 23 settembre).

In altra occasione scriverà: «Basandoci su reciproche concessioni, si trattava di realizzare l’unità di tutte le forze rivoluzionarie del movimento sindacale internazionale. Se ogni tendenza avesse voluto avere una propria organizzazione internazionale, avremmo avuto la nascita di tutta una serie di internazionali di setta che avrebbero passato il loro tempo a frammentarsi ad esclusivo beneficio del capitalismo. Il Consiglio Centrale dell’ISR, riunito a Mosca nel febbraio 1922 decideva all’unanimità di invitare tutte le organizzazioni sindacaliste-rivoluzionarie mondiali a partecipare ai lavori del 2° Congresso allo scopo di trovare una base di intesa. In seguito, l’Ufficio Esecutivo invitò soprattutto le centrali che non avevano aderito ad inviare dei delegati a Mosca al fine di discutere delle possibilità di accordo. Malgrado queste evidenti prove del nostro desiderio sincero di addivenire ad una intesa, gli anarco-sindacalisti continuarono a perseguire la loro opera di divisione» (“Les Anarchistes et le Mouvement Syndical”).

Quindi il Congresso anarco-sindacalista, rimandato di qualche settimana in attesa di conoscere i risultati del 2° Congresso dell’ISR si tenne dal 25 dicembre 1922 al 2 gennaio 1923 e, tra presenze fisiche ed adesioni scritte, sembra che vi abbiano preso parte organizzazioni anarco-sindacaliste di Germania, Argentina, Cile, Danimarca, Spagna, Italia, Messico, Norvegia, Portogallo, Svezia, Cecoslovacchia. I comunisti consiglisti tedeschi della Allgemeine Arbeiter Union (Einheitsorganisation) erano rappresentati da Franz Pfemfert. C’erano osservatori francesi, in particolare del Comitato per la difesa sindacalista formatosi all’interno della CGTU. Il NAS olandese svolse il ruolo di cui abbiamo già parlato. Della Russia c’era, ovviamente, solo la sedicente minoranza anarco-sindacale. Certo l’elenco, tra partecipanti e aderenti, è lungo e potrebbe dare l’idea di una vasta e forte organizzazione, peccato però che tutte quelle organizzazioni sindacali non organizzassero che poche centinaia di migliaia di aderenti.

Le modifiche degli statuti del Profintern, ottenute a Mosca dalla francese CGTU, vennero considerate solo un "inganno" che non avevano portato nessun argomento contro la fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Il Congresso di Berlino confermò pienamente le decisioni prese alla conferenza del giugno 1922: gli anarco-sindacalisti ebbero la loro Internazionale.

L’introduzione allo statuto della nuova Internazionale, abbinato ai "Principi del Sindacalismo Rivoluzionario" già redatti da Rocker in occasione della conferenza di giugno, descriveva brevemente, in ottica anarchica, il carattere delle altre due Internazionali: quella di Amsterdam e quella di Mosca: «L’Internazionale di Amsterdam, persa nel riformismo, ritiene che l’unica soluzione al problema sociale stia nella collaborazione di classe, nella convivenza tra lavoro e capitale e in una rivoluzione pazientemente attesa e realizzata, senza violenza né lotta, con il consenso e l’approvazione della borghesia. L’Internazionale di Mosca, da parte sua, ritiene che il Partito comunista sia l’arbitro supremo di ogni rivoluzione, e le future rivoluzioni dovranno avvenire soltanto sotto la direzione di questo partito. È da rammaricarsi che nei ranghi del proletariato rivoluzionario cosciente e organizzato ci siano ancora tendenze che sostengono ciò, in teoria come in pratica (...) L’organizzazione dello Stato, ossia l’organizzazione della schiavitù, il lavoro salariato, la polizia, l’esercito, il giogo politico, in una parola, la cosiddetta dittatura del proletariato che non può che essere un freno alla forza espropriatrice diretta, una soppressione della sovranità reale della classe operaia e che diventa così la ferrea dittatura di una cricca politica sul proletariato» (“Bulletin d’information de l’Association internationale des travailleurs", Berlino, n°1, 15 gennaio 1923).

Questo è ciò che gli anarchici pensavano del Profintern, della rivoluzione russa, dello Stato a dittatura proletaria. E sta bene. Però non si tolsero la loro maschera opportunista tentando di presentare l’Internazionale sindacale rossa come la responsabile della scissione. «In una delle risoluzioni adottate dal Congresso di costituzione della sedicente Internazionale di Berlino, tra le altre cose si legge: “Il Congresso constata come tutte le organizzazioni aderenti all’ISR hanno rifiutato di partecipare al presente Congresso, malgrado l’amichevole invito loro rivolto e dettato dall’ardente desiderio di fare un ultimo tentativo allo scopo di realizzare l’unione delle forze economiche di Occidente e di Oriente e di trovare una base per l’unificazione di tutti i sindacati fautori di una tattica veramente rivoluzionaria”» (Riportato da: Andrès Nin, “Les Anarchistes et le Mouvement Syndical”).

Commentava Nin: «Per gli anarco-sindacalisti l’Oriente siamo noi, l’ISR; l’Occidente sono loro. Ora, basta gettare un colpo d’occhio sul movimento operaio dei principali paesi e si vedrà che se l’anarco-sindacalismo di fatto non esiste in Oriente, non può certo presentarsi come rappresentante delle forze economiche di Occidente».

Abbiamo visto che questa nuova Internazionale anarco-sindacalista volle pomposamente darsi il nome di Associazione Internazionale dei Lavoratori riferendosi alla Prima Internazionale, della quale i convenuti di Berlino pretendevano di rappresentare la continuazione della sua ala bakuninista.

La grande organizzazione sindacale degli IWW (pur essendo una organizzazione sindacalista rivoluzionaria, che rifiutava le interferenze dei partiti politici e prospettava, come la Carta di Amiens, che le istituzioni della futura società si sarebbero basate sulle organizzazioni economiche della classe operaia) non partecipò al Congresso di Berlino. Probabilmente questa loro assenza dipese dal fatto che, come abbiamo detto, anche loro si consideravano una internazionale con proprie organizzazioni in USA, Inghilterra, Australia, Messico, Argentina e Cile.

Se guardiamo all’intero processo che, dal 1913 al 1922, ha preceduto la nascita della cosiddetta Associazione Internazionale dei Lavoratori, vediamo come la sua fondazione sia frutto di una nuova valutazione dell’anarco-sindacalismo.

Secondo il suo “sviluppo” teorico il processo degli anni 1914-1921 aveva evidenziato la necessità di sostituire la neutralità nei confronti dei partiti politici con una lotta attiva contro di essi il cui scopo è la conquista del potere statale.

La fondazione dell’Internazionale Sindacale Rivoluzionaria (AIT), anziché essere un punto di partenza per l’anarco-sindacalismo segnò il suo punto di arrivo, inteso come fine corsa. Negli anni successivi quasi tutte le organizzazioni anarco-sindacaliste saranno (e sono, quelle che ancora oggi sopravvivono) l’ombra di sé stesse, continuando un’esistenza puramente nominale.

Chiuderemo questo capitolo riportando, dalle “Direttive del IV Congresso dell’Internazionale Comunista per l’azione comunista nei sindacati”, i Punti 8, 9, 10 del Cap. III, “Gli anarchici e il comunismo”:

«8. Un’“offensiva” abbastanza simile a quella di Amsterdam fu scatenata dall’ala anarchica del movimento operaio contro l’Internazionale comunista, i partiti comunisti e le cellule comuniste dei sindacati. Un certo numero di organizzazioni anarco-sindacaliste dichiarò pubblicamente la sua ostilità verso l’Internazionale comunista e la rivoluzione russa, quantunque nel 1920 avesse aderito solennemente all’Internazionale comunista e manifestato le sue simpatie per il proletariato russo e la Rivoluzione di ottobre: così fecero i sindacalisti italiani, i tedeschi organizzati su un piano locale, gli anarco-sindacalisti spagnoli e vari gruppi anarco-sindacalisti in Francia, Olanda e Svezia.

«9. In nome dell’autonomia sindacale, certe organizzazioni sindacali (Segretariato nazionale degli operai olandesi, IWW, l’Unione Sindacale Italiana, ecc.) espulsero gli aderenti all’ISR in generale e i comunisti in particolare. Così la parola d’ordine dell’indipendenza dopo esser stata super-rivoluzionaria è diventata anticomunista, vale a dire controrivoluzionaria, e concorda con la parola d’ordine di Amsterdam, che conduce la stessa politica sotto la bandiera dell’indipendenza, quantunque non sia più un segreto per nessuno la sua totale dipendenza dalla borghesia nazionale e internazionale.

«10. L’azione degli anarchici contro l’Internazionale comunista e l’Internazionale dei sindacati rossi, unitamente alla rivoluzione russa, hanno portato la scissione e la confusione nelle loro stesse file. I migliori della classe operaia hanno protestato contro questa ideologia. Gli anarchici e gli anarco-sindacalisti si sono scissi in numerosi gruppi e correnti, che conducono una aspra lotta pro o contro l’ISR, pro o contro la dittatura proletaria, pro o contro la rivoluzione russa».

(segue al prossimo numero)









Lettura marxista della nazionalità curda

Prima parte

Esposta alla riunione generale del gennaio 2022


Indice del lavoro
     - 1. - Introduzione
     - 2. - La preistoria della nazionalità curda
     - 3. - Le ribellioni curde dallo sceicco Ubeydullah (1879) allo sceicco Said (1925)
     - 4. - Il nuovo nazionalismo laico della Repubblica di Ağrı (1926-30) e il massacro di Dersim (1937-38)
     - 5. - La Repubblica autonoma di Mahabad (1941-45) e il Partito democratico del Kurdistan
     - 6. - Il nazionalismo curdo in Iran dopo il 1979
     - 7. - La campagna di Al Anfal (1988) e la rivolta proletaria nel Kurdistan meridionale (1991)
     - 8. - Il PKK: dalla sua fondazione (1978) alla sua capitolazione (1999)
     - 9. - KRG (2005), AANES (2013) e La questione curda oggi
     - 10. - Conclusioni

 

 


La mappa dell’Istituto Curdo di Parigi, mostra i successivi confini proposti nel tempo per uno Stato curdo, che non è mai riuscito a costituirsi ("Le monde diplomatique").




Introduzione

Il Kurdistan, o Paese dei Curdi, definisce un vasto territorio prevalentemente montuoso e dai confini non bene definiti che si estende su circa 550.000 chilometri quadrati compreso fra la catena dell’Anti-Tauro a ovest, l’altopiano iraniano a est, il Monte Ararat a nord, la pianura mesopotamica a sud.

Il Kurdistan non è uno Stato ma è un territorio che si estende ai margini di quattro mondi etnici, politici e culturali diversi e spesso antagonisti: quello turco, quello arabo, quello persiano e quello russo. Il suo territorio è oggi diviso tra quattro Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran. Inoltre, esiste una popolazione curda più limitata di numero nel Caucaso.

Il Kurdistan settentrionale comprende 20 delle 81 province della Turchia; ufficialmente questo territorio è diviso in "Anatolia sud-orientale", a maggioranza curda, e "Anatolia orientale", mista. Il Kurdistan orientale copre 4 delle 24 province iraniane (ostan); ufficialmente solo una di queste province è riconosciuta come curda. Il Kurdistan meridionale comprende 4 delle 18 province irachene (muhafadha); 3 di queste formano la regione autonoma curda istituita nel 1974 e chiamata anche Regione del Nord. La provincia di Kirkūk, invece, non è riconosciuta come curda essendovi una forte minoranza araba e turcomanna. Il Kurdistan occidentale, il più piccolo dei quattro, è anche chiamato Siria del Nord ed è attualmente un fronte di battaglia attivo tra l’esercito turco e gli affiliati del PKK.

Il territorio del Kurdistan settentrionale è ricco di acqua: vi sorgono il Tigri e l’Eufrate; il lago di Van, a 1.720 metri sul livello del mare, è il più grande della Turchia, si estende per 3.764 km². In Iran il lago di Urmia (Rezāiyed in persiano) confina in parte con il Kurdistan orientale: si trova a 1.250 metri di altitudine; ha una salinità molto elevata e non consente la vita dei pesci; il problema dell’acqua è vitale per tutta la regione.

Il territorio del Kurdistan, costituito da alte montagne solcate da valli e fertili pianure, ha un’altitudine media di oltre 1.000 metri.

La popolazione curda è stimata tra i 35 e i 45 milioni secondo l’Istituto Curdo di Parigi. Il numero di curdi supera quindi la popolazione di ogni singolo Stato arabo, escluso l’Egitto, ma è una minoranza in ciascuno degli Stati in cui è incorporato. Circa l’80% dei curdi sono musulmani sunniti.

La ricchezza mineraria è notevole: nel sottosuolo del Kurdistan settentrionale si trovano fosfati, lignite, rame, ferro, cromo (uno dei giacimenti più importanti del mondo) e petrolio. Il Kurdistan meridionale produce il 75% del greggio iracheno. Nella regione di Kermānshāh, in Iran, si estrae petrolio, così come nel Kurdistan occidentale. Queste risorse, ovviamente, non vanno a beneficio dei proprietari terrieri e dei borghesi curdi, ma vengono incamerate dagli Stati in cui questi territori sono incorporati.

Nonostante la ricchezza di risorse naturali, il Kurdistan è un Paese in cui vaste aree sono caratterizzate una certa arretratezza economica, anche se negli ultimi trent’anni l’industria si è sviluppata in modo significativo, l’estrazione del petrolio e anche l’agricoltura ha conosciuto un certo progresso.

Il Kurdistan settentrionale è essenziale per la Turchia, innanzitutto per le sue ricchezze petrolifere, ma anche per la sua funzione di riserva d’acqua, fondamentale per l’irrigazione dell’Anatolia e dei Paesi che ne dipendono, Iraq e Siria. Anche Israele è fortemente interessato a un possibile approvvigionamento idrico. Dal 1977 il Kurdistan settentrionale è oggetto del GAP, o Progetto Sud-Est Anatolico, il più grande progetto di sviluppo regionale al mondo, con la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici. Sono coinvolti investitori giapponesi, olandesi e israeliani. Queste dighe turche sono fonte di contesa con la Siria e l’Iraq perché la Turchia può modulare il loro flusso, causando in questi Paesi carenze idriche disastrose per l’agricoltura.

Nella prima metà del 1900 alcune città del Kurdistan settentrionale erano più avanzate nella piccola e media industria rispetto a molte città turche. In particolare Diyarbakır, importante centro dell’industria tessile, era terza per numero di grandi imprese nel Paese dopo Istanbul e Bursa. Ma negli anni ’60 il peso del Kurdistan settentrionale nell’economia turca è era già notevolmente diminuita.

In Kurdistan non esiste solo un capitalismo di imprese di piccole o medie dimensioni, ma un settore privato dominato da tempo da grandi aziende.

I nazionalisti di tutte le parti del Kurdistan, compreso il PKK, hanno sostenuto la borghesia curda. Il PKK, ad esempio, dichiara nel suo programma l’obiettivo di «creare un’imprenditoria privata che possa aiutare il libero sviluppo della società, aiutandola e sostenendola». La borghesia curda del Nord, a sua volta, ha sostenuto il PKK a tal punto che 19 imprenditori curdi sono stati assassinati dallo Stato turco sotto il governo guidato da Tansu Çiller a metà degli anni Novanta.

Nonostante i confini di Stato che le separano e le differenze linguistiche (i diversi dialetti curdi non sono sempre mutuamente intelligibili), le popolazioni curde sparse nei quattro Paesi intrattengono relazioni fra loro. Il Kurdistan, soprattutto nelle sue parti meridionali e orientali, è stato in alcune occasioni rifugio di tutti gli oppositori dei vari regimi nazionali. Nel XX secolo l’arretratezza di alcune regioni del Kurdistan turco ha favorito l’emigrazione interna nelle grandi città come Istanbul, Ankara e Izmir e nei centri industriali dell’Anatolia occidentale. Ma la diaspora curda è stata alimentata anche da eventi politici e bellici. Soprattutto a causa dei massacri con i gas asfissianti nel Kurdistan iracheno nel 1988 e della distruzione delle campagne curde settentrionali negli anni ’90, molti curdi sono emigrati fuori dal Kurdistan e sono diventati una parte importante della forza lavoro nei Paesi di destinazione, stimolando spesso i lavoratori autoctoni alla lotta sindacale.

Il primo sciopero di lavoratori in Kurdistan ebbe luogo nel 1908 quando scioperarono 700 minatori di rame di Ergani, nella provincia di Diyarbakır. Quei lavoratori rimasero attivi nel movimento sindacale anche dopo la Prima Guerra Mondiale. I proletari curdi del Caucaso avevano partecipato attivamente alle lotte sociali della regione dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Nei decenni successivi in tutte le parti del Kurdistan una esigua classe operaia si trovò a fianco di un’ampia e povera popolazione contadina. Soprattutto nel Kurdistan settentrionale, quello inglobato nella Turchia, il proletariato iniziò ad impegnarsi nella lotta economica e a scioperare negli anni Sessanta. Questa tendenza raggiunse il suo apice nel 1991.

Ma è stata soprattutto la rivolta proletaria nel Kurdistan meridionale, quello appartenente all’Iraq, a segnare l’ingresso dei lavoratori curdi nel palcoscenico della storia. Molte delle rivendicazioni nel Sud e delle lotte operaie nel Nord avevano una matrice di classe, ma includevano anche parole nazionali, la richiesta dell’autodeterminazione.

La società curda prima dello sviluppo del capitalismo costituiva un’unità feudale. Nella società curda precapitalista, il prodotto in eccesso dei contadini e degli artigiani era sottratto attraverso la decima e altre forme di prelievo fiscale. Il produttore immediato era simile al servo della gleba del feudalesimo occidentale in termini di relazioni di appropriazione, vincolato alla terra e a diverse prestazioni obbligatorie come le corvée.

 

 

 

 

 

 

 

 

I curdi hanno indubbiamente origini eterogenee. Molti popoli hanno vissuto in quello che oggi è il Kurdistan nei millenni passati, e quasi tutti sono scomparsi come gruppi etnici o linguistici. Questa tendenza è continuata in tempi moderni, poiché molte etnie di armeni, bulgari, circassi, ceceni, georgiani, ingusci, osseti si sono curdizzati linguisticamente una volta riparati in Kurdistan, e successivamente sono stati assimilati. Lo stesso è accaduto anche a turchi e arabi, insediati in Kurdistan prima dallo Stato ottomano e poi da quello turco.

L’Internazionale Comunista e due delle sue più antiche sezioni in Medio Oriente, il Partito Comunista di Turchia e il Partito Comunista dell’Iran, hanno riconosciuto l’esistenza e il rilievo della nazionalità curda e hanno applicato al Kurdistan la tattica delle Tesi sulla questione nazionale e coloniale.

Poiché la prospettiva comunista della doppia rivoluzione espressa nel 1920 non si realizzò, la questione nazionale curda rimase irrisolta. Il movimento rivoluzionario nazionale curdo raggiunse l’apice nella seconda metà degli anni Venti. Ma a quel tempo il Comintern si era trasformato in uno strumento dello Stato nazionale russo. All’inizio degli anni Trenta il nazionalismo curdo subì una sconfitta storica dalla quale non si sarebbe più ripreso. La borghesia curda optò presto per soluzioni riformiste e reazionarie senza via d’uscita, lasciando sulle spalle del proletariato il dovere di contrastare l’oppressione nazionale dei curdi.

Pertanto prevediamo che la prossima grande rivolta dei proletari curdi non includerà sulle sue bandiere slogan di autodeterminazione nazionale ma istanze e rivendicazioni puramente di classe.


La preistoria

La nazione curda affonda le radici in una serie di popoli antichi. Il primo di questi era il popolo dei Gutei, basato sull’allevamento, che abitava i monti Zagros nel secondo e terzo millennio a.C. ed era noto nei testi antichi per aver compiuto razzie nelle terre dei Sumeri. Gli Assiri definirono i Gutei con l’aggettivo Kurti, che significa potente, eroico. Questo termine venne utilizzato per descrivere vari popoli che abitavano la zona. Uno di questi era quello degli Hurriti, che dal 2000 a.C. si diffuse dai dintorni del lago di Van a quasi tutte le zone dell’odierno Kurdistan. Gli Hurriti si dedicavano all’agricoltura, all’allevamento e alla lavorazione dei metalli. Si distinguevano anche per le loro sculture e la loro architettura.

Gli Hurriti svolsero un ruolo importante nel Regno di Mitanni, fondato nel 1500 a.C. nell’alta Mesopotamia. La classe dominante in questo regno feudale era indoeuropea ma i nobili provenivano dagli Hurriti, che arrivarono a dominare culturalmente la regione. Le rivalità tra i nobili indebolirono però il regno e lo portarono al crollo per mano degli Assiri, il cui modo di produzione era basato sulla schiavitù. I Medi erano una tribù indoeuropea che iniziò a penetrare nell’alta Mesopotamia a partire dal 1000 a.C. Gli Assiri sottovalutarono la numerosità dei Medi, che nel 700 a.C. si impadronirono delle terre a oriente di Assur, compresi i monti Zagros e le pianure iraniche. Con l’avanzata dei Medi verso occidente, numerosi popoli, tra cui i Gutei e gli Hurriti, dovettero affrontare massacri, schiavitù e pestilenze. Il Regno dei Medi si appoggiò su tutti i popoli sopra menzionati. Alla fine i Medi, guidati dal loro re Fraorte, marciarono su Ninive e sconfissero gli Assiri. I Medi dominarono l’area e consolidarono il loro potere. La nobiltà meda comprendeva i rami più giovani della famiglia reale e i principali capi delle tribù che avevano partecipato alla conquista. Costituivano una sorta di consiglio che governava insieme al sovrano. Dopo la conquista, ai principali vassalli fu concesso un territorio proporzionato all’importanza della sua tribù, e lo stesso fu fatto per ciascuno dei clan, poi per ciascuna delle famiglie. Si stabilì così una sorta di gerarchia, dal proprietario di un villaggio o di un gruppo di tende fino al capo e padrone supremo. L’impero dei Medi si estendeva dalla Partia fino ai confini dell’Oronte.

I Persiani erano un altro popolo indoeuropeo, le cui forze erano meglio accentrate. La conquista persiana non ebbe conseguenze dal punto di vista dell’organizzazione sociale. L’ultimo re dei Medi, Astiage, concesse in sposa sua figlia al persiano Cambise della famiglia degli Achemenidi. Da questo matrimonio nacque Ciro. Ciro II governò come re dei Persiani e dei Medi. I signori di entrambi i regni mantennero i loro possedimenti e il loro rango e, indipendentemente dal fatto che fossero di origine persiana o meda, continuarono a fare parte del consiglio reale. Ciro subentrò al nonno nel regno dei Medi. Ciro fece propri molti caratteri del governo meda, dalle leggi all’abbigliamento, passando per la guerra rivoluzionaria contro la schiavitù in Medio Oriente. La morte di Ciro avvenne, secondo Erodoto, per mano di Tomiri, regina dei Massageti, un popolo iranico nomade che Ciro aveva tentato di assoggettare.

I Medi, chiamati Kàrdakes nelle fonti greche, continuarono a godere di una posizione di rilievo sia nell’Impero achemenide sia in quello partico e i loro principati continuarono a godere di un certo grado di autonomia anche sotto i Sassanidi, nonostante la tendenza di questi ultimi alla centralizzazione.

Al momento dell’avvento dell’Islam i curdi erano divisi tra l’Impero sassanide e quello romano d’Oriente. Inizialmente le tribù curde diedero un forte sostegno ai Sassanidi, che cercavano di resistere agli eserciti musulmani. Tuttavia ben presto fu chiaro che i Sassanidi sarebbero stati sconfitti, e i signori curdi si sottomisero uno ad uno agli eserciti arabi e alla loro nuova religione. I curdi continuarono a svolgere un ruolo importante nella civiltà islamica. Vennero alla ribalta con l’ascesa degli Ayyubidi, una dinastia curda che guidò la difesa del Medio Oriente contro i crociati. Sotto il regno di Saladino, il fondatore della dinastia, gli Ayyubidi governarono l’Armenia occidentale, la Siria, la Palestina, l’Egitto, la Libia, la Tunisia orientale, il Sudan nord-occidentale, lo Yemen e l’Arabia, oltre al Kurdistan. Sebbene la lingua di Stato degli Ayyubidi fosse l’arabo, in quanto tecnicamente vassalli del Califfato abbaside, la dinastia parlava curdo. Saladino attuò una riforma dell’istruzione che permise di insegnare nelle madrase molte branche della scienza diverse dalla teologia islamica, tra cui l’astronomia, la matematica, la medicina e la filosofia, e di tradurre i testi in curdo.

Detto questo, sebbene molti nazionalisti curdi moderni lo acclamino come un eroe della nazione curda, Saladino e la sua dinastia rappresentavano semplicemente l’Islam, sebbene in una versione tollerante e rispettosa delle altre religioni, piuttosto che l’identità curda, in un periodo precedente alla formazione delle nazioni.

Durante il Medioevo islamico esistevano numerosi altri principati curdi di varie dimensioni in tutta la regione.

Il termine stesso di Kurdistan emerse verso il XII secolo, anche se a questo punto era usato in un ristretto senso amministrativo piuttosto che in senso nazionale.

Il periodo successivo alla divisione dei curdi tra l’Impero sassanide e l’Impero romano d’Oriente, diede ai feudatari curdi la possibilità di mantenere il loro potere. Anche i turchi Selgiuchidi non apportarono alcuna modifica al sistema fiscale e alla proprietà terriera che avevano trovato in Iran. Nella seconda metà del millennio scorso i curdi furono divisi tra l’Impero safavide e quello ottomano, che arrivarono a dominare il Medio Oriente e confinavano tra loro in Kurdistan. Tale periodo non offrì ai signori curdi molte opportunità di avanzamento e di affermazione.

In passato erano stati i cristiani bizantini ad allontanare con la forza i curdi musulmani dai loro confini, in quanto considerati alleati dei sassanidi. Ora furono i Safavidi sciiti ad allontanare con la forza i curdi sunniti, ritenendo, non a torto, che sarebbero stati più fedeli agli Ottomani, anch’essi sunniti. Di conseguenza con l’aiuto dei signori curdi gli Ottomani finirono per conquistare la maggior parte del Kurdistan e insediarono generosamente i loro alleati come governatori ereditari locali.

Nel XVII secolo i signori curdi si ribellarono due volte all’Impero Ottomano, e in entrambi i casi furono repressi brutalmente. Non è una coincidenza che queste rivolte abbiano avuto luogo in questo secolo, che vide l’inizio dell’inevitabile declino dell’Impero, che iniziò a perdere terre mentre i tributi diminuivano. Tuttavia, per la maggior parte della sua esistenza come dominio dell’Impero Ottomano, il Kurdistan conservò la sua identità culturale autonoma e la sua particolare struttura feudale. Il termine ottomano ocaklık si riferisce alla proprietà terriera e al trasferimento del diritto di usare la terra in cambio di servizi a una certa famiglia. I sanjak ocaklık sono le proprietà dei signori locali. Le province curde ottomane con ocaklık sanjak erano Diyarbekir e Van nel Kurdistan settentrionale, Urfa nel Kurdistan settentrionale e occidentale e Shahrizor nel Kurdistan meridionale. Infine, il vassallaggio ereditario di Ardalan, con capitale Sanandaj, governava il Kurdistan orientale per conto della Persia.

Fino al XIX secolo erano i signori feudali a riscuotere le tasse agricole in Kurdistan e la quota versata all’Impero era piuttosto esigua. Come scrive l’ufficiale militare prussiano Helmut von Moltke (il Vecchio), inviato al servizio degli Ottomani (riprodotto nel nostro “I curdi, società tribale nella morsa dell’imperialismo” in “Comunismo” del 1991): «L’Impero Ottomano abbraccia grandi territori dove la Porta non esercita alcuna autorità di fatto, ed è certo che il Sultano ha molte conquiste da fare nella periferia dei suoi propri Stati. Fra queste è il paese montuoso tra la frontiera persiana e il Tigri (...) Non è mai riuscito alla Porta di abbattere in questi monti la potestà ereditaria delle famiglie. I Principi curdi hanno un gran potere sui loro sudditi; guerreggiano fra loro, sfidano l’autorità della Porta, negano le imposte, non permettono la leva e cercano un ultimo rifugio nelle rocche che hanno innalzato sulle alte vette».

Avendo perso gran parte del proprio territorio e dovendo affrontare profondi problemi sociali ed economici gli Ottomani modificarono la loro politica di non intervento nei confronti dell’autonomia feudale curda. In questo l’Impero ottomano, nelle cui grandi città cominciava a svilupparsi il capitalismo, era sostenuto dalle potenze capitalistiche straniere avanzate. Von Moltke sottolineò, al fine di ripianare le necessità di bilancio, la necessità di sottomettere i signori curdi che resistevano all’impero per preservare il loro status autonomo. Così gli Ottomani, sostenuti dalle potenze capitalistiche, si mossero contro l’autonomia feudale curda. La conquista interna del Kurdistan fu senza dubbio un episodio inevitabile dell’avanzata del capitalismo nell’Impero Ottomano, ma servì anche a suscitare un problema nazionale che fino ad oggi, nel quadro del capitalismo, non ha trovato soluzione.

Le due classi principali del feudalesimo curdo erano i nobili guerrieri e proprietari terrieri, con i loro uomini armati, e i contadini degradati in una condizione affine alla servitù. Questi contadini erano chiamati raeya o rayet, come le loro controparti ottomane e persiane, un termine che deriva dall’arabo e significa letteralmente “gregge”. I nobili curdi guerrieri e proprietari terrieri e i loro armati costituivano unità sociali basate sulla parentela chiamate aşiret.

I curdi che non facevano parte di tali famiglie costituivano la classe dei servi della gleba. L’aşiret è stato tradotto approssimativamente come tribù, ma era chiaramente un’entità feudale. Il signore dell’aşiret, figlio maggiore del signore precedente, aveva un’autorità illimitata. Poteva confiscare qualsiasi proprietà a suo piacimento. Aveva il diritto di punire chiunque della sua gente anche mettendolo a morte. In tempo di pace, l’accordo tra i signori contro la fuga dei servi impediva loro di sottrarsi all’autorità del signore. Il governo centrale non offriva alcun aiuto contro la corruzione del signore. I servi della gleba curdi erano soggetti a un complicato sistema di pedaggi e tasse feudali a beneficio dei loro signori. Questi tributi erano riscossi dal feudatario o dall’anziano o dall’amministratore in rappresentanza della comunità. Soggetto al pagamento dei diritti feudali (sul lavoro e ad esazioni in natura) era il villaggio nel suo insieme. Tutto questo dimostra che, nonostante il feudalesimo curdo godesse di una notevole autonomia, non espresse un regno proprio e quindi non era una forma avanzata di feudalesimo, e mostrava ancora il retaggio di rapporti di produzione patriarcali.

Man mano che l’Impero Ottomano si muoveva per schiacciare il feudalesimo e l’autonomia del Kurdistan, i signori feudali cominciarono a ribellarsi uno dopo l’altro. Nel 1806 Babanzade Abdurrahman Pasha si ribellò alla nuova politica fiscale, seguito dalla ribellione del nipote per vendicarlo nel 1812 e dalla ribellione nella provincia di Rewanduz guidata da Mir Muhammad nel 1818.

Signore più influente della regione, tuttavia, era Bedir Khan di Botan, che governava dal confine iraniano alla Mesopotamia centrale, da Diyarbakır a Mosul. Coniava proprie monete, i sermoni del venerdì erano dedicati al suo nome; la sua ricchezza era straordinaria. Le forze di Bedir Khan massacrarono 50.000 cristiani assiri nel tentativo di islamizzare la regione.

Bedir Khan si ribellò nel 1840. Tuttavia nel 1847 il suo principato fu schiacciato dall’esercito ottomano, secondo le istruzioni di von Moltke; era stato tradito dal nipote Êzdînşêr.

Questo, nominato signore di Cizre, si ribellò in seguito anch’esso agli Ottomani, ritenendo insufficienti i suoi diritti, ma fu sconfitto nel 1855. Lord Bedir Khan, come i signori ribelli prima e dopo di lui, non era un rivoluzionario nazionale. La sua fu una rivolta per difendere i privilegi dell’aristocrazia feudale curda contro gli sforzi di centralizzazione dell’Impero Ottomano e delle potenze capitalistiche occidentali, soprattutto della Prussia. Come abbiamo scritto: «Nel corso del XIX secolo si contarono una cinquantina di rivolte nel Kurdistan ottomano, tutte represse nel sangue, anche con l’aiuto della Francia e della Gran Bretagna, la cui penetrazione economica nell’Impero era già notevole. Alla fine del secolo tutti i principati curdi indipendenti erano scomparsi».

Nella regione, il feudalesimo curdo, insieme alla sua controparte persiana e condividendo il destino del feudalesimo altrove, dissolse la comunità gentile, prese il posto della schiavitù, diede vita a un’economia basata sulla proprietà della terra e soprattutto degli animali, protesse i servi della gleba stanziali dall’invasione degli aşireti nomadi e mantenne il Kurdistan quale un’unità autonoma rispetto agli imperi nomadi che invadevano e distruggevano i Paesi vicini. Ma divenne infine esso stesso un potente ostacolo al successivo sviluppo delle forze produttive. Come tutte le unità feudali, il ruolo svolto dagli aşireti nella storia finì per declinare. Subendo una sconfitta militare dopo l’altra nel corso del XIX e della prima parte del XX secolo l’aşiret si dissolse lentamente, mentre la struttura sociale ed economica della società curda si trasformava.

In ogni caso il proletariato, se non avrebbe mai simpatizzato con l’oppressione del reazionario Impero Ottomano e dei suoi vari patroni europei, non doveva nemmeno sostenere le disperate e condannate rivolte dei signori feudali curdi.


Le ribellioni curde da Ubeydullah (1879) a Said (1925)

Con il crollo dei principati curdi nella seconda metà del XIX secolo, lo Stato ottomano ridistribuì le loro terre a ricchi commercianti, burocrati locali e sceicchi, ovvero studiosi religiosi dotati di autorità politica. Questi ultimi divennero presto i più ricchi proprietari terrieri, poiché alle terre loro assegnate vennero ad aggiungersi le donazioni dei seguaci. Divennero così anche potenti capi politici. Alcuni di loro usarono la loro influenza per promuovere idee nazionaliste in opposizione ai ribelli aristocratici che li avevano preceduti.

Lo sceicco Ubeydullah Nehri fu il più importante di questi. Detentore di Botan, Behdinan, Hakkari e Ardalan, che erano appartenuti ai principati, accusava i governi iraniano e ottomano di essere sanguisughe che impedivano lo sviluppo dei curdi. Ubeydullah riteneva che l’unica strada percorribile per i curdi fosse la creazione di un Kurdistan unito, formato dalla fusione delle terre curde in Iran e nell’Impero Ottomano. Nonostante fosse uno sceicco, Ubeydullah non aveva intenzione di islamizzare il Kurdistan e strinse buoni rapporti con i cristiani, che appoggiarono la sua ribellione. Le forze di Ubeydullah combatterono contemporaneamente contro l’Iran e l’Impero Ottomano. Ma furono sconfitte, anche se lo sceicco fu esiliato anziché giustiziato, a testimonianza della sua influenza. Naturalmente non fu una borghesia curda a guidare il movimento di Ubeydullah, poiché il capitalismo non si era ancora espanso in Kurdistan. Tuttavia, poiché la ribellione non prevedeva un ritorno all’ordine feudale ma la formazione di una nazione indipendente, che avrebbe potuto seguire solo un percorso capitalistico, il movimento di Ubeydullah e dei suoi seguaci può essere considerato come un precursore del nazionalismo curdo.

Il movimento nazionale curdo assunse una forma moderna solo all’inizio del XX secolo. Il centro del nuovo movimento sarebbe stato Istanbul piuttosto che il Kurdistan e i suoi capi avrebbero trascorso gli anni del regno oppressivo del sultano Abdul Hamid II uniti ai rivoluzionari e riformatori borghesi dei Giovani Turchi.

Dopo la rivoluzione del 1908, quando fu dichiarata una monarchia costituzionale e il “Comitato Unione e Progresso” salì al potere, i nazionalisti curdi formarono numerose organizzazioni. Furono fondate nel 1908 l’“Associazione per l’elevazione e il progresso dei Curdi” (Kürd Teavun ve Terakki Cemiyeti), la Società per la Diffusione della Cultura Curda e un organo studentesco, la Società della Speranza Curda, seguite nel 1910 dalla Società per l’Indipendenza Curda, alla quale appartenevano tutti gli esponenti curdi. La nuova ondata di nazionalismo curdo, esplicitamente politicizzato, si espanse poi in Kurdistan. Furono fondati club curdi in città come Diyarbakır, Mosul e Bagdad.

Dopo anni di propaganda, campagne di firme che coinvolsero decine di migliaia di curdi, e diffusione di armi, i nazionalisti curdi tentarono una ribellione a Bitlis, nell’Anatolia orientale, tra i cui capi era il giovane Simko Shikak. Una parte notevole di questa nuova generazione di nazionalisti curdi proveniva dalla classe media curda, composta da figli di signori impoveriti. Erano quindi tanto influenzati dalla Rivoluzione francese quanto dai movimenti di resistenza curdi del secolo precedente.

Nel 1890, circa un decennio dopo la soppressione della rivolta dello sceicco Ubeydullah, il sultano Abdul Hamid II aveva organizzato nei reggimenti di cavalleria hamidiani un numero significativo di curdi, insieme a turchi, circassi e arabi. Questo reggimento fu impiegato in particolare nei massacri degli armeni e di altri cristiani durante il regno di Abdul Hamid II e nella Prima Guerra Mondiale, e servì a creare potenti legami tra lo Stato e una parte delle popolazioni curde e di altre musulmane.

Dopo la Prima Guerra Mondiale varie parti dell’Anatolia furono occupate dall’Intesa e l’Impero Ottomano fu ridotto a un governo fantoccio a Istanbul, guidato dal liberale Partito della Libertà e dell’Accordo, cui si opponeva il governo nazionale rivoluzionario di Mustafa Kemal ad Ankara.

Mustafa Kemal aveva inizialmente preso le distanze dalle azioni del Governo dell’Unione e del Progresso durante la guerra, definendo il genocidio armeno "un atto vergognoso". Inoltre, come il governo di Istanbul, con la Costituzione del 1921 aveva promesso l’autonomia, assicurando che si sarebbe applicata in particolare ai curdi. Queste politiche sarebbero state rapidamente riviste dopo la vittoria del movimento nazionalista, in quanto la Costituzione del 1924 dichiarava che «in Turchia tutti sono chiamati "turchi" in termini di cittadinanza, indipendentemente dalla religione e dalla razza». Tuttavia, per un certo periodo, i dirigenti curdi furono divisi tra il governo di Istanbul e quello di Ankara.

Il Trattato di Sèvres aveva promesso ai curdi uno Stato. Come abbiamo scritto:

«Per quanto riguarda lo Stato curdo l’Inghilterra sembrava propensa a mantenere la promessa fatta qualche anno prima, a differenza di quanto aveva fatto con gli arabi. Il motivo principale che aveva indotto le grandi potenze a prospettare l’indipendenza del Kurdistan era la volontà di imporre una “cintura di sicurezza” fra l’URSS e la Turchia. Le potenze europee volevano prevenire l’allargamento della rivoluzione socialista ed intendevano creare uno Stato cuscinetto, feudale ed arretrato, da poter utilizzare contro l’URSS e gli altri popoli, un potenziale punto strategico nelle vicinanze dei pozzi petroliferi sovietici nel Caucaso.

«Il trattato di Sèvres (agosto 1920) prevedeva in due articoli la costituzione di uno Stato curdo, ma ridotto solo ad alcuni territori nei confini dell’attuale Turchia e con una sovranità limitata, a vantaggio delle potenze coloniali vincitrici. Questa la pidocchiosa generosità dell’imperialismo inglese, che voleva trattenere sotto controllo i territori curdi più fertili e soprattutto ricchi di petrolio. Infatti l’antico vilayet di Mosul, benché facesse indubbiamente parte del territorio curdo, nonostante fosse reclamato a gran voce dalla Turchia kemalista, nel 1925 fu definitivamente attribuito dalla Società delle Nazioni all’Iraq, cioè all’Inghilterra (...).

«Il trattato però non fu mai attuato. Il governo turco, uno dei firmatari, aveva perduto la sua autorità e l’assemblea nazionale di Ankara non ratificò l’accordo che avrebbe ridotto la Turchia ad una colonia delle potenze occidentali».

Questa divisione del popolo curdo tra vari Stati, in ognuno dei quali avrebbe costituito una minoranza nazionale, ebbe conseguenze estremamente negative negli anni successivi. I movimenti nazionalisti iniziarono a seguire strade diverse e spesso opposte, fino a contrapporsi in armi. Eppure, molti nazionalisti curdi, soprattutto quelli reazionari, erano felici di svolgere il ruolo previsto per loro dalle potenze imperialiste.

Verso la fine della Prima Guerra Mondiale, alcuni nazionalisti curdi si riorganizzarono sotto la guida di Abulkadir, figlio dello sceicco Ubeydullah ed ex membro della Società per lo Sviluppo e il Progresso Curdo, chiamandosi Società per lo Sviluppo del Kurdistan (Kürdistan Teali Cemiyeti, SAK). La neonata organizzazione verso la fine del 1918 raggiunse rapidamente un accordo per l’autonomia curda con il Partito Libertà e Accordo (noto anche come Unione Liberale). Nel 1920 l’organizzazione avrebbe lanciato il seguente appello: «Non fatevi ingannare dalle Forze Nazionali! Sono dei vagabondi senza patria con la testa dei bolscevichi. Non rinunciate alla fedeltà al Califfato e alla Monarchia». La Società per lo Sviluppo del Kurdistan assunse quindi una posizione pienamente favorevole all’Intesa, cioè al fronte imperialista uscito vittorioso dalla guerra.

La SAK dominò la linea politica della ribellione di Koçgiri del 1921, alla quale parteciparono anche i capi curdi della shura (“assemblea”) multietnica degli operai e dei contadini di Erzincan. Le richieste dei ribelli di Koçgiri non andavano oltre il riconoscimento dello status di autonomia promesso ai curdi dalle potenze occidentali nel Trattato di Sèvres e concordato dal SAK e dal Partito della Libertà e dell’Accordo. La ribellione si concluse con un massacro per opera delle forze kemaliste, guidate da Nureddin Pascià, che notoriamente disse: «Abbiamo sterminato quelli che dicono "zo" (gli armeni), sterminerò chi dice "lo" (i curdi)"». Dopo la soppressione della ribellione di Koçgiri, la SAK declinò e non sarebbe mai più riemersa.

Nel 1918, dopo aver ucciso alcune migliaia di assiri per stabilire il suo potere nel Kurdistan orientale, Simko Shikak lanciò una ribellione contro la Persia. Nel 1922 si affermò che la ribellione era stata sostenuta da Mustafa Kemal. Shikak dichiarò la formazione di un Kurdistan indipendente, ma la sua ribellione non ebbe vita lunga e fu soppressa dalle forze persiane.

Shikak avrebbe in seguito sostenuto Mahmud Barzanji, che si era prima ribellato agli inglesi che nel 1919 governavano il Kurdistan meridionale, era stato esiliato e al suo ritorno si era dichiarato re del Kurdistan nel 1922. Il regno di Barzanji durò fino al 1924, quando fu definitivamente sconfitto dagli inglesi.

Poco dopo Simko Shikak tentò un’altra ribellione nel Kurdistan orientale, fallendo ancora una volta. Shikak fuggirà nel Kurdistan meridionale, gli verrà offerto il perdono dal governo persiano ma sarà assassinato poco dopo il suo ritorno in Iran.

A causa della loro arretratezza sociale e ideologica, le ribellioni nel Kurdistan orientale e meridionale di questo periodo non possono essere considerate conseguentemente rivoluzionarie in senso nazional-borghese, nonostante perseguissero l’indipendenza piuttosto che l’autonomia e prendessero posizione contro le grandi potenze imperialiste piuttosto che offrirsi ai loro giochi politici.

Con il declino della SAK nel Kurdistan settentrionale sorse una nuova organizzazione: la Società per la Libertà Curda, in breve Azadî. Fondata da Xalîd Cibranî, un soldato curdo che aveva sostenuto Mustafa Kemal fino alla ribellione di Koçgiri, Azadî ebbe presto sezioni a Erzurum, Istanbul, Diyarbakır, Dersim, Van Siirt, Bitlis, Kars, Muş, Malazgirt, Hınıs e Harpu. Anche Azadî era interessato a sviluppare le relazioni con le potenze occidentali, soprattutto con gli inglesi. Nel 1924 guidò la ribellione di Beytussebab in opposizione al divieto dell’uso pubblico e dell’insegnamento del curdo, al reinsediamento dei proprietari terrieri curdi nella parte occidentale del Paese e all’opposizione all’abolizione del Califfato nel 1923. La ribellione fu sconfitta e Xalîd Cibranî fu ucciso. Abdulkadir Ubeydullah lo sostituirà alla guida dell’organizzazione.

Questa sconfitta non impedì ad Azadî di pianificare un’altra ribellione, che ebbe inizio nel 1925, guidata dallo sceicco Shiekh Said, un influente capo islamico che non aveva alcuna esperienza militare. Said era un islamista fanatico e la ribellione assunse quindi la forma di reazione religiosa alle riforme secolari, piuttosto che di rivolta nazionale. Quasi 20.000 uomini furono uccisi dallo Stato turco dopo la repressione della ribellione, tra cui Abdulkadir Ubeydullah e Sheikh Said. Azadî non si riprese mai dalla sconfitta.


Il nuovo nazionalismo laico della Repubblica di Ağrı (1926-30) e il massacro di Dersim (1937-38)

Nel 1926, in seguito allo scoppio di una rivolta spontanea nel Kurdistan settentrionale vicino al Monte Ararat, nel 1927 nacque un nuovo aggruppamento nazionalista chiamato Comitato Xoybûn (Autogoverno) - Organizzazione per l’Indipendenza Curda, formato da ex membri di vari gruppi nazionalisti. La differenza notevole dello Xoybûn rispetto alle precedenti organizzazioni del Kurdistan settentrionale era l’assenza di ogni retorica religiosa nella sua propaganda. Era un’organizzazione puramente nazionalista, progressista e laica. Fin dall’inizio, ebbe stretti rapporti con la Federazione Rivoluzionaria Armena, o Dashnaks, tra i cui membri erano elementi della borghesia commerciale, i militari, i burocrati e i proprietari terrieri, tanto che le due organizzazioni arrivarono a stringere un patto di alleanza, sebbene il proposito dei Dashnaks fosse un conflitto armato con i loro nemici musulmani.

Poco dopo la sua formazione Xoybûn inviò il militare più importante tra le sue file, Ihsan Nuri Pasha, ex membro della Società della Speranza Curda, a fondare la Repubblica Curda nella città di Ağrı, nell’estremo oriente del Paese. Xoybûn si appellò all’Unione Sovietica e alle potenze occidentali per ottenere sostegno – senza alcun risultato benché sulla loro stampa gli inglesi, i francesi e la Russia stalinista si accusarono a vicenda di aver sostenuto la ribellione. I curdi erano soli. L’unico sostegno venne dall’Armenia sovietica, e non si sa se in accordo con Mosca. La nuova repubblica fu sostenuta dalle ribellioni di Van, Bitlis, Igdir, del Monte Tendurek e del Monte Suphan e grazie ad esse durò fino alla fine del 1930, quando fu sconfitta. Al suo apice, questo esercito nazionale curdo era composto da 60.000 uomini. È stato valutato che quasi 50.000 di loro fossero stati massacrati nella repressione. La Repubblica di Ağrı è significativa come primo tentativo rivoluzionario nazionale della borghesia curda. Rappresenta il punto più alto del movimento nazionale curdo e la sua sconfitta avrebbe avuto conseguenze storiche per la borghesia curda.

La Repubblica di Ağrı ispirò la rivolta di Ahmed Barzani del 1931 nel Kurdistan meridionale, dove erano stati accolti i rifugiati di Xoybûn.

Lo Xoybûn sopravvisse nel Kurdistan occidentale fino al 1946, quando si dissolse.

La popolazione Zaza di Dersim, nel Kurdistan settentrionale, non aveva partecipato alla maggior parte delle ribellioni sopra citate, con le eccezioni della shura di Erzincan e della ribellione di Koçgiri. Tuttavia, nel 1935 la provincia fu bersagliata da una nuova legislazione che ne cambiò il nome in Tunceli, dichiarando sostanzialmente la legge marziale e conferendo al governatore militare poteri dittatoriali. L’obiettivo di questo intervento era di porre fine all’autonomia feudale ancora intatta della regione, che era, nelle parole del Primo Ministro Celal Bayar, “uno Stato nello Stato”. A seguito di pubbliche riunioni, all’inizio del 1937 fu redatta una lettera di protesta contro la nuova legislazione da inviare al governatore. I latori della lettera furono giustiziati. La risposta fu un’imboscata a un convoglio della polizia. L’esercito turco reagì dispiegando nella provincia 25.000 soldati.

Seyid Riza, un anziano religioso alevita, cercò di organizzare la resistenza. Ben presto fu chiamato a un incontro “di pace a Erzincan”, ma al suo arrivo fu impiccato dai militari turchi. Fonti curde affermano che a Dersim furono massacrati circa 70.000 uomini. Ma questi eventi del 1937-38 non arrivarono ad essere una ribellione, si trattò piuttosto di un massacro etnico organizzato secondo un piano messo in atto attraverso una serie di palesi provocazioni. Con il massacro di Dersim, la sconfitta del movimento nazionale curdo in Turchia fu per il momento sancita.

Come abbiamo scritto nel 1991: «In quel torno d’anni le potenze imperialistiche avevano così tracciato il destino tragico del popolo curdo. Mentre prima della guerra era diviso dal solo antico confine che separava l’Impero Ottomano da quello persiano, dopo la guerra si trovò diviso tra cinque Stati: la Turchia, la Siria, l’Iraq, l’Iran, l’URSS. Questa situazione affatto diversa ha avuto e continua ad avere conseguenze drammatiche per questo popolo, improvvisamente divenuto una “minoranza nazionale”, e soprattutto per le masse diseredate per le quali l’oppressione nazionale si aggiunge a quella di classe».

I curdi non sono stati l’unica nazione a soffrire nella regione. «È tesi del nostro movimento che la borghesia rivoluzionaria, appena arrivata al potere diventa immediatamente reazionaria, non soltanto verso il proletariato, che pure ha costituito la massa d’urto che le ha permesso la presa del potere, ma anche verso le minoranze nazionali. La borghesia turca non fa eccezione alla regola. Gli armeni che avevano addirittura potuto costituire un loro Stato al confine con l’URSS, dovettero subire feroci massacri che li costrinsero all’emigrazione in massa; le consistenti minoranze greche che vivevano nel Ponto furono obbligate a trasferirsi in Grecia».


La Repubblica autonoma di Mahabad (1941-45) e il Partito Democratico del Kurdistan

Nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna invasero l’Iran. La prima, occupando la parte nord-occidentale del Paese, trovò vantaggioso sostenere le aspirazioni nazionaliste curde. Così a Mahabad si formò un’amministrazione curda che inizialmente mirava all’autonomia entro i confini dello Stato iraniano. La nuova amministrazione era guidata dalla neonata Società per la Rinascita del Kurdistan, un’organizzazione segreta guidata da Qazi Muhammad, figlio di un sostenitore di Simko Shikak e giudice. Il comitato era composto prevalentemente dalla classe media curda, ma era sostenuto anche dai proprietari terrieri e dalla borghesia. Il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) fu fondato a Mahabad nell’estate del 1945. Nel 1946, dopo aver governato il Kurdistan orientale per cinque anni, Qazi Muhammad dichiarò la fondazione della Repubblica del Kurdistan a Mahabad, che tuttavia mirava ancora all’autonomia all’interno dell’Iran piuttosto che all’indipendenza.

Nel Kurdistan meridionale, Mustafa Barzani, fratello minore di Ahmed, che aveva guidato le sue forze militari nella ribellione del 1931, fu nominato Ministro della Difesa e comandante dell’esercito curdo. Barzani organizzò anche il KDP nel Kurdistan meridionale, riuscì ad ottenere l’appoggio di un considerevole segmento della sezione curda del Partito Comunista Iracheno e a metà del 1946 ne fu eletto capo in esilio.

I russi presto cessarono di sostenere la Repubblica di Mahabad e verso la fine del 1946 l’esercito iraniano prese la città senza combattere, poiché Qazi Muhammad volle evitare un massacro. Le forze iraniane proibirono la stampa curda, vietarono l’insegnamento della lingua, bruciarono tutti i libri curdi che riuscirono a trovare e Qazi Muhammad, insieme a molti altri dirigenti del KDP, fu impiccato per tradimento. Mustafa Barzani andò in esilio in Unione Sovietica. Il programma del KDP non conteneva alcun contenuto sociale o economico per non alienarsi i proprietari terrieri, altamente conservatori, che avevano accettato di sostenerlo. Si trattava di un partito nazionalista borghese timidamente riformista piuttosto che rivoluzionario.

Dopo il colpo di Stato militare del 1958 in Iraq, guidato da Abdul Karim Qasim, Mustafa Barzani fu invitato a tornare dall’esilio. Nell’ambito di un accordo stipulato tra Qasim e Barzani, il governo iracheno promise di concedere ai curdi l’autonomia regionale in cambio del sostegno politico di Barzani. Nel frattempo, nel 1960, il KDP ottenne il riconoscimento giuridico. Ben presto però divenne evidente che Qasim non avrebbe mantenuto la promessa dell’autonomia regionale. Il KDP intensificò allora la sua propaganda. Qasim rispose incitando altri capi curdi a combattere contro Barzani, ma nel 1961 il KDP uscì vittorioso da questi conflitti. Barzani riuscì così a consolidare la sua posizione di capo politico dei curdi d’Iraq. Il KDP tentò allora di allontanare i funzionari governativi dai territori curdi. Qasim ordinò all’esercito iracheno di riprendere il Kurdistan meridionale e l’aviazione irachena iniziò a bombardare indiscriminatamente i villaggi curdi, il che non fece altro che rendere ancora più popolare la causa di Barzani tra i curdi. L’insurrezione non poté essere sconfitta e questo fu un che favorì il successo del colpo di Stato ba’athista contro Qasim nel 1963.

Il nuovo governo baatista si affidò all’assistenza americana e britannica contro la ribellione di Barzani, incenerendo interi villaggi curdi con bombe al napalm fornite dalle potenze occidentali. Inoltre la Siria iniziò a colpire i curdi nel Kurdistan occidentale e ad aiutare l’Iraq contro l’insurrezione. A loro volta le forze di Barzani ricevettero aiuti dall’Iran e da Israele, entrambi intenzionati a indebolire l’Iraq.

Verso la fine del 1963 fu il turno dei Ba’athisti di essere rovesciati da un colpo di Stato. Il nuovo governo di Abdul Salam Arif tentò ancora una volta di reprimere la ribellione curda, per poi dichiarare un cessate il fuoco nel 1964. Barzani accettò ed espulse dal KDP gli oppositori più radicali del cessate il fuoco. Tuttavia, Abdul Salam Arif nel 1966 morì in un incidente aereo e fu sostituito dal fratello Abdul Rahman. Anch’esso inizialmente tentò di sconfiggere militarmente il KDP, per poi fallire e tornare al tavolo dei negoziati offrendo un programma di pace. Ma fu rovesciato dai ba’athisti nel 1968. L’anno successivo le forze governative irachene attaccarono i curdi ma persero ancora una volta; la guerra si concluse infine, con 100.000 vittime e con l’accordo di autonomia curdo-iracheno del 1970 che tuttavia non sarebbe durato a lungo.

Quando si interruppe il riavvicinamento tra Qasim e Barzani e iniziò la guerra curdo-irachena, il KDP con base in Iran sostenne Barzani e il suo KDP in Iraq. In questo processo, la direzione e il conseguente orientamento sociale del KDP sia in Iraq sia in Iran rivelarono la loro vera natura. Nel 1965 Barzani si rivoltò contro il KDP d’Iran e giunse a un accordo con lo scià che lo invitava a limitare le attività contro il governo iraniano. Inoltre chiese apertamente di subordinare la lotta in Iran a quella in Iraq e avvertì che i militanti del KDP provenienti dall’Iran non sarebbero stati tollerati nel Kurdistan meridionale. Di conseguenza, la dirigenza del KDP in Iran fu estromessa e ne subentrò una nuova, composta per lo più da ex quadri del Partito Tudeh.

I membri del KDP in Iran formarono un Comitato Rivoluzionario e dichiararono il loro sostegno alle rivolte contadine contro la Polizia Nazionale intorno a Mahabad e Urumiya. Sebbene il KDP in Iran fosse riuscito a infliggere gravi perdite all’esercito iraniano, infine venne sconfitto. Nel giro di pochi mesi otto degli undici membri del Comitato Rivoluzionario furono uccisi dai soldati iraniani e il movimento durò meno di diciotto mesi. Il KDP d’Iraq uccise oltre 40 membri del KDP d‘Iran e consegnò i loro corpi alle autorità iraniane.

Dalla sua nascita alla fine del XIX secolo fino alla scissione tra i rami iracheno e iraniano del Partito Democratico del Kurdistan, il movimento curdo aveva mantenuto un grado di solidarietà che aveva contenuto le rivalità claniche. I vari partiti e organizzazioni curdi formatisi dal 1908 alla Prima Guerra Mondiale avevano approcci diversi, ma non si combattevano fra loro e i loro quadri si spostavano spesso da un’organizzazione all’altra per tentare un approccio unitario. Xoybûn era stata un’unica organizzazione nazionalista borghese per tutte le parti del Kurdistan appartenenti all’ex Impero Ottomano, sostenuta da importanti movimenti nazionali curdi in tutte le parti del Paese. Questa organizzazione si sciolse volontariamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, mentre i nazionalisti curdi stavano stabilendo stretti legami con l’URSS. Fino alla scissione fra l’ala irachena e quella iraniana, il Partito Democratico del Kurdistan perseguiva uno scopo unitario esprimendo gli interessi della borghesia curda nel suo complesso, al di sopra delle frontiere.

Nel 1974 il governo iracheno iniziò una nuova offensiva contro i ribelli curdi, spingendoli vicino al confine con l’Iran. Con l’avanzare dei combattimenti l’Iraq comunicò a Teheran di essere disposto a soddisfare le richieste iraniane in cambio della fine degli aiuti ai curdi. Nel 1975, con la mediazione del presidente algerino Houari Boumédiènne, Iraq e Iran firmarono l’Accordo di Algeri. L’accordo prevedeva che l’Iran avrebbe smesso di rifornire i curdi iracheni in cambio della cessione di territori iracheni all’Iran.

Se il conflitto curdo-iracheno fino a un certo punto aveva visto la guerriglia contrapporsi a un esercito regolare, la seconda guerra curdo-irachena fu un tentativo di guerra simmetrica. Tuttavia, senza il sostegno iraniano, si ebbe il rapido collasso delle forze curde che non disponevano di armi pesanti e avanzate. Dopo la sconfitta, Barzani fuggì in Iran con molti dei suoi sostenitori. Altri si arresero e presto la ribellione finì.

Dopo la sconfitta della ribellione di Barzani i dissidenti di sinistra del KDP in Iraq, guidati da Jalal Talabani, decisero infine di abbandonare il vecchio partito e a metà del 1975 formarono l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK). Al momento della sua fondazione il PUK ricevette il sostegno delle classi intellettuali urbane del Kurdistan meridionale, in parte grazie al fatto che cinque dei suoi sette membri fondatori erano ricercatori e accademici. Alla fine del 1975, subito dopo la Seconda guerra iracheno-curda, le forze del PUK iniziarono a confrontarsi con l’esercito iracheno e continuarono fino al 1976. Questi attacchi del PUK contro il governo iracheno non furono considerati favorevolmente da Barzani e i gruppi del KDP tesero imboscate e uccisero i combattenti del PUK in diverse occasioni. I primi intensi combattimenti tra KDP e PUK si verificarono nella zona di Baradust, in Iran, nel 1978. Il PUK, in cui la componente della borghesia urbana e della piccola borghesia era significativa, ostentava forme esteriori più radicali rispetto alla sua organizzazione madre. Il programma del PUK prevedeva la richiesta di indipendenza politica e non solo l’autonomia. Ben presto però si sarebbe scoperto che il PUK non poteva essere meno conciliante del KDP nei confronti dei vari Stati che opprimevano i curdi.

(segue al prossimo numero)





Le ideologie della borghesia

Parte 1
Dalle strutture alle sovrastrutture


Esposta alla riunione del settembre 2022

Torniamo ad analizzare le ideologie della borghesia, dal suo nascere come classe nel XIII secolo fino, all’incirca, al sorgere della nostra teoria alla metà del XIX secolo. Come sempre non abbiamo novità o grandi scoperte da svelare. Ci serviamo semplicemente del materialismo dialettico che, tra le altre cose, è anche un metodo di analisi delle strutture e delle conseguenti sovrastrutture delle varie società umane.

Per noi l’analisi non è mai fine a sé stessa: la teoria più che una parte è una forma della prassi. Se qualche novità dovesse esserci, anche qui come sempre, sarà solo perché applichiamo il nostro materialismo a questioni che abbiamo meno indagato in passato. Il fine di tale lavoro è duplice: da un lato conoscere sempre meglio il nostro nemico, il che non è mai inutile, dall’altro mostrare le conferme del nostro materialismo dialettico, che non sono le idee a creare la realtà ma il contrario.

Se Descartes diceva “penso, dunque sono”, noi diciamo “sono, dunque penso”, o, meglio, “siamo, dunque pensiamo”. Nelle idee troviamo riflessa la realtà, in maniera non meccanica e talvolta difficile da decifrare.

Naturalmente quando parliamo di realtà non intendiamo una sorta di “materia prima” aristotelica, un sostrato passivo, indefinito e indefinibile di tutte le cose, sia questo la materia in quanto tale o l’economia. Non esiste la materia in quanto tale né l’economia in quanto tale. Non siamo né hegeliani né economicisti. Una materia così concepita sarebbe solo un idealismo travestito da materialismo. Nella disputa sugli “universali” della scolastica medioevale saremmo stati dei “nominalisti” e non dei “realisti”. La realtà a cui ci riferiamo è costituita dai sistemi materiali di produzione e di riproduzione delle varie società umane succedutesi nella storia, e dai conseguenti rapporti instauratisi tra i membri di tali società.

Prima di iniziare questa analisi è però necessario fare alcune precisazioni che non possono essere interamente rimandate alla fine del lavoro.


Il monismo marxista e i dualismi della borghesia

Nel pensiero borghese c’è sempre, anche se in maniera diversa, una dicotomia tra ragione e fede, tra pensiero razionale e religione, che si aggiunge a quelle tradizionali di carne e anima, corpo e psiche, natura e cultura e così via, dove i due termini sono visti come opposti e irriducibili l’uno l’altro.

C’è stata e c’è ancora tra i borghesi e i loro storici l’idea che il mondo moderno sia nato con l’apparizione della ragione, collocata dai più nel Rinascimento. La ragione, in questo caso una ragione metastorica e metafisica, sarebbe quindi una sorta di fiume carsico apparso nella storia greca e romana, poi scomparso per circa 1.500 anni, per riaffiorare in superficie nel XV secolo. Gli uomini del Rinascimento, che pure avevano questa visione, avevano sicuramente delle scusanti che non possiamo riconoscere ai nostri contemporanei.

In questa concezione, che va detto è sempre più abbandonata dagli storici e dagli studiosi, il medioevo è un’epoca di buio, di ignoranza e superstizione, caratterizzata dalla religione e dalla fede, e dall’assenza della ragione. Con l’apparizione di quest’ultima, alla maniera degli illuministi, sono squarciate le tenebre dei pregiudizi a cui la religione teneva incatenati gli uomini, che possono ora vedere la verità e farla propria.

Questo è il pensiero che viene definito “laico”, termine già di per sé insignificante. Un significato lo possiamo però trovare, un significato che ai “laici” non piacerebbe sicuramente: i laici nel medioevo erano semplicemente tutti coloro che non erano chierici (cioè preti, frati ed ecclesiastici in generale). Ma, in quanto membri della chiesa (ecclesia è termine greco che significa assemblea, riunione, comunità), condividevano le stesse concezioni degli ecclesiastici. Il laico non era meno cristiano del prete. Il “laico” odierno, che pretende di parlare in nome della ragione e della scienza, ha in realtà concezioni non meno metafisiche di quelle delle varie religioni.

Sulle orme di Marx, ma anche di Ockham e dei “nominalisti” medioevali, diciamo che non esiste la ragione in quanto tale, ma esistono le ragioni. La ragione è determinata storicamente: è la ragione di una determinata società, che ha un determinato sistema di produzione e determinati rapporti tra i suoi membri a seconda del ruolo che essi svolgono in quel sistema di produzione. La ragione non ha quei caratteri di neutralità e di validità eterna per tutti gli uomini, come pensava la maggior parte degli illuministi, ma è una ragione di classe. La ragione è generata dai rapporti di classe e di produzione di una determinata società, è una sua sovrastruttura ideologica, come tutte le altre ideologie, come le filosofie, come le religioni. È la ragione della classe dominante, è la maschera che nasconde il suo dominio a sé stessa, e soprattutto a coloro su cui il dominio viene esercitato.

Nella rivoluzione francese, nel culto dell’Essere Supremo, venne celebrata anche la Dea Ragione. Era allora una ragione rivoluzionaria, in quanto di una classe borghese rivoluzionaria. Noi sappiamo quello che gli uomini di allora non potevano sapere: che quella ragione, vista e rappresentata come una leggiadra e virginea fanciulla, era in realtà una vecchia imbrogliona, complice sempre più evidente della borghesia.

Lo sappiamo non perché più intelligenti o più colti degli uomini di allora, ma perché ce lo ha svelato il marxismo e confermato la storia successiva.


L’ideologia della fine delle ideologie

Tra i borghesi va molto di moda, già da tempo, parlare di fine delle ideologie, e anche vantarsi di non avere nessuna ideologia. Questa fine delle ideologie, per altri anche fine della storia, è solo la trasposizione ideologica del desiderio della borghesia di assistere alla fine non delle ideologie in generale ma di una ben precisa ideologia: l’ideologia della rivoluzione, consistente nel comunismo e custodita dal partito comunista. Questo, come nella religione zoroastriana, ha il compito di tenere acceso il fuoco eterno. I custodi del tempio lo alimentano costantemente: sanno che, senza il loro costante lavoro, il fuoco, pure eterno, si spegnerebbe.

Una etimologia, anche se non l’unica, fa derivare il termine “ideologia” da εἶδον (eidon) tempo storico del verbo greco ὁράω (orao), che significa “io vidi”. Ideologia significa quindi “punto di vista” sulla realtà. Questo significato può essere accettato da noi, purché sia chiaro cosa significhi “punto di vista”, che non è quello di uno o più uomini più capaci di altri di interpretare la storia e quindi di guidare al meglio la propria comunità, né quello di “astuti sacerdoti” capaci di elaborare sottili inganni per dominare sui propri simili.

L’ideologia, il punto di vista (tranne il nostro), non è mai cosciente: è il punto di vista sulla realtà elaborato da una data società, con dati rapporti di classe, che trasporta tale realtà nel mondo delle idee, elaborando una visione che, per quanto di classe, per quanto falsa o parziale possa essere, risponde comunque alle necessità di sopravvivenza e di funzionamento di tale società.

I borghesi che si vantano di non avere ideologie, e quindi punti di vista, si vantano dunque di non vedere nulla e, di conseguenza, di non capire nulla. A loro diciamo che hanno ragione quando dicono di non vedere nulla e di non capire nulla, ma non ci sembra che abbiano di che vantarsi. Nell’ideologia rientrano quindi anche la religione, la filosofia, la scienza. Anche la scienza non è una divinità eterna, increata e sempre uguale a sé stessa: è una scienza di classe, che porta le stimmate delle divisioni di classe della società che l’ha generata.

Per noi materialisti le ideologie sono vere e false al tempo stesso. Sono vere nel momento in cui sorgono e in cui rispondono alle esigenze della società che le ha prodotte; sono false quando, mutate le forze produttive ed entrati in crisi i rapporti tra i membri della società, in questa si viene ora elaborando una ideologia “più vera“ della precedente, più adeguata a rispecchiare i reali rapporti fra le classi. Ma sono anche false nel momento stesso in cui sono vere, essendo sempre e comunque ideologie della classe dominante che, con la forza materiale e non quella delle idee, si impongono ai dominati. È solo nei momenti di crisi rivoluzionaria, quando un dominio di classe è spezzato, che si comincia lentamente a buttare a mare l’ideologia precedente, sempre più intesa come falsa.

È solo nel partito comunista, con la “inversione della prassi”, che la coscienza precede l’azione, che l’ideologia precede la realtà. Anche la nostra è una ideologia di classe, ma, per quanto all’esterno del partito possa sembrare contraddittorio, non è parziale, perché abbraccia la totalità di realtà e fenomeni storici e sociali non facilmente ed immediatamente percepiti e percepibili. Perché è l’ideologia di una classe che vuole distruggere le classi, e quindi sé stessa, che perseguendo il proprio interesse mira ad abolire il capitalismo e sé stessa, perseguendo quindi l’interesse della specie umana.

Il proletariato è il presente e il comunismo il futuro di quell’unica realtà che è la specie umana. Noi comunisti diciamo anche che nel partito c’è già il comunismo: il presente contiene il futuro. In realtà passato, presente e futuro, sono termini che il nostro linguaggio, imperfetto e sempre perfettibile come ogni altro strumento umano, adopera per riferirsi a una realtà che è unica.

Eraclito di Efeso, il fondatore o uno dei fondatori della dialettica, all’inizio del V secolo a.C. diceva: “Panta rei”, tutto scorre, e anche: “La verità ama nascondersi”. La verità ama nascondersi appunto perché è dialettica, perché è movimento, non fine a sé stesso alla Bernstein, né apportato sempre e comunque dall’esterno come credeva Aristotele, ma un movimento che è la materia stessa nel suo divenire. Movimento è uno dei nomi che noi diamo alla realtà. L’evoluzione di cui parla la teoria di Darwin è un altro nome che diamo al movimento e quindi alla realtà.


Ragione borghese e fede religiosa

Abbiamo detto che la borghesia fa risalire l’epifania della ragione per lo più al Rinascimento. Non sono mancati anche coloro che hanno fatto risalire la scienza a Galileo, soprattutto tra sedicenti marxisti. Questa concezione non è meno anti-marxista e meno anti-dialettica dell’altra. Nessuno ammira Galileo più di noi, e possiamo anche dire che con lui, Keplero e Newton, nasca la scienza moderna. Ma non la scienza senza aggettivi. La scienza nasce nella preistoria, quando a un certo punto dell’evoluzione gli uomini cominciano a scheggiare le pietre per farne utensili, a produrre strumenti, e ad elaborare miti e religioni. Miti e religioni sono una forma primitiva di scienza, sono il tentativo di dare una spiegazione a fenomeni sconosciuti, sono la conoscenza possibile e organica a quelle società. I greci, non avendo gli strumenti di epoche successive per spiegarsi l’origine dei fulmini, immaginarono che fossero scagliati da Zeus.

Le religioni non sono solo questo: sono anche, e soprattutto, il tentativo di mitigare la paura della morte, del dolore, delle difficoltà della vita. Insieme a tutto ciò, e prima ancora, le religioni sono l’ideologia delle società che le ha prodotte, la loro immagine trasfigurata, la loro legge e la loro scienza; sono i rapporti tra gli uomini trasportati nei cieli.

La religione è quindi cosa troppo importante per essere lasciata ai preti. Lo stesso possiamo dire dell’arte e degli artisti, della filosofia e dei filosofi, della scienza e degli scienziati. È evidente che noi non crediamo alla superiorità dei moderni sugli antichi, né al suo contrario. Dire che il prodotto della specie umana di un millennio, vale a dire la filosofia e la scienza medioevale cristiana, ebraica e islamica, sia una cosa di nessun valore, da prendere e gettare nella pattumiera, è indice dell’accecamento ideologico della borghesia, della sua ragione e della sua scienza, che quanto ad oscurità, tenebre e superstizione non ha niente da invidiare alle sagrestie.

L’inglese Giovanni di Salisbury, filosofo del XII secolo, nonché vescovo di Chartres, coniò la celebre metafora per cui noi siamo dei nani sulle spalle di giganti, per cui grazie a loro possiamo vedere più lontano di loro. Su questo singolo punto il filosofo medioevale era molto più aderente alla realtà dei razionalisti dei secoli successivi.

Il mondo religioso medioevale ha prodotto delle “filosofie” di notevole importanza, che hanno influenzato inevitabilmente le concezioni dei secoli successivi, a cominciare da quelle che si definiscono “laiche”. La “Summa theologiae” di Tommaso d’Aquino, ad esempio, è tutt’altro che un insieme di sciocchezze: è innanzitutto lo specchio della società del suo tempo, del lento declino del mondo feudale su cui si sta affacciando la neonata borghesia, del tentativo della Chiesa, difficile ma in parte riuscito, di stare al passo col mondo che cambia; di neutralizzare la pericolosa novità costituita dall’aristotelismo facendolo proprio. Il nemico talvolta si cattura aprendo le porte.

Abbiamo già definito la costruzione teorica di Tommaso una potente arcata della conoscenza, che unisce il sapere precedente a quello successivo, costituendo un poderoso sviluppo della conoscenza per la società del suo secolo. Come abbiamo detto, la religione è cosa troppo importante per essere lasciata nelle mani dei preti, né in quelle di quei preti spretati che sono i cosiddetti “laici”, e cioè i borghesi razionalisti ed atei.


Conoscenza nascosta in miti e religioni

Alcuni esempi su questo tema. Tra i miti greci c’è quello del ratto di Europa, principessa fenicia, da parte di Zeus che, trasformatosi in toro, la porta dalle coste asiatiche fino all’isola di Creta. Il significato del mito è chiaro ed è una realtà storica: la civiltà greca arriva da oriente, dai fenici a Creta e poi da Creta alla Grecia continentale. L’influsso dei fenici sulla civiltà minoica e poi greca è evidente. È vero che sappiamo molto poco del III e del II millennio a.C., ma sappiamo che intorno all’VIII secolo in Grecia appare una scrittura che non è più sillabica, verosimilmente scomparsa assieme al mondo miceneo che l’aveva generata, ma una fonetica, che prende a base l’alfabeto fenicio a cui sono apportate alcune modifiche. Erodoto nelle sue “Storie” dice infatti che i Greci chiamavano le lettere dell’alfabeto “phoinikeia”, cose fenicie.

Un altro mito presente presso vari popoli è quello di una “età dell’oro” collocata in un lontano passato. Tale mito non è altro che il vago ricordo del comunismo primitivo, di uno stadio della società umana dove la tribù era un’unità originaria, dove il concetto di individuo era sconosciuto, dove non era ancora avvenuta la scissione di quella unità in classi sociali. Tale scissione si è poi riflessa nel concetto di “peccato originale”, che registra l’infrangersi del sentimento comunista, il peccato contro un dio che altro non era che l’originaria unità dell’uomo con la società della quale faceva organica parte. Non a caso nella mitologia cristiana il demonio è “il grande separatore”.

I comunisti non hanno nessuna nostalgia del comunismo primitivo. Al comunismo si arriva passando per le fasi rappresentate dalle varie società di classe apparse nella storia secondo necessità, e non cercando un impossibile ritorno a un passato che sarebbe soltanto un mito reazionario. Nella Bibbia, la moglie di Lot viene trasformata in una statua di sale perché, anziché guardare avanti verso il futuro, si volta a guardare indietro. Il comunismo primitivo è il paradiso perduto di cui parlano le religioni. In parte lo era, per l’assenza delle divisioni di classe, e in parte era l’inferno, per la scarsità delle risorse o dei mezzi atti a procurare, per la durezza della vita, in cui non era difficile morire di fame, di freddo, di malattia o a causa delle belve. La leggenda romana dei bimbi nati non sani gettati giù dalla rupe Tarpea, ed altre simili, sono il lontano ricordo delle difficoltà di quella fase originaria. A quei tempi un uomo di trent’anni probabilmente era vecchio, e sicuramente fortunato.

Notiamo di sfuggita che quei patimenti di allora, la fame, il freddo, ecc., non sono scomparse con il “progresso”, cioè con le società di classe, ultima delle quali è il capitalismo.


In principio era il verbo

Nelle religioni troviamo talvolta delle intuizioni di grande potenza, a cui la filosofia e la scienza della borghesia, a distanza di secoli e di millenni, non arrivano. Ciò non è poi così strano, se pensiamo che le religioni più antiche erano più vicine alla base materiale della società, mentre le stesse religioni, in fasi successive, hanno prodotto delle costruzioni ideologiche che hanno trasportato la società, con i suoi rapporti sociali, nell’alto dei cieli. Lo stesso ha fatto la borghesia, in varia maniera, da Kant ed Hegel fino ad oggi. Il cristianesimo delle origini era più vicino alle basi materiali di quello successivo; l’ebraismo, in quanto più antico, espressione di rapporti sociali più arcaici, era più vicino a tali basi del cristianesimo. Gli ebrei, nella Bibbia, pregavano il loro dio per l’abbondanza delle messi e per la fecondità delle donne e degli armenti. Non lo pregavano per la salvezza di un’anima che, possiamo dire, non era ancora stata inventata.

Gli stessi cristiani del I secolo non avevano la concezione di anima che conosciamo, ma parlavano di resurrezione dei corpi nel giorno del giudizio, dopo il lungo sonno della morte. È nel II secolo, con Giustino e i Padri Apologisti, e soprattutto nel IV secolo con Agostino di Tagaste, che il cristianesimo cerca di appropriarsi della filosofia greca, e in particolare del neo-platonismo, considerandola una forma imperfetta e parziale di “Verità”, che diviene piena e completa solo in Dio. È allora che nasce il concetto cristiano di anima, concetto che muta con i secoli, e che nasce anche per l’influsso della filosofia greca. Va detto comunque che le Anime di Platone e dei neo-platonici, e l’Anima mundi degli stoici, erano cose diverse dall’Anima dei cristiani: non attribuiamo a Platone, agli stoici e a Plotino responsabilità che non hanno. Lo stesso neo-platonismo, messo da Agostino a base filosofica del cristianesimo, è stato notevolmente modificato: era pur sempre una filosofia pagana.

L’idea di resurrezione dei corpi e di giudizio universale sono poi rimaste nel cristianesimo, ma decisamente annacquate: che bisogno c’era di un giudizio universale quando già c’erano stati tanti giudizi individuali all’arrivo delle singole anime? Queste erano già immediatamente giudicate e “smistate”.

Nel prologo del IV Vangelo, il Vangelo secondo Giovanni:
     «In principio era il Verbo
     «e il Verbo era presso Dio
     «e il Verbo era Dio».

L’autore, riferendosi a Cristo, e quindi a Dio, usa qui il termine greco “logos”, che significa parola, discorso, ragione, regola, causa, legge. Girolamo, tra IV e V secolo, traduce “logos” con il latino “verbum”, che significa parola, discorso, verbo. In italiano viene tradotto con “verbo”. Logos è un termine già presente nella filosofia greca più antica, ma è con il filosofo ebreo Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù, che viene inteso alla maniera che sarà poi dei neo-platonici, e fatta propria dal cristianesimo, di termine medio tra dio e il mondo, di cui dio si serve per creare il mondo. Questo termine medio che unisce dio e mondo, che è dio e mondo, quindi dio e uomo, si prestava bene ad essere inteso come Cristo.

“Logos” era a sua volta la traduzione di un termine ebraico più antico, “Davar”. Anche questo termine significava “parola”, ma parola che non si distingue dal fatto, e che è tutt’uno con esso. Evidentemente faceva parte del linguaggio di una società che precede “il peccato originale” della divisione in classi.

Questo non significa che linguaggi e miti analoghi provengano con certezza da società del comunismo primitivo. Possono provenire anche da società con una limitata differenziazione di classe, dove ancora più limitata è la rappresentazione ideologica di sé, per cui permane gran parte della visione unitaria originale e dell’originale sentimento comunista. Visione e sentimento che andranno poi sempre più spostandosi dalla vita reale ai vari “regni dei cieli” o “regni dello Spirito”.

La Bibbia ci dice che al tempo di Davide e anche prima, quindi già intorno al 1.000 a.C., esisteva il giubileo ebraico. Ogni 50 anni, nell’anno del giubileo, venivano rimessi i debiti, restituita la terra alienata per debiti, e liberati gli schiavi che lo erano diventati per debiti. Questo tentativo di azzerare i guasti prodotti dalla divisione in classi della società, inevitabilmente destinato al fallimento, manifestava la nostalgia dello stadio sociale indiviso del comunismo primitivo.

Del termine “verbo” la traduzione latina è più felice di quella greca. “Dio è il verbo, Dio è la parola”. Ma non una parola qualsiasi. Non è il motore immobile dei greci. Il verbo è azione. Una parola che è movimento, modificazione, creazione, tensione verso il futuro. La migliore traduzione dell’incipit giovanneo è quella di Goethe che fa dire al suo Faust “In principio era l’azione“. Questo dio, questa realtà che non è statica, ma che è azione, divenire, altro non è che la materia. Una intuizione davvero potente, espressa nel linguaggio e con le costruzioni ideologiche del mito, della religione, della magia.

Il pensiero più antico era magico: la parola non indicava la cosa, la evocava, era la cosa. La riduceva anche in proprio potere. Forse è per questo che il nome di dio per gli ebrei è impronunciabile, e che tra gli Yazidi era messo a morte chi lo pronunciava. Nel momento in cui si pronuncia il nome del dio il dio è presente: quando i greci costruivano una statua del dio, questo vi prendeva immediatamente dimora. Il dio degli ebrei parlava con Abramo, quello dei cristiani anche camminava e mangiava con gli uomini. I greci avevano con le divinità rapporti anche più stretti, dato che con esse generavano dei figli.

Per noi le parole significano le cose; per le comunità più antiche erano le cose. La distinzione tra significato e significante appare nel mondo greco con Aristotele e ancora più con gli stoici. In alcune danze rituali più antiche, nel mondo greco e non solo, gli iniziati procedevano con un cammino a spirale che veniva poi percorso a ritroso. Per gli studiosi, più di ieri che di oggi, tale danza rappresentava l’andare nel regno dei morti, e poi il ritornare. Per gli uomini di allora non “rappresentava”, ma essi andavano davvero nel regno dei morti e ne tornavano. Abbiamo detto che questa dimensione magico-religiosa era il lontano ricordo e la nostalgia del comunismo primitivo.


Tempo dei greci, degli ebrei, dei marxisti

Il roveto ardente che parla a Mosè è movimento e non stasi. Le parole che rivolge a Mosè, note come “Io sono colui che sono”, in realtà vanno tradotte come “Io sono colui che sarò”, o come “Io sarò colui che sarò”. Ancora tensione verso il futuro, in unione col presente e col passato.

I greci avevano una concezione ciclica, circolare del tempo, paradossalmente più “religiosa” di quella ebraica, arrivata fino a Vico, Hegel, Nietzsche, il quale parlava appunto di un “eterno ritorno”. La visione ebraica del tempo e della storia era invece lineare, tesa verso il futuro, verso il “Io sarò colui che sarò”. Questa linearità non era però perfetta e senza scosse: le vicissitudini del popolo ebraico narrate nella Bibbia, le sue sconfitte che hanno significato schiavitù e dominazione straniera, hanno portato tale popolo a concepire una direzione verso Dio sì lineare, ma interrotta da varie dolorose e tragiche cesure. Una concezione tutto sommato meno “religiosa”, meno metafisica, di quella dei positivisti del XIX secolo, e delle loro “magnifiche sorti e progressive”.

La concezione del tempo e della storia marxista è più debitrice a quella ebraica che a quella greca. Ne “Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista”, che riprende il nostro testo “Partito e classe, leggiamo:

«Una teoria del tutto errata è quella della curva discendente del capitalismo che porta a domandarsi falsamente come mai, mentre il capitalismo declina, la rivoluzione non avanza. La teoria della curva discendente paragona lo svolgersi storico ad una sinusoide: ogni regime, come quello borghese, inizia una fase di salita, tocca un massimo, poi comincia a declinare fino ad un minimo; dopo il quale un altro regime risale. Tale visione è quella del riformismo gradualista: non vi sono sbalzi, scosse o salti.

«L’abituale affermazione che il capitalismo è nel ramo discendente e non può risalire contiene due errori: quello fatalista e quello gradualista. Il primo è l’illusione che, finito il capitalismo di scendere, il socialismo verrà di per sé, senza agitazioni, lotte e scontri armati, senza preparazione di partito. Il secondo, espresso dal fatto che la direzione del movimento si flette insensibilmente, equivale ad ammettere che elementi di socialismo compenetrino progressivamente il tessuto capitalistico.

«La visione marxista può raffigurarsi (a fine di chiarezza e brevità) in tanti rami di curve sempre ascendenti fino a quei vertici (in geometria punti singolari o cuspidi) a cui segue una brusca caduta quasi verticale; e dal basso un nuovo regime sociale, un altro ramo storico di ascensione (...)

«Marx non ha prospettato un salire e poi un declinare del capitalismo, ma invece il contemporaneo e dialettico esaltarsi della massa di forze produttive che il capitalismo controlla, della loro accumulazione e concentrazione illimitata, e al tempo stesso della reazione antagonistica, costituita da quelle forze dominate che sono la classe proletaria. Il potenziale produttivo ed economico generale sale sempre finché l’equilibrio non è rotto, e si ha una fase esplosiva rivoluzionaria, nella quale in un brevissimo periodo precipitoso, col rompersi delle forme di produzione antiche, le forze di produzione ricadono per darsi un nuovo assetto e riprendere una più potente ascesa (...)

«Occorre appena notare che il senso generale ascendente non vuole legarsi a visioni idealistiche sull’indefinito progresso umano, ma al dato storico del continuo ingigantirsi della massa materiale delle forze produttive, nel succedersi delle grandi crisi storiche rivoluzionarie».


Magia e filosofia greca

Abbiamo detto che la visione magica, propria delle fasi religiose più antiche, e residuo ideologico del comunismo primitivo, permeava la vita di quelle epoche, compresa la filosofia, in una fase in cui essa non si distingueva dalla scienza e dalla religione. Il “Verbo”, il “Davar”, è rintracciabile anche nella filosofia greca più antica. Un esempio a riguardo è costituito da Parmenide di Elea, filosofo della Magna Grecia, vissuto tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. Sono famose le sue parole: “L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere”. Le interpretazioni idealistiche di tali parole sono state di gran lunga predominanti, fino a farne un precursore di Hegel.

Abbiamo detto, nel nostro scritto su “La successione dei modi di produzione nella teoria marxista”, pubblicato su “Comunismo” n. 81, che è legittima è più vicina alla realtà una interpretazione materialistica dell’“Essere” di Parmenide, che possiamo anche definire come “materia che occupa spazio”. Il titolo della sua opera, “Sulla natura” era lo stesso che i filosofi precedenti davano ai loro scritti. I primi filosofi, gli ionici o fisici, e così i successivi Eraclito, Empedocle, Democrito, erano certamente dei materialisti. Talete di Mileto, considerato il più antico dei filosofi, diceva che tutte le cose sono piene di dèi. Non è certo mancato chi ha visto qui un principio divino, ma questi “dèi” di cui parla Talete, hanno in realtà una stretta parentela con gli atomi di Democrito.

Nessuno può affermare con certezza che Parmenide, ma anche Platone o Aristotele, fosse un materialista o che non lo fosse. Non ce ne importa neanche nulla. Quello che ci interessa sono, da una parte, gli aspetti materialistici di tale filosofia, dall’altra il suo collegamento con il tempo della magia, del “Davar” ebraico, dell’unità non scissa, da parte di una società, quella di Parmenide, dove esisteva già una differenziazione di classe.

Tale collegamento non è dato dalla sua concezione filosofica di “Essere” come unità e perfezione, attorno a cui si sono arrabattati gli studiosi, ma dal fatto, precedente le varie interpretazioni, che ai suoi tempi non esisteva la distinzione tra significato e significante. Ciò è stato già messo in luce da Guido Calogero nel suo “Studi sull’eleatismo” che risale al 1932. Per Parmenide la parola “essere” è l’essere della parola: quando noi pronunciamo “è”, quell’”è” è la copula, la forma verbale che unisce il soggetto al predicato nominale. Al tempo di Parmenide era impensabile che le parole “è”, “essere”, non avessero una propria realtà anche materiale. Del resto il suono di ogni parola è una realtà. Nell’“Essere” di Parmenide, come nel “Davar” ebraico, parola e cosa, significato e significante, coincidono. Coincidono nel ricordo e nella nostalgia di un’“età dell’oro” del comunismo primitivo, che già allora era un lontano ricordo.

La presunta superiorità dei moderni

Due altri esempi. Abbiamo detto che le ideologie non hanno valore in sé, o per la loro eventuale coerenza interna. L’illuminismo, ad esempio, ha un enorme valore in quanto ideologia della borghesia rivoluzionaria, suo strumento atto a distruggere il vecchio mondo feudale. Se andiamo poi ad esaminarlo non ci troviamo d’accordo su nulla. Il “diritto di natura”, proprio dell’illuminismo e del giusnaturalismo del secolo precedente, afferisce all’uomo in quanto tale, valido dunque in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Una concezione atemporale, dove non c’è dialettica né senso della storia.

Se guardiamo a Tommaso d’Aquino, anche qui ovviamente non c’è dialettica né senso della storia, ma c’è quello del tempo. La dimensione temporale è qui strettamente legata a ciò che per lui è la legge di natura. Il tempo, che è l’ambiente specifico della “legge”, è la condizione e il luogo della perfettibilità umana. Se la “salvezza” è un processo che si svolge nel tempo, ciò significa che anche la legge umana si svolge nel tempo: non è atemporale. Su questo singolo punto Tommaso vede un po’ meglio della maggior parte degli illuministi.

Se poi guardiamo all’idealismo, in tale filosofia esiste solo il soggetto, oppure ha una parte comunque preponderante. L’oggetto esiste solo perché è conosciuto dal soggetto, è una sua creazione. Questo almeno nelle forme di idealismo più conseguenti. Tommaso dice che noi conosciamo attraverso i sensi, e che le cose conosciute hanno comunque una loro realtà. Tommaso non era certo un materialista, ma possiamo definirlo “realista”, e il realismo è pur sempre una forma primitiva di materialismo. Per lui, se esistono dei pianeti talmente lontani che noi non possiamo vedere e che mai vedremo, questi esistono comunque, indipendentemente dalla nostra possibilità di vederli e di conoscerli. Su questo singolo punto, su cui Lenin sarebbe stato d’accordo, Tommaso era più vicino alla realtà degli idealisti del XIX e XX secolo.

Questo per ribadire ancora una volta che l’unico criterio per valutare una ideologia sta nel suo mandare o meno avanti la conoscenza della società cui appartiene, e soprattutto nel costituire o meno un’arma per distruggere un ordinamento sociale ormai esausto.

Non sono state e non saranno le sole armi della critica a distruggere una società di classe ormai fradicia, ma la critica delle armi, esercitata dai senza scienza, dai diseredati, dai “dannati della terra”. Sarà solo con la fine dell’ultima società di classe, e con il comunismo, che sarà ricomposto ciò che è stato spezzato, che, per adoperare la terminologia cristiana, il Verbo si farà Carne.

Da “La questione ebraica oggi”, in “Comunismo” n.64:

«Comunismo è compagine vivente nella quale i termini di opposizioni antiche del dramma umano, uomo-donna, giovane-vecchio, sano-ammalato, savio-folle, colto-ignorante, discente-docente, anima-corpo, morti-viventi-nascituri, si ricompongono nella riappropriazione sociale degli strumenti della produzione e della riproduzione della vita. Tutte le separazioni, che sono contraddizioni reali, non semplicemente logico-mentali, dice Marx nella “Critica al programma di Gotha”, saranno affrontate e risolte. Non per decreto, ma in quanto saranno maturate già nell’attuale società le condizioni favorevoli al loro superamento storico (...)».

«I comunisti stanno “dalla parte” della classe operaia, non genericamente “degli ultimi”. Gli “ultimi” cui usano rivolgersi alcune religioni erano gli schiavi del mondo antico ai quali si rivendicava essenza umana. I proletari, gli uomini della moderna società borghese, vengono “dopo gli ultimi”, sono il prodotto del processo capitalistico di distruzione di ogni loro specificità umana, non sono appartenenti ad alcun gruppo, razza o cultura, non sono contadini né fabbri, sono il prodotto della totale estraneazione dell’uomo. Solo per questo il comunismo è oggi possibile e a portata di mano».

«Difficile rappresentare con le nostre parole la dirompente esplosione di energia che scaturirà dalle braccia e dai cervelli di tutti gli uomini quando – liberati dalle costrizioni del bisogno e dello spreco, e dalla necessità della guerra interspecifica – potranno dialogare, e operare concordi e premurosi secondo un piano di specie che travalica le generazioni. Il comunismo sarà allora l’atteso espandersi e approssimarsi dell’uomo alla sua dimensione cosmica, fino ad abbracciare e identificarsi con le infinite felici interazioni dell’universo materiale, che vive, ama e conosce, e la cui musica e canto da sempre lo affascina e lo attrae».

(segue al prossimo numero)