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Comunismo n.98 - novembre 2024 - Anno XLIV
aggiornato al 17 novembre 2024

Fascismo e antifascismo per distogliere la lotta di classe dalla borghesia e dal suo Stato
Il marxismo e la questione militare - La guerra civile in Russia [RG144-145] (continua dal numero scorso)
La teoria marxista delle crisi - 1. Le Teorie sul Plusvalore: 1.3 David Ricardo [RG146] (continua dal numero scorso)
L’India dalla origini alla Stato nazionale: 8. - Nuovo assetto dell’amministrazione coloniale [RG126] (continua dal numero scorso)
Lettura marxista del nazionalismo curdo - Parte 2 [RG142] (continua dal numero scorso) - Appendice: Il movimento nazionale curdo
Le ideologie della borghesia - 2. Il feudalesimo [RG145] (continua dal numero scorso)
Razze, classi e questione agraria negli Stati Uniti - Parte 1 - Dal comunismo primitivo al Destino Manifesto negli Stati Uniti delle origini [RG150]








Fascismo e antifascismo
per distogliere la lotta di classe dalla borghesia e dal suo Stato

In molti paesi i “veri democratici” si commiserano per l’affermarsi elettorale di vari partiti di destra, da Trump a Netanyahu, da Orban alla Meloni, dei quali detestano il populismo e la fraseologia, ad arte provocatoria. Per altro nei contenuti: patriottici, nazionalisti, imperialisti, protezionisti, militaristi, guerrafondai, antifemministi, xsenofobi, ecc. – in una parola capitalistici – quasi nulla li distingue dalle “sinistre”.

Noi comunisti non diamo gran perso alle cosiddette opinioni o maggioranze popolari, né riteniamo che dall’aritmetica elettorale se ne possa trarre alcuna attendibile valutazione.

La falsa opposizione fascismo-antifascismo è utile alla borghesia per neutralizzare il proletariato nella gabbia della democrazia e dell’interclassismo. La propaganda borghese mette in risalto l’antitesi tra democrazia e autoritarismo, tra fascismo e anti-fascismo. Noi abbiamo invece sempre sostenuto che quella dell’anti-fascismo è una finta opposizione al fascismo e una vera collaborazione nella comune guerra contro la classe operaia.

La stessa definizione di “reazionario” è errata: è giusta solo se intesa come reazione della borghesia all’azione del proletariato e al pericolo che questo rappresenta per essa. Il fascismo è reazionario nei confronti del comunismo, ma non nei confronti del capitalismo.

Il fascismo è la risposta della borghesia al pericolo per essa rappresentato dal proletariato nella fase monopolistica e imperialistica del capitalismo. Ed è un disvelamento dell’apparato statale borghese nelle sue capacità di repressione.

È stato anche il continuatore, e il vero attuatore, del riformismo invocato dai socialdemocratici. In Italia in campo economico l’IRI e l’ENI sono stati un ammodernamento del capitalismo italiano, non a caso rimaste anche con il regime democratico post-fascista. Il New Deal della democratica America di Roosevelt si è ispirato al corporativismo fascista, guardato benevolmente anche dall’economista Keynes.

In Italia tutti i partiti borghesi hanno partecipato a un governo con i fascisti, o ci hanno provato: anche il Partito Socialista, che lanciò il famoso e famigerato Patto di Pacificazione con i fascisti, mentre questi ultimi uccidevano i proletari e davano alle fiamme sedi di partito, sindacati e tipografie di socialisti, comunisti ed altri. Di fronte al tradimento dei socialisti, fu solo il PCd’I ad affrontare il fascismo, organizzandosi anche militarmente e tentando di rispondere colpo su colpo. La sconfitta fu poi inevitabile a causa del tradimento dei socialisti, della disponibilità dei fascisti di un’organizzazione armata centralizzata finanziata dalla borghesia, e dell’appoggio fornito loro dall’apparato statale e militare.

Il Partito Comunista, stalinizzato, arrivò buon ultimo a tentare un’alleanza con i fascisti, quando sulla propria stampa, nel 1936, si rivolse ai fascisti invitandoli a un’alleanza per realizzare il programma fascista del 1919.

La borghesia di tutti i paesi aveva appreso la lezione della dittatura proletaria in Russia, comprendendo la necessità di dotarsi di un potere fortemente centralizzato, che smentisce la fantasia della “divisione dei poteri”, e unificante i suoi centrifughi settori.

Nel laboratorio politico italiano, c’è stata continuità tra l’epoca liberale, la fascista e la democratica post-fascista. La borghesia unitaria non attese il fascismo per sterminare proletari in lotta e le sue leggi di polizia, mantenute nel periodo fascista, anche se con qualche ammodernamento e inasprimento con il codice Rocco, passarono nell’Italia di “nuova democrazia”. Il personale amministrativo e poliziesco, prefetti ecc., rimase in gran parte lo stesso dopo il 1945. Il loro anticomunismo era sicuramente molto apprezzato anche dai nuovi padroni americani.

Il capitale è sempre totalitario, anche quando governa nelle forme democratiche. Avrebbe bisogno di ingabbiare nello Stato l’intrinseca anarchia della sua produzione e della sua economia, e in un partito unico la lotta delle classi e delle sottoclassi.

Ma è un’utopia. Anche nella Germania nazista, la cui borghesia più di altre ammise questa sua necessità, i sindacati continuarono ad esistere: la lotta di classe poteva essere controllata rigidamente ma non abolita, e dei sindacati non si poté fare a meno. Se per noi il sindacato è la cinghia di trasmissione del Partito, e quindi della dittatura proletaria, per la borghesia è la cinghia di trasmissione della propria dittatura.

Il fascismo e il nazismo sono andati al governo secondo i crismi della democrazia. Nonostante le solenni proclamazioni costituzionali, nessuna democrazia ha mai realmente combattuto il fascismo, e lo ammette alla sua liturgia elettorale. Liturgia, fatto del tutto secondario, che riflette sempre meno la conta dei voti e sempre più manipolazioni varie, delle circoscrizioni elettorali, ecc.

Che il termine fascismo si presti a ogni gioco di prestigio lo dimostra come, sinonimo di mono-partitismo, venga esteso anche a paesi come la Cina, che continuano a definire comunista, pur riconoscendone il carattere pienamente capitalista. Vi sarebbero quindi regimi totalitari “buoni”, quelli filo-americani come ucraini e polacchi, e “cattivi”, quelli filo-russi come il regime ungherese o nord coreano.

Come in passato anti-fascismo e anti-autoritarismo sono solo lo strumento di propaganda dell’imperialismo maggiore, e a volte anche degli imperialismi minori: in Ucraina entrambi gli schieramenti si sono vicendevolmente accusati di fascismo, e in effetti c’erano e ci sono fascisti e nazisti dichiarati che combattono sui due lati del fronte. Sempre sui due lati del fronte, i fascisti combattono accanto a democratici, fondamentalisti islamici, mercenari di varia provenienza, e anche sedicenti comunisti.

Fascismo e anti-fascismo sono i due lati opposti di una stessa realtà, come Apollo e Dioniso, il giorno e la notte. Tale realtà è il capitalismo, da cui si genera l’imperialismo. Se Dio, Patria e Famiglia, sono sugli stemmi di tutte le truppe imperiali, sulle insegne delle truppe dell’impero d’occidente, quello nordamericano, c’è anche l’anti-autoritarismo a difesa della democrazia.

È in nome della democrazia e dell’antifascismo che i proletari sia di Russia, sia di Ucraina sono mandati a scannarsi al fronte, e un domani non troppo lontano quelli di tutto il mondo.

L’unica possibilità di evitare tale prospettiva non consiste certamente nelle preghiere dei preti o dei pacifisti, ma nel proletariato mondiale che, guidato dal partito comunista internazionale, trasformi la guerra tra gli Stati borghesi in guerra di classe per l’affermazione del comunismo.

In questo sul moto di classe, sia nella sua fase di difesa economica contingente, sia di assalto al potere, la classe operaia in tutti i paesi si troverà certamente di fronte tanto i fascisti quanto i democratici.






Il marxismo e la questione militare
(Indice del lavoro)

Parte quinta: Le guerre rivoluzionarie del proletariato
(continua dal numero scorso)

La seconda campagna del Kuban
Capitoli esposti alle riunioni generali del settembre 2022 e del gennaio e maggio 2023


Prima fase - Primavera‑estate 1918

La fine della prima campagna nello sterminato territorio del Kuban aveva lasciato una situazione incerta e instabile in entrambi gli schieramenti. I tre comandanti delle maggiori forze controrivoluzionarie cosacche nell’area, Alekseev, Kaledin e Kornilov, riuniti in un triunvirato allo scopo di realizzare un minimo coordinamento, adottarono una iniziale strategia difensiva in attesa del momento propizio per un’offensiva generale sostenuta dalle forze austro-tedesche.

Per l’assenza di importanti vittorie strategiche ma solo continue ritirate, per il rifiuto dei reduci rientranti dal fronte di arruolarsi nelle loro file, convinti dalla grande propaganda bolscevica ad arruolarsi nell’Armata Rossa, i gruppi cosacchi iniziarono a disperdersi e i nuovi volontari molto spesso non volevano più combattere.

Pur con significative perdite a fine febbraio le colonne bolsceviche conquistarono gli importanti centri di Rostov e Novočerkassk. L’Armata dei Volontari (A.V.), sotto il comando di Kornilov, per sottrarsi alle preponderanti forze rosse decise di dirigersi verso Ekaterinodar, al limite delle steppe del Kuban, la cui Rada aveva da poco proclamato una repubblica cosacca.

Ekaterinodar invece fu conquistata dalle truppe bolsceviche e, come abbiamo esposto in un precedente rapporto, la manovra imposta dalla nuova situazione, poi chiamata la “Marcia sul Ghiaccio”, si risolse in una disfatta dell’Armata dei Volontari, le cui residue forze si dispersero, ma non scomparvero, in quegli immensi territori. Inoltre persero due validi comandanti: Kaledin si suicidò e Kornilov morì a seguito di un preciso bombardamento rosso del suo quartier generale; Denikin lo sostituì al comando dell’A.V.

La situazione nel settore caucasico si complicò per le sorti della rivoluzione quando, a seguito dell’Operazione Faustschlag, le armate tedesche in soli 11 giorni occuparono tutto il Sud dell’Ucraina fino al Mar Nero: dal porto di Odessa, dal Donbass, alla Crimea, con i porti di Mariupol e Taganrog sul Mar d’Azov, giunsero fino a Rostov sul Don che occuparono facilmente senza incontrare una adeguata resistenza.

Per di più, all’interno degli immensi territori cosacchi lungo il Don si era consolidato il potere dell’atamano Krasnov, che aveva ottenuto dal Krug, l’assemblea cosacca, i pieni poteri e l’appoggio dei cosacchi. Si era formato nelle accademie militari zariste fino al grado di tenente generale della Guardia Imperiale e aveva sostenuto il governo provvisorio contro la Rivoluzione d’Ottobre. Nella regione del Don già dalla fine del 1917 aveva incominciato ad organizzare la lotta armata contro i bolscevichi.

Con l’aiuto economico e militare dei tedeschi il 17 aprile 1918 Krasnov conquistò la Repubblica sovietica del Don, l’attuale Ucraina, con l’aggiunta di altri territori cosacchi fondò la Repubblica del Don, con capitale Novočerkassk. Questa si estendeva per circa 165.000 km2, circa oltre la metà dell’Italia, con una popolazione di 3,8 milioni di abitanti, di cui il 55% cosacchi, i restanti erano operai e contadini provenienti da altre parti della Russia, mal sopportati dai cosacchi.

Facendo leva sul nazionalismo indipendentista dei cosacchi, sui sentimenti controrivoluzionari della maggior parte di loro e con i cospicui fondi tedeschi, Krasnov in breve riuscì a organizzare 40.000 uomini ben armati con lo scopo di riunificare tutti i territori storicamente abitati dai cosacchi lungo il corso del Don. Non si espresse mai chiaramente sulle sorti del regime sovietico.

Accanto alle forze indipendentiste cosacche c’era quanto rimaneva dell’Armata dei Volontari, guidata da Denikin, i cui componenti avevano differenti prospettive per una futura Russia repubblicana o monarchica, ma sicuramente indipendente, né bolscevica né alleata con la Germania. Per evitare pericolose tensioni interne alla sua piccola e disciplinata formazione, evitò di prendere posizione sul futuro assetto istituzionale della nuova Russia libera e indipendente.

Le profonde divergenze politiche e l’evidente diffidenza tra i due comandanti erano tali che la riunione indetta il 28 maggio 1918 per stabilire un piano strategico coordinato si risolse in un nulla di fatto. Rimaneva di unificante l’obiettivo della crociata antibolscevica, in una Russia unificata o federata. Interpretando in modo ipocrita il principio dell’autodeterminazione dei popoli oppressi dallo zarismo, Krasnov pensava di poter far coesistere una reazionaria repubblica cosacca accanto a quella rivoluzionaria bolscevica, pur muovendole contro il suo esercito.

Dal punto di vista strategico i cosacchi di Krasnov godevano di un’ottima situazione, con il fianco sinistro ben protetto dalle nuove frontiere tedesche, che consentivano rapidi rifornimenti, mentre il fianco destro era protetto dalle ridotte ma ben disciplinate forze dell’A.V.

Queste furono rifinanziate dal “Centro Nazionale”, una organizzazione segreta antibolscevica di Mosca, con 10 milioni di rubli, cui se ne aggiunsero altri 6 da Krasnov, per l’acquisto di armi, nonostante i tedeschi non tollerassero questo aiuto a Denikin, dichiaratamente antitedesco. La A.V. raggiunse così un organico di 9.000 uomini, 21 cannoni e un treno corazzato in legno. Furono organizzati in 3 divisioni di fanteria di 3.000 uomini ciascuna, una di cavalleria e una brigata di cavalleria indipendente di cosacchi del Kuban. Erano unità dotate di grande mobilità, dovuta alla loro precedente formazione militare ed esperienza sul campo.

L’Armata Rossa, costituita solo da alcuni mesi sotto l’efficiente lavoro organizzativo di Trotzki, nel Kuban disponeva di un imprecisato numero di effettivi compreso tra 80.000 e 100.0000, per lo più nuove reclute volontarie e prive di esperienza al combattimento. Erano divisi in un numero di gruppi, unità minori e guarnigioni territoriali; questo spiega perché gli stessi comandanti russi non fossero al momento in grado di conoscere l’esatta composizione delle loro forze. La confusione era aumentata dalla reale difficoltà di comunicazione tra le unità e il comando, rendendo complessa ogni rapida variazione dei piani di battaglia.

I raggruppamenti maggiori erano quelli affidati al comando di Sorokin, di circa 30-40.000 unità, stanziati a Bataysk, poco a sud di Rostov, occupata dai tedeschi; in quel settore dovevano anche controllare le formazioni cosacche del Don. Sotto il comando di Kalnin erano circa 30.000 effettivi lungo l’asse ferroviario tra Torgovaja e Tichoreckaja. L’Armata di Taman di circa 25.000 uomini era impegnata a controllare lo stretto di Kerch, che separa il Mar Nero dal Mar d’Azov, e contrastare i tedeschi stanziati in Crimea, sulle sponde opposte dello stretto. Una quarta formazione di circa 12.000 unità, dirette da Dumenko, era stanziata nell’area attorno a Velikoknyazheskaya. In più ogni città di una certa importanza aveva una guarnigione dedicata alla sua difesa. La stessa storiografia sovietica segnala che erano truppe mal coordinate, mal equipaggiate e mal armate.

W.H. Chamberlin così riporta: «Le forze rosse del Caucaso settentrionale, sebbene così numerose, per lo meno secondo l’ordine di grandezza della guerra civile russa (alla vigilia della disfatta finale sommavano a circa 150.000), rappresentavano però, com’ebbe a dire una volta Trotzki, “un’orda pletorica piuttosto che un esercito”. Erano un aggregato scomposto di bande armate, che talvolta venivano alle mani tra loro, e avanzavano e retrocedevano senza fare quasi nessun conto degli ordini del comando centrale. Le autorità sovietiche del Caucaso settentrionale non riuscivano affatto a imporre una linea di condotta ai militari dilettanti che comandavano quell’esercito variopinto. Questa incapacità fu poi la causa più immediata della caduta del loro regime» (“Storia della Rivoluzione russa”, Vol.II pag. 189). Lapidaria la sintesi: «L’esercito rosso del Caucaso settentrionale mancava quasi completamente di capi sperimentati».

23 giugno 1918: parte la seconda campagna del Kuban dell’A.V. con l’attacco sull’importante snodo ferroviario Torgovaja per proseguire alla riconquista di Ekaterinodar. Il piano di battaglia di Denikin lanciava le sue tre divisioni di fanteria dirigendo una da ovest, l’altra da sud e la terza da est, mentre la cavalleria era posizionata sul lato nord. La A.V. ebbe facile successo sulle locali forze dell’Armata Rossa, che ripiegarono precipitosamente verso nord, dove si scontrarono con la cavalleria bianca del generale Markov, che le sconfisse completamente.
28 giugno: dopo questa prima vittoria, Denikin, invece di puntare verso Ekaterinodar, a sud-ovest, si diresse verso nord su Velikoknyazheskaya dove la sua cavalleria bianca sconfisse duramente quella rossa di Dumenko disperdendo il presidio della città e costringendo il grosso delle forze di Dumenko a ritirarsi a nord verso Caricyn (nei successivi cambi di nome, la città è indicata come Tsaritsyn, Stalingrado, oggi Volgograd). L’inatteso cambio di direzione delle truppe di Denikin fu interpretato dal comando bolscevico come l’intenzione dell’A.V. di attaccare la ben più importante Caricyn.

L’Armata Rossa disponeva di sovrastimate valutazioni sulla reale consistenza delle forze bianche in quella operazione per cui Stalin, in virtù della recente nomina del 31 maggio come “dirigente generale degli approvvigionamenti nel sud della Russia investito di poteri straordinari”, deviò 6 reggimenti diretti a Bakù per la difesa di Caricyn.

6 luglio: Denikin, sempre usufruendo delle linee ferroviarie, invece diresse le sue forze a sud nel Kuban in direzione di Ekaterinodar ottenendo un’altra vittoria a Belaya Glina mediante un articolato attacco notturno costato però perdite consistenti.

Il comandante bolscevico Kalnin, per contrastare l’avvicinamento di Denikin su Ekaterinodar e di sconfiggerlo definitivamente, predispose la difesa di Tichoreckaja richiamando tutte le forze disponibili nell’area, in particolare quelle di Sorokin da Bataysk. Questi invece di accorrere immediatamente decise di attaccare con ostinazione le forze di cavalleria dell’A.V. che Denikin aveva lasciato a protezione delle sue retrovie. Sorokin con questa decisione perse tempo prezioso e molti soldati.

Denikin, intuiti i piani di Kalnin e la disorganizzazione della locale Armata Rossa, utilizzò anche in questa occasione la collaudata manovra avvolgente da tre direzioni e affidò alla divisione a cavallo il compito di interporsi tra le forze di Kalnin e Sorokin, impedendone il congiungimento.

13 luglio: un primo contatto tra i due fronti presso Ilynskaya durante il posizionamento delle truppe è favorevole alla A.V. grazie alla velocità di manovra.

14 luglio: le forze di Denikin per questa battaglia importante sono dispiegate su un fronte di 75 chilometri. La colonna centrale seguendo il corso della ferrovia attacca frontalmente Tichoreckaja, mentre le altre due aggirano le posizioni avversarie trincerate per prenderle ai fianchi. La cavalleria, facendo un ampio giro doveva attaccare alle spalle la città, tagliando ogni comunicazione tra Kalnin e la capitale Ekaterinodar. Le difese statiche impostate da Kalnin non ressero all’impatto e si ritirarono disordinatamente abbandonando enormi quantità di materiale. Nulla poté Sorokin, giunto a cose fatte per la sua indisciplina. Anche qui, ai prigionieri venne posta la scelta tra la fucilazione immediata o l’arruolamento nella Armata, che di volontario ora aveva ben poco, poiché la maggior parte dei suoi 20.000 uomini era composta da ex-prigionieri.

Così W.H. Chamberlin: «La relazione ufficiale sovietica valuta nei seguenti termini questa battaglia: ”La presa di Tichoreckaja ebbe importanti risultati strategici. La capacità bellica dei 30.000 uomini di truppa del Kalnin, debole fin dall’inizio, fu del tutto scossa; un importante centro ferroviario passò nelle mani dell’Esercito Volontario e gli permise di sviluppare le sue operazioni in tre direzioni; le comunicazioni dell’Esercito Volontario con l’interno furono rafforzate, i distaccamenti di truppe sovietiche sparsi nel paese furono definitivamente separati da loro”».

Il comando delle forze sovietiche fu affidato a Sorokin che infine, resosi conto della mutata situazione strategica, decise di sganciarsi dai cosacchi del Don e dai tedeschi per portare soccorso a Ekaterinodar.

Nel Quartier generale dei bianchi riemerse il disaccordo tra il generale Alekseev e Denikin, il quale intendeva proseguire rapidamente per la riconquista di Ekaterinodar, da cui ripartire per liberare tutta la Russia dai bolscevichi, mentre Alekseev intendeva spostarsi sul fronte est del Volga che, grazie anche ai contributi della Legione Ceca, era diventato il settore principale della guerra civile, cui intendeva dare un importante appoggio per annientare il fronte orientale bolscevico.

Il piano di Denikin per la conquista di Ekaterinodar prevedeva di riunire i vari gruppi della A.V. presenti nel territorio per organizzarli in un blocco centrale destinato all’assedio della città, più un gruppo per contrastare le forze di Sorokin e quelle del presidio di Armavir. In questo modo le sue forze si distribuirono lungo un fronte di ben 245 chilometri. Intendeva annientare in un colpo solo i gruppi minori dell’Armata Rossa, per poi concentrare tutte le forze per l’assalto finale su Ekaterinodar. Un piano audace e ambizioso che si basava sulla verificata incapacità degli avversari di coordinarsi per una manovra congiunta.

16 luglio: inizia l’offensiva dei bianchi che incontra una forte resistenza a Kuščevka delle forze di Sorokin, il quale, temendo di rimanere intrappolato tra i cosacchi e Denikin e sotto la pressione dei tedeschi di Rostov, decise di abbandonare la città e dirigere a sud-ovest verso Timašëvsk.

23 luglio: Denikin occupò Kuščevka e fece saltare i ponti a nord della città per impedire un arrivo delle truppe tedesche. L’offensiva di Denikin sembrava funzionare perché il fronte principale centrale giunse a circa 40 chilometri da Ekaterinodar mentre le colonne laterali conquistavano Kavkazskaya e, a fatica, Armavir mediante formazioni cosacche locali.

27 luglio: anche sul fianco meridionale il piano di Denikin procedeva bene perché Armavir fu conquistata al primo assalto. In pochi giorni i sovietici riuscirono a radunare sufficienti forze locali per riprendere la città, ma che ricadde a favore dei bianchi per l’inaspettato e improvviso aiuto dei cosacchi del colonnello Skuro, un brutale antibolscevico locale che controllava una zona a sud di Armavir. Le truppe della A.V. ormai certe della vittoria, iniziarono a concentrarsi su Ekaterinodar.

La contromossa di Sorokin, approvata da Mosca, prevedeva l’aggiramento del nemico portando le sue truppe alle spalle del centro avversario per separarlo dal fianco settentrionale. La migliore colonna dell’Armata di Taman, formata da veterani che avevano combattuto i turchi, da operai provenienti da Novorossisk e da marinai del Mar Nero le cui navi erano state affondate, fu mandata contro il fianco destro avversario. Sorokin, non scese a sud a proteggere la capitale, ma diresse velocemente su Korenovsk giungendo esattamente al centro dello schieramento della A.V., isolandolo nettamente dal quartier generale posto presso Tichoreckaja dove si trovava Denikin.

Ne seguì una battaglia durata diversi giorni in cui entrambi gli schieramenti erano consci che il suo esito avrebbe segnato il destino del Kuban. Denikin disponeva di truppe scelte, Sorokin di una superiorità numerica e del fattore sorpresa. Seguirono furiosi attacchi e contrattacchi lungo tutto il fronte con perdite in alcuni settori della A.V. del 30% degli effettivi, mentre iniziavano a scarseggiare le munizioni e aumentare la stanchezza.

29 luglio: i due comandanti locali bianchi decisero di lasciare un minimo di forze contro i bolscevichi di Ekaterinodar e provare a sfondare lo schieramento di Sorokin attaccandolo alle spalle su Korenovsk. Dopo furiosi combattimenti, anche con assalti alla baionetta, nonostante la superiorità numerica, non sufficiente a contrastare la maggiore esperienza ed efficienza della A.V., Sorokin dovette abbandonare Korenovsk e ritirarsi verso sud-ovest, dove riorganizzò le sue truppe per riprendere la città.

7 agosto: Sorokin ordinò la sospensione di ogni attacco e di ritirarsi a sud oltre il fiume Kuban lasciando le sue varie colonne a resistere da sole alla A.V. Ogni combattimento cessò il 14 agosto concludendo la battaglia di Korenovsk.

15 agosto: le truppe di Denikin entravano a Ekaterinodar concludendo la prima parte della campagna del Kuban occidentale ormai saldamente sotto il controllo dei controrivoluzionari.

La vittoria militare di Denikin acuì le divergenze tra la A.V. e i cosacchi del Don, che ora reclamavano la completa autonomia del territorio appena conquistato, e specialmente la separazione dell’esercito nazionale cosacco da quello della A.V.

Denikin non intendeva affatto dividere le sue già ridotte forze in due eserciti indipendenti col risultato di indebolirli entrambi, che comunque necessitavano di reciproco sostegno e soprattutto di un comando unico e saldo. Di più la separazione militare avrebbe portato prima o poi ad uno Stato cosacco indipendente, situazione contraria alla sua visione di una Russia unita.

Denikin, per mantenere l’appoggio dei cosacchi giunse al compromesso di organizzare un’armata costituita da unità autoctone comandate da ufficiali cosacchi all’interno delle sue forze armate. Sorsero subito seri problemi di organizzazione e gestione amministrativa dei territori poiché mancava un adeguato personale civile; inizialmente sopperì con personale militare, per niente preparato, col risultato di sottrarre effettivi alle forze combattenti. Non sapendo fare di meglio reintrodussero le leggi in vigore prima della Rivoluzione d’Ottobre, generando confusione e anarchia, con conseguenze sulla popolazione.

In questa situazione l’Armata Rossa del Caucaso, ormai considerata la più critica delle forze bolsceviche, tanto da essere spesso menzionata da Trotzki come un “terribile esempio dei malefici effetti della mancanza di disciplina”, doveva riorganizzarsi per tentare di ribaltare la sfavorevole situazione, approfittando anche del malcontento velocemente diffuso tra gli strati più poveri della popolazione.

Dopo questi significativi insuccessi le maggiori formazioni dell’Armata rossa del Caucaso settentrionale erano ancora consistenti, anche se distribuite in diversi gruppi indipendenti: i 15-20.000 soldati sotto Sorokin si stavano ritirando verso Armavir, dove la formazione locale contava su 6-7.000 armati. Nella vicina Stavropol c’erano 9-10.000 combattenti, infine l’armata di Taman che si trovava a sud di Ekaterinodar.


Seconda campagna del Kuban: autunno 1918

I nuovi piani di Denikin dopo la conquista di Ekaterinodar, avendo ormai il controllo del Kuban occidentale, prevedevano per la sua Armata dei Volontari di oltrepassare la linea del fronte del fiume Kuban e proseguire verso ovest in direzione di Stavropol, importante centro al limite della Steppa dei Calmucchi.

A consolidare le posizioni dei controrivoluzionari nel Caucaso arrivava il sostegno economico delle associazioni segrete antibolsceviche, che già avevano finanziato in modo sostanziale la riorganizzazione della A.V.

Denikin era convinto di poter gestire l’unità del suo schieramento dalle spinte autonomiste dei cosacchi e contava molto sull’evidente crisi dell’Armata Rossa del Caucaso, più volte sconfitta. Questa, pur superiore di numero, era frammentata in diverse unità scoordinate e indisciplinate. Erano inoltre nell’impossibilità di ricevere aiuti dal centro essendo state interrotte tutte le comunicazioni con il nord. Ne conseguì una crescente demoralizzazione delle truppe.

Peggiorava la situazione dell’Armata Rossa del Caucaso la pessima considerazione di cui godeva al centro moscovita, dovuta anche alle sue pesanti sconfitte, nonostante le esaltate assicurazioni di vittoria del suo comandante Sorokin. A Mosca il fronte del Kuban fu considerato di secondaria importanza e si ebbe maggior attenzione per il nuovo fronte di Caricyn contro i cosacchi del Don e per il controllo dei territori sul Volga contro l’Armata cecoslovacca.

Tuttavia alla fine dell’estate l’Armata Rossa del Kuban disponeva ancora di circa 75.000 combattenti, anche se distribuiti in diversi gruppi di armate indipendenti, più gruppi minori nei presidi. Gli uomini al comando di Sorokin, stimati in circa 20.000, si stavano ritirando verso Armavir nel Kuban orientale; l’Armata di Taman, la forza più compatta ed affidabile, che disponeva di 25.000 effettivi, comandata dal neo eletto Matveev, un marinaio della flotta del Mar Nero, si trovava a sud di Ekaterinodar; una forza di circa 7.000 combattenti era stanziata a sud di Armavir; infine altri circa 10.000 effettivi erano concentrati intorno a Stavropol.
Ma soltanto l’Armata di Taman, la più esperta e combattiva nella regione, era considerata in grado di ricompattare le forze bolsceviche per riprendere l’iniziativa e risollevare il morale di tutta l’Armata.

Il piano elaborato dal comandante Matveev prevedeva di congiungere la sua Armata alla depressa Armata di Sorokin con una lunga marcia verso sud lungo la costa del Mar Nero nel tentativo di raggiungere Armavir. A questi combattenti, con ridotte munizioni e viveri, si unirono nella marcia circa 25.000 sfollati, per lo più senza sostentamento né adeguate calzature, che temevano le feroci rappresaglie dei bianchi che dilagavano nella regione.

Denikin, per contrastare il congiungimento delle due armate rosse, inviò alcuni reggimenti ad inseguire Matveev e la divisione di cavalleria di Pokrovskij a Belorečensk, nel distretto di Maykop, allo scopo di tenere separate le due armate nemiche. Durante questa manovra Pokrovskij e i suoi 3.000 cosacchi si distinsero per il massacro di 2.000 operai del distretto, eliminati per il solo fatto di essere proletari e, potenzialmente, comunisti.

Ma i cosacchi di Pokrovskij si trovarono schiacciati in forte minoranza numerica tra l’Armata di Taman e quella di Sorokin.

11 settembre 1918: nella notte la fanteria di Matveev sferrò un attacco frontale alla postazione di Pokrovskij mentre la cavalleria dell’Armata del Taman con un ampio girò la attaccò alle spalle gettando lo scompiglio nelle file della Divisione bianca. Nei giorni seguenti, ricevuti rinforzi da Denikin, i cosacchi di Pokrovskij tentarono un contrattacco ma furono respinti con notevoli perdite. Si ritirano a nord lasciando libero il passaggio all’Armata di Taman che, superata Maykop, poté proseguire in sicurezza verso Armavir.

Per la mancanza di comunicazioni Sorokin non sapeva dell’arrivo dell’Armata di Taman per cui le avanguardie di Matveev furono scambiate per nemici e prese a fucilate. Malgrado i patimenti affrontati, le forti perdite in combattimento, per fame e malattie, le due armate si unirono risollevando il morale dell’intera forza sovietica, ora pronta ad un’offensiva per riconquistare il Kuban.

20 settembre: i cosacchi bianchi del Kuban rientrati a Majkop scatenarono una feroce vendetta uccidendo circa 4.000 civili ritenuti comunisti.

3 ottobre: le unità di Sorokin e di Matveev, vennero accorpate per formare la 11ª Armata, posta sotto il comando di Sorokin. Gli fu affiancato il neo eletto Comitato Militare Rivoluzionario al Fronte (RMSR) previsto dalla riorganizzazione dell’Esercito Rosso elaborata da Trotzki nel settembre 1918. Ne facevano parte militari dell’esercito e politici eletti dai soldati dell’unità militare in azione. Il Comitato aveva autonomia decisionale in tutte le questioni di carattere operativo-strategico.

Trotzki così lo descrive: «L’istituzione dei commissari ebbe un ruolo capitale nella creazione dell’apparato del comando militare. Essi erano composti di operai rivoluzionari, di comunisti e, al principio, anche di socialisti-rivoluzionari di sinistra (fino al luglio 1918). Il comando, dunque, era in qualche modo sdoppiato. Il comandante conservava la semplice direzione militare; il lavoro di educazione politica era concentrato nelle mani dei commissari. Ma il commissario era soprattutto il rappresentante diretto del potere sovietico nell’armata. Senza intralciare il lavoro propriamente militare del comandante e senza diminuire in nessun caso l’autorità di quest’ultimo, il commissario doveva creare condizioni tali che questa autorità non potesse mai agire contro gli interessi della rivoluzione. La rivoluzione operaia sacrificò a questo compito i migliori dei suoi figli. Centinaia e migliaia di essi morirono al loro posto di commissari. Molti altri divennero, in seguito, capi rivoluzionari» (“Scritti militari”).
Il primo obiettivo militare fu riorganizzare il fronte costituendo una solida base tra i fiumi Kuban e Laba da cui partire per la riconquista di Stravropol, necessaria base operativa per le future operazioni.

Denikin prevedeva un accerchiamento delle forze bolsceviche, trincerate a ferro di cavallo tra i fiumi Laba e Kuban, con un attacco avvolgente da tutti i lati con lo scopo di annientare la 1ª Armata: da ovest la cavalleria del Kuban di Pokrovskij; da nord-ovest la 1ª Divisione di cavalleria di Vrangel, dal nord di Armavir sarebbe scesa la 3ª Divisione di Drozdovsky, da nord-est la 3ª Divisione di Borovsky; da sud-est il colonnello Škuro e i suoi “lupi”, una formazione di cosacchi controrivoluzionari esperta in incursioni nelle linee nemiche e sabotaggi e che godeva dell’appoggio della popolazione in quelle sperdute regioni caucasiche. La situazione non era favorevole alla rivoluzione neppure nelle adiacenti regioni del Caucaso meridionale, perché i cosacchi del Terek, stanziati lungo l’omonimo fiume che dal Caucaso tra Cecenia e Daghestan sfocia nel Mar Caspio, si erano sollevati contro il potere sovietico.

Ma il piano di Denikin era troppo ambizioso per le limitate forze della A.V. e Sorokin avrebbe potuto rompere l’accerchiamento concentrando le sue forze, numericamente superiori, contro una determinata posizione nemica per poter raggiungere una città e garantirsi le scorte necessarie.

Per tre settimane furono inutili gli attacchi dei bianchi nel tentativo di attraversare il fiume Laba da ovest e rompere le ben trincerate difese rosse, nonostante Denikin chiedesse “un attacco immediato a tutti i costi”. Sorokin, confortato dalla positiva risposta delle truppe, decise quindi di passare al contrattacco con il quale, nonostante forti perdite, riuscì a rompere la morsa cacciando i bianchi da Nevinnomyssk, più a sud.

Purtroppo ai vertici del comando della 11ª Armata, i mai sopiti contrasti sulla conduzione delle operazioni tra Sorokin e Matveev scoppiarono quando da Mosca giunsero precise direttive di muoversi immediatamente verso Caricyn per portare soccorso alla 10ª Armata. Quasi opposte furono le soluzioni proposte: Matveev suggerì un trasferimento diretto verso nord utilizzando quanto più possibile le linee ferroviarie tra Armavir, Tikhorech, Caricyn; Sorokin invece intendeva attaccare ad est per assicurarsi il controllo di Stavropol, per poi scendere a sud per impostare tutte le difese di Grozny e dei giacimenti petroliferi contro i cosacchi del Terek e successivamente puntare a nord verso Caricyn.

Sorokin infine, come comandante in capo, fece adottare il suo piano nonostante continuassero accesi i dissidi con Martvev, il quale nei giorni seguenti si rifiutò di eseguire gli ordini. Per questa grave decisione il Comitato militare rivoluzionario al fronte lo fece arrestare e immediatamente fucilare.

7 ottobre: Sorokin ordinò di iniziare l’operazione per la conquista di Stavropol. Si dispose a cuneo con il vertice nord su Armavir, verso sud il fianco ovest si sviluppava lungo il fiume Urui, mentre il lato est si allungava lungo il Kuban. Secondo l’articolata manovra prevista da Sorokin, i 25.000 uomini della formazione di Taman, furono trasportati in ferrovia fino a Nevinnomyssk da cui su quattro colonne avrebbero dovuto avanzare verso Stavropol. La difesa della città era affidata alla 3ª Divisione di Drozdovsky a cui si aggiunsero i rinforzi di Borovskij prontamente richiamati da Denikin.

Come già Matveev nemmeno Žoloba, il comandante della Divisione di Ferro, riteneva che la decisione di Sorokin fosse la corretta risposta alle disposizioni di Mosca, tanto è che disattese gli ordini e si diresse per il percorso più rapido a difesa di Caricyn.

21 ottobre: quest’altra disobbedienza spinse Sorokin ad imporsi come autorità indipendente al punto che si rivoltò contro lo stesso Comitato militare di cui fece arrestare e fucilare alcuni membri dopo averli falsamente accusati di tradimento a favore dei bianchi.

In questa situazione il Quartier generale di Sorokin cadde nel caos più completo al punto di non essere più in grado di emettere ordini precisi, senza conoscere l’esatta ubicazione, consistenza delle sue unità e l’esito delle battaglie.

26 ottobre: Denikin approfittò dell’immobilismo della 11ª Armata rossa e dell’indebolimento del fianco occidentale dovuto agli spostamenti delle truppe di Taman: lanciò un attacco delle sue divisioni che erano ad ovest e a sud del fiume Urui. La 1ª divisione di Kasanovič attaccò dall’estrema sinistra, oltrepassò il fiume e occupò Armavir.

Per paura delle sicure rappresaglie delle forze indipendentiste che intendevano costituire un governo cosacco nel Kuban, crebbe sensibilmente il numero dei volontari che intendevano arruolarsi nella 11ª Armata. Da 75.000 unità di fine settembre nel mese successivo giunsero a 124.427. Non fu un gran guadagno perché l’aumento quantitativo non corrispose ad un aumento qualitativo, anzi per l’impossibilità di ricevere adeguati rifornimenti da nord ogni combattente poteva disporre di sole 20 cartucce. Disastrosa fu l’esperienza di auto-prodursi munizioni artigianalmente.

28 ottobre: dopo un intenso fuoco di copertura dell’artiglieria rossa partì l’attacco della fanteria di Taman alle trincee nella periferia meridionale, che furono travolte costringendo la Divisione di Drozdovssk a una rapida ritirata di trenta chilometri verso nord. I sopraggiunti rinforzi di Borovsky permisero a Denikin di fermare l’avanzata rossa e di stabilizzare il fronte. Ma la pesante sconfitta a Stravropol cancellò il senso di invincibilità che fin dall’inizio della guerra civile aveva goduto l’Armata dei Volontari.

Il valore e la disciplina della ex Armata di Taman, nonostante la deprecata condanna a morte del suo comandante, furono riconosciuti ricevendo l’Ordine della Bandiera Rossa.

Nonostante la vittoria il comando politico e militare della 11ª Armata cadde nel caos. La vittoriosa ex Armata di Taman rimase immobile a Stavropol senza ordini di attacco per sfruttare l’evidente momentanea difficoltà della A.V.

Denikin non perse tempo per riprendere Stavropol; fece avanzare da ovest la cavalleria del barone Vrangel, da sud-ovest la Divisione a cavallo di Pokrovskij, da sud Škuro e da nord le divisioni bianche di Drozdovssk e Borovsky che stavano recuperando il terreno perso dopo la recente ritirata.

Per la 11ª Armata la difesa a oltranza di Stavropol, loro ultimo centro strategico, fu una questione di sopravvivenza perché, tagliate le linee di rifornimento dal nord, restava soltanto la lontana Astrakhan sul tratto finale del Volga, oltre la steppa dei Calmucchi.

La situazione divenne favorevole a Denikin per l’arrivo di nuove armi e munizioni dagli alleati.

Le truppe rosse dopo mesi di battaglie pativano la mancanza di rifornimenti; inoltre senza uno stabile comando non furono in grado di marciare subito alla difesa di Caricyn.

Da un punto di vista strategico la forzata sosta della 11ª Armata nel Kuban, sempre numericamente forte, impedì a Denikin di spostare le sue più esperte e organizzate truppe della A.V. in aiuto di Krasnov, in quel momento al massimo sforzo nell’offensiva su Caricyn. Denikin per risolvere definitivamente la questione organizzò un’offensiva generale a partire dal 1° novembre per riconquistare Stavropol.

La già difficile situazione dei vertici della 11ª Armata si aggravò quando i membri sopravvissuti del Comitato militare dichiararono Sorokin traditore, il quale cercò protezione tra la truppa di Stavropol, che riteneva essergli fedele.

2 novembre: Sorokin, caduto nelle mani degli ex combattenti di Matveev, fu subito fucilato.

I ripetuti attacchi da nord della cavalleria di Vrangel dei primi giorni furono respinti con consistenti perdite da entrambi i fronti, nonostante i bianchi di Borovsky avessero raggiunto la periferia della città, dove furono fermati dai contrattacchi rossi; l’offensiva in quel settore perse slancio.

5 novembre: da sud l’avanzata delle formazioni di Šhkuro e di Pokrovskij su Nevinnomyssk fu agevole e conquistando la città, le truppe della 11ª Armata furono accerchiate.

11 novembre: Fedko, il nuovo comandante delle truppe del Caucaso del Nord, organizzò una serie di contrattacchi durati tre giorni contro le truppe di Borovsky e di Drozdovssk che, sfinite da combattimenti ininterrotti, si ritirarono di venti chilometri aprendo una breccia nell’accerchiamento della città. Durante questi combattimenti il generale Drozdovskij fu gravemente ferito e morì nei giorni seguenti. Le truppe rosse cercarono di consolidare quella via di fuga verso nord ma furono duramente battute dal nuovo attacco della cavalleria di Vrangel.

15 novembre: Vrangel entrò in Stavropol, prontamente abbandonata dalla 11ª Armata che, nonostante le forti perdite subite, controllava ancora l’area a nord-est della città.

Per annientare definitivamente le truppe bolsceviche Denikin lanciò le sue cavallerie ai fianchi dell’11ª Armata mentre la fanteria attaccava frontalmente. Vana fu quella manovra perché le truppe rosse contrattaccarono inaspettatamente verso sud-est, al punto di congiunzione tra la cavalleria di Šhkuro e la fanteria di Borovsky, rompendo il loro accerchiamento.

20 novembre: La 11ª Armata, dimezzata nei suoi effettivi, iniziò la sua lunga marcia verso est attraverso le desolate steppe che la separavano da Astrakhan. La cavalleria bianca mandata al suo inseguimento dovette desistere perché rimase impantanata nel fango dovuto alle piogge autunnali.

Due furono le cause principali della sconfitta di quella valorosa armata: il completo isolamento in cui si venne a trovare, con il conseguente mancato rifornimento di armi e materiale, e il caos in cui cadde l’intero comando per le insensate scelte di Sorokin di indebolire il fianco sinistro per la presa di Stavropol e i forti dissidi con i suoi comandanti e con il Comitato militare rivoluzionario.

Anche le perdite della A.V. furono calcolate in 30.000 tra morti e feriti, numero rilevante per le dimensioni di quella armata. Per di più ad ottobre giunse la morte per malattia del generale Alekseev, l’organizzatore della A.V., cui si aggiunse quella di Kornilov, Markov e Drozdovsky.

La 11ª Armata di Fedko, riuscita a sfuggire all’inseguimento della cavalleria bianca, raggiunse le città del basso Volga dove iniziò a riorganizzarsi, dovendo però superare prima gli attacchi della febbre spagnola e del tifo.

Da un punto di vista delle sorti della rivoluzione questo fronte si riduce di importanza mentre diventa principale quello per la difesa di Caricyn a cui la 11ª Armata non riuscì a portare alcun sostegno.


Fine della campagna del Kuban - gennaio‑marzo 1919

Denikin, destinò il grosso della A.V., stanziato intorno e a difesa di Stavropol, con 25.000 uomini e 75 cannoni, al controllo del Nord del Caucaso per assicurarsi una solida base alle sue spalle. Dal dicembre 1918 diverse unità bianche furono inviate sul Don per sostenere i reparti in crisi dei cosacchi di Krasnov contro l’Armata rossa.

A contrastare le forze controrivoluzionarie le forze rosse in tutto il Caucaso settentrionale contavano il ragguardevole numero di 150.000 uomini, ma di cui soltanto 60.000 erano disponibili al combattimento. Di più, lontani e con scarse comunicazioni dal centro politico della rivoluzione, non potevano pienamente disporre dell’energia rivoluzionaria e organizzativa che giorno dopo giorno animava l’Armata Rossa sugli altri fronti. Erano affidate al comando del bolscevico ed esperto militare Svečnikov e al Consiglio di difesa del Caucaso del nord presieduto da Ordžonikidze, un rivoluzionario di vecchia data ritornato dall’esilio in Siberia dopo l’Ottobre 1917.

La principale unità sovietica era la 11ª Armata, ricostituita dopo l’abbandono di Stavropol con quanto restava dell’esercito di Sorokin, dell’Armata di Taman e rafforzata con volontari provenienti da Astrakhan e dal Terek; contava 88.000 uomini e 75 cannoni. Ora posta sotto il comando Kruze era schierata ad est di Stavropol su una linea di 250 chilometri. Con questa disposizione erano impossibili rapide comunicazioni con Astrakhan e il fronte di Caricyn, separate da 400 chilometri di steppe desertiche. Il fianco meridionale della 11ª Armata era protetto dalla 12ª Armata, stanziata ai piedi della catena del Caucaso, di circa 20.000 uomini, ma la quale non era in grado di intraprendere alcuna azione offensiva perché pesantemente colpita dal tifo e dalla mancanza di rifornimenti.
Allo scopo di impedire ulteriori trasferimenti di unità della A.V. a sostegno degli assalti dei cosacchi del Don su Caricyn, dove le truppe bolsceviche erano in difficoltà, e per allentare la pressione su quella parte di fronte, il comando dell’Armata Rossa del Caspio-Caucaso dispose una grande e complessa offensiva contro tutto il fronte nemico per recuperare le posizioni perdute nello scorso novembre. Per sopperire alle evidenti difficoltà logistiche e di comunicazioni si faceva affidamento sulla superiorità numerica, nonostante questo fattore non avesse garantito il successo in precedenti simili situazioni contro la più esperta A.V.

L’attacco principale fu portato dalla 11ª Armata al centro dello schieramento della A.V. allo scopo di tagliare in due il fronte nemico per poi aggirarne l’ala settentrionale alle spalle e impedirgli ogni collegamento con Ekaterinodar e il Don. Altre unità avrebbero dovuto attaccare e aggirare lo schieramento meridionale con una manovra simile; altre ancora erano destinate alla riserva e alle retrovie. Gli scontri furono violenti e dispendiosi in termini di uomini e munizioni da ambo le parti costringendo la A.V. ad arretrare fin sotto Stavropol. La 3ª divisione Taman dovette arrestare l’avanzata per riorganizzare le sue forze particolarmente provate. Di più, la mancanza di collegamenti e la confusione creatasi lasciarono un pericoloso varco nella loro linea creando così l’opportunità di un contrattacco nemico affidato alla cavalleria di Vrangel che disponeva di 6.200 cavalieri e 20 cannoni.

3 gennaio: il piano, illustrato la sera prima agli osservatori militari anglo-francesi, prevedeva di lasciare un minimo della cavalleria di Vrangel davanti alla 3ª divisione di Taman, mentre i restanti reggimenti avrebbero aggirato le postazioni nemiche attraverso il varco lasciato aperto. L’attacco a sorpresa fu devastante, costato anche mille prigionieri; nonostante l’arrivo di riserve e numerosi atti di eroismo costrinse le forze sovietiche a ritirarsi disgregando lo schieramento iniziale e lasciando isolati altri gruppi d’attacco. Vrangel sfruttò immediatamente il vantaggio attaccando alle spalle altre divisioni sovietiche che, nonostante decisi contrattacchi, non furono in grado di reggere gli urti dei bianchi ed iniziarono a ritirarsi attraverso le steppe. Anche nel settore meridionale la A.V. fermò l’Armata Rossa recuperando il terreno perduto. La linea del fronte tornò ad essere quella dell’inizio del mese.

In seguito al fallimento dell’offensiva fu nominato nuovo comandante della 11ª Armata M.K. Lewandowski di soli 29 anni, già distintosi col grado di capitano nella difesa della Rivoluzione d’Ottobre.

Si pose subito la questione sul da farsi perché, circondati su tre lati dal nemico con alle spalle il Mar Caspio, era impensabile in inverno raggiungere Astrakhan, per cui fu deciso di fortificarsi in posizioni più sicure, tenerle e riorganizzarsi per riprendere poi l’offensiva. Era soprattutto necessario recuperare il morale poiché tra morti, feriti e prigionieri la 11ª Armata aveva perso 40.000 combattenti.

Un gruppo di 10.000 combattenti fu destinato a nord presso Svjatoj Krest (oggi Budennovsk), un secondo di circa 25.000 uomini fu inviato a trincerarsi su una linea tra Pjatigorsk e Kislovodsk.

18 gennaio: un deciso attacco dei bianchi su Svjatoj Krest obbligò i rossi ad abbandonare il villaggio e la maggior parte delle scorte. Lewandowski ordinò ai superstiti la ritirata oltre il fiume Manyč lontano dalla zona delle operazioni.

Vrangel organizzò un attacco su più direttrici contro le truppe sovietiche che si stavano trincerando sulla linea tra Pjatigorsk e Kislovodsk le quali, nonostante i contrattacchi della loro cavalleria, non poterono far altro che ritirarsi verso il Caspio su percorsi lunghi e pericolosi.

Alla fine di gennaio nel Caucaso non esisteva più un fronte sovietico unico ma solo spezzoni isolati di quella che era stata la valorosa 11ª Armata.

Al suo Quartier generale, sito a Georgievsk, si decise infine di ripiegare sulle montagne del Caucaso verso le sorgenti del Terek contando sull’appoggio dei comunisti locali. Questa ritirata fu ostacolata dalla pressione della cavalleria di Vrangel, che riuscì a spezzare la rimanente parte dell’Armata in diversi gruppi; i più consistenti di essi diressero su Vladikavkaz e Mozdok.

Vrangel deciso a dare il colpo finale ai combattenti rivoluzionari in ritirata lanciò contro di questi il 3ª Corpo d’Armata di Liakov su tre direttrici: una verso Grozny e Vladikavkaz, una verso Mozdok e una terza verso il Mar Caspio.

Dal 27 gennaio al 6 febbraio i diversi distaccamenti bolscevichi affrontarono numerose battaglie impari, a corto di cibo, vestiti, munizioni, dovendo resistere anche all’epidemia di tifo che dilagava tra i soldati privi di cure. I gruppi minori furono sconfitti e catturati; ad alcuni comandanti cosacchi fu proposto di passare con la controrivoluzione e al loro rifiuto furono impiccati. Di norma, tutti i commissari politici bolscevichi fatti prigionieri venivano immediatamente fucilati.

6 febbraio 1919: le truppe di Liakov conquistavano Kizljar e raggiungevano il Mar Caspio con 31.000 prigionieri, 8 treni blindati e 200 cannoni. I sopravvissuti della 11ª Armata, ormai senza alcuna possibilità di sostenere scontri armati, intrapresero il cammino verso Astrakhan in terribili condizioni per il freddo e la neve.

L’epidemia di tifo peggiorò la situazione colpendo anche il comandante in capo Lewandowski.

Degli 80.000 componenti iniziali dell’Armata, soltanto 13.000 raggiunsero Astrakhan. Un intero gruppo di armate bolsceviche cessò di esistere dopo questa che fu la sconfitta più pesante di tutta la guerra civile.

Le Armate del Caucaso furono riorganizzate e dislocate: la 13ª fu inviata in direzione della Cecenia, dove si era rifugiata la direzione bolscevica della ex 11ª presieduta da Ordžonikidze. Ad eccezione della Cecenia e il Daghestan tutto il Caucaso era sotto il controllo dei controrivoluzionari.

Questa vittoria, con le retrovie ben assicurate, permise ai controrivoluzionari di portare soccorso ai cosacchi del Don in difficoltà a Caricyn.

(continua)






La teoria marxista delle crisi

1. Le Teorie sul Plusvalore
(continua da numero scorso)
Capitolo esposto alla riunione generale del maggio 2023

1.3 David Ricardo


1.3.11. Presupposti erronei sulla concezione della caduta del saggio del profitto

Uno dei punti più importanti nel sistema ricardiano è la scoperta che il saggio di profitto ha la tendenza a cadere.

Ma da dove? Smith dice: in seguito alla crescente accumulazione e alla crescente concorrenza dei capitali che l’accompagna. Ricardo replica: la concorrenza può perequare i profitti nelle differenti branche produttive; essa però non può abbassare il saggio generale del profitto. Ciò sarebbe possibile solo se in seguito all’accumulazione del capitale, i capitali si accrescessero tanto più rapidamente della popolazione, che la domanda di lavoro fosse costantemente maggiore della sua offerta e che perciò il salario aumentasse costantemente dal punto di vista nominale, dal punto di vista reale e secondo il valore d’uso, ma questo non accade.

Poiché per lui il saggio del profitto e il saggio del plusvalore sono identici, una caduta permanente del saggio del profitto o la tendenza del saggio del profitto a cadere può essere spiegata solo per le medesime ragioni che provocano una caduta permanente o una tendenza alla caduta nel saggio del plusvalore.

Ma quali sono queste condizioni? Presupposti costanti la giornata lavorativa e i salari reali, la parte della giornata che l’operaio lavora gratis per il capitalista può scemare solo se la parte che lavora per sé cresce. E ciò accade quando aumenta il valore dei mezzi di sussistenza. Poiché il valore delle merci manifatturate, in seguito allo sviluppo delle forze produttive del lavoro, diminuisce continuamente, la caduta del saggio del plusvalore andrebbe spiegata solo col fatto che la componente principale dei mezzi di sussistenza, gli alimenti, aumenterebbe continuamente di valore. Questo perché l’agricoltura diventerebbe continuamente più sterile. La continua caduta del profitto sarebbe perciò congiunta all’aumento continuo nel saggio della rendita fondiaria. Ma questa concezione della rendita è errata. Con ciò cade l’unico fondamento della spiegazione di Ricardo per la caduta del saggio di profitto.

Ma, in secondo luogo, essa poggia sull’erroneo presupposto che il saggio del plusvalore e il saggio del profitto siano identici. Il saggio di profitto cade, benché il saggio del plusvalore resti identico o salga, perché il capitale variabile diminuisce, con lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, in rapporto al capitale costante. Quindi esso cade non perché il lavoro diventi più improduttivo, ma perché diventa più produttivo. Non perché l’operaio viene sfruttato meno, ma perché viene sfruttato di più.

Questo a meno che il tempo di pluslavoro assoluto cresca o che il valore relativo del lavoro diminuisca e perciò aumenti il tempo di pluslavoro relativo.

La teoria di Ricardo poggia su due presupposti errati: 1) che l’esistenza e la crescita della rendita fondiaria siano condizionate dalla fertilità decrescente dell’agricoltura; 2) che il saggio del profitto sia uguale al saggio del plusvalore relativo e possa salire o cadere solo in proporzione inversa a come diminuisce o aumenta il salario.


1.3.12. Trasformazione del plusvalore capitalizzato in capitale costante e variabile

In quale proporzione il plusprodotto si divida fra capitale variabile e costante dipende dalla composizione media del capitale. Quanto più sviluppata sarà la produzione capitalistica tanto più piccola, relativamente, sarà la parte spesa direttamente in salario. L’idea che il plusprodotto, essendo il prodotto del nuovo lavoro aggiunto, sia interamente trasformato in capitale variabile, corrisponde all’idea errata che, essendo il prodotto materializzazione del lavoro, il suo valore si risolva semplicemente in reddito (salario, profitto e rendita), e questa è l’idea errata di Smith e di Ricardo.

Una grande parte del capitale costante, cioè il capitale fisso, può constare di quello che entra nel processo di produzione per la fabbricazione di mezzi di sussistenza, materie prime, ecc., oppure serve a rendere più breve il processo di circolazione, come ferrovie, ecc., o serve alla conservazione e all’immagazzinaggio di merci, oppure aumenta, ma solo dopo un lungo periodo di riproduzione, la fertilità, come lavori di sistemazione del terreno, ecc. A seconda che una parte maggiore o minore del plusprodotto venga trasformata in una di queste specie di capitale fisso, le conseguenze immediate e future per la riproduzione di mezzi di sussistenza, ecc. saranno molto diverse.


1.3.13. Distruzione di capitale attraverso le crisi

L’intero processo dell’accumulazione si risolve in sovrapproduzione, base immanente ai fenomeni che si mostrano nelle crisi. La causa di questa sovrapproduzione è lo stesso capitale, la scala esistente delle condizioni di produzione e lo smisurato anelito all’arricchimento e alla capitalizzazione dei capitalisti. Non il consumo, che è limitato a priori perché la maggior parte della popolazione, la popolazione operaia, può ampliare solo entro limiti molto ristretti il suo consumo, e, nella stessa misura in cui il capitalismo si sviluppa, la domanda di lavoro diminuisce relativamente, benché essa aumenti assolutamente. Le perequazioni sono tutte casuali e la proporzione nell’impiego dei capitali nelle sfere particolari si perequa sì attraverso un processo continuo, ma la continuità di questo processo stesso presuppone altrettanto la sproporzione continua che esso continuamente, spesso violentemente, ha da perequare.

Dobbiamo qui solo considerare le forme che il capitale attraversa nei suoi differenti svolgimenti progressivi. Non sono quindi sviluppati i rapporti reali entro i quali avanza il processo di produzione reale. Si suppone sempre che la merce venga venduta al suo valore. Non si considera né la concorrenza dei capitali, né il credito, né la costituzione reale della società, che non consta semplicemente delle classi degli operai e dei capitalisti industriali, in cui quindi consumatori e produttori non si identificano e la prima categoria di consumatori (i cui redditi sono in parte secondari, derivati dal profitto e dal salario), è molto più ampia della seconda e perciò il modo in cui essa spende il suo reddito e il volume di quest’ultimo provocano modificazioni nel bilancio economico e specialmente nel processo di circolazione e di riproduzione del capitale.

L’idea (appartenente a James Mill) di Say e adottata da Ricardo, che non sia possibile alcuna sovrapproduzione, o almeno nessuna saturazione generale del mercato, poggia sulla tesi che i prodotti vengono scambiati contro prodotti o, come aveva detto Mill, sull’«equilibrio metafisico fra venditori e compratori», il che fu ulteriormente sviluppato nella tesi che la domanda fosse determinata solo dalla produzione, o anche dall’identità fra domanda e offerta. Lo stesso principio si trova anche nella forma cara a Ricardo, che ogni ammontare di capitale possa essere impiegato produttivamente in ogni paese. «Say (...) ha (...) mostrato (...) che non c’è quantità di capitale che non possa essere impiegata in un paese, perché la domanda è limitata soltanto dalla produzione. Nessun uomo produce se non con l’intenzione di consumare o di vendere, ed egli non vende mai se non con l’intenzione di acquistare una qualche altra merce che possa essere immediatamente utile per lui, o possa contribuire a una produzione futura. Producendo egli diventa dunque (...) o il consumatore dei suoi propri beni o l’acquirente e consumatore delle merci di una qualche altra persona. Non si può supporre che, per un lungo periodo di tempo, egli non sia edotto circa le merci che egli può produrre nel modo più vantaggioso per conseguire lo scopo da lui perseguito (...) e perciò non è verosimile che egli continuamente produca una merce per la quale non esiste domanda alcuna» (Principles on Political Economy).

Ma contemporaneamente Ricardo trova che Say gli gioca qui un tiro. «È la seguente affermazione (...) compatibile con la tesi (...) “Quanto più abbondanti sono i capitali disponibili in rapporto alla richiesta di loro impiego, tanto più cadrà il saggio d’interesse sui prestiti di capitale”. Se un capitale di grandezza qualsiasi può essere impiegato da un paese, come si può poi affermare che esso esiste in abbondanza, in rapporto alla richiesta di suo impiego?». (Ivi)

Nella riproduzione, al pari che nell’accumulazione di capitale, non si tratta solo di ricostituire la stessa massa di valori d’uso di cui consta il capitale, alla loro vecchia scala o su una allargata (con l’accumulazione), ma di ricostituire il valore del capitale anticipato con il saggio di profitto consueto. Se per una qualche circostanza i prezzi di mercato delle merci (di tutte o della maggior parte) sono caduti molto al di sotto dei loro prezzi di costo, la riproduzione del capitale viene contratta il più possibile. Ma ancor più ristagna l’accumulazione. Il plusvalore ammassato nella forma di denaro sarebbe trasformato in capitale solo con perdita. Esso perciò giace infruttifero come tesoro nelle banche oppure anche nella forma di moneta di credito.

Lo stesso arresto potrebbe avvenire per cause opposte, se mancassero i presupposti reali della riproduzione (come con un rincaro di cereali oppure perché non è stato prodotto in natura abbastanza capitale costante). Subentra un arresto nella riproduzione. Compera e vendita si arrestano l’una di fronte all’altra e il capitale non impiegato appare nella forma di denaro che giace improduttivo.

Lo stesso fenomeno (e ciò per lo più precede la crisi) può subentrare se la produzione del sovracapitale procede molto rapidamente e se la sua riconversione in capitale produttivo fa aumentare tanto la domanda di tutti gli elementi del medesimo che la produzione reale non può tenere il passo, perciò i prezzi di tutte le merci che entrano nella formazione del capitale aumentano. In questo caso il tasso d’interesse scende molto, per quanto possa salire il profitto, e questo abbassamento del tasso d’interesse porta poi alle più ardite imprese speculative. L’arresto della riproduzione porta alla diminuzione del capitale variabile, alla diminuzione del salario e alla diminuzione della massa di lavoro impiegata. Questa reagisce di nuovo sui prezzi e provoca una nuova diminuzione.

Nella produzione capitalistica non si tratta direttamente del valore d’uso, ma del valore di scambio e specialmente dell’aumento del plusvalore. Questo è il motivo motore della produzione capitalistica ed è una bella concezione quella che, per abolire le contraddizioni della produzione capitalistica, fa astrazione della sua base e la rende una produzione indirizzata al consumo immediato dei produttori.

Il processo di circolazione del capitale abbraccia tempi alquanto lunghi prima che abbia luogo il ritorno del capitale a sé. I prezzi di mercato si perequano ai prezzi di costo del momento. Poiché durante il tempo di circolazione accadono grandi cambiamenti nel mercato e nella produttività del lavoro, quindi anche nel valore reale delle merci, dal punto di partenza del capitale anticipato fino al suo ritorno possono aver luogo grandi catastrofi e ammassarsi e svilupparsi elementi della crisi, che non vengono eliminati con la frase meschina che prodotti si scambiano con prodotti. Il confronto fra il valore in un’epoca e in un’epoca più tarda costituisce il principio fondamentale del processo di circolazione del capitale.

Quando si parla di distruzione di capitale attraverso le crisi bisogna fare una duplice distinzione. In quanto il processo di riproduzione si arresta, il processo lavorativo viene limitato o talvolta arrestato, viene distrutto capitale reale. Il macchinario che non viene usato non è capitale. Il lavoro che non viene sfruttato equivale a produzione perduta. Si arresta il processo di riproduzione.

In secondo luogo, però, distruzione del capitale attraverso le crisi significa un deprezzamento di masse di valore che impedisce loro di rinnovare più tardi il loro processo di riproduzione come capitale sulla stessa scala. È la caduta rovinosa dei prezzi delle merci. Con ciò non viene distrutto nessun valore d’uso.

Ciò che perde un capitalista guadagna l’altro. Alle masse di valore operanti come capitali viene impedito di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi capitalisti fanno bancarotta. Una gran parte del capitale nominale della società, cioè del valore di scambio del capitale esistente, è distrutta, benché proprio questa distruzione, poiché essa non tocca il valore d’uso, possa favorire la nuova riproduzione. È questa un’epoca in cui il capitalista monetario si arricchisce a spese del capitalista industriale.

Per ciò che concerne la caduta di capitale fittizio, titoli di Stato, azioni ecc. – nella misura in cui essa non porta alla bancarotta dello Stato e della società per azioni, in quanto il credito dei capitalisti industriali che detengono tali titoli viene scosso – si tratta di un semplice trasferimento della ricchezza da una mano a un’altra e in complesso agirà favorevolmente sulla riproduzione, in quanto i nuovi ricchi nelle cui mani queste azioni o titoli cadono a buon mercato, per lo più sono più intraprendenti dei vecchi possessori.


1.3.14. Negazione da parte di Ricardo della sovrapproduzione generale

«Si sarebbe indotti a pensare che (...) Smith abbia tratto la conclusione che noi ci troviamo in una certa quale necessità di produrre un’eccedenza (...) di merci (...) e che il capitale che le produce non possa essere impiegato diversamente. Tuttavia è sempre una questione di scelta in qual modo un capitale debba essere impiegato e perciò non può neanche mai darsi una eccedenza di una merce per un tempo prolungato; perché se si desse una tale eccedenza, essa scenderebbe al di sotto del suo prezzo naturale e il capitale si volgerebbe a un impiego più vantaggioso». «Di una merce particolare può esserne prodotta troppa, per cui sul mercato può esservi una tale abbondanza che il capitale impiegatovi non si ripaghi; questo però non può accadere con (...) tutte le merci».

Tutti gli economisti empirici che hanno scritto in vari momenti della crisi, hanno giustamente ignorato questa pretesa di teoria e si sono contentati del fatto che ciò è vero nella teoria astratta – cioè che non siano possibili saturazioni del mercato – nella prassi è falso.

Nelle crisi del mercato mondiale le contraddizioni e le antitesi della produzione borghese vengono ad esplosione. Anziché indagare in che cosa consistano gli elementi contraddittori che esplodono nella catastrofe, gli apologeti si accontentano di negare la catastrofe e di insistere, di fronte alla loro periodicità regolare, sul fatto che se la produzione si conformasse ai libri scolastici non si arriverebbe mai alla crisi.

L’apologetica consiste allora nella falsificazione dei più semplici rapporti economici e specialmente nel tener ferma l’unità di fronte all’antitesi. Se compra e vendita – ossia il movimento di metamorfosi della merce – rappresenta un processo di due fasi contrapposte, l’unità di ambedue le fasi, è altrettanto la separazione di esse e il loro farsi indipendenti l’una di fronte all’altra. Poiché esse sono congiunte, il farsi indipendenti di momenti congiunti può manifestarsi solo violentemente come processo distruttivo. È appunto la crisi in cui si realizza la loro unità, l’unità dei distinti. La crisi manifesta l’unità di momenti fattisi indipendenti l’uno di fronte all’altro.

Per dimostrare che la produzione capitalistica non può portare a crisi generali, vengono negate tutte le condizioni e le determinazioni di forma, tutti i principi e le differenze specifiche, in breve la stessa produzione capitalistica, e di fatto viene mostrato che se il modo di produzione capitalistico, anziché essere una forma specificamente sviluppata, peculiare della produzione sociale, fosse un modo di produzione rimasto dietro alle sue più rozze origini, le sue antitesi, le contraddizioni peculiari e perciò anche le sue esplosioni nelle crisi non esisterebbero.

«I prodotti vengono sempre comprati da prodotti o da servizi; il denaro è soltanto il mezzo mediante il quale lo scambio viene effettuato». Qui una merce, nella quale esiste l’antitesi fra valore di scambio e valore d’uso, viene limitata al valore d’uso, e perciò lo scambio di merci in semplice baratto di valori d’uso. Si retrocede non solo dietro alla produzione capitalistica, ma finanche alla semplice produzione di merci, e il fenomeno più complicato della produzione capitalistica – la crisi del mercato mondiale – viene negato negando la condizione prima della produzione capitalistica, cioè che il prodotto deve essere merce, perciò deve rappresentarsi come denaro e passare attraverso al processo di metamorfosi.

Anziché parlare di lavoro salariato, si parla di “servizi”, una parola in cui la determinazione specifica del lavoro salariato e del suo uso – cioè di aumentare il valore delle merci con cui esso viene scambiato, di produrre plusvalore – viene di nuovo omessa e con ciò lo specifico rapporto per cui denaro e merce si trasformano in capitale. “Servizio” è il lavoro concepito semplicemente come valore d’uso (una cosa secondaria nella produzione capitalista), del tutto come nella parola “prodotto” l’essenza della merce e la contraddizione insita in essa sono soppresse.

Anche il denaro viene allora conseguentemente concepito come semplice intermediario dello scambio di prodotti, non come una forma di esistenza essenziale e necessaria della merce, che deve rappresentarsi come valore di scambio, lavoro sociale generale. Cancellando, con la trasformazione della merce in semplice valore d’uso, l’essenza del valore di scambio, si nega altrettanto il denaro come una forma essenziale della merce e, nel processo di metamorfosi, indipendente rispetto alla forma originaria della merce.

Le crisi vengono eliminate mediante un ragionamento che nega i primi presupposti della produzione capitalistica, l’esistenza del prodotto come merce, lo sdoppiamento della merce in merce e denaro, i momenti da ciò risultanti della separazione nello scambio di merci, infine il rapporto fra il denaro o la merce e il lavoro salariato.

Non migliori sono gli economisti, come J.S. Mill, che vogliono spiegare le crisi da queste semplici possibilità contenute nella metamorfosi delle merci, come la separazione di compra e vendita. Queste determinazioni che spiegano la possibilità della crisi, sono ben lontane dallo spiegare la sua realtà, non spiegano ancora perché le fasi del processo entrano in tale conflitto che solo mediante una crisi può farsi valere la loro interna unità. Questa separazione si manifesta nella crisi; è la forma elementare di essa. Spiegare la crisi da questa sua forma elementare è come spiegare l’esistenza della crisi esprimendo la sua esistenza nella sua forma più astratta.

Quando parliamo della produzione capitalistica, si dice giustamente «nessun uomo produce con l’intenzione di consumare il suo prodotto», anche se egli reimpiega parti del suo prodotto per il consumo industriale. Qui non si tratta del consumo privato. Poc’anzi si è dimenticato che il prodotto è merce. Ora si dimentica la divisione sociale del lavoro. In situazioni in cui degli uomini producono per sé stessi di fatto non ci sono crisi, ma non c’è neanche produzione capitalistica. Un uomo che ha prodotto, non ha la scelta se vuole vendere o no. Deve vendere. Nelle crisi subentra la circostanza che non può vendere, oppure deve vendere al di sotto del prezzo di costo. Si tratta di sapere che cosa intralcia questa sua buona intenzione.

«Egli non vende mai se non con l’intenzione di acquistare una qualche altra merce che possa essere immediatamente utile per lui o che possa contribuire ad una produzione futura». Ricardo dimentica che uno può vendere per pagare, e che queste vendite forzate giocano un ruolo importante nelle crisi. Il fine più prossimo del capitalista nel vendere è di ritrasformare il suo capitale-merci in capitale-denaro e di realizzare con questo il suo guadagno. Il consumo – il reddito – non è qui affatto essenziale in questo processo, cosa che è per colui il quale vende merci semplicemente per trasformarle in mezzi di sussistenza. Questa, però, non è la produzione capitalistica nella quale il reddito appare come un risultato, non come lo scopo determinante. Ognuno vende anzitutto per vendere, cioè per trasformare merce in denaro.

Il valore realizzato nella vendita deve operare di nuovo come capitale, deve attraversare il processo di riproduzione, quindi scambiarsi di nuovo con lavoro e merci. Ma la crisi è proprio il momento di perturbazione e d’interruzione del processo di riproduzione. È fuor di dubbio che nessuno «produrrà continuamente una merce per la quale non esiste domanda». Ma ciò non ha nulla a che fare con la questione in quanto «il possesso di altri beni» non è lo scopo della produzione capitalistica, ma l’appropriazione di valore. Ricardo qui condivide la tesi di James Mill dell’«equilibrio metafisico delle compere e delle vendite», un equilibrio che vede solo l’unità ma non la separazione nei processi della compra e della vendita.

Il denaro non è solo «il mezzo mediante il quale lo scambio viene effettuato», ma al tempo stesso il mezzo mediante il quale lo scambio di prodotto con prodotto viene dissolto in due atti, indipendenti l’uno dell’altro nel tempo e nello spazio. Ma in Ricardo questa erronea concezione del denaro poggia sul fatto che mira solo alla determinazione quantitativa del valore di scambio, cioè al fatto che esso è uguale a una determinata quantità di tempo di lavoro, ma dimentica la determinazione qualitativa, che il lavoro individuale deve rappresentarsi solo mediante la sua alienazione come lavoro sociale astrattamente generale.

Il fatto che solo particolari i generi di merci, non tutti, possano formare una saturazione del mercato, che perciò la sovrapproduzione possa essere sempre soltanto parziale, è solo un espediente. Se si considera semplicemente la natura della merce, non è da escludere che tutte le merci siano presenti in eccedenza sul mercato e perciò che tutte cadano al di sotto del loro prezzo. Si tratta del momento della crisi. Tutte le merci, tranne il denaro, possono esservi in eccedenza. Il fatto che esista per la merce la necessità di rappresentarsi come denaro, significa solo che la necessità esiste per tutte le merci. E come esiste per una singola merce la difficoltà di attraversare questa metamorfosi, così essa può esistere per tutte. La natura generale della metamorfosi delle merci – che include tanto la separazione di compra e vendita quanto la loro unità – anziché escludere la possibilità di una saturazione generale è la sua possibilità.

Sullo sfondo del ragionamento di Ricardo sta non solo il rapporto fra compra e vendita, ma fra domanda e offerta. Come dice Mill; se compra è vendita, allora domanda è offerta, e offerta è domanda. Ma esse si separano e possono farsi indipendenti l’una di fronte all’altra. L’offerta di tutte le merci può, in un dato momento, essere maggiore della domanda di tutte le merci, essendo la domanda della merce generale, il denaro, il valore di scambio, maggiore della domanda di tutte le merci particolari, oppure prevalendo la necessità di rappresentare la merce come denaro, di realizzare il suo valore di scambio, sulla possibilità di trasformare la merce in valore d’uso. Se il rapporto fra domanda e offerta viene concepito in modo più ampio e più concreto, allora vi si inserisce quello fra produzione e consumo. Qui di nuovo dovrebbe essere tenuta ferma l’unità di questi due momenti, che esiste in sé e che si fa valere violentemente proprio nella crisi, di fronte alla separazione e antitesi di essi, altrettanto esistente e perfino caratterizzante la produzione borghese.

Per quanto riguarda l’antitesi fra sovrapproduzione parziale e universale, in quanto cioè si tratti semplicemente di affermare la prima per sfuggire la seconda, occorre precisare che, in primo luogo, precede per lo più le crisi un generale rialzo dei prezzi in tutti gli articoli appartenenti alla produzione capitalista. Tutti perciò partecipano al crollo susseguente ai prezzi precedenti la crisi. Il mercato può assorbire una massa di merci a prezzi calanti, scesi al di sotto dei loro prezzi di costo, che esso non poteva assorbire ai prezzi di mercato precedenti. La massa eccedente delle merci è sempre relativa: cioè una massa eccedente a determinati prezzi. I prezzi ai quali le merci vengono poi assorbite, sono rovinosi per il produttore o per il commerciante. In secondo luogo perché una crisi (quindi anche la sovrapproduzione) sia generale, basta che essa investa gli articoli di commercio dominanti.


1.3.15. Trasformazione della possibilità della crisi in realtà

Attraverso la separazione del processo di produzione immediato e del processo di circolazione è di nuovo e ulteriormente sviluppata la possibilità della crisi che si mostrava nella semplice metamorfosi della merce. Appena essi non trapassano l’uno nell’altro fluidamente, ma si fanno indipendenti l’uno di fronte all’altro, c’è la crisi.

Nella metamorfosi della merce la possibilità della crisi si rappresenta così. La merce che esiste realmente come valore d’uso, e idealmente, nel prezzo come valore di scambio, deve essere trasformata in denaro, M-D. Se questa difficoltà, la vendita, è risolta, allora la compra D-M, non ha difficoltà, perché il denaro è immediatamente scambiabile contro tutto.

Il valore d’uso della merce deve essere presupposto, altrimenti non è una merce. È inoltre presupposto che il valore di una merce sia uguale al suo valore sociale, cioè che il tempo di lavoro materializzato in essa sia uguale al tempo di lavoro socialmente necessario alla sua riproduzione.

La possibilità della crisi, in quanto essa si mostri nella forma semplice della metamorfosi, deriva dal fatto che le fasi che essa attraversa nel suo movimento, sono, in primo, necessariamente integrantisi. In secondo luogo, nonostante questa interna e necessaria connessione, sono parti indipendenti del processo e forme esistenti indifferentemente l’una di fronte all’altra, separantisi nel tempo e nello spazio. La possibilità della crisi è insita nella separazione fra vendita e compra.

È solo nella forma merce che la merce attraversa la difficoltà. Non appena possiede la forma del denaro, ne è oltre. Ma poi anche il denaro si risolve nella separazione di vendita e compra. Se la merce non potesse essere esclusa dalla circolazione nella forma del denaro, o non differisse la sua riconversione in merce, se compra e vendita coincidessero, svanirebbe la possibilità della crisi, nei presupposti fatti.

Nella forma del baratto immediato la merce non è scambiabile solo nel caso che non sia un valore d’uso oppure che non ci siano altri valori d’uso per scambiarsi con essa. Quindi solo a tutte e due le condizioni: o quando da una parte fosse prodotto qualcosa senza utilità o dall’altra niente di utile da scambiare come equivalente. In ambedue i casi, però, non avrebbe luogo, in generale, nessuno scambio. Ma in quanto uno scambio avesse luogo, i suoi momenti non si separerebbero. Il compratore sarebbe venditore, il venditore compratore. Il momento critico che risulta dalla forma dello scambio – in quanto esso è circolazione – verrebbe quindi a cadere e se noi diciamo che la forma semplice della metamorfosi include la possibilità della crisi, diciamo solo che in questa forma stessa sta la possibilità della lacerazione e della separazione di momenti che essenzialmente si integrano.

Ma ciò concerne anche il contenuto. Nel baratto immediato il grosso della produzione è indirizzato da parte del produttore al soddisfacimento del suo proprio bisogno o, con uno sviluppo un po’ più ampio della divisione del lavoro, al soddisfacimento di bisogni a lui noti dei suoi coproduttori. Ciò che va scambiato come merce è eccedenza e resta secondario che questa eccedenza venga o no scambiata. Nella produzione di merci la trasformazione del prodotto in denaro, la vendita, è conditio sine qua non. La produzione immediata per il bisogno proprio viene a cessare. Con la non vendita esiste una crisi.

La difficoltà di trasformare la merce – il prodotto particolare di lavoro individuale – in denaro, il suo opposto, in lavoro astrattamente generale, sociale, sta nel fatto che il denaro non appare come prodotto particolare di lavoro individuale. Colui il quale ha venduto e quindi possiede la merce nella forma del denaro, non è costretto a ricomprare subito, a trasformare di nuovo il denaro in un prodotto particolare di lavoro individuale. Nel baratto non c’è questa antitesi. Non può esservi nessun venditore senza essere compratore ed essere compratore senza essere venditore.

La difficoltà del venditore – nel presupposto che la sua merce abbia un valore d’uso – discende semplicemente dalla facilità del compratore di differire la riconversione del denaro in merce. La difficoltà di trasformare la merce in denaro, di vendere, discende semplicemente dal fatto che la merce deve essere trasformata in denaro, ma il denaro non immediatamente in merce, quindi vendita e compra possono separarsi. Questa forma include la possibilità della crisi, cioè la possibilità che momenti che appartengono l’uno all’altro, che sono inseparabili, si separino e perciò vengano uniti violentemente, che la loro connessione venga ottenuta attraverso la violenza che viene fatta alla loro reciproca indipendenza. Crisi non è altro che il violento farsi valere di fasi del processo di produzione che si sono fatte indipendenti l’una di fronte all’altra.

Vendita e compra possono separarsi. Esse sono quindi una crisi in potenza e il loro coincidere resta sempre un momento critico per la merce. Ma esse possono trapassare l’una nell’altra fluidamente. Resta dunque che la forma più astratta della crisi è la stessa metamorfosi della merce in cui è contenuta, solo come movimento sviluppato, la contraddizione, inclusa nell’unità della merce, fra valore di scambio e valore d’uso, e poi fra denaro e merce.

Le crisi del mercato mondiale devono essere concepite come la concentrazione reale e la compensazione violenta di tutte le contraddizioni dell’economia borghese. I singoli momenti che si concentrano in queste crisi, devono quindi essere fatti emergere ed essere sviluppati in ogni sfera dell’economia borghese, e quanto più ci inoltriamo in essa, da un lato devono essere sviluppate nuove determinazioni di questo contrasto, dall’altro devono essere mostrate le forme più astratte del medesimo come ricorrenti e contenute in quelle più concrete.

La crisi nella sua prima forma è la stessa metamorfosi della merce, la separazione di compra e vendita. La crisi nella sua seconda forma è la funzione del denaro come mezzo di pagamento, dove il denaro figura in due momenti diversi, separati nel tempo, in due diverse funzioni. Queste due forme sono ancora del tutto astratte, benché la seconda sia più concreta della prima.

Consideriamo il movimento che attraversa il capitale dal momento in cui esso abbandona come merce il processo di produzione per venir fuori di nuovo da esso come merce. Se facciamo astrazione da tutte le ulteriori determinazioni di contenuto, il capitale complessivo in merci e ogni singola merce di cui esso consta hanno da attraversare il processo M-D-M. La possibilità generale della crisi che è contenuta in questa forma – la separazione di compra e vendita – è quindi contenuta nel movimento del capitale, in quanto esso è anche merce e nient’altro che merce.

Dalla connessione delle metamorfosi delle merci l’una con l’altra risulta poi che l’una si trasforma in denaro perché l’altra si riconverte dalla forma di denaro in merce. In seguito la separazione di compra e vendita appare qui tale che alla trasformazione dell’un capitale dalla forma merce nella forma denaro deve corrispondere la riconversione dell’altro capitale dalla forma denaro nella forma merce, l’abbandono del processo di produzione da parte dell’un capitale deve corrispondere al ritorno nel processo di produzione dell’altro. Questa concrescenza l’uno nell’altro e questo intreccio dei processi di riproduzione di diversi capitali sono da un lato necessari per la divisione del lavoro, dall’altro casuali, e così si amplia già la determinazione di contenuto della crisi.

In secondo luogo per ciò che concerne la possibilità della crisi scaturente dalla forma del denaro come mezzo di pagamento, già nel capitale si mostra un fondamento più reale per l’attuazione di questa possibilità. Il tessitore ha da pagare l’intero capitale costante, i cui elementi furono forniti dal filatore, coltivatore di lino, ecc. Questi ultimi, nella misura in cui producono capitale costante che entra solo nella produzione del capitale costante senza entrare nella merce finita si sostituiscono mediante scambio di capitale le loro condizioni di produzione.

Il tessitore vende il tessuto al mercante per 1.000 Lst., ma su una cambiale, così che il denaro figura come mezzo di pagamento. Il tessitore vende la cambiale al banchiere, presso il quale paga con essa un debito oppure che gli sconta la cambiale. Il coltivatore di lino ha venduto al filatore su una cambiale, il filatore al tessitore, ecc. Ora, se il commerciante non paga, il tessitore non può pagare la sua cambiale al banchiere. A loro volta tutti questi che non realizzano il valore della loro merce, non possono sostituire la parte che sostituisce il capitale costante. Così nasce una crisi generale.

Questa non è altro che la possibilità della crisi sviluppata col denaro come mezzo di pagamento, ma noi vediamo già qui, nella produzione capitalistica, una connessione dei crediti e delle obbligazioni reciproche, delle compre e delle vendite, dove la possibilità può svilupparsi in realtà.

In tutti i casi se compra e vendita non si fissano l’una di fronte all’altra, e non devono perciò essere compensate violentemente, se il denaro come mezzo di pagamento funziona in modo tale che i crediti si compensano, quindi non si attua la contraddizione esistente in sé nel denaro come mezzo di pagamento, se dunque queste due forme astratte della crisi non appaiono realmente come tali, non esiste alcuna crisi.

La circolazione semplice del denaro e anche la circolazione del denaro come mezzo di pagamento sono possibili senza crisi: ambedue compaiono molto prima della produzione capitalistica, senza che compaiano crisi. Perché queste forme mettano in mostra il loro lato critico, perché la contraddizione in esse contenuta in potenza si manifesti in atto, non si può spiegare con queste forme soltanto.

Le contraddizioni sviluppate nella circolazione delle merci, e più ampiamente nella circolazione del denaro, le possibilità della crisi, si riproducono da sé nel capitale, poiché solo sulla base del capitale ha luogo una sviluppata circolazione di merci e di denaro.

Ora però si tratta di seguire lo sviluppo ulteriore della crisi potenziale (la crisi reale può essere rappresentata solo dal movimento reale della produzione capitalistica, concorrenza e credito) in quanto essa risulta dalle determinazioni formali del capitale che gli sono peculiari come capitale e non sono incluse nella sua semplice esistenza come merce e denaro. Il processo di produzione immediato del capitale non può in sé aggiungere qui niente di nuovo. Affinché esso in generale esista, le sue condizioni sono supposte. Perciò nella prima sezione, sul capitale, sul processo immediato di produzione, non sopravviene nessun nuovo elemento della crisi. Vi è contenuto in sé, perché il processo di produzione è appropriazione e perciò produzione di plusvalore. Ma nel processo di produzione questo non può manifestarsi, perché in esso non si tratta della realizzazione del valore ma del plusvalore.

La cosa può farsi manifesta solo nel processo di circolazione, che è contemporaneamente processo di riproduzione. Il processo complessivo di circolazione è l’unità della sua fase di produzione e di circolazione, un processo che si svolge attraverso i due processi in quanto sue fasi. In questo è insita una possibilità ulteriormente sviluppata o forma astratta della crisi. Gli economisti che negano la crisi si attengono quindi solo all’unità di ambedue queste fasi. Se fossero solo separate, senza essere una sola cosa, allora non sarebbe possibile appunto nessun ristabilimento violento della loro unità. Se esse fossero solo una cosa sola, senza essere separate, allora non sarebbe possibile nessuna separazione violenta.


1.3.16. Sulle forme della crisi

1. La possibilità generale delle crisi nel processo della metamorfosi del capitale è data, doppiamente, in quanto il denaro funge da mezzo di circolazione, quindi separazione di compra e vendita. In quanto funge da mezzo di pagamento esso opera in due momenti differenti, come misura dei valori e come realizzazione del valore. Ambedue questi momenti si separano. Se il valore di una merce è aumentato nell’intervallo fra il momento in cui il denaro funzionava come misura dei valori, e quindi delle reciproche obbligazioni, e il momento della vendita effettiva, allora il ricavato della vendita non copre il suo valore, e quindi non può essere saldata l’intera serie di transazioni che ne dipendono regressivamente.

La merce può essere venduta solo in un determinato spazio di tempo, anche se il suo valore non cambiasse, perché il denaro può funzionare come mezzo di pagamento solo per un tempo determinato. Anche qui, poiché qui la stessa somma di denaro funziona per una serie di transazioni reciproche, sopravviene un’incapacità di pagamento in molti punti, di qui la crisi.

Queste sono le possibilità formali della crisi. La prima è possibile senza la seconda, cioè crisi senza credito, senza che il denaro funzioni come mezzo di pagamento. La seconda però non è possibile senza la prima, senza, cioè, che compra e vendita si separino. Ma nell’ultimo caso la crisi sopravviene non solo perché una merce è invendibile, ma perché non è vendibile in un determinato spazio di tempo, e la crisi deriva il suo carattere non solo dall’invendibilità della merce, ma dalla non realizzazione di un’intera serie di pagamenti che poggiano sulla vendita di questa determinata merce in questo determinato tempo. Questa è la forma propria delle crisi monetarie.

Se sopravviene una crisi perché compra e vendita si separano, essa allora si sviluppa come crisi monetaria, non appena il denaro è sviluppato come mezzo di pagamento, e questa seconda forma delle crisi s’intende da sé non appena sopravviene la prima. Nella ricerca del perché la possibilità generale della crisi diventi realtà è superfluo curarsi della forma delle crisi che scaturiscono dallo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento. Perciò gli economisti amano addurre a pretesto questa forma ovvia come causa delle crisi.

2. In quanto le crisi risultano da variazioni di prezzo e da rivoluzioni di prezzo che non coincidono con le variazioni di valore delle merci, esse non si possono spiegare nell’esame del capitale in generale, in cui si presuppongono prezzi identici ai valori.

3. La possibilità generale delle crisi è la metamorfosi formale del capitale, la separazione temporale e spaziale di compra e vendita. Ma questa non è mai la causa della crisi. Perché non è altro che la forma più generale della crisi, quindi la crisi stessa nella sua espressione più generale. Non si può però dire che la forma astratta della crisi sia la causa della crisi. Se si cerca la sua causa, si vuole sapere perché la sua forma astratta, la forma della sua possibilità, da possibilità diventa realtà.

4. Le condizioni generali delle crisi, in quanto sono indipendenti dalle oscillazioni di prezzo, in quanto diverse dalle fluttuazioni di valore, devono essere spiegate dalle condizioni generali della produzione capitalistica.

Il primo momento è la riconversione di denaro in capitale.

Un caso è l’aumento di valore della materia prima, connessa con condizioni naturali. Il rapporto in cui il denaro si dovrebbe ritrasformare nelle diverse parti costitutive del capitale per continuare la produzione alla vecchia scala, è turbato. Una maggiore parte di valore del prodotto deve essere trasformata in materia prima, quindi una minore può essere trasformata in capitale variabile. La riproduzione non può essere ripetuta sulla stessa scala. Una parte del capitale fisso sta ferma, una parte di operai viene gettata sul lastrico. Il saggio di profitto cade, perché il valore del capitale costante è aumentato rispetto a quello variabile. Poiché le spese fisse, interesse, rendita, che sono anticipate, a parità di saggio del profitto e di sfruttamento del lavoro, restano le stesse, e in parte non possono essere pagate. Di qui una crisi.

Inoltre ha luogo, benché il saggio di profitto si abbassi, un rincaro del prodotto. Se questo prodotto entra come mezzo di produzione in altre sfere di produzione, il suo rincaro causa qui la stessa perturbazione nella riproduzione. Se esso entra come mezzo di sussistenza nel consumo generale, allora o entra contemporaneamente in quello degli operai o no. Se si verifica il primo caso, esso coincide negli effetti con una perturbazione nel capitale variabile. Ma in quanto in genere entra nel consumo generale, la domanda di altri prodotti può con questo (se non diminuisce il consumo di esso) ridursi, perciò può essere impedita la loro ritrasformazione in denaro nel volume corrispondente al loro valore e così può essere perturbato l’altro lato della loro riproduzione, non la ritrasformazione di denaro in capitale produttivo, ma la ritrasformazione di merci in denaro. In ogni caso, in questa branca, la massa del profitto e la massa del salario diminuiscono e quindi diminuisce una parte delle entrate necessarie per la vendita di merci di altre branche di produzione.

Questo rincaro della materia prima, però, può anche sopravvenire senza influenza delle stagioni o della produttività naturale del lavoro che fornisce la materia prima. Se una parte eccessiva del plusvalore, del pluscapitale, è spesa in macchinario, ecc. in questa branca, allora, benché il materiale fosse sufficiente per la vecchia scala di produzione, sarà insufficiente per la nuova. Ciò deriva quindi da una trasformazione sproporzionata del pluscapitale nei suoi diversi elementi. È un caso di sovrapproduzione di capitale fisso e provoca tutti gli stessi fenomeni come nel primo caso.


1.3.17. Arretratezza del mercato rispetto all’aumento della produzione

Se si volesse rispondere che la produzione sempre allargantesi, in primo luogo perché il capitale investito nella produzione cresce continuamente, in secondo luogo perché viene impiegato continuamente in modo più produttivo, ha bisogno di un mercato sempre allargato e che la produzione si allarga più rapidamente del mercato, si è solo diversamente espresso il fenomeno che va spiegato, anziché nella sua forma astratta lo si è espresso nella sua forma reale.

Il mercato si allarga più lentamente della produzione ovvero nel ciclo che il capitale percorre durante la sua riproduzione sopraggiunge un momento in cui il mercato appare troppo stretto per la produzione. Questo è alla fine del ciclo. Ma ciò significa che il mercato è saturo. La sovrapproduzione è manifesta. Se l’allargamento del mercato avesse tenuto il passo con l’allargamento della produzione, non ci sarebbe stata alcuna sovrapproduzione.

Con la semplice ammissione che il mercato si deve allargare con la produzione, sarebbe già data la possibilità di una sovrapproduzione, poiché il mercato è geograficamente circoscritto esternamente, il mercato interno appare come limitato di fronte a un mercato che è interno ed esterno, e quest’ultimo è limitato rispetto al mercato mondiale, il quale è a sua volta limitato, pur essendo capace in sé di allargamento. Se perciò è ammesso che il mercato deve allargarsi, che nessuna sovrapproduzione deve avere luogo, è anche ammesso che possa avere luogo una sovrapproduzione, perché è possibile allora, in quanto mercato e produzione sono due momenti indifferenti l’uno rispetto all’altro, che l’allargamento dell’uno non corrisponda all’allargamento dell’altro, che i limiti del mercato non si allarghino abbastanza rapidamente per la produzione oppure che nuovi allargamenti del mercato possano essere rapidamente superati dalla produzione, così che ora il mercato allargato appaia come un limite, tanto quanto prima quello più stretto.


1.3.18. La contraddizione fra l’inarrestabile sviluppo delle forze produttive e la limitatezza del consumo come base della sovrapproduzione

Il termine sovrapproduzione induce in sé in errore. Finché i bisogni più urgenti di una gran parte della società non sono soddisfatti o lo sono solo i suoi bisogni immediati non si può parlare di una sovrapproduzione di prodotti. Si deve dire, al contrario, che in base alla produzione capitalistica si sottoproduce continuamente. Il limite della produzione è il profitto dei capitalisti, in nessun modo il bisogno dei produttori.

Sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di merci sono due cose diverse. Se Ricardo crede che la forma della merce sia indifferente per il prodotto, inoltre che la circolazione di merci sia solo formalmente diversa dal baratto, che il valore di scambio sia qui soltanto una forma transeunte dello scambio materiale, che quindi il denaro sia semplicemente un mezzo formale di circolazione, questo si risolve di fatto nel suo presupposto che il modo di produzione borghese sia quello assoluto, quindi che sia anche un modo di produzione senza una precisa determinazione specifica, e che, di conseguenza, ciò che in esso è determinato sia solo formale. Non può dunque neanche essere ammesso da lui che il modo di produzione borghese implichi un limite per il libero sviluppo delle forze produttive, un limite che viene alla luce nelle crisi, e fra l’altro nella sovrapproduzione, fenomeno fondamentale delle crisi.

Ricardo riprese le tesi di Smith che i desideri smisurati di ogni specie di valori d’uso sono sempre soddisfatti in base a una situazione in cui la massa dei produttori resta più o meno limitata ai mezzi di sussistenza, che questa grandissima massa di produttori resta dunque più o meno esclusa dal consumo della ricchezza in quanto essa supera l’ambito dei mezzi di sopravvivenza.

Ciò avviene in misura ancor maggiore nella produzione antica fondata sulla schiavitù. Ma gli antichi non pensavano a trasformare il plusprodotto in capitale. Essi trasformavano una gran parte di questo in spese improduttive per opere d’arte, religiose, lavori pubblici, ecc. Ancor meno la loro produzione era indirizzata ad uno scatenamento e ad uno spiegamento delle forze produttive materiali non oltrepassando mai il lavoro artigianale. Perciò la ricchezza che essi creavano per consumo privato era relativamente piccola e appare grande solo perché ammucchiata in poche mani. Se perciò non c’era sovrapproduzione, c’era presso gli antichi sovraconsumo dei ricchi. I pochi popoli mercantili in mezzo a loro vivevano in parte a spese di tutte queste nazioni povere.

I fondamenti della moderna sovrapproduzione sono, da un lato, l’incondizionato sviluppo delle forze produttive, e perciò la produzione in massa sulla base della massa di produttori chiusi nella sfera dei mezzi di sussistenza, dall’altro, il limite costituito dal profitto dei capitalisti.

Le difficoltà che Ricardo e altri sollevano contro la sovrapproduzione poggiano sul fatto che essi considerano la produzione borghese come un modo di produzione in cui o non esiste differenza fra compra e vendita, o come produzione sociale, tale che la società, come secondo un piano, ripartisca i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nel grado e nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei loro diversi bisogni, così che ad ogni sfera di produzione tocchi la quota del capitale sociale richiesto al soddisfacimento del bisogno al quale essa corrisponde. Questa finzione scaturisce dall’incapacità di comprendere la forma specifica della produzione borghese, questa intesa come la produzione in assoluto.

Ma occorre obiettare loro: in base alla produzione capitalistica, dove ognuno lavora per sé e il lavoro particolare deve contemporaneamente rappresentarsi come il suo contrario, come lavoro astrattamente generale, e in questa forma deve rappresentarsi come lavoro sociale, la perequazione e l’omogeneità necessarie delle diverse sfere di produzione, la misura e la proporzione fra le medesime, come saranno possibili se non mediante un continuo superamento di una continua disarmonia?

Anche Ricardo ammette la saturazione per singole merci. L’impossibile consisterà solo in una simultanea e generale saturazione del mercato. La possibilità della sovrapproduzione non viene negata per una qualunque sfera particolare di produzione. L’impossibilità della sovrapproduzione generale consisterà nella simultaneità di questi fenomeni per tutte le sfere di produzione e perciò in una saturazione generale del mercato (espressione che va presa sempre con cautela, perché in momenti di generale sovrapproduzione, la sovrapproduzione in alcune sfere è sempre e solo risultato della sovrapproduzione negli articoli di commercio dominanti; essa è sempre solo relativa).

L’apologetica lo ribalta nel suo contrario: esiste sovrapproduzione perché la sovrapproduzione non è universale. La relatività della sovrapproduzione – il fatto che la sovrapproduzione reale in alcune sfere la provochi in altre – viene così espressa: non c’è nessuna sovrapproduzione universale perché se la sovrapproduzione fosse universale tutte le sfere di produzione conserverebbero lo stesso rapporto reciproco; quindi sovrapproduzione universale equivarrebbe a produzione proporzionata, il che esclude la sovrapproduzione. Una sovrapproduzione universale in senso assoluto non sarebbe una sovrapproduzione, ma solo uno sviluppo più che consueto della forza produttiva in tutte le sfere di produzione, una sovrapproduzione che supera ed elimina sé stessa.

Il risultato di questa sofistica è questo: se ha luogo una sovrapproduzione di ferro, di tessuti di cotone, ecc., allora non si può dire che è stato prodotto troppo poco carbone e che perciò ha avuto luogo quella sovrapproduzione; perché quella sovrapproduzione di ferro, ecc. implica una simile sovrapproduzione di carbone. Non si può dunque parlare di sottoproduzione degli articoli la cui sovrapproduzione è inclusa, perché essi entrano come elemento, materia prima o mezzi di produzione nell’articolo la cui sovrapproduzione positiva è appunto il fatto che deve essere spiegato.

La scipitezza di questa frase spicca bene se, come ha fatto Say, viene estesa al piano internazionale.

Non è l’Inghilterra che ha sovrapprodotto, è l’Italia che ha sottoprodotto. Se l’Italia avesse, in primo luogo, capitale abbastanza per acquistare dal capitale inglese le merci che ha esportato in Italia; in secondo luogo se questo suo capitale fosse investito in modo tale da produrre articoli peculiari che abbisognano al capitale inglese, allora non avrebbe luogo nessuna sovrapproduzione. Non esisterebbe quindi il fatto di una reale sovrapproduzione in Inghilterra, in relazione alla produzione reale in Italia, ma solo il fatto di una sottoproduzione immaginaria in Italia, immaginaria perché essa presuppone in Italia un capitale e uno sviluppo della forza produttiva che là non esistono e perché, in secondo luogo, questo capitale non esistente in Italia non è stato impiegato come sarebbe necessario affinché l’offerta inglese e la domanda italiana si integrassero. Nessuna sovrapproduzione avrebbe luogo se domanda e offerta si corrispondessero, se il capitale fosse ripartito in tutte le sfere di produzione in modo così proporzionato che la produzione dell’un articolo includesse il consumo dell’altro, quindi il suo proprio consumo.

Ma poiché la produzione capitalistica non può darsi libero corso altro che in certe sfere, a certe condizioni, non sarebbe in genere possibile nessuna produzione capitalistica se essa dovesse svilupparsi in tutte le sfere simultaneamente e uniformemente. Poiché in queste sfere ha luogo una sovrapproduzione in senso assoluto, essa ha luogo relativamente anche nelle sfere in cui non si è sovrapprodotto.

Questa spiegazione della sovrapproduzione in una parte mediante la sottoproduzione nell’altra significa che se avesse luogo una produzione proporzionale non avrebbe luogo alcuna sovrapproduzione. Parimenti, se domanda e offerta si corrispondessero. Parimenti se tutte le sfere includessero le stesse possibilità della produzione capitalistica e del suo allargamento, se tutti i paesi che commerciano l’uno con l’altro possedessero uguale capacità di produzione. Dunque ha luogo una sovrapproduzione perché tutti questi pii desideri non hanno luogo. Non avrebbe luogo nessuna sovrapproduzione se avesse luogo uniformemente una sovrapproduzione universale. Ma il capitale non è sufficientemente grande da sovrapprodurre così universalmente, e perciò ha luogo una sovrapproduzione parziale.

Viene ammesso che in ogni settore produttivo particolare può essere sovrapprodotto. L’unica circostanza che potrebbe impedire una sovrapproduzione in tutte le branche contemporaneamente è che si scambi merce contro merce. Ma questa scappatoia è tagliata proprio dal fatto che il commercio non è baratto, e perciò il venditore di una merce non è necessariamente e nello stesso tempo il compratore di un’altra. Questa scappatoia poggia sul fatto che si fa astrazione dal denaro e dal fatto che non si tratta di scambio di prodotti, ma di circolazione di merci per la quale è essenziale la separazione di compra e vendita.

Si nega la sovrapproduzione di merci e viene invece ammessa la sovrapproduzione di capitale. Il capitale consta di merci o, in quanto consta di denaro, deve essere ritrasformato in merci per poter funzionare come capitale.

Cosa significa sovrapproduzione di capitale? Sovrapproduzione delle masse di valore che sono destinate a generare plusvalore, o, considerato secondo il contenuto materiale, sovrapproduzione di merci che sono destinate alla riproduzione. Quindi riproduzione su scala troppo grande, il che equivale a sovrapproduzione. Significa che si produce troppo al fine dell’arricchimento dei capitalisti, o che una parte troppo grande del prodotto è destinata a non essere consumata?

Che qui non possa trattarsi del consumo industriale è chiaro, perché il fabbricante che sovrapproduce in tela aumenta con ciò necessariamente la sua domanda di filo, macchinario, lavoro, ecc. Si tratta dunque del consumo privato. Si è prodotta troppa tela, ma forse troppo poche arance.

Poc’anzi è stato negato il denaro per rappresentare come inesistente la separazione fra compra e vendita. Qui si nega il capitale per trasformare i capitalisti in gente che compie la semplice operazione

M-D-M e che produce per il consumo individuale, non come capitalisti, con lo scopo dell’arricchimento, di ritrasformare una parte del plusvalore in capitale.

Tutte le contraddizioni della produzione borghese vengono insieme ad esplosione nelle crisi mondiali generali; nelle crisi particolari, per contenuto ed estensione, solo in maniera unilaterale.

La sovrapproduzione è determinata dalla legge generale di produzione del capitale, di produrre nella misura delle forze produttive, cioè della possibilità di sfruttare, con una data massa di capitale, una massa di lavoro la più grande possibile, senza riguardo per i limiti del mercato esistenti o per i bisogni solvibili, e di realizzare per questo mezzo un continuo allargamento della riproduzione e dell’accumulazione, quindi una continua ritrasformazione di reddito in capitale, mentre la massa dei produttori resta limitata alla misura media dei bisogni e deve restare nel numero secondo le vacillanti richieste della produzione capitalistica.

(continua)








L’India dalle origini allo Stato nazionale
(continua dal numero scorso)

8. - Nuovo assetto dell’amministrazione coloniale

Rapporto presentato alla riunione generale di Genova nel settembre 2016


58. La riorganizzazione dell’esercito

La rivolta del 1857 ebbe diverse e significative conseguenze. Per quanto predestinata alla sconfitta, era stata di una portata tale che gli inglesi dovettero provvedere a che non si ripetesse. Ne individuarono due principali cause: l’evidente debolezza di un apparato repressivo disgregatosi troppo velocemente e il fatto che il regime mai aveva mantenuto gli impegni nei confronti dei collaboratori indigeni.

Per ovviare al primo problema, l’esercito indiano fu radicalmente riorganizzato. Già composto da un soldato britannico ogni otto Sepoy, si portò la proporzione di uno a due. Negli ultimi decenni del XIX secolo, benché l’esercito britannico fosse composto da 140.000 indiani e 70.000 britannici, il costo di questi ultimi era molto maggiore. L’artiglieria, specialità militare di cui gli ammutinati si erano avvalsi, fu smantellata e sostituita da nuovi corpi di truppe inglesi.

Il metodo di reclutamento degli indiani fu modificato in base all’atteggiamento tenuto dai vari gruppi sociali e castali nella rivolta. Anziché arruolare brahmani dell’Awadh (oggi regione al centro dello Stato indiano dell’Uttar Pradesh), che fino al 1857 avevano costituito l’asse portante degli eserciti della Compagnia, si preferì attingere uomini dal Punjab, che avevano aiutato i britannici a sconfiggere i Sepoys ribelli e a “tenere l’India con la spada”.

Il trattamento economico dei militari in servizio e, soprattutto, i benefici concessi ai veterani in pensione, furono considerevolmente migliorati. Vennero quindi arruolati molti punjabi appartenenti a famiglie di piccoli zamindar o a gruppi sociali dominanti nei villaggi. Inoltre, l’amministrazione coloniale promosse una politica fiscale favorevole a questi gruppi sociali e secondo la regione di provenienza.

Quando il periodo espansionista inglese raggiunse il suo apice, l’esercito britannico indiano fu frequentemente in azione, con le spese militari che aumentavano in proporzione. La seconda guerra anglo-afghana del 1878-80, la conquista della Birmania settentrionale nel 1885 in una terza guerra, le guerre contro le tribù confinanti sulla frontiera nord-occidentale del 1896 e 1898 richiesero spese sempre maggiori.

I dominatori coloniali le poterono sostenere mutando la composizione delle varie entrate tributarie.

Fino al 1858 l’imposta fondiaria aveva costituito il 50% del gettito fiscale, il 20% proveniva dal monopolio dell’oppio, il 10% dalla tassa sul sale e il resto da dazi e imposte di vario genere. Alla fine del secolo l’imposta fondiaria si era ridotta a solo il 25% delle entrate, l’oppio non costituiva una voce di rilievo e la tassa del sale era stata ridotta. In questo periodo quindi le tasse doganali e le imposte indirette erano di notevolissima importanza, grazie alle quali si poté far fronte alle accresciute spese militari.

Capovolgendo l’atteggiamento dei cinquant‘anni antecedenti, gli ufficiali britannici non contrastarono l’osservanza delle regole religiose e castali dei soldati indiani.

La lezione era servita. La politica inglese in India sarebbe stata fermamente orientata alla tutela e al mantenimento dei privilegi di tutte le classi e dei gruppi che, tradizionalmente, avevano posizioni predominanti nella società indiana.


59. Il riconoscimento delle classi dominanti nel mondo contadino

Questo atteggiamento si tradusse nell’abbandono della politica di annessione ai danni dei principi vassalli, ai quali fu concesso di amministrare circa il 40% del subcontinente e quasi un quinto della popolazione. Il governo coloniale, inoltre, mise in atto una serie di misure volte a tutelare i grandi proprietari terrieri introducendo in alcuni casi il principio di progenitura (non contemplato né dal diritto islamico né da quello indù) e creando speciali istituzioni che, in caso di difficoltà economiche dell’aristocrazia terriera, si accollavano il costo del risanamento delle loro proprietà in una sorta di amministrazione controllata. Questa politica di tutela era stata introdotta per i Talukdar dell’Awadh, altre misure analoghe vennero attuate a favore di proprietari terrieri di minore importanza e, in alcuni villaggi, anche ad alcuni gruppi contadini. Di fatto, la borghesia inglese adeguava la politica imperiale alle condizioni sovrastrutturali del subcontinente.

Questa logica di tutela nei confronti di classi socialmente influenti nel mondo rurale indiano portò a due ulteriori conseguenze. Innanzitutto, nel corso dei sessant’anni successivi alla grande rivolta, fu emanata una serie di leggi che tutelavano i diritti degli affittuari nelle zone dell’India dove la classe contadina per lo più non era proprietaria del suolo.

La seconda fu l’introduzione, in particolare nel Maharashtra e nel Punjab, di leggi che proibivano alle classi mercantili urbane di prestare denaro ai contadini e di acquistare i loro fondi. Queste disposizioni di fatto rafforzarono gli Zamindar e i contadini ricchi, che divennero l’unica fonte di credito per le classi subordinate del mondo rurale, le quali, al di là dei progressivi capovolgimenti dovuti al nuovo modo di produzione, rimanevano sostanzialmente la struttura di base della società indiana.

Nel novembre 1858, in un proclama rivolto dalla regina Vittoria «ai principi, ai capi e al popolo dell’India», annunciò solennemente una politica di protezione delle classi privilegiate e di non ingerenza nei loro costumi sociali e religiosi. L’imperialismo inglese non si sarebbe più basato esclusivamente sulla forza militare ma avrebbe condiviso la gestione di tutto l’apparato coloniale con i gruppi di potere presenti nella società indiana, sia pure in posizione subordinata.

Manifestazione emblematica del nuovo orientamento fu la modifica dell’organico del Consiglio Legislativo Imperiale, istituzione necessaria dal momento che l’India non era rappresentata in Parlamento una volta terminato il dominio della Compagnia delle Indie Orientali. Dal 1861 un terzo dei membri saranno cooptati dal Viceré fra i principi, i grandi proprietari terrieri e gli amministratori indiani al loro servizio.

Parte integrante di questa nuova politica fu la posizione defilata assunta dallo Stato coloniale nell’amministrazione a livello locale e la crescente importanza riconosciuta ai preminenti fra i notabili indigeni: grandi proprietari terrieri, grandi mercanti, rappresentanti di caste contadine dominanti, capi religiosi.

La ragione di questa concessione fu la necessità di sottrarre l’esercito ai compiti di polizia interna. Tale decisione si basava su due elementi: il primo nell’utilizzare l’esercito nei vari altri scacchieri determinanti per l’imperialismo britannico, spesso al di fuori del subcontinente; il secondo, non meno importante, isolare le forze armate dalle tensioni sociali presenti nella società indiana, per escludere scenari ancor più pericolosi dell’ammutinamento dei Sepoy. Naturalmente l’esercito sarebbe comunque rimasto l’extrema ratio a cui ricorrere per soffocare ogni dissenso interno.

60. - Coinvolgimento degli indiani nella burocrazia coloniale

La burocrazia coloniale si riduceva all’apparato fiscale, rappresentato a livello di distretto da due funzionari, quadri direttivi dell’Indian Civil Service (Ics): il District Commissioner, o Collector, e il suo vice, il Deputy collector. Oberati di lavoro burocratico, non erano assolutamente in grado d’esercitare molte delle funzioni di loro competenza, che venivano delegate a quadri indiani. Una situazione del tutto analoga esisteva nel caso della polizia, composta da ufficiali superiori britannici ma in gran parte costituita da indiani membri delle più importanti caste locali, o spesso assoldati fra bande criminali.

Nella burocrazia civile e nella polizia questi indiani avevano un ruolo cruciale nel reclutamento e nella carriera dei loro inferiori in grado. Legati ai notabili locali da rapporti di parentela, casta e religione, anche se titolari di posizioni apparentemente modeste, godevano di ampi poteri. I notabili, a loro volta, potevano neutralizzare, o quanto meno condizionare, quelle direttive dello Stato coloniale che non erano di loro gradimento, mediante una giudiziosa distribuzione di denaro e di favori.

Ben nota ai vertici coloniali, la corruzione dell’apparato amministrativo indiano era considerata, un male necessario, utile al fluido funzionamento di un sistema economico che rispondeva perfettamente ai requisiti per cui era stato creato, il profitto. Era di fatto un meccanismo che, soprattutto grazie al coinvolgimento, legale o meno, dei notabili locali, costava poco e garantiva il mantenimento della pace sociale e assicurava la regolare riscossione degli introiti fiscali.

La politica del governo coloniale era volta a mantenere un esercito pagato dai contribuenti indiani e l’attuazione di una politica economica che garantisse campo libero alla vendita in India dei manufatti industriali britannici, rendendola esportatrice solo di materie prime e di prodotti agricoli.

Esisteva anche un altro fine, in linea con il vecchio obiettivo della Compagnia: pagare i dividendi ai propri azionisti, ovvero al Tesoro britannico, i cosiddette home charges, i “costi per la patria”, ovviamente, la Gran Bretagna.

In particolare l’India orientale, con la sua metropoli Calcutta, fornì un esempio di società ed economia coloniale: una sterminata classe contadina povera e sfruttata, una ristretta classe di proprietari terrieri istruiti e una ancora più ristretta, ma molto potente, comunità di uomini d’affari europei, che si occupavano del commercio di esportazione. Il surplus di esportazioni necessario all’India per poter pagare il tributo, o “spese nazionali”, provenne quasi sempre da queste regioni orientali.

Le possibili risorse a disposizione del nuovo Stato britannico indiano (Raj) si dimostrarono però limitate. Quella principale consisteva nell’imposta terriera, a cui si aggiungevano i ricavati provenienti dai monopoli sul commercio dell’oppio e sulla produzione e vendita del sale e degli alcolici che, per ovvie ragioni, non potevano essere sfruttati al meglio. Il traffico dell’oppio, inoltre, iniziò a diminuire a partire dall’inizio del Novecento.


61. Minaccia russa e montare della crisi

Sebbene gli avvenimenti del 1857 avessero convinto gli inglesi della pericolosità di aumenti indiscriminati delle tasse, il governo indiano già alla fine degli anni Sessanta dovette imporre un’imposta sulle entrate e un aumento, anche se di poco, di quella fondiaria.

Ma la crisi montò dalla fine degli anni Sessanta quando intervennero due fattori. Il primo fu il declino, a livello mondiale, del valore dell’argento rispetto all’oro: dal momento che la rupia indiana si basava sull’argento e la sterlina britannica sull’oro, questa diminuzione comportò una impennata del costo in rupie degli home charges (pagati in sterline). Un costante declino che continuò fino al 1899 quando la rupia iniziò a basarsi sull’aureo metallo. Il secondo, probabilmente ancor più rilevante, fu rappresentato dai costi per la difesa del sistema imperiale in Asia e in Africa. In questo periodo, infatti, l’espansione della Russia in Asia continuò con vigore non solo verso l’India ma anche la Cina dove, in seguito alle guerre dell’oppio, l’Inghilterra doveva difendere cospicui interessi economici.

La situazione divenne critica quando i russi, dopo la guerra di Crimea, ripresero l’espansione nel Turkestan, grande regione dell’Asia centrale principalmente abitata da popoli turchi, occupando Tashkent nel 1865, Samarcanda nel 1868 e Khiva nel 1873, fino a raggiungere la frontiera afgana.

Il nuovo signore afgano, Sher Alì, che beneficiava del sostegno politico e finanziario del governo indiano, ne approfittò alzando il prezzo della sua fedeltà agli inglesi. Londra rifiutò di mercanteggiare. Iniziò così una missione diplomatica e militare russa in terra afgana, che suscitò la reazione del nuovo governo conservatore inglese, il quale intendeva allontanare i russi da Kabul ristabilendo sul trono una figura amica. Il 20 novembre 1878 le truppe anglo-indiane invasero nuovamente l’Afghanistan, costringendo i russi ad abbandonare Kabul. Poco tempo dopo il rappresentante britannico fu assassinato e gli inglesi furono costretti a riconoscere un nuovo emiro di Kabul.

Se l’esigenza di rispondere alla minaccia russa può aver contribuito a portare i conservatori al governo di Londra, la sconfitta a Kabul diede sicuramente una mano ai liberali per tornare al potere, che in India sostenevano il viceré Lord Ripon, che tante speranze e illusioni aveva suscitato in quella aristocrazia occidentalizzata indiana che da tempo si stava formando nel Nord del subcontinente.

A partire dagli anni ottanta si aggiunse un altro elemento di crisi: l’acutizzarsi della concorrenza fra le varie potenze borghesi impegnate a spartirsi ciò che restava dell’Asia e dell’Africa. Scenario che determinò l’espansione ed una migliore qualità dell’esercito indiano. Fino a quando la Russia rimase potenzialmente ostile, cioè fino al 1907, l’esercito indiano fu infatti sempre foraggiato per essere alla pari con questa grande potenza europea, mentre non destavano particolare preoccupazione gli eserciti dei potentati asiatici ormai in declino, la Cina e la Turchia.

Alla disperata ricerca di nuove risorse, il governo inglese in India si sforzò, da un lato, di rendere più efficiente la macchina amministrativa, dall’altro di escogitare nuove forme di tassazione che non corressero il rischio di suscitare reazioni violente dei sudditi indiani.


62. Le riforme dello Stato coloniale

Una riforma sostanziale dello Stato coloniale cominciò a partire dall’inizio degli anni settanta, costituita essenzialmente su due livelli. Il primo con l’aumento nel Distretto, l’unità amministrativa di base, di quadri direttivi dell’Indian Civil Service, di fatto la Pubblica Amministrazione imperiale in India, sottoponendo i quadri superiori della burocrazia a un più rigido controllo dei vertici coloniali. Il secondo con la differenziazione della burocrazia, che ancora negli anni sessanta si riduceva a un solo apparato con fini essenzialmente fiscali.

Un processo di riforma burocratica così complesso comportò inevitabilmente un aggravio della spesa pubblica e spinse lo Stato coloniale a una maggiore imposizione fiscale.

L’imperialismo britannico, cosciente della necessità di evitare le tensioni sfociate durante la grande rivolta, prese atto che l’unico modo per introdurre nuove tasse era devolvere una serie di compiti amministrativi e di governo a enti elettivi locali, con diritto di imporre nuove tasse.

La possibilità di eleggere gli amministratori di enti municipali venne introdotta per la prima volta nelle Province nord-occidentali con il North-Western Provinces Municipalities Act del 1868. All’inizio degli anni settanta regolamenti analoghi furono varati in altre province e, infine, un embrione di autogoverno locale fu effettuato, attraverso una legge vicereale, dal governo di Lord Ripon il 18 maggio 1882. A partire dagli anni ottanta si diffusero in tutta l’India municipi e consigli rurali di distretto governati da giunte elette. Gli elettorati di questi organi locali di governo erano drasticamente ridotti, in base a criteri di censo, potendo votare solo chi apparteneva a classi agiate e veniva eletto chi faceva parte di quei circoli di notabili sulla cui collaborazione si era solidamente basato il regime coloniale a partire dalla fine della grande rivolta.


63. La strategia inglese attraverso il censimento del 1901

Da questo momento in poi il governo coloniale avviò un’indagine sulla composizione sociale dei propri sudditi, dividendoli in base a categorie quali l’appartenenza religiosa, la casta e, ovviamente, la classe. Questo processo culminò nel 1871 con l’introduzione di rilevazioni censuarie decennali che classificavano gli abitanti dell’India secondo diversi criteri d’appartenenza. A partire dal censimento del 1901 (238 milioni di abitanti) la classificazione venne a sancire la divisione castale secondo un criterio di precedenza legato al rango rituale.

L’imperialismo britannico giustificò questo processo come necessario a tutelare i gruppi più deboli ma in realtà era chiaramente volto a dare alla classe dominante coloniale gli strumenti di conoscenza necessari a dividere i sudditi indiani. Si preveniva inoltre la diffusione di forme di solidarietà politica, intento messo in evidenza dal fatto che, fra i vari criteri di classificazione, non furono considerati quelli che potevano portare al sorgere di gruppi omogenei dominanti su ampie e definite aree geografiche. Infatti i parametri di classificazione linguistica vennero trascurati perché la suddivisione di popoli di lingua bengali, marathi, telugu etc avrebbe incoraggiato il sorgere di gruppi culturalmente omogenei, presenti in zone ben definite, che avrebbero avuto la tendenza a contrapporsi non agli altri gruppi linguistici ma allo straniero che li governava.

Non a caso le uniche lingue che il potere coloniale trascurò di dividere furono l’urdu e l’hindi. Queste, dello stesso ceppo, nell’Ottocento avevano ancora un’identica struttura grammaticale e un ampio numero di vocaboli in comune, erano parlate dal Punjab fino ai confini del Bengala, e il bazaari, la loro forma orale usata nei mercati dell’India del nord, era intesa da tutti. Tuttavia urdu e hindi, nella loro forma colta, si configuravano come due lingue distinte, utilizzate da gruppi sociali ed etnico-religiosi diversi benché presenti sul medesimo territorio. Un processo di cristallizzazione di queste lingue avrebbe favorito la divisione degli abitanti del medesimo territorio in gruppi sociali diversi. L’urdu era infatti l’idioma elettivo dei musulmani, e come tale, almeno nelle Province Unite, utilizzato da consistenti strati urbani, soprattutto artigiani; l’hindi, viceversa, era la lingua della maggioranza dei grandi proprietari terrieri e delle masse contadine, dei grandi mercanti e della nascente piccola e media borghesia urbana, allora in ascesa. In sostanza, quindi, urdofoni e indofoni formavano due gruppi con interessi immediati non coincidenti, delle cui differenze poteva approfittare l’imperialismo britannico, come nel mantenere o meno l’urdu lingua ufficiale nell’amministrazione delle Province Unite.


64. La rete ferroviaria

È in questi decenni che gli inglesi estesero con vigore l’espansione della rete ferroviaria, che sarà completata dopo oltre 60 anni, nel 1920, diventando la più grande al mondo. L’investimento assorbì massicci capitali britannici, raccolti sul mercato finanziario londinese, ma gli interessi dovettero essere pagati dai contribuenti indiani. La costruzione obbediva in primo luogo a finalità militari, rendere più agevole lo spostamento dei reparti nel subcontinente, e, allo stesso tempo, allo sviluppo del capitalismo collegando i principali centri della produzione agricola, destinata all’esportazione, con i grandi porti indiani. Da un lato si sosteneva l’industria inglese, che produceva il materiale rotabile, dall’altro si incrementava l’esportazione di derrate, facendo affluire in India le risorse per pagare l’acquisto dei manufatti industriali inglesi.

Ciò comportò una particolare attenzione verso le pianure settentrionali e la frontiera nord-occidentale. Tuttavia durante tutto il diciannovesimo secolo all’espansione della rete ferroviaria non corrispose un adeguato incremento del carico complessivo di merci trasportate. Alla fine del secolo l’India possedeva circa 40.000 chilometri di strada ferrata, sulla quale erano trasportati ogni anno 46 milioni di tonnellate di merci e 200 milioni di passeggeri, dando lavoro a 400.000 operai. L’introito delle ferrovie era di 315 milioni di rupie. Nel 1928 il numero degli impiegati salirà a 800.000, ma le mansioni meglio retribuite erano sempre assegnate a lavoratori britannici, o anglo indiani (figli di padre britannico e madre indiana), i quali divennero una sorta di casta all’interno dei ferrovieri.


65. Nascita della classe operaia e tensioni nelle classi dominanti

In questo periodo ci fu anche il primo sviluppo di una moderna industria, originariamente localizzata a Calcutta, Bombay e Ahmedabad, per poi diffondersi nel corso del ventesimo secolo in altre regioni del Nord. Questo comportò la comparsa della classe operaia, a Bombay e ad Ahmedabad, di quella imprenditoriale. L’industria moderna alterò solo parzialmente un’economia ed una società che erano ancora prevalentemente agrarie. Le classi sociali egemoni continuarono ad essere costituite dai grandi proprietari terrieri, dalle caste contadine dominanti a livello locale, e da quella nuova classe di mercanti che si occupavano dello smercio della produzione agricola.

Attraverso la strada ferrata i prodotti agricoli indiani arrivavano al mercato internazionale, dove potevano essere venduti a prezzi ben più alti. Questo traffico portò notevoli benefici alle classi dominanti, inglesi e indiane. Ma non ai contadini impoveriti che a milioni morivano in una serie di carestie.

Solo a partire dal 1880, con il “Codice della carestia” (Fantine Code), vi fu un minimo intervento statale a favore delle vittime di questo meccanismo che, dietro la propaganda caritatevole, fu concesso per evitare nuove rivolte. Con “carestia” doveva intendersi un incremento del prezzo degli alimenti di oltre il 140%, spostamenti di popolazione alla ricerca di sostentamento, e mortalità diffusa.

La nuova e ricca classe di mercanti proveniva quasi integralmente dalle caste commerciali indù, tradizionaliste e poco occidentalizzate, da sempre caratterizzate da uno stile di vita spartano. Questi arricchiti mercanti non esibirono la loro crescente ricchezza in consumi vistosi, bensì fornirono sostegno finanziario ai rappresentanti dell’induismo e ai movimenti “riformisti” che prosperavano in questo periodo e che presto si sarebbero omologati all’induismo tradizionale. Poco influenzate dall’occidente, queste classi ambivano a un più alto status sociale imitando i costumi delle caste brahmaniche tradizionaliste e atteggiandosi a protettori della comunità indù, contro l’urdu e a favore dell’hindi.

Nel 1839 l’urdu era stato imposto lingua ufficiale delle Province Unite in sostituzione del persiano. Ora, a partire dalla fine degli anni sessanta, la classe mercantile in ascesa sosteneva, anche economicamente, quegli intellettuali indù che ritenevano l’urdu una lingua “straniera” e ne chiedevano la sostituzione con l’hindi. Invece l’urdu è una lingua autoctona, nata in India, al tempo del sultanato di Delhi, dall’interazione fra il persiano e i dialetti della popolazione indigena della regione intorno a Delhi. Questo attacco era in realtà pianificato verso i discendenti della vecchia classe dominante moghul, che parlavano urdu ed erano diventati proprietari terrieri o burocrati al servizio dello Stato coloniale. Uno strato sociale non esclusivamente musulmano, ma tutti i musulmani delle Province Unite erano urdofoni e, di conseguenza, il movimento per rimpiazzare l’urdu con l’hindi veniva facilmente imposto come antimusulmano.


66. L’Indian National Congress

Un altro importante fatto che caratterizza questo periodo fu l’emergere di una certa politicizzazione dell’opinione pubblica indiana, influenzata in particolar modo da ideali di tipo nazionalista e dalle necessità del nascente capitale. A questo contribuì la diffusione della stampa d’informazione, nelle lingue locali e in inglese. Nelle più grandi città indiane fiorirono associazioni che si occupavano di problemi culturali e politici. Usualmente erano formate da grandi proprietari terrieri, mercanti, dai primi industriali indiani, ma anche da alcuni esponenti delle nuove professioni, giornalisti, insegnanti, avvocati. Generalmente si trattava di associazioni non particolarmente longeve, a determinarne lo scioglimento erano i nascenti conflitti di classe tra i membri, o l’ostilità verso la burocrazia coloniale. A partire dagli anni settanta però, per ogni associazione che cessava, molte altre venivano create o ridiventavano attive. In generale auspicavano una mediazione tra il governo e le classi dominanti indiane, anche contadine.

Due si dimostrarono particolarmente dinamiche: la Poona Sarvajanik Sabha, fondata nel 1870 a Pune, e la Indian Association. Questa, creata a Calcutta nel 1876, era composta quasi esclusivamente da membri delle nuove professioni e nello statuto dichiarava di voler promuovere con ogni mezzo legittimo il progresso politico, intellettuale e materiale del popolo. Il fondatore e principale dirigente di quest’ultima fu Surendranath Banerjee (1848-1925), un brahmano bengalese che era stato fra i primissimi indiani a superare con successo l’esame di ammissione ai quadri direttivi dell’Indian Civil Service, la scuola di formazione degli amministratori indiani.

Era sempre più evidente che solo attraverso una struttura associativa di tipo pan-indiano si sarebbero potuti raggiungere risultati concreti. Ma la vastità del Paese, la differenza fra le situazioni locali, la connivenza di alcune classi con gli inglesi, e in particolare l’ostilità della burocrazia coloniale verso queste associazioni, lo rendevano praticamente impossibile.

La situazione si sbloccò quando nel 1883 Lord modificò la esistente normativa secondo cui i giudici indiani distaccati, al di fuori dai capoluoghi provinciali, non potevano presiedere un processo senza giuria in cui fosse imputato un inglese. La comunità inglese indiana reagì contro la modifica della legge, tanto che il governatore dovette scendere a un compromesso: se ai giudici indiani era concesso il potere di giudicare un imputato inglese in un processo senza giuria, all’imputato inglese veniva però data la facoltà di richiedere di essere giudicato da una giuria composta per almeno della metà da inglesi, ed eventualmente da americani.

Questo causò tra gli indiani un evidente malcontento da cui presero il via due diverse associazioni politiche pan-indiane. Una fu opera dello stesso Banerjee che nel 1883 convocò a Calcutta un Convegno Nazionale (National Conference) a cui furono invitate personalità di varie parti dell’India e che, nelle parole stesse dei suoi organizzatori, «poteva considerarsi il primo passo verso un parlamento nazionale» da convocarsi periodicamente. In effetti una seconda sessione si tenne alla fine del dicembre 1885.

Ma in quegli stessi giorni venne convocato il Congresso Nazionale Indiano (Indian National Congress) di cui protagonista fu lo scozzese Allan Octavian Hume (1829-1912). Hume aderiva a una corrente politica fortemente minoritaria ma presente sia in India sia in Gran Bretagna che sosteneva la necessità di avviare l’India sulla via dell’autogoverno, seguendo una strada già percorsa dai “dominions bianchi” dell’impero britannico. A differenza della maggioranza dei liberali inglesi che a parole lo sostenevano, era convinto della necessità di promuovere tale processo nel presente, attraverso una serie di provvedimenti concreti. Fu presto emarginato dall’ICS (The Indian Civil Service) e si dimise nel 1882, ma rimase in India partecipando attivamente alla vita politica indiana.

In occasione dell’agitazione contro il progetto di legge avviò una serie di contatti con uomini politici e giornalisti indiani, al fine di creare una sorta di confederazione fra le associazioni politiche già attive in India. La complessa opera organizzativa durò circa due anni e coinvolse una serie di associazioni e di singoli, sfociando nella convocazione nel 1885 della prima sessione del Congresso Nazionale Indiano. Questa avrebbe dovuto tenersi a Pune, sede della Sarvajanik Sabha, cioè la più forte fra le associazioni che appoggiarono Hume. Tuttavia, a causa dell’insorgere di un’epidemia di peste, all’ultimo momento la riunione fu spostata a Bombay.

A questa prima sessione, che si tenne dal 28 al 31 dicembre 1885, presero parte in circa ottanta, di cui 73 rappresentanti di varie associazioni. Erano presenti una dozzina di osservatori, in genere dirigenti dell’ICS – europei e indiani – a cui il governo coloniale aveva proibito una piena partecipazione ai lavori del neonato Congresso.

A presiedere questa prima sessione era stato eletto un noto avvocato bengalese, Womesh Chunder Bonnerjee (1844-1906), ma i bengalesi, per quanto allora il gruppo etnico più politicizzato dell’India, erano rappresentati solo da tre delegati, incluso il presidente. La cosa non stupisce, dato che Hume aveva consapevolmente evitato di coinvolgere nella sua azione organizzativa il principale leader politico del Bengala, Surendranath Banerjee. La motivazione di questa esclusione sembra essere stata impedire che vi fosse qualsiasi ombra sull’assoluto lealismo alla Corona e sulla moderazione dell’organizzazione che intendeva fondare. Infatti l’avvocato bengalese era considerato con sospetto dalla borghesia britannica per una serie di campagne di contestazione contro le autorità coloniali, e anche per il suo tentativo, anche se privo di risultati duraturi, di politicizzare parte dei contadini bengalesi.

Con lungimiranza, colui che venne nominato come Rashtraguru (Insegnante della nazione), evitò il consolidarsi di due organismi concorrenti e nel 1886 confluì con la sua National Conference nel Congresso, diventandone in breve il riconosciuto capo del maggiore partito della borghesia indiana.






La questione curda alla luce del marxismo

Seconda parte
Esposta alla riunione generale del gennaio 2022

(segue dal numero precedente)


Il nazionalismo curdo in Iran dopo il 1979

In Iran, due mesi dopo il rovesciamento dello Scià iniziò un’intensa ribellione dei curdi contro il nuovo regime. All’inizio del 1979 i curdi a Sanandaj, dopo che le truppe dell’esercito non riuscirono a disperderli, presero il controllo del quartier generale della polizia, delle basi dell’esercito e di alcune caserme. I disordini si estesero ad altre regioni dove i curdi presero il controllo delle città e delle guarnigioni e cercarono di tenere lontano l’esercito iraniano da Divan Darreh, Saqqez e Mahabad. Il movimento era guidato dal KDP in Iran e dalla Società dei Lavoratori Rivoluzionari del Kurdistan Iraniano (Komala), organizzazione maoista fondata nel 1969, anche se si sostiene che abbia ricevuto aiuti sovietici dopo il 1979, quando rinunciò al maoismo e assunse atteggiamenti esteriormente di sinistra.

Il conflitto etnico tra curdi e azeri nella regione indebolì notevolmente il movimento, ma preoccupò l’ayatollah Khomeini a tal punto da dichiarare la jihad contro di esso. Le Guardie Rivoluzionarie islamiche impiegarono fino a tutto il 1980 per riconquistare completamente il Kurdistan orientale, uccidendo forse più di 10.000 curdi, mentre fino al 1983 gruppi di soldati del KDP continuarono a ingaggiare scontri di basso livello contro le forze iraniane.

Nel frattempo era scoppiata la guerra tra l’Iran di Khomeini e l’Iraq di Saddam Hussein. Il KDP in Iran fu sostenuto dal governo iracheno fino al 1988, mentre il KDP in Iraq e il PUK strinsero un accordo con il governo iraniano. Con l’appoggio delle forze iraniane, i ribelli riuscirono a ottenere il controllo di diverse zone del Kurdistan meridionale.

La partigianeria nella guerra imperialista tra Iran e Iraq fu un’ulteriore prova dell’incapacità dei curdi di agire come nazione unitaria e ciascuna delle componenti nazionali, divise su base statale, divenne ancora una volta pedina del Paese vicino, che nel frattempo non rinunciava a opprimere i curdi in patria.


La campagna di Al Anfal (1988) e la rivolta proletaria nel Kurdistan meridionale (1991)

Prima di passare alla repressione delle ribellioni curde degli anni ’80, Saddam Hussein aveva disperatamente cercato un patto con il PUK promettendo ai curdi l’autonomia. Tuttavia nel 1986, avendo l’Iran mediato un accordo tra il KDP iracheno e il PUK, il governo baatista iniziò la famigerata campagna Al Anfal per annientare gli insediamenti curdi con bombe, esplosivi e gas asfissianti.

Nel 1987 ci fu una rivolta ad Halabja, che era diventata una roccaforte dei disertori della guerra Iran-Iraq. I soldati dell’esercito iracheno, inviati a sterminare le masse in rivolta, furono invece convinti a unirsi a loro. Nelle settimane successive ci furono rivolte in diverse altre città curde. Il governo riuscì a impedire che si trasformassero in altre Halabja solo tagliando l’elettricità e chiudendo le moschee, che venivano usate come luoghi di riunione. I disertori conquistarono la vicina città di Sirwan, senza l’aiuto dei nazionalisti curdi, per poi essere bombardati dal governo. Halabja era diventata un’immensa minaccia per la continuazione della guerra e fu bombardata e occupata dalla Guardia Rivoluzionaria iraniana. Saddam Hussein minacciò che «tutti coloro che non difendono la loro nazione, la loro terra, sono considerati traditori e non esiteremo ad annientarli con ogni mezzo a nostra disposizione».

I soldati iniziarono a lasciare la città, molti dei quali consegnarono le armi ai disertori. Ma le forze del PUK, aiutate dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane, entrambe con le maschere antigas pronte, circondarono Halabja e impedirono ai proletari di lasciare la città, mentre davano il passo ai propri familiari, ai sostenitori e ai facoltosi. Dopo il massacro saccheggiarono e violentarono. L’attacco con i gas ad Halabja causò 15.000 morti, tutta la campagna di Al Anfal, di cui faceva parte, provocò 180.000 vittime secondo fonti curde e tra le 50 e le 100.000 secondo Human Rights Watch.

In seguito alla campagna di annientamento ad Halabja e nel resto del Kurdistan meridionale il PUK e il KDP erano talmente screditati da decidere di fondersi nel Fronte del Kurdistan.

Quando all’inizio del 1991 iniziò la nuova ondata spontanea di rivolte nel Kurdistan meridionale, questi partiti si mossero per impadronirsi del denaro nelle banche e controllare gli edifici governativi, le istituzioni statali e il commercio di armi, al fine di garantirsi il potere.

La rivolta acquisì rapidamente un contenuto di classe. Solo a Silêmanî e Hewlêr, nei quartieri popolari, nelle piazze e nelle piccole fabbriche si formarono quasi un centinaio di shura spontanee e auto-organizzate di lavoratori per affrontare questioni contingenti. Questa esperienza rispecchia quella dell’Iran del 1979, dove si formarono shura di operai e contadini in tutto il Paese, compreso il Kurdistan orientale. Il movimento era decisamente contrario ai partiti nazionalisti curdi, Barzani e Talabani non potevano avvicinarsi a Silêmanî, e si cantavano slogan internazionalisti come "Festeggeremo il nostro nuovo anno con gli arabi di Baghdad". Le shura organizzarono una milizia in tutto il Kurdistan meridionale, non riconosciuta dal Fronte del Kurdistan. Silêmanî fu la prima città conquistata dai ribelli e l’ultima ad essere ripresa dall’esercito iracheno.

Solo dopo la sconfitta della rivolta, il KDP e il PUK mobilitarono le loro forze e ripresero Silêmanî e altre città del Kurdistan meridionale dall’esercito iracheno, firmando infine un accordo con Saddam Hussein che riconosceva la loro esistenza come regione curda autonoma all’interno dei confini iracheni.

La debolezza della coraggiosa rivolta del giovane proletariato curdo meridionale è stata solo che, nonostante la presenza di numerosi gruppi radicali che si dichiaravano comunisti, non esisteva un vero partito comunista mondiale che la guidasse e la legasse alle lotte proletarie nel resto del pianeta.

I proletari e i soldati disertori di entrambi i fronti si trovarono contro la solidarietà di tutti i partiti e delle forze armate in campo, benché si dichiarassero in guerra nazionale, mentre erano ormai solo pedine degli Stati e delle potenze imperialiste, costituendo la verifica finale del loro carattere ormai irrimediabilmente controrivoluzionario, sia nei confronti della classe operaia e del comunismo sia degli stessi obiettivi nazionali che sostenevano di perseguire.


Il PKK dalla fondazione (1978) alla capitolazione (1999)

Sebbene una sezione del KDP di Barzani in Turchia fosse stata fondata nel 1965, il nazionalismo curdo contemporaneo nel Kurdistan settentrionale affonda le sue radici nei movimenti stalinisti di vario tipo che vennero alla ribalta dopo il 1968. Negli anni ’70, nel Kurdistan settentrionale operavano numerose organizzazioni nazionaliste curde "di sinistra". Queste organizzazioni borghesi, come le varie organizzazioni di sinistra turche, erano armate e in guerra non solo con i Lupi Grigi fascisti, ma anche tra loro.

In queste condizioni, nel 1975 emerse ad Ankara dal movimento studentesco un gruppo che si faceva chiamare Rivoluzionari del Kurdistan, i cui capi più in vista erano Abdullah Öcalan, Haki Karer, Kemal Pir, Mazlum Doğan e Hayri Durmuş. Il gruppo sosteneva che il Kurdistan fosse una colonia dei quattro Paesi, dove occupanti e collaboratori locali cooperavano. Di conseguenza miravano a condurre una lotta di liberazione nazionale contro queste forze, per la quale era necessaria un’organizzazione illegale che dirigesse la lotta armata. Lo scopo della lotta armata era quello di incoraggiare le masse, e quindi organizzare eserciti sempre più regolari, e attraverso una “guerra popolare” fondare un Kurdistan indipendente, democratico e unito. Inizialmente il gruppo continuò a organizzarsi tra studenti, insegnanti e classi medie istruite. Nel 1976, il gruppo decise di spostare il proprio centro di attività da Ankara al Kurdistan settentrionale. Abdullah Öcalan fu eletto presidente e Haki Karer vicepresidente. Öcalan già aveva contatti segreti con l’Agenzia Nazionale di Intelligenza turca. Lo spiegherà poi: «L’Organizzazione nazionale dei servizi segreti voleva usare me, ma io ho usato loro».

Questo pullulare di gruppi opportunisti e nazionalisti curdi non ha giovato allo sviluppo delle lotte operaie del proletariato turco, molto vivaci negli anni Settanta. Al di là di ogni considerazione sulla lealtà dei capi, il movimento nazionalista curdo fu allora un ostacolo allo sviluppo delle lotte operaie in Turchia.

Nel 1977 Haki Karer fu assassinato a Gaziantep, dove si era trasferito per svolgere attività politica. Secondo il fratello minore Baki, Haki Karer il giorno prima aveva annunciato che avrebbe indagato sui rapporti di Öcalan con un sospetto agente dei servizi segreti turchi. L’indagine non fu mai svolta, ma l’omicidio di Karer influenzò la decisione di fondare un partito politico per la liberazione del Kurdistan.

Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) si costituì alla fine del 1978 in un villaggio vicino a Diyarbakır. Nel suo programma, che lamentava l’esistenza in Kurdistan di un “capitalismo turco” piuttosto che “curdo”, il PKK negava in larga misura l’esistenza di una borghesia curda, incoraggiandone al contempo lo sviluppo. Pertanto, prevedevano quello che può essere descritto come un “blocco di tre classi”: la piccola borghesia urbana, i contadini e il proletariato, avrebbero condotto la rivoluzione nazionale contro gli occupanti coloniali turchi, arabi e persiani e i loro collaboratori “feudali”. Furono sconfessati tutti coloro che negavano l’indipendenza come fine del movimento nazionale curdo.

Infatti, fino alla morte di Haki Karer, il PKK aveva difeso ideologicamente la lotta armata, ma non aveva mai cercato di organizzarla. Da allora iniziò a scontrarsi in armi contro altri curdi e turchi di sinistra. Il suo programma e le sue azioni dimostravano che il PKK di questo periodo era un tipico movimento nazionale stalinista, già antiproletario.

All’inizio del 1978, nella città curda di Hilvan era stato ucciso un militante dei Rivoluzionari del Kurdistan di nome Halil Çavgun. Il suo assassino era un membro della tribù Süleymanlar, un proprietario terriero. I Rivoluzionari del Kurdistan due mesi dopo risposero uccidendo il capo della tribù Mehmet Baysal. Nelle battaglie che infuriarono nei mesi successivi tra i due gruppi, i nazionalisti curdi ottennero gradualmente un ampio sostegno in città. A metà del 1979, il PKK inscenò un audace attentato contro un parlamentare curdo e capo della potente tribù dei Bucak.

Di fronte all’incapacità dei partiti parlamentari di contenere gli scontri armati tra i vari gruppi politici e al crescere della lotta di classe, le forze armate turche nel 1980 organizzarono un colpo di Stato, sostenuto dagli Stati Uniti. Ben presto in tutto il Paese la maggior parte degli esponenti della sinistra, ma anche alcuni fascisti, furono imprigionati, e molti di loro giustiziati. Tutti costoro furono sottoposti a torture, ma i detenuti della prigione militare di Diyarbakır, a maggioranza curda, ebbero la peggio. Il PKK guidò la resistenza nella prigione di Diyarbakır, con scioperi della fame e autoimmolazioni per protestare contro le orribili condizioni imposte dall’amministrazione militare della prigione.

Molti curdi fuggirono in Europa. Come abbiamo scritto «L’identità culturale e il nazionalismo curdo al di fuori del Kurdistan sono in gran parte mantenuti dalle comunità all’estero e dai governi che le hanno ospitate. I centri culturali curdi in Svezia e in altri Paesi europei, così come i siti web, propagandano liberamente il nazionalismo curdo. In Europa, i curdi hanno ottenuto dagli anni ’70-’80 il riconoscimento dell’autonomia culturale». I regimi “democratici” di Europa e America hanno utilizzato le organizzazioni nazionaliste curde per i loro interessi economici, diplomatici e militari, speculando ipocritamente sui racconti dei rifugiati curdi in Europa circa le torture subite da loro o dai loro compagni.

Un numero considerevole di militanti del PKK è fuggito attraverso il confine sguarnito della Turchia con la Siria. Il PKK ha stretto un accordo con il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, nazionalista maoista, per l’addestramento dei suoi volontari. Quando questi sono diventati troppi perché il FDLP potesse gestirli, sono stati stipulati accordi simili con Al Fatah, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, il Fronte di Lotta Popolare Palestinese e il Partito Comunista Libanese. Öcalan ha svolto un ruolo importante nelle relazioni diplomatiche con tutte queste organizzazioni.

Come abbiamo scritto in "I curdi nel pantano del Medio Oriente" (“Il Partito Comunista”, n.368, 2014): «Agli inizi degli anni Sessanta il governo siriano pretese di arabizzare i territori di frontiera tra la Turchia e l’Iraq, abitati da curdi e da minoranze cristiane. Questa regione, dalle terre fertili e ricche di petrolio, aveva conosciuto movimenti autonomisti anche durante il mandato francese. Ma Hafiz al Asad arrivato al potere nel 1971 pose fine all’arabizzazione forzata, cercando di allearsi con i curdi contro i Fratelli Mussulmani, tanto che nel 1982 i curdi parteciparono attivamente alla repressione sanguinosa delle rivolte da questi organizzate. Le guardie del corpo di Hafiz erano spesso costituite da curdi o da cristiani, verso i quali praticava la stessa politica di protezione. I curdi di Siria non godevano di alcun diritto politico o culturale ma non erano perseguitati, almeno fino a che non avanzavano alcuna rivendicazione politica».

Il sostegno della Siria ai gruppi curdi era, almeno inizialmente, più tacito che palese. In pratica Damasco non ha bloccato il flusso di rifugiati illegali dalla Turchia, non ha creato problemi ai militanti curdi che si erano stabiliti in Siria e non ha ostacolato il traffico verso il Libano. Tuttavia, non è che la Siria fosse disinteressata ai nuovi arrivi. Innanzitutto, la Siria aveva la sua popolazione curda di cui preoccuparsi e voleva assicurarsi che i curdi siriani non fossero incoraggiati a schierarsi contro lo Stato. Sebbene questa fiducia nella benevolenza siriana non avesse ancora indotto il PKK a cambiare il suo programma ufficiale, che prevedeva un Kurdistan indipendente esteso su parte della Siria, esso limitò la sua opposizione aperta al regime siriano.

Nel 1984 il PKK era pronto per la guerra contro la Turchia. I suoi esploratori tornarono dalla Turchia portando informazioni sulla posizione delle truppe e sui sentimenti nazionalisti. Decine di militanti erano saldamente insediati nel Kurdistan settentrionale, dove lavoravano a mettere insieme una milizia civile. Alcune aggressioni a presunti collaboratori curdi avevano fatto guadagnare al PKK simpatie nella regione. Gli attacchi del PKK colsero Ankara di sorpresa. Stava per essere revocata la legge marziale, sotto la quale il Paese era governato dal colpo di Stato militare del 1980. Il governo civile appena insediato inizialmente non prese sul serio gli attentati. Ma alla fine Ankara si mosse facendo pressione su Barzani affinché cacciasse i ribelli dal Paese. Barzani, preoccupato di una possibile rappresaglia turca, chiese al PKK di trasferire le proprie basi e di non organizzare attacchi vicino al confine. Ma il PKK rifiutò.

Alla fine del 1984, il ministro degli Esteri turco, accompagnato da un gran numero di militari, si recò a Baghdad per discutere la situazione. Essendo sia la Turchia sia l’Iraq contrari all’indipendenza curda in qualsiasi parte del Kurdistan, la Turchia ebbe poche difficoltà a negoziare un accordo che permettesse ai suoi militari di condurre raid sugli accampamenti del PKK nel Kurdistan meridionale. Senza dubbio l’Iraq sperava che qualsiasi operazione transfrontaliera turca avrebbe preso di mira anche il partner meridionale del PKK, con cui Baghdad era in guerra. Tuttavia l’Iraq è rimasto piuttosto diffidente nei confronti della Turchia, tanto da rifiutare alle truppe turche di spingersi oltre i cinque chilometri in territorio iracheno. I timori di Barzani di essere preso di mira in qualsiasi incursione turca si concretizzarono presto. A metà del 1986, nel secondo anniversario dell’inizio della lotta del PKK, l’aviazione turca bombardò il Kurdistan meridionale, uccidendo circa 100 civili curdi iracheni e combattenti del KDP. L’esercito turco continuò a effettuare operazioni minori l’anno successivo. Barzani, dopo aver resistito per un anno, a metà del 1987 abbandonò formalmente il protocollo con il PKK. Tuttavia l’alleanza aveva permesso al PKK di stabilirsi militarmente all’interno del Kurdistan meridionale, in maniera così ben radicata, che era impossibile sloggiarlo senza un assalto armato aperto.

Allo stesso tempo, lo Stato turco spesso, dopo un attacco della guerriglia arrestava a caso persone di origine curda. Gli abitanti dei villaggi, il cui unico contatto con il PKK poteva essere quello di fornire loro involontariamente del cibo, erano imprigionati insieme a nazionalisti curdi esperti e impegnati. Così le carceri, soprattutto la prigione militare di Diyarbakır, divennero alcune delle più importanti zone di reclutamento del PKK.

Infine, all’inizio del 1990, scoppiò una rivolta popolare. La scintilla fu l’uccisione di tredici guerriglieri nel loro nascondiglio in una grotta. Gli scontri, iniziati durante il funerale di uno dei caduti, rapidamente si diffusero nel resto del Kurdistan settentrionale. La tempistica, in prossimità della ricorrenza del Newroz curdo, contribuì ad aumentare le tensioni. L’esercito cercò di controllare le proteste. Furono imposti coprifuoco e fatti affluire blindati. Le manifestazioni erano scoppiate senza alcun coinvolgimento del PKK, che ne fu colto di sorpresa quanto lo Stato. Lo Stato turco si trovò ad affrontare un’insurrezione su larga scala. Da un lato le proteste dimostrarono che il popolo non era più disposto a sopportare l’oppressione, dall’altro che la borghesia era riuscita a far cadere il proletariato nella trappola dello scontro tra nazionalismi, una guerra infinita fattore di distrazione e conservazione sociale per le borghesie di tutti i gruppi etnici.

Sebbene la direzione di Öcalan nel PKK fosse stata messa in discussione da alcuni capi dell’organizzazione in Europa, come Çetin Güngör, assassinato dal PKK nel 1985, e il suo compagno Baki Karer, che ha evitato per un soffio una sorte simile, dal punto di vista politico questi dissidenti hanno rinunciato rapidamente alla lotta armata e si sono evoluti in una linea riformista nazionale.

La sfida più ambiziosa e significativa alla direzione del PKK iniziò al 4° congresso del PKK, tenutosi alla fine del 1990. Le unità armate del PKK furono criticate per il fallimento dei raid contro obiettivi militari turchi e per essersi concentrate su obiettivi sbagliati o poco importanti, tra cui contadini disarmati. L’incursione nei villaggi di Mardin fu denunciata come la macchia più nera nella storia del partito e furono respinte politiche come la coscrizione forzata.

L’uomo con maggiori responsabilità era Mehmet Cahit Şener. Rilasciato dalla prigione di Diyarbakır, dove era stato uno dei capi della resistenza carceraria, si era unito ai guerriglieri nella valle della Bekaa in Siria nel 1989, dove il PKK aveva il suo quartier generale. Şener chiese indagini sulle esecuzioni interne avvenute nel campo di addestramento della Bekaa e nei campi del PKK vicino al confine iraniano. Inoltre insistette affinché il Comitato Centrale fosse responsabile delle finanze del PKK, che fino a quel momento erano controllate esclusivamente da Öcalan.

Dieci giorni dopo la fine del congresso Öcalan emise un mandato di arresto per Şener, insinuando che fosse un agente turco. Şener, fuggito, dopo alcuni mesi annunciò la formazione del PKK-Vejin (Resurrezione). Denunciò i numerosi stupri commessi dai capi del PKK tra le donne del movimento e si oppose alla collaborazione con il governo di Saddam durante la rivolta del 1991. Şener e i suoi si dichiaravano fedeli al programma del primo PKK, in contrasto con la crescente tendenza alla collaborazione della sua dirigenza. Tuttavia anche il programma del primo PKK era stato scritto in un periodo in cui una rivoluzione nazionale non poteva più essere all’ordine del giorno in Kurdistan, quindi il PKK-Vejin portava avanti una causa già persa.

Mehmet Cahit Şener e due suoi compagni furono assassinati a Qamishlo, nel Kurdistan occidentale, alla fine del 1991 in un’operazione congiunta del PKK e dell’intelligenza siriana. Subito dopo fu annientato il PKK-Vejin, l’ultima organizzazione nazionalista armata mirante all’indipendenza del Kurdistan.

Dal 1990 il parlamento ha svolto un ruolo importante nella strategia del PKK, i cui sostenitori, attivisti per i diritti umani, si sono uniti ai socialdemocratici curdi, scissi dal Partito Popolare Socialdemocratico per formare il Partito del Lavoro Popolare. Questo partito legale è stato proibito dopo che i suoi deputati sono stati arrestati per aver aggiunto una frase in curdo al loro giuramento parlamentare. È stato sostituito da una serie di partiti che si sono succeduti nel corso del decennio: il Partito della Democrazia, il Partito della Democrazia Popolare e il Partito Democratico del Popolo.

Nel 1993, Öcalan accettò un cessate il fuoco con la Turchia. Accompagnato da Talabani in una conferenza stampa a Bar Elias, in Libano, Öcalan dichiarò che il PKK non cercava più uno Stato separato, ma la pace, il dialogo e la libera azione politica per i curdi in Turchia nel quadro di uno Stato democratico. Con la dichiarazione di cessate il fuoco del PKK in mano, Turgut Özal, il presidente neoliberale dell’epoca, aveva intenzione di proporre un importante pacchetto di riforme alla successiva riunione del Consiglio di Sicurezza Nazionale turco, ma morì in circostanze misteriose e i piani non furono mai realizzati, e presto ricominciarono gli scontri.

Lo Stato turco fece distruggere oltre 4.000 villaggi, costringendo 3.000.000 di curdi alla condizione di rifugiati, oltre a incendiare le foreste del Kurdistan settentrionale. Circa 20.000 civili, per lo più curdi, sono stati uccisi dai cosiddetti "assalitori sconosciuti", anche se è risaputo che responsabili di queste operazioni segrete erano le bande sostenute dallo Stato. A sua volta il PKK spesso uccideva i contadini che non lo sostenevano e, a un certo punto, lanciò una campagna che portò all’uccisione di centinaia di insegnanti per combattere l’influenza culturale turca in Kurdistan.

Nel frattempo il PKK partecipava alla guerra civile del Kurdistan meridionale, durata dal 1994 al 1997, tra il KDP in Iraq e il PUK, schierato dalla parte di quest’ultimo, fomentata dall’Iran dal 1995. La guerra causò quasi 10.000 morti e si concluse, dopo un paio di interventi militari turchi nel Kurdistan meridionale contro il PKK, di un accordo con la mediazione degli Stati Uniti fra il KDP e il PUK. La guerra tra Turchia e PKK è costata la vita a decine di migliaia di guerriglieri e soldati di leva.

Nel 1997 il PKK è stato dichiarato dagli Stati Uniti organizzazione terroristica. Alla fine del 1998 la Siria cedette alle minacce turche di invasione e Öcalan dovette lasciare il Paese. Dopo aver trascorso diversi mesi a cercare asilo politico in Europa, a Nairobi, in Kenya, fu catturato dai Servizi turchi. Sull’aereo su cui era stato caricato dopo la cattura Öcalan dichiarò davanti alle telecamere: «Amo la Turchia, amo il popolo turco. Credo che li servirò bene, lo farò se ne avrò la possibilità».

Naturalmente, per noi marxisti, non esistono eroi così, come non esistono diavoli. Più che con il comportamento individuale di Öcalan, quando a capo del PKK o prigioniero, è stata la realtà sociale e politica che ha permesso e ha fatto accettare tale comportamento. Tutto ciò va attribuito alla debolezza e alle divisioni della borghesia nell’arretrato Kurdistan, pronta a coesistere e a scendere a compromessi con i sopravvissuti elementi feudali e patriarcali. Non è certo per colpa di Öcalan se il PKK non ha mai smesso di essere un’organizzazione nazionalista reazionaria, al servizio, in tempi diversi, di ogni Stato impegnato nell’oppressione dei curdi, e che aveva abbandonato l’obiettivo dell’indipendenza. «L’eroica lotta armata condotta dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan in Turchia, certamente la più radicale nel panorama del nazionalismo curdo», come abbiamo scritto nel 1991, è stata impotente di fronte alle mutate condizioni storiche e quindi destinata alla sconfitta.


KRG (2005), AANES (2013) e la questione curda oggi

Dopo la cattura di Öcalan il PKK ha vissuto il trapasso ideologico dallo stalinismo al "confederalismo democratico". In tutte le parti del Kurdistan si sono formati partiti fratelli del PKK. Nel Kurdistan meridionale si è chiamato Partito della Soluzione Democratica del Kurdistan (2002), nel Kurdistan occidentale Partito dell’Unione Democratica (2003) e nel Kurdistan orientale Partito della Vita Libera del Kurdistan (2004). Lo stesso PKK ha cambiato nome in Congresso per la Libertà e la Democrazia del Kurdistan (2002), per subito rinominarsi Congresso del Popolo del Kurdistan (2003) e poi nuovamente PKK (2005).

Nel frattempo, il cessate il fuoco unilaterale dichiarato dal PKK terminò a metà del 2004. Questi partiti fratelli si sono presto uniti sotto l’ombrello dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (2005), essenzialmente un proto-Stato con il Congresso del Popolo come parlamento. Il PKK stesso è rimasto la forza guida dell’organizzazione ombrello e degli altri partiti. Come i nuovi nomi hanno reso evidente, i cambiamenti ideologici e organizzativi del PKK avevano lo scopo di renderlo accettabile e utile agli USA, i quali, dopo gli attentati dell’11 settembre, sembravano decisi a svolgere un ruolo più importante in Medio Oriente.

I maggiori vincitori del maggiore coinvolgimento americano in Medio Oriente sono stati i partiti nazionalisti curdi meridionali. Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2003, sia il KDP, ormai un tipico partito conservatore, sia il PUK, un tipico partito socialdemocratico, si presentarono subito come i maggiori sostenitori della "transizione democratica" dal sanguinario regime di Saddam Hussein. Sono stati ricompensati profumatamente: al KDP è stata affidata la presidenza del Governo Regionale del Kurdistan, istituito nel 2005, che sarebbe stato governato in collaborazione con il PUK, mentre a questo è stata affidata la cerimoniale ma prestigiosa presidenza dell’Iraq. Sotto questi due partiti ben presto il Governo regionale del Kurdistan sarebbe diventato una delle amministrazioni più corrotte al mondo, spesso perfino incapace di pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici.

Nel 2009 una scissione dal PUK denominata Movimento per il Cambiamento (Gorran), un partito centrista "anti-corruzione", ha minacciato per breve tempo il potere da parte del KDP e del PUK, per poi essere presto smascherato e perdere ogni sostegno.

Rivolte e, in misura minore ma significativa, scioperi sono diventati frequenti nel Kurdistan meridionale, dove i manifestanti hanno più di una volta dato fuoco alle sedi dei vari partiti in questa o quella città. Sono frequenti anche gli omicidi e gli arresti dei manifestanti. Sebbene lo sfortunato referendum sull’indipendenza di Mas’ud Barzani del 2017 sia stato ampiamente sostenuto dalla popolazione del Kurdistan meridionale, in generale la partecipazione elettorale rimane estremamente bassa.

Sebbene l’affiliato del PKK nel Kurdistan meridionale non abbia avuto molto successo, lo stesso non si può dire dei partiti del Kurdistan orientale e occidentale. Nel primo, il Partito della Vita Libera del Kurdistan ha lanciato un’insurrezione su bassa scala contro lo Stato iraniano. Si ritiene che finora siano morte circa 1.500 persone durante il conflitto. L’affiliato del PKK è stato sostenuto dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Bush, ma questa politica è stata rivista sotto l’amministrazione Obama, che ha dichiarato il partito organizzazione terroristica.

Il maggiore successo, tuttavia, l’ha avuto il Partito dell’Unione Democratica (PYD) nel Kurdistan occidentale. Sebbene, a causa dei legami storici del PKK con il governo siriano, il PYD non lo abbia avversato come il suo corrispondente orientale ha attaccato l’Iran, si è fatto coinvolgere dall’opposizione curda quando ne ha avuto l’opportunità.

Nel 2004, una partita di calcio a Qamishlo tra una squadra locale curda e una araba ha scatenato violenti scontri tra i tifosi delle opposte parti che si sono riversati nelle strade. I tifosi arabi hanno girato per la città in autobus insultando Barzani e Talabani ed esibendo ritratti di Saddam Hussein. In risposta i curdi gridavano "Sacrificheremo le nostre vite per Bush". La tensione tra i gruppi è montata, i tifosi arabi hanno attaccato i curdi con bastoni, pietre e coltelli. Le forze di sicurezza hanno sparato sulla folla, uccidendo sei curdi, tre bambini. I curdi hanno preso brevemente il controllo della città, hanno incendiato la sede del Partito Ba’th e rovesciato una statua di Hafiz al-Asad. In risposta l’esercito siriano ha mobilitato e ripreso la città. Diverse decine di curdi sono stati uccisi e migliaia sono fuggiti nel Kurdistan meridionale. Il PYD ha preso parte attiva a questi eventi, rafforzando la sua posizione tra i curdi siriani.

Nel 2012, il primo ministro turco islamista Erdoğan ha annunciato che il governo stava trattando con Öcalan per porre fine al conflitto tra lo Stato e il PKK. Dopo mesi di negoziati il messaggio di Öcalan al popolo è stato letto a Diyarbakır, in turco e in curdo, durante le celebrazioni del Newroz 2013. La lettera, dichiarando la fine della lotta armata, chiedeva il cessate il fuoco unilaterale, il disarmo e il ritiro dal territorio turco. Il PKK ha annunciato che avrebbe obbedito. Erdoğan ha accolto la lettera attendendosi che al ritiro del PKK seguissero passi concreti. Di lì a poco il PKK ha annunciato che avrebbe ritirato nel Kurdistan meridionale tutte le sue forze dall’interno della Turchia.

Tuttavia, mentre il governo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) trattava con Öcalan, faceva anche il tifo per lo Stato Islamico che nel 2014 aveva assediato Kobanê, tenuta dal PYD, nel Kurdistan occidentale. Erdoğan, che nel frattempo era stato eletto presidente, dichiarò che la città stava per cadere e il suo vice primo ministro Arinç si faceva beffe dei difensori: «non sono in grado di opporre una seria resistenza... È facile rapire la gente, ma questi non sanno combattere».

Nel Kurdistan settentrionale e ovunque i nazionalisti curdi avevano indetto manifestazioni. Ci furono delle rivolte in molte parti della Turchia, dove, secondo i dati ufficiali, vennero uccise 43 persone, la maggioranza nazionalisti curdi. Come scrivemmo all’epoca, «le manifestazioni, alcune molto violente, in numerose città, sono state duramente represse (...) Il governo di Erdoğan impose il coprifuoco in sei province del Paese a maggioranza curda (...) Il PKK annunciò che nel caso che i curdi di Kobanê fossero massacrati porrebbe fine al cessate il fuoco che aveva decretato nel marzo del 2013, dopo decenni di guerriglia, e riprenderebbe la lotta armata. Il 13 ottobre, dopo tre giorni di attacchi del PKK alle forze di sicurezza nel Sud-Est della Turchia, aerei turchi bombardavano le loro posizioni. La popolazione curda serve di nuovo da carne da cannone in una guerra sotterranea che oppone le borghesie mondiali e regionali».

Queste morti non impedirono il proseguimento dei negoziati. All’inizio del 2015, l’ala parlamentare del PKK, il Partito Democratico dei Popoli (HDP), e il governo turco dichiaravano di aver raggiunto un accordo. Dopo un periodo di cessate il fuoco ampiamente riuscito, le elezioni generali turche del 2015 portarono a un forte guadagno per l’HDP (13% dei voti, +7,5%), un altrettanto forte calo per l’AKP (41% dei voti, -9%) e un parlamento appeso.

Di lì a poco, dopo che due poliziotti erano stati uccisi nel Kurdistan settentrionale, il governo turco ha lanciato operazioni di polizia nelle città e militari nelle campagne contro il PKK, ponendo fine al cessate il fuoco e al processo di pace. Le operazioni sarebbero continuate negli anni successivi, portando alla distruzione di numerose città del Kurdistan settentrionale. Tutti i sospettati del PKK per l’uccisione di due poliziotti turchi nel 2018 sono stati assolti dal tribunale, in mancanza di prove. Il “processo di pace” tra la Turchia e il PKK ha dimostrato ancora una volta che nel capitalismo pace è quando si prepara la prossima guerra.

Nel 2011 scoppiò una rivolta civile in Siria. «I partiti curdi in Siria, salvo il PYD-PKK, hanno fondato il Consiglio Nazionale Curdo Siriano, schierandosi dalla parte della popolazione araba che si opponeva a Bachar al-Asad. I militanti del PYD-PKK invece non hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime siriano e in qualche caso hanno tentato di impedirle. Nel marzo 2011 Bachar al-Asad per riconciliarsi con i curdi ha pubblicato un decreto che concedeva la carta d’identità a 300.000 curdi apolidi, liberava alcuni prigionieri politici curdi e accordava la possibilità di tornare agli esiliati».

Nei mesi successivi, la crisi siriana è degenerata. L’opposizione armata ha travolto le forze di sicurezza e preso il controllo di diverse regioni. A metà 2012 la Siria ha ritirato l’esercito dalla maggior parte del Kurdistan occidentale, lasciando il potere alle milizie create dal PYD. Queste hanno ripagato il favore concentrando la maggior parte delle loro energie nella lotta contro organizzazioni come l’Esercito Siriano Libero, il Fronte al-Nusra e infine lo Stato Islamico.

«Nel luglio 2012 a Erbil, nel Kurdistan iracheno, Mas’ud Barzani del PDK riuniva e riconciliava tutti i partiti curdi siriani compreso il PYD-PKK. Quest’ultimo acconsentiva a partecipare alla cogestione delle città e della popolazione delle zone curde siriane, ma si rifiutava di formare una forza armata unificata con i peshmerga curdi siriani, che volevano allearsi all’Esercito Siriano Libero».

Fino al 2013 il PYD ha lavorato con il Consiglio Nazionale Curdo, composto per lo più da sostenitori del KDP, ma in seguito ha abbandonato questa alleanza. Nel 2015 il PYD sarà il più stretto alleato degli Stati Uniti in Siria e, sotto l’influenza americana, ha creato un fronte armato con milizie di alcune organizzazioni arabe e non solo, sotto il nome di Forze Democratiche Siriane.

Dopo che l’SDF ha sconfitto lo Stato Islamico, l’esercito turco ha invaso la città di Afrin e alcune altre zone del Kurdistan occidentale. Prive del sostegno militare americano, di cui hanno goduto contro lo Stato Islamico, quando hanno affrontato l’esercito turco le SDF sono state aiutate dalle Forze di Difesa Nazionale, la maggiore milizia filogovernativa della Siria. Nonostante le perdite subite, grazie al sostegno politico americano, l’SDF ha mantenuto gran parte del suo territorio. Nel 2018, l’SDF ha annunciato l’Amministrazione Autonoma della Siria Settentrionale e Orientale (AANES).

Nonostante si dipinga come sostenitore dei diritti delle minoranze e dell’amicizia tra i popoli, il PYD non ha mai abbandonato il nazionalismo. Il capo del PYD, Salih Muslim, ha dichiarato: «La politica del governo siriano ha portato molti arabi nelle aree curde. Tutti i villaggi in cui vivono appartengono ora ai curdi. Un giorno gli arabi che sono stati portati nelle aree curde dovranno essere espulsi». I cristiani assiri si sono lamentati delle evacuazioni forzate e dell’educazione storica curdizzata e dell’indottrinamento apoista impartito nelle scuole. Ai manifestanti si spara, i dissidenti sono imprigionati e torturati. In breve, non c’è nulla di strano nell’AANES. Come abbiamo scritto nel 2014: «Il proletariato curdo ha tutto da perdere in questa guerra. Né ha nulla da attendersi dai governi e dai partiti curdi, borghesi e collaborazionisti, salvo il terrore, gli attacchi alle condizioni di lavoro, la disumanità dei loro metodi».


Conclusione

I curdi sono una nazionalità che ha tardato a sviluppare il capitalismo. Il nazionalismo curdo si è sviluppato in una regione già sottoposta all’avidità dell’imperialismo e non ha avuto la forza di emanciparsi dall’influenza di diversi Stati per formare un unico Stato nazionale borghese o, in ultima analisi, anche un unico movimento nazionale borghese.

Le correnti rivoluzionarie nazionali in Kurdistan si sono estinte da quasi un secolo. In una regione così schiacciata dai vari imperialismi e dai loro alleati reazionari nazionali, non c’è alcuna possibilità per loro di riapparire.

Il proletariato in Kurdistan, come ovunque, deve organizzarsi come classe indipendente, esprimendosi attraverso le proprie organizzazioni economiche di classe e costituendo i primi gruppi di avanguardia, man mano che appaiono in vari contesti, in un’unica struttura globale, il Partito Comunista Internazionale.

Dopo la rivoluzione, il potere comunista in gran parte del Kurdistan dovrà affrontare una situazione economica caratterizzata da un tessuto industriale povero e da un’agricoltura arretrata. È importante tenere presente che «la classe operaia industriale rivoluzionaria abbraccerà senza restrizioni il lavoratore agricolo delle grandi imprese e in questo modo impedirà la regressione del lavoratore rurale alla condizione di piccolo contadino. Potrebbe considerare i mezzadri e gli affittuari semiproletari come alleati, tollerando la loro aspirazione al libero uso della terra, cosa che solo la rivoluzione può realizzare. Solo con grande cautela e come misura temporanea potrebbe aspettarsi un sostegno positivo dai piccoli proprietari terrieri contadini che non sono ancora stati rovinati e proletarizzati dal capitalismo».

In alcune aree di particolare arretratezza del Kurdistan il partito propaganderà una riforma agraria radicale, i contadini saranno spinti ad allearsi con il proletariato urbano, e dopo la rivoluzione si potrà realizzare questa riforma agraria radicale che fornirà migliori condizioni di vita ai contadini e permetterà un uso più efficace delle risorse agricole.

Le enclave curde non significano in alcun modo uno Stato nazionale borghese indipendente che sviluppa liberamente il capitalismo. La loro esistenza è semplicemente tollerata dalle borghesie irachena e siriana e garantita solo nella misura in cui sono sostenute dalle maggiori potenze imperialiste.

Nel Kurdistan di oggi, tutte le formazioni nazionaliste curde sono reazionarie e dipendono dal sostegno di questa o quella potenza imperialista.

La rivalità tra le enclave e i vari partiti nazionalisti curdi divide anche i settori più combattivi del proletariato curdo. Il proletariato troverà un nuovo nemico se il Kurdistan sarà unito sotto il dominio di una qualsiasi forza nazionale curda, con le sue aspirazioni imperialiste e l’oppressione delle minoranze.

Il proletariato curdo, come quello palestinese, ceceno e tuareg, non ha nulla da aspettarsi dalla sempre più improbabile creazione di uno Stato curdo. La borghesia curda è ormai incapace della benché minima azione progressista. Una volta al potere, sostenuta da altri Stati o potenze imperialiste, opprimerà il proletariato del Kurdistan, sia esso curdo, arabo o turkmeno, come già avviene nel Kurdistan iracheno, che gode di un’autonomia quasi totale dal governo di Baghdad, al punto che già nel 1991 sfuggì completamente al controllo del regime di Saddam dopo l’istituzione della no-fly zone. Si può dire che il Kurdistan iracheno costituisca già da tre decenni uno Stato di fatto.

Allo stesso tempo, la stragrande maggioranza delle classi lavoratrici turche, iraniane e arabe continuano a sostenere le aspirazioni imperialiste delle proprie borghesie, il che comporta di per sé una rinuncia alla propria lotta di liberazione. Pertanto, il partito comunista deve continuare a fare appello ai proletari dei quattro Paesi affinché lottino per la sconfitta degli imperialismi delle loro borghesie. La presa del potere da parte del proletariato implicherà necessariamente la fine di ogni oppressione nazionale contro le minoranze etniche dell’area e quindi anche contro i curdi.

Detto questo, la soluzione comunista, cioè l’instaurazione di una dittatura comunista con la formazione temporanea di una federazione proletaria di Stati, può essere raggiunta solo dalla lotta unitaria dei proletari di tutte le provenienze nazionali non solo del Kurdistan ma di tutto il Medio Oriente. Come abbiamo scritto nel 1953: «I marxisti radicali hanno giustamente combattuto la tesi socialdemocratica della semplice autonomia linguistica "culturale" all’interno di uno Stato unitario nei Paesi plurinazionali, sostenendo l’autonomia totale per le nazionalità minoritarie, non come risultato borghese o facilitato dalla borghesia, ma come risultato del rovesciamento del potere statale centrale con la partecipazione dei proletari della propria nazionalità dominante».«Il comunismo non è “la notte in cui tutte le vacche sono grigie”. Accanto a una comune lingua unica della specie umana, per lungo tempo ogni popolo continuerà a parlare la propria lingua, e accanto a una tendenza all’affratellamento internazionale si manterrà una grande diversità di sensibilità, di costumi e di culture» (2015).

Di conseguenza, la chiave per la soluzione della questione nazionale curda rimane nelle mani del proletariato rivoluzionario, diretto dal suo partito comunista internazionale, l’unica classe i cui interessi richiedono oggi l’abolizione di ogni oppressione nazionale.

* * *


Appendice
Il Movimento nazionale curdo

V. Surto (“Mosca”, Organo del III Congresso dell’Internazionale Comunista, n.7, 1° giugno 1921)

Il Kurdistan è di nuovo in preda all’insurrezione. Non è la prima volta che i curdi si sollevano per scrollarsi di dosso il giogo dei pascià e dei bey; da tempo ne hanno abbastanza della dominazione dei califfi.

Sono già quarant’anni che questo movimento ha assunto contorni precisi e dal 1903 ha anche il suo organo “Kurdistan”, scritto da Bedir Khan Bey, che non ha smesso di condurre un’energica campagna per l’emancipazione del popolo curdo. I centri di questi “sognatori” erano Silêmanî [Sulaymaniyya], Sakkya e Senneh [oggi oggi Sanandaj]. I sultani dovettero combattere contro i curdi, ma tutte le spedizioni che intrapresero non portarono a nulla, e le spietate repressioni perpetrate dai giannizzeri ebbero il più delle volte risultati opposti a quelli sperati.

Il sultano Abdul-Hamid fu il primo a cercare di “stimare” i curdi al loro vero valore. Voleva comprarli. Distribuì terre ai bey e agli sceicchi, che sono i capi temporali e spirituali dei curdi, concesse loro benefici, titoli nobiliari, dignità. La tribù Ḥamāvand, tra le altre, ricevette vasti pascoli in segno di gratitudine per i servizi resi alla Porta durante la guerra russo-turca.

Il Sultano si sforzò di usare i curdi per sottomettere gli armeni, che aveva sempre considerato un elemento pericoloso per la sicurezza dello Stato turco; a questo scopo diede ai curdi pieni poteri sugli armeni: potevano imporre tasse a piacimento e saccheggiare impunemente i villaggi armeni; per un certo periodo furono gli strumenti ciechi delle atrocità turche: erano responsabili di massacri e pogrom. Con questa politica il Sultano riuscì a seminare la divisione tra i curdi, ma gli intellettuali curdi erano consapevoli del danno causato da queste pratiche perniciose e combatterono duramente contro la corrente di corruzione emanata dalle autorità turche.

La propaganda dei giovani agitatori curdi non fu senza effetto: i curdi rifiutarono sempre più di sottomettersi agli ordini dei pascià e dei bey, ed è interessante ricordare che durante l’ultima guerra, migliaia di famiglie armene inseguite dai massacri turchi trovarono rifugio e un valido sostegno nei villaggi curdi.

Il movimento nazionale curdo è di grande interesse. I curdi sono un popolo in parte sedentario in parte nomade; sembra tuttavia che stiano tendendo a diventare decisamente sedentari; si dedicano principalmente all’allevamento. Le tribù sono ancora molto vitali e la nazione curda, come la intendiamo noi, comincia appena a prendere forma, ma ciò non impedisce che il sentimento nazionale sia molto vivo e che le insurrezioni che nascono su questo terreno abbiano un carattere di estrema ferocia. Questo fatto, che a prima vista sembra paradossale, si spiega facilmente se si pensa al regime di terrore sanguinario che ha regnato a lungo nella regione.

Ma questa non è ancora la causa principale del movimento rivoluzionario nazionale curdo. La causa principale risiede nel regime economico del Paese. Si presenta sotto l’aspetto di un Paese montuoso difficilmente accessibile, con vasti pascoli e un numeroso bestiame; potrebbe essere quasi autosufficiente, e i rari prodotti d’importazione li riceve dalla Persia, dall’Armenia e dalla Mesopotamia; quanto alla metropoli, è collegata ad essa solo da relazioni amministrative e politiche, senza altro. Per quanto riguarda la cultura intellettuale, i curdi devono tutto agli arabi della Mesopotamia, la cui influenza è stata decisiva.

Durante la guerra questa influenza è stata messa a frutto non senza successo dagli inglesi, che hanno cercato, attraverso una propaganda guidata dagli arabi, di sollevare i curdi contro i turchi. Se l’obiettivo non fu raggiunto, la neutralità di un certo numero di tribù curde fu assicurata.

Dopo la guerra, gli inglesi abbandonarono ogni speranza di utilizzare il movimento nazionale curdo per i loro interessi imperialisti. Tuttavia, ci sono tutte le ragioni per credere che gli inglesi continuino a sovvenzionare i nazionalisti curdi ancora oggi.

Questo non vuol dire, inoltre, che il movimento nazionale curdo abbia qualcosa di artificiale e sia suscitato solo dalle manovre interessate degli imperialisti. Al contrario, ha un marcato carattere di spontaneità. È diretto dalla gioventù curda organizzata in una Società di Mutuo Soccorso, che ha il suo centro a Costantinopoli e filiali in tutte le città dell’Anatolia orientale e della Mesopotamia. L’organo dei nazionalisti è “Djinn”, pubblicato a Costantinopoli. Un gran numero di propagandisti di questa società, sparsi in tutte le città del Kurdistan, conduce un’instancabile agitazione per l’autonomia del Kurdistan.

L’enorme influenza di questa propaganda sulle masse curde è tale che il Ministro della Porta, Ferid Pasha, non ha potuto non riconoscerla. Kemal Pasha, salito al potere, si affretta a promettere loro l’autonomia, ma i curdi non disarmano, apprezzando questo tipo di promesse al loro vero valore, poiché hanno visto l’Armenia ingannata dallo stesso Kemal.

Nel 1919, Kemal era riuscito a reprimere senza pietà gli insorti curdi, ma attualmente una simile repressione sarà molto più difficile da attuare perché la realizzazione della “Grande Turchia” sognata dai kemalisti si scontrerà con un’ostilità multipla, tanto tra gli abitanti delle campagne quanto tra le varie nazionalità che popolano l’Asia Minore.








Le ideologie della borghesia
(Segue dal numero precedente)

Parte 2
Il feudalesimo

Esposta alla riunione del gennaio 2023
 

I primi tentativi della borghesia di dotarsi di una propria ideologia risalgono alla sua nascita intorno al XIII secolo.

Dei secoli precedenti e del feudalesimo abbiamo trattato su “Comunismo” n.85 (“La successione dei modi di produzione - La forma di produzione terziaria”).

L’illuminismo e la borghesia hanno dato una valutazione negativa del medioevo: entrambi hanno in comune l’idea antistorica e antimaterialista di un millennio sostanzialmente omogeneo. Il feudalesimo non è stato un fenomeno monolitico, non si è sviluppato contemporaneamente ovunque, ha avuto caratteristiche diverse a seconda dei tempi e dei luoghi. Diversi storici si sono serviti di questa giusta constatazione per negare, o sottovalutare, l’esistenza di un comune denominatore, consistente nel sistema di produzione feudale e nei rapporti sociali conseguenti.

Anche il capitalismo, che si è imposto più o meno gradualmente nel mondo, ha caratteristiche diverse nelle diverse aree. L’economia e la società capitalistica del Bangladesh non è uguale a quelle del nord America, ma le leggi che regolano società e mondi così diversi sono le stesse, sono le leggi del capitalismo. Nessun modo di produzione esiste in una forma “pura”, in ognuno di essi restano residui più o meno grandi delle forme di produzione precedenti, che non si annullano per decreto.

E in ognuno di essi assistiamo al nascere di embrioni di forme di produzione nuove, che inizialmente possono anche inserirsi bene nel vecchio mondo e non metterlo in discussione, ma sono poi destinate a scardinarlo.

I primi embrioni di feudalesimo sono visibili già nell’impero romano del III e IV secolo, quando, per un insieme di fattori, va in crisi il sistema produttivo del latifondo basato sullo schiavismo. L’esaurimento del suolo, il pesante carico fiscale e l’insicurezza portano i contadini, prima indipendenti, a cercare difesa presso i grandi proprietari fondiari, che li mandano a coltivare le terre migliori e a pascolare gli armenti su quelle peggiori. Lentamente schiavi e contadini indipendenti vedono sfumare i confini tra di loro, diventando coltivatori sulla terra di un grande proprietario, dalla quale non potranno più allontanarsi, pur non essendo degli schiavi.

L’imperatore romano Diocleziano nell’ultimo decennio del III secolo attuò importanti riforme amministrative, monetarie (fallite), e fiscali. A base della tassazione era messa l’annona, il contributo in natura introdotto per il mantenimento dell’esercito. I proprietari erano tassati in base agli abili al lavoro (capita) e al numero di terreni sufficienti a mantenere una persona (iuga). A questo fine fu introdotto un censimento nell’intero impero ogni 5 anni. Caput e iugum non erano entità fisse: spesso una donna valeva mezzo caput, e lo iugum variava a seconda del tipo di terreno.

Con la riforma amministrativa che istituiva la tetrarchia, la divisione dell’impero in dodici diocesi e raddoppiando il numero delle province a 96 (dovute in parte al posteriore imperatore Costantino), il potere dei governatori delle provincie andò a rafforzare il potere centrale. Il potere dei governatori diminuì però anche nei confronti dei proprietari terrieri locali, specialmente se di ordine senatorio.

Gli effettivi dell’esercito raddoppiarono arrivando a quasi 500.000. Le riforme fiscali, amministrative e monetarie generarono un grande aumento del numero dei burocrati nell’amministrazione imperiale. Il retore e apologista cristiano Lattanzio diceva che c’erano più uomini che vivevano del denaro delle tasse di quanti le pagassero.

All’interno delle province c’erano i municipi, ai cui funzionari, i curiales, spettava la riscossione delle tasse. Questi tendevano ad abbandonare tale attività poiché erano responsabili in prima persona in caso di mancata riscossione dei tributi; Diocleziano decise quindi di rendere la loro funzione ereditaria. Vincolati alla loro attività furono anche gli artigiani e soprattutto i contadini, i quali spesso fuggivano per non pagare le tasse. Per evitarlo erano ora sempre più legati alla terra che coltivavano, insieme alla quale venivano venduti e comprati.

La riforma di Diocleziano non portò grandi risultati, per cui l’imperatore Costantino nell’anno 313, oltre il famoso editto di Milano, emanò anche l’editto dell’indizione, riguardante le tasse: il principio dell’ereditarietà fu applicato in modo più ampio e completo, con l’asservimento obbligatorio alla terra. L’ereditarietà valeva anche per artigiani e commercianti. Nell’anno 332 Costantino vietò ai coloni di abbandonare il proprio terreno, pena la riduzione in schiavitù. Gli schiavi continuavano a lavorare la terra insieme ai coloni, ma le loro condizioni erano sempre più simili.

L’impero romano per i suoi cittadini era ormai sinonimo di una tassazione sempre più vessatoria e insopportabile, oltre che di arroganza del potere centrale e dei grandi proprietari. Quindi, i cosiddetti barbari furono sempre più visti come dei liberatori.

Da “Comunismo” n. 84, “La successione dei modi di produzione nella teoria marxista - La forma di produzione secondaria, variante germanica”:

«Nei secoli di declino dell’impero romano, la città, residenza dei grandi proprietari fondiari, aveva perduto il predominio sulla campagna e non riuscì più a riconquistarlo, il che corrispondeva alla dissoluzione dello Stato quale autorità centrale. Economicamente questa decadenza ebbe la conseguenza di un abbassamento della produttività del lavoro, soprattutto agricolo, nei grandi latifondi a coltura estensiva. La soluzione poteva essere solo il loro smembramento in parcelle da affidare a contadini-lavoratori a titolo di proprietà privata per sviluppare l’agricoltura in maniera intensiva. Le grandi ville romane – a causa del costo eccessivo della manodopera schiavista e del degrado del loro rendimento produttivo – vengono smembrate, il che significa la fine delle colture a carattere estensivo; il rapporto del produttore immediato rispetto agli strumenti di produzione muta progressivamente, passando per lo stato del colono, per addivenire alla servitù della gleba (...) La distinzione fondamentale tra le varianti antico classica e asiatica e quella germanica è che nelle prime i rapporti della proprietà fondiaria comportano forme collettive che assicurano la predominanza allo Stato; nella germanica invece la proprietà privata prevale sulla proprietà fondiaria collettiva, che è al servizio della prima».

Il feudalesimo nasceva lentamente e faticosamente dall’incontro, dallo scontro e dalla sintesi tra un mondo romano e un’economia schiavistica del latifondo ormai in declino, e un mondo per lo più germanico che si imponeva per diritto di conquista, ma dotato di una struttura economica e sociale più arretrata.

«Le strutture sociali più avanzate dei vinti agivano su quelle dei vincitori. Lo spezzettamento fondiario operato dai romani aveva termine e si verificava l’opposto processo di concentrazione della terra nelle mani dei signori, da cui si svilupperà il rapporto di servaggio».

Una precisazione sui germani: è vero che tali erano la maggior parte dei popoli che si sono prima stanziati entro i confini dell’impero, poi lo hanno conquistato, ma con loro c’erano popoli di origine slava e turco-mongola, come gli Unni, gli Ungari, gli Avari. Inoltre le tribù sconfitte entravano talvolta a far parte di quelle vincitrici, o si fondevano con altre: la purezza della razza non è mai esistita.

Con Carlo Magno, re dei Franchi, incoronato da papa Leone III imperatore del Sacro Romano Impero nella notte di Natale dell’anno 800, la struttura feudale fu regolata, anche se non si può parlare di centralizzazione riguardo al feudalesimo, nonostante i tentativi in questo senso da parte di chi deteneva il potere. Rinacque qui l’alleanza tra trono e altare, già inaugurata da Costantino, da posizioni di forza, nell’anno 325 indicendo il concilio di Nicea, continuata da Teodosio nel 380 con l’editto di Tessalonica che proibiva tutti i culti al di fuori del cristianesimo niceano.

I vari popoli germanici si erano progressivamente convertiti al cristianesimo, ma nella versione ariana, ad eccezione dei Franchi.

L’alleanza era nell’interesse sia di Carlo Magno sia del papa, in quanto entrambi volevano sottrarsi alla soffocante egemonia di Bisanzio, pur essendo, per loro fortuna, geograficamente distante. Le nomine a conti e marchesi da parte di Carlo Magno potevano essere da lui revocate e i titoli non erano ereditari: questo permetteva un potere centrale nelle mani dell’imperatore, per quanto possibile in una struttura feudale.

Con la morte di Carlo Magno nell’anno 814 e la spartizione dell’impero tra i suoi successori, iniziò il lento declino dell’impero, divenuto germanico, che durerà un millennio, fino al 1871. Il potere centrale, difficoltoso fin dalle origini, venne sempre più eroso dai signori feudali. Una ribellione di questi nel regno di Francia di Carlo il Calvo, portò al Capitolare di Quierzy, nell’anno 877,con cui fu riconosciuta l’ereditarietà dei grandi feudi.

Nel X secolo la dinastia sassone degli Ottoni, nell’impero romano-germanico, tentò di ridare forza al potere imperiale nominando come feudatari dei vescovi, che, in quanto tali, non potevano trasmettere ereditariamente il feudo, che tornava quindi nella disponibilità dell’imperatore. Era anche ribadita l’autorità dell’imperatore sul papa, di fatto nominato dal primo.

Questo tentativo degli Ottoni ebbe successo ma non durò molto. Imperatori e feudatari, nonostante i numerosi scontri, erano consapevoli di non poter fare a meno gli uni degli altri. Con la “Constitutio de feudis” emanata nel 1037 dall’imperatore Carlo II il Salico, fu riconosciuta l’ereditarietà dei feudi minori: nell’XI secolo il feudalesimo assunse le sue più tipiche caratteristiche di frammentazione del potere. In questo stesso secolo nascevano, o rinascevano, le città.


La Chiesa di Roma

Due testimonianze di segno opposto sugli ecclesiastici, provenienti dallo stesso ambiente della Chiesa. I vescovi della provincia di Narbonne, nel 1054, dicevano: «Nessun cristiano uccida un altro cristiano, perché è indubbio che uccidere un cristiano significa versare il sangue di Cristo». Il vescovo Burcardo di Worms, intorno al 1024 scriveva: «Ogni giorno omicidi degni di bestie selvatiche vengono commessi tra i dipendenti di San Pietro. Ci si balza addosso per ubriachezza, per orgoglio o senza ragione alcuna. Nel corso di un anno, trentacinque servi di San Pietro, assolutamente innocenti, sono stati uccisi da altri servi della Chiesa; e gli assassini, anziché pentirsi, si gloriano del loro crimine». Queste testimonianze ci aiutano a comprendere il mondo di allora, ma lasciamo volentieri ad altri i giudizi morali. Siamo lontani dagli apologisti come dai detrattori.

Ciò che è degno di analisi è il ruolo svolto dal cristianesimo della Chiesa di Roma, di ideologia e di legittimazione del feudalesimo come struttura sociale. La Chiesa, oltre alla sua funzione ideologica, era anche parte organica di quella società: i principi-vescovi di Bressanone, ad esempio, hanno esercitato il potere sui loro territori dal 1027 al 1803.

Il cristianesimo, prima di divenire l’ideologia del mondo feudale, non è stato l’ideologia dello schiavismo. Questo perché, quando è diventato la religione dell’Impero romano, il modo di produzione schiavistico cominciava già lentamente a declinare. Il cristianesimo si è identificato con l’ideologia imperiale romana, ma non con un particolare modo di produzione. Un cristianesimo con una identità univoca non esiste: esistono i cristianesimi, a seconda dei tempi, dei luoghi, e, soprattutto, delle classi sociali. Il cristianesimo delle origini è stato inteso dagli schiavi e dagli “ultimi” come un moto teso alla loro liberazione, e in questo ha avuto una valenza rivoluzionaria. I proprietari e i potenti lo hanno però inteso diversamente, e in maniera più veritiera.

Quando parliamo di cristianesimo delle origini non ci riferiamo alla figura di Gesù, che, per quel poco che ne sappiamo, non voleva fondare alcuna religione, ma restaurare l’ebraismo. Lo stesso vale per gli Esseni: erano forme di millenarismo e di messianismo allora molto diffuse, che prendevano ispirazione dai profeti biblici. Gli Esseni erano eretici nei confronti dell’ebraismo tradizionale farisaico. Gesù e Giovanni il battista, in maniera diversa, erano eretici nei confronti degli Esseni, con cui probabilmente avevano avuto dei rapporti: erano degli eretici al quadrato.

Il vero fondatore del cristianesimo è Paolo di Tarso, definito da Gramsci “il Lenin del cristianesimo”, per le sue indubbie qualità per le quali è stato riconosciuto come capo dai suoi seguaci. Paolo ha detto che i padroni dovevano trattare gli schiavi come fratelli, e che gli schiavi non solo devono fare altrettanto, ma devono anche restare nel posto a cui Dio li ha destinati. Nella “Lettera ai Romani” leggiamo: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio». Nella “Lettera agli Efesini”: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo». Nessuna abolizione della schiavitù: la liberazione, pur desiderata fortemente in quanto parte del sincero sentimento di fratellanza tra tutti gli uomini, è rimandata alla vita futura, quella del Regno dei Cieli.

In maniera analoga, molti secoli dopo, Hegel tenta di risolvere le contraddizioni reali del mondo materiale trasportandole nel mondo dello spirito assoluto.

Con Paolo di Tarso sono mantenuti alcuni aspetti contraddittori contenuti nei Vangeli, e sono persi altri aspetti di valenza rivoluzionaria. Nei Vangeli Gesù dice che il regno dei cieli è in mezzo agli uomini, qui ed ora: è legittima l’interpretazione in senso immanente, per cui il regno dei cieli va realizzato nel mondo reale. Con Paolo il regno dei cieli acquista una distanza abissale, e ormai incolmabile, dal mondo.

Il cristianesimo è stato l’ideologia del mondo feudale, pur esistendo prima, e continuando ad esistere dopo. Ha avuto grandi scontri col mondo moderno, che lo metteva in discussione, ma ha anche mostrato una grande capacità di adattamento; mostrata anche negli anni ’60 del XX secolo, con il Concilio Vaticano II.

Alla fine della società feudale, di cui era espressione, il cristianesimo sopravvive a sé stesso: questo nel XVI secolo, quando la borghesia interpreta e usa la Riforma protestante ai suoi fini, e soprattutto nel XVII, quando la borghesia approda al giusnaturalismo.

Ciò è visibile anche nel barocco, modalità artistica affascinante e al tempo stesso inscindibile dal cristianesimo della controriforma. L’esaltazione che fa l’arte barocca della fede, della gloria, del potere e della ricchezza della Chiesa, nonché la sua ridondanza, tende a coprire la paura del vuoto, del nulla, della morte. Questa è una presenza dominante nel barocco, accompagnata dalla biblica vanità delle vanità. A questa onnipresenza della morte possiamo dare due spiegazioni. La prima è quella di sempre, che consiste nella funzione delle religioni in genere, di esorcizzare la paura della morte. La seconda consiste nel senso di morte, della propria morte, da parte di un mondo feudale o semi-feudale e del suo apparato ideologico e di potere. La Chiesa della controriforma sente puzzo di cadavere, ma non può accorgersi che il fetore proviene da lei stessa.

Con la scomparsa della struttura sociale feudale, di cui è la rappresentazione ideologica, nonostante il potere della Chiesa resti ancora forte e duraturo, il cristianesimo diviene una testa senza corpo, un’ombra senza realtà, un fantasma destinato a rimpiangere sé stesso in eterno, come le anime dannate che Dante incontra nel suo Inferno.


Feudalesimo e feudalesimi

Il feudalesimo ha avuto caratteristiche diverse a seconda dei luoghi e dei tempi. Il feudalesimo del Sacro Romano Impero di Carlo Magno e successori non è stato uguale a quello visto altrove. Ci sono state regioni come la Scandinavia, l’Irlanda, e la Frisia (regione di confine tra le attuali Olanda e Germania), rimaste sostanzialmente estranee a tale sistema produttivo e sociale. Sistema che assunse aspetti diversi nell’Impero bizantino, data la permanenza di un forte potere centrale, a differenza dei territori dell’ex impero d’occidente.

Lo storico Marc Bloch, nel suo testo “La società feudale”, scrive dell’Impero bizantino:

«Là, dopo la reazione anti-aristocratica del secolo VII, un governo – il quale aveva conservato le grandi tradizioni amministrative dell’epoca romana e che era, inoltre, preoccupato dal bisogno di crearsi un solido esercito – creò tenure gravate da obblighi militari nei confronti dello Stato: veri e propri feudi, in un certo senso. Ma, diversamente che in Occidente, feudi di contadini, costituiti ciascuno da una modesta gestione rurale. I sovrani, da quel momento, non ebbero cura più preziosa di quella di proteggere quei “beni di soldati”, al pari d’altronde dei piccoli proprietari in generale, contro l’accaparramento da parte dei ricchi e dei potenti.

«Tuttavia, verso la fine del secolo XI, venne il momento in cui l’Impero, sopraffatto dalle condizioni economiche che rendevano sempre più difficile a contadini indebitati salvare la loro autonomia, indebolito altresì da interni contrasti, cessò di esercitare sui liberi campagnoli qualsiasi utile protezione. Non vi perdette soltanto preziosi cespiti fiscali; cadde, contemporaneamente, nelle mani dei magnati, soli capaci, da quel momento, di levare, tra i loro dipendenti, le truppe necessarie».

Poche righe prima leggiamo che «le società dove sopravvisse un contadiname armato o ignorarono l’organizzazione vassallatica, al pari di quella della signoria, o ne conobbero soltanto forme assai imperfette».

L’Inghilterra ci mostra invece una società di tipo germanico con un’evoluzione quasi spontanea, almeno fino all’XI secolo e all’invasione normanna. Accanto ai rapporti feudali di vassallaggio coesistono i più antichi gentilizi. È con l’invasione normanna che possiamo parlare di un pieno feudalesimo. L’Inghilterra ha inoltre una caratteristica che la distingue dalla gran parte del mondo feudale: l’assenza di terreni allodiali, almeno nel periodo successivo alla conquista normanna: i nuovi signori si sono impossessati di tutta la terra disponibile. Gli allodi, in genere di piccola o piccolissima dimensione, presenti quasi ovunque nei secoli del medioevo, sono liberi da gravami feudali, e spesso coltivati dagli stessi che coltivavano la terra del signore: sono decisamente importanti per la sopravvivenza dei contadini, che ne possono disporre dell’intero raccolto. Anche nella contemporanea Francia settentrionale i terreni allodiali sono inesistenti o quasi.

Ancora diversa è la situazione della Spagna, dove il feudalesimo si impose in gran parte a partire dall’XI secolo, in conseguenza della “riconquista” operata dai regni cristiani del Nord della penisola. Qui la necessità di ripopolare territori abbandonati dai musulmani, e la conseguente presenza di coloni costituiti da contadini armati, che spesso fuggivano dalle forme più pesanti di soggezione signorile, porta a condizioni meno gravose per questi ultimi. Ciò non vale per la Catalogna, marca dell’Impero carolingio, e per l’Aragona, che subiva l’influsso dei Franchi.

Ci sono state forme di feudalesimo d’importazione o quasi: l’Inghilterra dopo l’invasione normanna del 1066 e gli Stati fondati dai crociati dopo il 1099. In Inghilterra furono introdotte le istituzioni feudali francesi, che i vichinghi avevano fatte proprie dopo essersi installati nella regione poi chiamata Normandia.

Diamo ancora la parola al Bloch. «L’Italia meridionale, prima dell’arrivo dei Normanni, era divisa fra tre dominazioni. Nei principati longobardi di Benevento, Capua e Salerno era assai diffusa la pratica delle sudditanze personali, senza tuttavia che queste si fossero elaborate in un regolare sistema gerarchico. Nelle pianure bizantine, alcune oligarchie terriere, guerriere e spesso anche mercantili, dominavano la moltitudine degli umili, a cui li legava talvolta una specie di patronato. Infine, là dove regnavano gli emiri arabi non esisteva nulla di analogo, neppur lontanamente, al vassallaggio».

Anche all’interno dell’Impero di Carlo Magno vi sono situazioni diverse. I territori ad est dell’Elba sono cristianizzati, e in parte ripopolati, da genti germaniche. Ancora più a est, Polacchi e Russi subiscono scorrerie e dominazioni di popolazioni turco-mongole. In Russia la servitù della gleba si impone pienamente solo alla metà del XVI secolo, con lo zar Ivan IV il terribile e con la sua vittoria di Kazan contro i tatari. In Sardegna il feudalesimo arriva nel XV secolo, insieme al dominio aragonese. Altre forme di feudalesimo sono quelle dell’Impero ottomano e dell’Impero giapponese.

Anche la fine di tale sistema di produzione e di rapporti sociali è molto diversificata nel tempo: in Russia la servitù della gleba è stata abolita nel 1861, e in Romania le corvées nel 1864.

Ai borghesi piace accusare i marxisti di schematismo, che ci impedirebbe di cogliere la ricchezza della storia. In realtà di schematico c’è solo la loro paura, e il conseguente odio, verso il nostro determinismo che, applicato all’analisi delle varie società e forme di produzione succedutesi, suona la campana a morto per il loro mondo. Lo schematismo è tutto dei borghesi, come anche i miti, in positivo o in negativo, riguardo al mondo feudale.

Il comunismo scientifico ha sempre avuto presente la complessità di quel fenomeno che è stato il feudalesimo, e la sua estrema diversificazione nello spazio e nel tempo. Ciò è reso molto chiaro per esempio in una lettera di Engels a Marx in data 16 dicembre 1882. Engels aveva compreso che, se le corvées tendevano a regredire e anche a scomparire nel XII e XIII secolo, questo non avveniva anche ad est dell’Elba, in Prussia, in Polonia e in Russia, dove alla fine del medioevo si andava formando un “secondo servaggio”, arrivato poi fino al XIX secolo.

In questa grande varietà c’è un denominatore comune: il feudalesimo consisteva in un sistema di produzione e di rapporti sociali con un basso livello tecnologico e una conseguente produzione agricola che non andava oltre la sussistenza. In tale sistema la classe signorile, laica o ecclesiastica, si appropriava di tutto, o quasi, il sovrappiù della produzione rurale, assicurata dai contadini. Alla Chiesa andava la “decima”.


La ideologia della società feudale

La società feudale è composta essenzialmente da due classi: quella di chi lavorava la terra, in gran parte servi della gleba, e quella, improduttiva, di chi si impossessa del loro lavoro. Ci sono anche artigiani e mercanti, pur importanti ma marginali, almeno nell’alto medioevo, e installati nei pori della società, a cui pure erano funzionali.

La rappresentazione ideologica di tale società è tripartita. Già nel IX secolo il re d’Inghilterra Alfredo il Grande scrive che il re deve avere “uomini di preghiera, uomini da cavallo, uomini da lavoro”. Intorno al 1020 il vescovo Adalberone di Laon in un suo poema al re capetingio Roberto il Pio scrive: «La società dei fedeli forma un sol corpo; ma lo Stato ne comprende tre», queste tre parti sono da lui definite come oratores, coloro che pregano, bellatores, coloro che combattono, e laboratores. Questi sono indicati come servi, con una definizione fuorviante, ma è molto interessante leggere: «Denaro, vestiti, nutrimento, i servi forniscono tutto a tutti quanti; nessun uomo libero potrebbe vivere senza i servi. C’è un lavoro da fare? Ci si vuol dare alle spese? Vediamo re e prelati farsi servi dei propri servi; il padrone è nutrito dal servo, lui che pretende di nutrirlo».

Queste parole fanno venire in mente la dialettica servo-padrone di Hegel. Ovviamente in questa concezione tra le tre parti, poi chiamate “ordini”, e poi ancora “stati”, non c’è antagonismo ma armonia. Ancora dal poema citato: «Queste tre parti che coesistono non soffrono per il fatto di essere separate: i servizi resi da una sono la condizione delle opere delle altre due; ciascuna a sua volta si incarica di aiutare l’insieme. Così, questo triplice gruppo non è meno unito, ed è così che la legge ha potuto trionfare e il mondo può godere la pace».

Tutte le società di classe, ieri come oggi, aspirano alla “pace”, che altro non è che l’accettazione dello stato di fatto da parte delle classi soggette; stato di fatto identificato con la volontà di Dio, poi con la Natura, e poi ancora con la Democrazia e il Mercato.

Tornando ai laboratores, questi non possono essere identificati con i servi, e neanche con i lavoratori in generale. Non rappresentano “tutti gli altri” rispetto ai primi due ordini, ma la parte “superiore” del terzo, costituita da artigiani e commercianti. La parte “inferiore”, costituita da servi della gleba, servi e salariati urbani, non era nemmeno presa in considerazione.

Lo stesso vale per il “terzo stato” nella rivoluzione francese, in teoria formato da tutti i non appartenenti a clero e nobiltà. In realtà questo terzo stato, di cui Sieyès dice che non era nulla e voleva essere tutto, è formato dalla parte alta della borghesia e dalla piccola borghesia delle professioni: contadini, artigiani e salariati continuano a non contare. Le plebi, soprattutto urbane, sono allora una sorta di quarto stato che con difficoltà si distanziava dal terzo.

Nel 1901 il pittore Pellizza da Volpedo realizza il suo famoso quadro “Il Quarto Stato”, che rappresenta dei braccianti agricoli. In quanto comunisti possiamo apprezzare il quadro ma non il titolo. Definire il proletariato come “quarto stato” implica una visione riformista, che poteva essere condivisa da De Amicis o Prampolini, ma non da noi. Il quarto stato è l’ultimo della società e vuole esser primo, è la parte dominata che vuol diventare dominante sulle altre. Il proletariato, per i comunisti, è una classe, non un ordine o uno stato; il suo fine non è quello di dominare sulle altre classi, che in questa concezione continuerebbero ad esistere, ma quello di eliminare tutte le classi compresa la propria.

La concezione medioevale tripartita della società sembra una versione peggiorata della “Repubblica” di Platone, con i preti al posto dei filosofi. Una differenza, a favore dei medioevali, è che tale ideologia era espressione di rapporti produttivi e sociali reali.


La nascita delle città

La nascita, o rinascita, delle città, è visibile dall’XI e dal XII secolo, preceduta, intorno al X, dal fenomeno dell’ “incastellamento”, e cioè dall’apparizione dei castelli un po’ ovunque; castelli che avevano la funzione di residenza dei feudatari e di fortezza per la difesa contro le incursioni. Talvolta erano le antiche città che si ripopolavano, spesso erano borghi, vale a dire intorno ai vecchi castelli, abitati dai signori, o città nuove, che si formavano in punti nevralgici delle rotte commerciali. Gli abitanti dei borghi erano detti appunto borghesi.

Le cause di questo fenomeno erano varie e concomitanti. Innanzitutto ci fu un notevole incremento demografico. La popolazione europea all’incirca raddoppiò tra il X e il XIV secolo.

Tutte le città si erano andate spopolando, con un fenomeno iniziato già nel III e IV secolo. Roma, che aveva avuto più di un milione di abitanti, dopo le guerre gotiche del VI secolo ne aveva circa 30.000. L’inversione di tendenza avvenne lentamente a partire dal X secolo.

Tra il IX e il X finirono anche le invasioni dei saraceni, almeno le principali, e quelle degli ungari. I primi arrivarono a saccheggiare Roma nell’anno 846, non penetrando le mura aureliane ma saccheggiando le chiese di S. Pietro e di S. Paolo fuori le mura. Le mura leonine, a protezione di S. Pietro, furono costruite solo a partire da questa data, da papa Leone VI. Nell’anno 849 i saraceni furono sconfitti nella battaglia navale di Ostia, da una alleanza tra il papato e i ducati cristiani di Amalfi, Gaeta, Napoli e Sorrento. Nel 916 i saraceni furono allontanati dal loro insediamento sul Liri, nel Lazio. Tra il 970 e il 980 furono cacciati da Fraxinetum, insediamento nell’attuale Costa Azzurra francese, da cui si spingevano fino alle vallate alpine. Dopo tale data le scorrerie più raramente si spinsero all’interno.

Gli ungari si erano stanziati in Pannonia tra il IX e il X secolo: ancora oggi in Ungheria è festeggiata “la conquista della patria”, in data 896. Gli ungari furono poi sconfitti dalle truppe imperiali nel 955.

Anche i vichinghi, poi normanni, cominciavano a stanziarsi già dal IX secolo intorno alla foce della Senna. Da qui, nell’XI secolo, partirono per spostarsi in Inghilterra e nell’Italia meridionale. Anche le loro scorrerie, dunque, si diradarono dopo l’anno 1000.

Tra il IX e il XIV secolo vi fu anche un innalzamento delle temperature, che favorì le produzioni agricole.

Ci fu inoltre un progresso tecnico, sicuramente limitato ma comunque importante. Si moltiplicarono i mulini ad acqua, presenti fin dall’antichità, ma scarsamente utili in presenza di manodopera schiavistica. La rotazione triennale dei terreni, intorno all’XI secolo, prendeva lentamente il posto di quella biennale, permettendo di utilizzare due terzi dei terreni anziché la metà. Contemporaneamente appariva l’aratro pesante, che penetrava più a fondo nel terreno e poteva essere trainato da cavalli o da buoi. Anche l’erpice, già presente, era ora trainato da cavalli, almeno per quei contadini che ne possedevano. La prima testimonianza di un erpice trainato da un cavallo è sull’arazzo di Bayeux, degli anni ’80 dell’XI secolo, arazzo che rappresenta la battaglia di Hastings e la conquista normanna dell’Inghilterra. Importante fu sicuramente l’introduzione del telaio a pedale, intorno alla metà del XIII secolo.

Nell’alto medioevo spesso il vescovo esercitava il suo potere sulla città, e il conte sulla campagna circostante, da cui i termini “contado” e “contadino”. Poi sempre più spesso, per arginare il potere dei grandi feudatari, l’imperatore nominava conti i vescovi, i quali erano sicuramente più fedeli a lui, almeno fino alla lotta per le investiture. Dietro il potere dei vescovi-conti si riparò poi, a partire dal XII secolo, il potere rivale dei Comuni delle città lombarde, che ne rivendicarono l’eredità per arrivare alla loro indipendenza e al dominio sulle campagne circostanti.

L’incremento della popolazione urbana non fu affatto ordinato. Le città erano meta di importanti afflussi di natura diversa. C’erano i piccoli nobili, i cavalieri, che non disponendo di feudi e di grandi risorse, si stanziavano nelle città, dove speravano di far valere il loro titolo e di ritagliarsi una posizione sociale. C’erano mercanti girovaghi e commercianti delle campagne che cercavano maggior profitto in questi nuovi centri che si andavano popolando. C’era qualche feudatario dei dintorni che pensava di controllare i propri affari dalla città, sfruttandone le capacità mercantili e artigianali superiori a quelle della campagna. C’era infine una moltitudine di contadini, di servi della gleba, che fuggiva da una vita di difficoltà e di angherie, dove bastava un anno o due di cattivi raccolti per morire di fame. Un detto medioevale tedesco recitava: “l’aria della città rende liberi”, libertà dalla fame, dalla miseria e da condizioni di vita molto dure.

Coloro che divenivano apprendisti di qualche artigiano, e in seguito artigiani, riuscivano nell’intento: i fabbri in particolare erano importanti e ricercati già dall’alto medioevo. Ma per i più che finivano col fare i servi, e soprattutto i salariati urbani, il pane non era affatto assicurato.

Prima dell’anno 1000 un insieme di circostanze favorevoli aveva permesso ad alcune città di autogovernarsi. Questa sorta di Comuni prima dei Comuni erano le Repubbliche marinare, poste in punti nevralgici delle rotte commerciali che andavano fino a Costantinopoli ad est e alle terre arabe e musulmane a sud e ad ovest.

Già dalla metà del IX secolo Amalfi dipendeva solo formalmente dall’Impero bizantino, e si era resa indipendente dai duchi longobardi di Benevento, anche grazie alle caratteristiche del suo territorio, difficilmente attaccabile dall’interno. Talvolta era alleata del papato, talvolta dei bizantini, talvolta degli arabi. Perse la sua indipendenza dopo tre secoli, quando fu inglobata dal regno normanno. Al IX secolo risale anche la repubblica di Gaeta, e forse al precedente quella di Venezia. Le altre furono Genova, Noli, Pisa, Ancona e Ragusa, attuale Dubrovnik. Le Repubbliche marinare, vale a dire i loro marinai e mercanti, si arricchivano fornendo merci molto richieste da nobili, corti, regni e imperi. Erano funzionali al mondo feudale e non mettevano certo in discussione dei così buoni acquirenti, come i vari re e feudatari erano ben contenti dei servigi resi da questi mercanti e marinai. Ciò non toglie che, quando se ne presentava l’occasione, re e duchi non tentassero di impossessarsi di queste città e delle loro ricchezze.

Con l’XI e XII secolo le città, nuove e non, tendevano all’autogoverno pur riconoscendo formalmente, nella maggior parte dei casi, l’autorità dell’imperatore o dei vari re. Questo valeva soprattutto per l’Italia centro-settentrionale e per le Fiandre, e i territori limitrofi. Le nuove istituzioni comunali erano dominate dalla piccola nobiltà urbana, che si scontrava con i ceti mercantili per il predominio. Quasi subito iniziò un processo di unificazione tra questi due ceti: i nobili si dettero ben presto al commercio e poi alla produzione tessile, non potendo contare su rendite feudali, e i mercanti continuarono la loro attività, mescolandosi a una nobiltà che li disprezzava ma che aveva bisogno di loro. Se i mercanti erano plebei, potevano comunque comprarsi un titolo nobiliare.

Dalla simbiosi tra ceti mercantili e piccola nobiltà, datasi anch’essa al commercio, nacque la borghesia. Questa nuova classe sociale, pur non avendo alcun intento rivoluzionario, si trovò subito a disagio nel sistema feudale e nelle sue sovrastrutture ideologiche.

Torniamo a Bloch: «Il borghese vive essenzialmente di scambi; trae la propria sussistenza dalla differenza tra il prezzo d’acquisto e il prezzo di vendita o tra il capitale prestato e quello restituitogli. E, poiché la legittimità di tale profitto intermediario, appena non si tratti d’un semplice salario di operaio o di trasportatore, è negata dai teologi e gli ambienti cavallereschi stentano a capirne la natura, il suo codice di condotta si trova così in flagrante antagonismo con le morali del tempo. Dato che mira a speculare sui terreni, i vincoli signorili sui suoi beni fondiari gli riescono insopportabili; dacché ha bisogno di sbrigare rapidamente i propri affari e questi, sviluppandosi, non cessano si suscitare problemi giuridici nuovi, le lentezze, le complicazioni, l’arcaismo delle giustizie tradizionali lo esasperano. La molteplicità delle dominazioni che si dividono la medesima città lo irrita come un ostacolo al buon ordinamento delle transazioni e un’offesa alla solidarietà della sua classe. Le varie immunità di cui godono i suoi vicini di chiesa o di spada gli appaiono altrettanti ostacoli alla libertà dei propri guadagni. Sulle strade da lui percorse senza posa, egli aborre del pari le esazioni degli addetti ai pedaggi e i castelli donde balzan fuori, contro le carovane, i signori avidi di bottino. In breve, nelle istituzioni create da un mondo nel quale egli non ha ancora che un modestissimo posto, quasi tutto gli reca offesa o molestia. Dotata di franchigie conquistate con la violenza od ottenute col denaro, organizzata in gruppo solidamente armato per l’espansione economica oltre che per le necessarie rappresaglie, la città che egli sogna di costruire rappresenterà, nella società feudale, un corpo estraneo».


La riscoperta del diritto romano

Con l’alto medioevo e i regni romano-barbarici divenne predominante un diritto consuetudinario, dovuto all’esigenza di mettere ordine in una molteplicità di diritti contrastanti e territoriali. I nuovi dominatori mantenevano le loro regole gentilizie, mentre i dominati erano spesso sottoposti alle proprie leggi.

Il diritto romano non era scomparso, ma non aveva più senso, espressione di rapporti di proprietà ormai tramontati. La giustizia era amministrata in gran parte dai signori feudali grandi e piccoli, spesso analfabeti, e sicuramente a loro vantaggio. I singoli avevano diverse giurisdizioni, a seconda della loro origine, e a seconda del ruolo sociale. Anche i terreni potevano avere diverso regime giuridico, a seconda che fossero gravati dai diritti feudali di uno o più signori, o che dipendessero dai monasteri o dalla Chiesa in generale, o che fossero allodiali. All’inizio dell’ VIII secolo il vescovo Agobardo di Lione lamentava che «cinque uomini siedano insieme e nessuno abbia in comune con gli altri la legge di questo mondo, mentre nelle cose perenni sono tutti legati dall’unica legge di Cristo».

I codici di epoca romana erano raccolte di leggi antiche adattate alle nuove esigenze. La prima raccolta ufficiale di leggi dell’Impero, il Codice Teodosiano, si ha nel 438, promulgato dall’imperatore Teodosio II. Il Corpus Iuris Civilis risale al 535 e all’imperatore romano e bizantino Giustiniano. Il codice era diviso in quattro parti: la prima, le Istitutiones, opera didattica per chi studiava il diritto; la seconda è il Digesto, un insieme di frammenti, modificati, tratti dalle opere dei principali giuristi romani; la terza è il Codex, raccolta di costituzioni imperiali da Adriano a Giustiniano; la quarta è le Novellae Constitutiones, raccolta delle costituzioni emanate da Giustiniano dopo la pubblicazione del Codex. In occidente tale codice arrivò dopo la riconquista operata con le guerre gotiche del VI secolo, per poi andare in disuso con l’arrivo dei Longobardi, ad eccezione delle regioni italiane direttamente controllate dai bizantini. In una sentenza, un placito, nella località Marturi, vicino a Poggibonsi in Toscana, nel 1076, per la prima volta dopo molti secoli troviamo una citazione dal testo del Digesto. La riscoperta del codice di Giustiniano si fa risalire alla scuola dei glossatori bolognesi di Irnerio, all’inizio del XII secolo.

Di poco successiva, intorno al 1140, con la riscoperta del diritto romano, è l’opera di un monaco di nome Graziano operante a Bologna, il Decretum Gratiani, che diventerà poi la base del diritto canonico. Irnerio insegnava il diritto come disciplina autonoma, servendosi del codice giustinianeo, e aggiungendo degli appunti, detti “glosse”, a margine del testo, lo interpretava e ne risolveva le ambiguità. La sua scuola di Bologna nacque nell’orbita imperiale, nel periodo della lotta per le investiture tra impero e papato, con il fine di sostenere su basi giuridiche la supremazia del potere imperiale. Supremazia nei confronti del papato, ma anche dei re e delle città.

Dopo un’iniziale diffidenza anche i re trovarono nel diritto romano un antidoto alla frammentazione dei loro regni e uno strumento per arrivare, pur nella struttura feudale, ad esercitare un reale e forte potere diminuendo innanzitutto quello dei duchi, conti e baroni, e poi quello del papato, e a volte quello delle città. Anche i duchi talvolta se ne servivano nei confronti dei loro vassalli.

Le città in un primo momento videro in tale diritto una minaccia per le proprie consuetudini, per un proprio fisco e per la nomina di propri magistrati; ben presto si resero conto invece della sua utilità. I rapporti commerciali estesi a tutta Europa rendevano necessario un diritto universale, cosa compresa bene dalla neonata borghesia nei secoli XIII e XIV. Dino Compagni, nella sua “Cronica” scritta tra il 1310 e il 1312, polemizzava con “i maledetti giudici”, che interpretavano le leggi a loro piacimento, a vantaggio di una fazione contro l’altra. Ci fu quindi una convivenza tra diritto proprio (ius proprium), il diritto particolare dei feudi, dei comuni e delle corporazioni, e il diritto comune (ius commune), costituito dal diritto romano giustinianeo e dal diritto canonico.

Verso la metà del XIII secolo il giurista bolognese Accursio redigeva la “Magna Glossa”, che mette ordine nelle glosse accumulate da più di un secolo, dovute a vari maestri, che spesso si sovrapponevano fino a rendere incomprensibili i testi. Il diritto comune prendeva ora la supremazia sul diritto proprio, che comunque restò in vigore.

Vi erano delle eccezioni a questa rinascita del diritto romano, la più importante delle quali era costituita dall’Inghilterra. Qui il diritto consuetudinario normanno si fuse con il diritto consuetudinario dei precedenti regni sassoni, dando origine alla common law. L’altro regno normanno, quello dell’Italia meridionale, con un forte potere centrale, fu invece uno dei centri del diritto romano-giustinianeo, che assieme al diritto canonico era la principale fonte ispiratrice delle Costituzioni promulgate da Federico II nella città di Melfi nel 1231, uno dei principali strumenti del rafforzamento dell’unità politica del regno contro le tendenze baronali e comunali.


Alleanza tra borghesi e re

La borghesia, nata nel XIII secolo, eredita interessi e atteggiamenti propri dei ceti di commercianti e piccola nobiltà urbana che l’hanno costituita. Già nell’XI e XII secolo le città nominano dei Consigli e dei Consoli, ispirandosi alla tradizione romana, cercando la maggior autonomia possibile in materia fiscale come in tutti i campi. A questo fine le alleanze possono variare. Quando la Chiesa diviene troppo ingombrante anche l’Impero può essere visto con favore, se l’imperatore sta nelle sue terre e si accontenta di atti formali di sottomissione. Quando invece l’imperatore porta il suo esercito contro le città per far valere i suoi diritti, come al tempo della Lega Lombarda, la Chiesa diventa un alleato importante. Nessuno mette in discussione la Chiesa o l’impero in quanto tali, ma la loro eccessiva intromissione.

La neonata borghesia, come anche i ceti proto-borghesi dei due secoli precedenti, trova molto presto interessi comuni con i re, per i quali la lotta al frazionamento della giustizia feudale è parte della lotta contro i feudatari, e anche contro l’impero. In questa lotta i re si servono di tutti i mezzi a disposizione: quelli forniti dalla tradizionale struttura feudale e quelli più nuovi come il diritto comune, dovuto alla riscoperta del diritto romano e in particolare del Digesto.

In Francia i sovrani capetingi, a partire dal X secolo, governano una parte ristretta di territorio attorno Parigi e la Loira. Altrove duchi e conti non sono vassalli diretti del re, ma dell’imperatore o di feudatari più grandi, dietro una formale professione di fedeltà ma si comportano come alleati nel migliore dei casi e non come vassalli. Nell’XI secolo il re acquisisce nuove contee in cui non nomina dei conti, ma in cui svolge esso stesso la funzione di conte: per porre limite al frazionamento feudale si serve dello stesso sistema feudale. In seguito anche in Francia il diritto romano diviene un importante strumento allo stesso fine.

Nell’Impero il diritto romano ha la funzione di affermare e ribadire il potere imperiale; funzione positiva nel limitare, molto parzialmente, il potere dei feudatari e il conseguente frazionamento, ma sempre nell’ottica della conservazione e della massima efficienza possibile del sistema feudale, di cui l’impero è espressione. Noi comunisti sosteniamo l’importanza della centralizzazione, non dell’esistenza di un centro solo formale: l’Impero era un centro senza centralizzazione.

Lo stesso non vale per i regni che si andavano formando. Per formarsi ed estendersi avevano bisogno di un processo di centralizzazione del potere, sul piano amministrativo, militare, fiscale, e degli approvvigionamenti. Il tutto a scapito dei feudatari grandi e piccoli, oltre che dell’Impero. Il diritto romano si prestava bene al fine. Questi regni erano sicuramente feudali, come feudali erano le ideologie regali, ma questa necessità di centralizzazione spingeva i regni a innescare processi che poi hanno contribuito a dissolvere il mondo feudale. Su questa strada i re hanno trovato degli alleati nei borghesi. La borghesia aveva la stessa necessità di combattere la frammentazione feudale in tutti i campi, a partire da quelli giuridici, e il diritto romano ne fu un importante strumento. I re potevano tenere a bada i signori feudali, in specie i minori, che per le città comportavano i maggiori problemi, con le loro tasse e le loro pretese. Inoltre i re avevano interesse a che le città si sviluppassero e si arricchissero, poiché potevano ricavarne tasse e prestiti per le loro guerre e per tutte le altre necessità: i borghesi erano considerati come dei polli, prima ingrassati, poi spennati.


L’eccezione inglese

La tendenziale alleanza tra borghesi e re aveva delle eccezioni, la più importante delle quali era costituita dall’Inghilterra. Qui la borghesia ai suoi albori si accodò, anziché con il re, con i nobili, trovando più utili ai suoi interessi le guarentigie stabilite dalla “Magna Charta Libertatum”. Questa fu concessa da re Giovanni senza terra nel 1215, per mettere fine alle ribellioni baronali concedendo quanto da loro richiesto. Fu poi confermata da Enrico III nel 1225 e da Edoardo I nel 1297.

La parola “libertà” nel medioevo non aveva senso al singolare: c’erano “le libertà”, che vanno tradotte con “privilegi”. Le libertà erano i privilegi concessi dal re o dall’imperatore ai nobili, al clero, ai mercanti, alle città; privilegi da cui era esclusa la gran parte dei sudditi. La valutazione della Magna Charta come di una vittoria della “modernità” sul medioevo è una sciocchezza: fu la vittoria della nobiltà feudale su un regno altrettanto feudale, per quanto con un forte potere centrale. Questa sorta di nuovo equilibrio, di compromesso feudale accettato dal re, non riguardò solo nobili ed ecclesiastici, ma anche le nascenti forze borghesi.

A favore di queste leggiamo da due articoli dalla Magna Charta:
     «13. La Città di Londra godrà di tutte le sue antiche libertà e libere consuetudini. Noi vogliamo anche che tutte le altre città, borghi, villaggi, i baroni dei cinque porti e tutti i porti godano di tutte le loro libertà e libere consuetudini.
     «41. Tutti i mercanti potranno, se non ne avranno anteriormente ricevuto pubblico divieto, liberamente e in tutta sicurezza uscire dall’Inghilterra e rientrarvi, soggiornarvi e viaggiarvi, per terra e per acqua, per comprare e per vendere, seguendo le antiche e buone consuetudini, senza che si possa imporre su loro alcuna esazione indebita».


La borghesia “che per viltade fece il gran rifiuto”

I Comuni dell’Italia centro-settentrionale nel XII e XIII secolo rappresentarono un apice del potere della borghesia, che si poteva dotare delle leggi e delle costituzioni più favorevoli ai propri interessi. Al tempo stesso divennero evidenti due grandi difficoltà, che minavano la capacità di svilupparsi di questa nuova classe. Ce n’era anche una terza, nei Comuni italiani meno presente, che era il pericolo di essere fagocitati da un regno o dall’impero.

La prima difficoltà consisteva nella guerra permanente per la preminenza sulle città vicine e sui rispettivi contadi. La seconda nella guerra civile interna, aperta o strisciante. Questa era inizialmente tra “magnati” (ricchi nobili) e “popolani”, poi tra “popolo grasso” (ricchi borghesi) e “popolo minuto” (artigiani delle corporazioni e loro apprendisti e salariati). A queste lotte si sovrapponevano quelle tra le famiglie più ricche e più in vista per il predominio in città. Il risultato di tutto ciò fu l’impossibilità per la borghesia di avere la tranquillità e la sicurezza necessarie al proprio prosperare. Il suo interesse di classe la portò a rinunciare al potere politico, a favore prima dei podestà, poi delle signorie, poi dei principati più o meno estesi territorialmente.

Fin dal suo nascere la borghesia si mostrò incapace di condurre la propria rivoluzione e pronta ad accodarsi a chi potesse guidarla in tale direzione, pagandone il prezzo al posto suo. Il potere conquistato ed esercitato nei Comuni italiani del XIII secolo, venne quindi abbandonato per alcuni secoli, poi riconquistato, e per la prima volta ideologicamente rivendicato nei Paesi Bassi della fine del XVI secolo e nell’Inghilterra del XVII secolo.

(continua)









Razze, classi e questione agraria negli Stati Uniti
Esposto alla riunione generale del settembre 2024
 
Parte 1
Dal comunismo primitivo al Destino Manifesto negli Stati Uniti delle origini


1. - Sintesi

Prima colonia britannica, la Virginia fu fondata nel periodo del mercantilismo, poco prima che la borghesia britannica si affermasse. Negli anni successivi, man mano che le colonie si estendevano, si sarebbe consolidata nel Sud una arretrata schiavistica semi-feudale, mentre nel Nord prevaleva una teocrazia protestante basata su rapporti di proprietà comuni, che avrebbe poi ceduto il passo a un capitalismo industriale, in sviluppo dopo la Guerra d’Indipendenza.

Nelle prime colonie del New England si era sviluppata, e fino alla Guerra d’Indipendenza, una forma semi-barbarica di agricoltura comunista, non avendo avuto interesse il mercato britannico a sviluppare le sue colonie. Questo sistema avrebbe lentamente lasciato il posto all’avanzamento della proprietà privata sotto il potere del commercio che si andava imponendo all’interno delle colonie.

Poiché in Nord America non è mai esistita un’aristocrazia feudale, l’insediamento portò allo sviluppo di una molteplicità di ceti contadini indipendenti: alla Frontiera, nelle periferie delle piantagioni schiaviste del Sud e nelle aree rurali al di fuori dei centri commerciali urbani del Nord. Questi elementi, a metà strada tra gli operai e i borghesi, non hanno mai formato una classe coesa e distinta, hanno lottato per difendere la loro indipendenza dal dominio del capitale finanziario e commerciale, fino all’ascesa e al consolidarsi del capitale industriale, che alla fine ha eliminato dalla scena ogni traccia del piccolo contadino indipendente.

Conclusa la Guerra d’Indipendenza sarebbe iniziata l’aggressione ai territori dei nativi d’America e le prime “guerre indiane” combattute dalla nuova repubblica borghese.

La spinta verso il West si sarebbe imposta a causa della recinzione delle terre comuni nel New England e dalla conseguente fuga dei contadini, ormai rovinati, che cercavano di ristabilire la loro vecchia indipendenza, vedendo il loro futuro nelle speranze e sogni di piccoli borghesi in ascesa, ma lasciando dietro di sé una pista intrisa di sangue, idealizzata nel messianico progetto nazionalista bianco del Destino Manifesto.

È in questo ampio e variegato strato piccolo-borghese di contadini che il progetto razzista e genocida del Destino Manifesto e l’ideale della democrazia jeffersoniana avrebbero trovato la maggiore corrispondenza. Uno strato piccolo-borghese, che aveva la sua base in operai e lavoratori senza terra bianchi in fuga dalla pressione del capitale, che nelle aree urbane spingeva incessantemente a pauperizzarlo e renderlo schiavo alla catena del lavoro salariato. La recinzione delle terre comunali nelle municipalità del New England avrebbe spinto masse di bianchi poveri e senza terra a insediarsi nel West, o ad affrontare la fame, o il lavoro nelle manifatture urbane.

Sottomessi a queste potenti forze economiche, costretti a cercare la loro sopravvivenza come strato di classe nell’espansione coloniale, che comportava l’estinzione delle popolazioni indigene, era escluso che vi si opponesse una qualsiasi convinzione morale degli individui, mossi dalle necessità di espansione del capitale, come in tutto il mondo. La propaganda cristiana lo giustificava nella forma disumanizzante del razzismo, oppure come il nobile “onere dell’uomo bianco” di civilizzare paternalisticamente i “selvaggi”, con la Bibbia e le pallottole.

Il progetto sociale del Destino Manifesto avrebbe infine portato questi elementi, lavoratori e contadini, ad allearsi con gli interessi del capitale industriale attraverso il Partito Repubblicano, la Guerra Civile e l’approvazione degli Homestead Acts.

Una invasione di orde armate di contadini anglosassoni avrebbe spazzato il West. Tentando di mantenere lo stesso tipo di vita del contadino indipendente che si era imposto con le rivoluzioni barbariche contro la schiavitù romana più di mille anni prima, gli eserciti germanici conquistatori del West americano non furono tuttavia dei liberatori. Al contrario, sul cammino di un capitalismo commerciale e mercantile in via di sviluppo verso la nuova era dell’industrialismo, lasciarono dietro di loro una scia di omicidi di massa e saccheggi su numerose nazioni indigene. Il dissodamento della Frontiera da parte di agricoltori germanici indipendenti e l’esito finale dell’emancipazione degli schiavi, entrambi storicamente progressivi, rappresentano il capitolo finale della storia del contadino tedesco.

La borghesia del Nord in ascesa avrebbe continuato a veder crescere il proprio potere, fino a diventare abbastanza forte da liberarsi dalle pastoie dei vecchi schiavisti del Sud, che avevano mantenuto il controllo del governo federale fin dall’inizio della Repubblica.

Alla conclusione della Guerra Civile, nel 1865, e durante il successivo periodo della Ricostruzione, nel Sud americano si sviluppò un movimento operaio di ex-schiavi appena proletarizzati. Questo movimento di lavoratori neri non qualificati sarebbe sorto proprio quando i sindacati di mestiere del Nord iniziavano a ricostituirsi, unendosi e consolidandosi nella National Labor Union.

Nel frattempo, gruppi di immigrati tedeschi, e dei seguaci di Marx nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, facevano proseliti e convincevano gli operai della necessità di far confluire le nascenti schiere proletarie in sindacati di classe, liberi dall’esclusione razziale e indipendenti dai partiti politici dei ceti delle altre classi.

Le conseguenze della crisi economica del 1873 esasperarono i timori per la concorrenza dei lavoratori neri all’interno dei costituiti sindacati di mestiere, che rappresentavano la manodopera specializzata, e fra gli agricoltori indipendenti del Sud. Questi eventi avrebbero svigorito la forza della classe operaia, avendo portato la maggior parte dei sindacati del Nord a politiche di esclusione razziale, proprio mentre nel Sud una campagna di terrore si abbatteva sui neri. Il risultato fu che gli ex-schiavi del Sud sarebbero andati a costituire strati di contadiname impoverito e nel Nord, esclusi dai sindacati, spinti nella miseria dei ghetti urbani, a riempire le file del sottoproletariato e dell’esercito di riserva del lavoro.

È in questo periodo che il Partito Democratico, con lo slogan “Supremazia bianca”, iniziò a farsi rappresentante della nuova coalizione fra gli interessi, da un lato, del commercio e del capitale industriale del Nord, dall’altro, degli operai e degli agricoltori, che temevano la concorrenza del lavoro nero. Interesse di questa coalizione era manovrare per smantellare la legislazione e la burocrazia federale in atto che costituiva la politica della Ricostruzione. Per farlo dovette sostituirsi alla precedente alleanza fra lavoro e capitale all’interno dei Repubblicani Radicali. Scopo comune era stato rispondere alla minaccia reale di una restaurazione della classe dei piantatori, rappresentati dal presidente Andrew Johnson, dopo l’assassinio di Lincoln. In realtà, alla fine della Ricostruzione, il Capitale aveva un nuovo nemico, il proletariato nazionale e internazionale, e poteva lasciare che le questioni incompiute della rivoluzione borghese venissero risolte dal naturale sviluppo degli eventi.

In tutto il Sud, il prevalere del movimento dei “Redentori” nel ristabilire il regime di suprematismo bianco portò alla fine del secolo XIX alla riduzione della stragrande maggioranza dei neri alla condizione di contadino indebitato. Seguì, all’inizio del secolo successivo, l’emanazione della legislazione razziale “Jim Crow” e la crescita del KKK come movimento “rispettabile”.

La vera storia dei lavoratori neri nel periodo della Ricostruzione è stata sottoposta a una negazione storica: ancora oggi nella maggior parte dei libri di testo scolastici l’intero periodo è descritto come un inopportuno intervento del governo federale.

Invece è in questo periodo che le masse proletarie nere irruppero sulla scena storica in un turbinio di lotte, prima che le leggi Jim Crow le incatenassero alla terra. Il partito ha sempre sottolineato l’importanza dei neri all’interno del movimento operaio statunitense, a causa delle loro particolari condizioni proletarie che ne fanno i più sfruttati. Non c’è quindi da stupirsi se i neri continuano ad essere incarcerati in numero sproporzionato, sottoposti a lavori forzati e uccisi per le spicce dalla spietata polizia dello Stato borghese.

L’impegno dei seguaci di Marx nel periodo della Ricostruzione conferma la totale invarianza della direttiva del partito di lottare all’interno dei sindacati costituiti, l’assoluta necessità di sindacati di classe aperti a tutti i lavoratori e il nostro completo rifiuto di ogni sciovinismo sociale, che è lo strumento fondamentale contro l’ostacolo di sempre del proletariato combattivo in tutti i paesi, l’aristocrazia del lavoro.

Il periodo della Ricostruzione verrà approfondito nella seconda parte di questo studio. Per comprenderlo nel suo pieno sviluppo dialettico dobbiamo rivedere le fondamentali posizioni marxiste riguardo le dinamiche di classe e le relazioni fondiarie nei primi Stati Uniti.


2. - Il comunismo primitivo dei popoli indigeni d’America

Per i marxisti, il termine comunismo primitivo si riferisce a un metodo di produzione e a un rapporto con la terra che è esistito in tutte le società umane prima dello sviluppo delle classi sociali, della proprietà privata e delle formazioni statali. In un certo senso, il comunismo del futuro è un grande ritorno dell’umanità al comunismo del passato. In quelle società l’accesso alla terra era libero, non esistevano sfruttamento, plusvalore, dominazione o relazioni di classe. Pur essendoci una divisione del lavoro, non esisteva una gerarchia tra uomini e donne.

La prima forma di famiglia si è sviluppata intorno alla famiglia comunista, la “gens” o clan, un gruppo di proprietà comune e di organizzazione collettiva. Pur nella diversità dei livelli di sviluppo e delle forme sociali, molte popolazioni indigene del Nord America, come gli Irochesi, erano organizzate su questa base, così come gli antichi barbari germanici, i primi greci e altri popoli dell’antichità. All’interno di queste gens si stabiliva un processo decisionale comune e una cooperazione tra tutti basata, sulla produzione per il consumo da parte della comunità.

Commentando le pratiche sociali comunistiche delle popolazioni indigene del Nord America, Engels affermava in “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”:

«Tutti i membri di una gens irochese sono uomini liberi obbligati a difendere la libertà l’uno dell’altro, eguali nei diritti personali: né i sachem, né i capi militari accampano precedenze di sorta; questi membri della gens formano una fratellanza unita da vincoli di sangue. Libertà, eguaglianza, fraternità, benché mai formulate, erano i principi fondamentali della gens, e questa era, a sua volta, l’unità di tutto un sistema sociale e la base della società indiana organizzata (…) Questo spiega l’irriducibile spirito di indipendenza e la dignità personale del portamento che ognuno riconosce negli Indiani. Al tempo della loro scoperta, gli Indiani di tutta l’America del Nord erano organizzati in gentes, secondo il diritto matriarcale. Solo in alcune tribù, come in quella dei Dakota, le gentes erano scomparse e in alcune altre tribù, come gli Ojibwa e gli Omaha, erano organizzate secondo il diritto patriarcale».

Nel testo citato, Engels tracciava anche un parallelo diretto tra il Marco tedesco e le pratiche sociali degli irochesi in America, considerati entrambi organizzati essenzialmente allo stesso livello di comunismo primitivo, data la loro gestione comunitaria della terra. Commentando l’unanimità del loro metodo nel prendere le decisioni, afferma che «tra gli irochesi la decisione finale doveva essere unanime, come accadeva anche per molte decisioni delle comunità dei Marchi tedeschi. Il consiglio tribale era responsabile soprattutto della gestione delle relazioni con le altre tribù».

Per sottolineare il fatto che per i marxisti il comunismo primitivo non significa affatto inferiore alla misera società del capitalismo, ma rappresenta invece l’alfa dell’evoluzione sociale umana, in “Rivoluzione comunista ed emancipazione della donna” abbiamo scritto che «Comunismo primitivo – Questa forma è rivendicata in tutta la letteratura marxista e nelle pagine fondamentali di Marx ed Engels, i quali non escludevano la necessità che tra quell’antico comunismo e il comunismo per il quale lotta il proletariato moderno, siano seguite forme sorte con la proprietà privata, le società di classe e la tradizione delle loro “culture” sovrapposte».

Una aperta glorificazione di questa prima forma si trova nelle pagine del “Capitale” e de “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.

Nonostante le distorsioni operate nel mondo accademico borghese dai moderni falsificatori del marxismo, questo non ha mai dichiarato una progressione unilineare e progressiva da uno stadio all’altro, il mondo come diviso in perfetti e netti stadi storici di sviluppo. Persino la Russia, all’inizio del XX secolo, era una società composta da popoli che vivevano sulla terra in vari rapporti di proprietà. Sottolineiamo in “Proprietà e capitale”, «Come descritto da Lenin, il paesaggio economico russo comprendeva una miscela di varie forme economiche: pre-mercantile (comunismo primitivo, signoria e teocrazia asiatica, baronaggio terriero); mercantile (capitalismo industriale, commerciale e bancario, libera proprietà terriera privata); e post-mercantile (prime implementazioni del comunismo “di guerra”, cioè “di guerra sociale”, come pane gratuito, alloggi, trasporti nelle grandi città e disposizioni simili)».

In sostanza, il comunismo primitivo è un termine che indica i rapporti di accesso alla terra e di produzione all’interno delle società antiche e indigene prima dell’affermarsi dei rapporti di proprietà. Come affermiamo in “Proprietà e capitale”, questi popoli esistono in ambienti di abbondanza materiale.
     «Nella relativa primordiale economia o se si vuole pre-economia il rapporto tra uomo e cosa era il più semplice possibile. Per il limitato numero di uomini e la limitata gamma di bisogni, appena superiori a quelli animali della alimentazione, le cose atte al soddisfacimento dei bisogni stessi, che poi il diritto chiamò beni, sono dalla natura poste a disposizione illimitata e il solo atto produttivo consiste nel prenderle quando occorrono. Esse si riducono ai frutti della vegetazione spontanea e in seguito della caccia e della pesca e così via. Vi erano oggetti di uso in quantità esuberante, non vi erano ancora “prodotti” usciti da un sia pure embrionale intervento fisico, tecnico, lavorativo, dell’uomo sulla materia quale la offre la natura ambiente (...)
     «Come non risale alla primitiva umanità la proprietà delle cose o beni di consumo e la proprietà dello schiavo, tanto meno vi risale la proprietà del suolo ossia della terra e di quanto di stabile l’uomo vi aggiunge e costruisce, i beni immobili del diritto. Tale proprietà nella sua forma personale viene in ritardo rispetto a quella delle cose mobili e degli stessi schiavi, in quanto all’inizio tutto se non è comune è per lo meno attribuito al capo dell’aggruppamento familiare di tribù o di città e regione
     «Ma anche volendosi contestare che tutti i popoli siano partiti da questa prima forma comunistica e volendo ironizzare su una tale età dell’oro, l’analisi che ci interessa sulla derivazione dell’istituto giuridico dagli stadi della tecnica non ne resta inficiata, e basta rimandare alla grande importanza che Engels e Marx dettero all’avvio di questi studi sulla preistoria premendoci di venire molto più oltre.
     «Riducendoci alle linee scheletriche e alle cose a tutti note, bastano i rapporti sulla proprietà dell’oggetto mobile consumabile e comunque adoperabile, dell’uomo schiavo o servo, e della terra, a definire le linee fondamentali dei successivi tipi storici di società di classe».

Oltre a questi rapporti fondiari e all’assenza di rapporti di proprietà, si delineano anche i rapporti sociali della società del comunismo primitivo. Come abbiamo affermato nel 1952 in “Il marxismo dei cacagli”, «L’uomo per noi è la specie, non la persona: quello strano essere solo e sterile evidentemente non conosce che beni di consumo e non di scambio e non essendo nell’Eden, oltre allo svantaggio di fare a meno di Eva, si procaccia i beni utili col suo lavoro. Il nostro esempio passato sono le comunità primitive: tra il “Manifesto” e il “Capitale” la ricerca archeologica positiva ha assodato che non solo certi popoli, ma tutti, ebbero all’inizio un’organizzazione basata sul lavoro per tutti e la proprietà per nessuno. Questo è "lavoro comune, cioè immediatamente socializzato... alla sua forma naturale spontanea, in cui ci imbattiamo alle soglie della storia di tutti i popoli civili ».

Non diversamente da come concepiamo il partito, che prefigura la società comunista del futuro.

Nel commentare il comunismo primitivo affermiamo in “Il partito comunista e la tradizione della sinistra”:
     «Le comunità primitive realizzavano uno strettissimo centralismo ed una disciplina assoluta dell’individuo al gruppo sociale senza bisogno d’alcuna coercizione o macchina speciale, fondandosi esclusivamente sull’identità d’interessi e la solidarietà di tutti nella lotta contro l’ambiente naturale nemico e contro altri gruppi. La comunità primitiva è un esempio d’organizzazione centralizzata e differenziata senza coercizione. Ugualmente la futura società comunista. Anzi è fondamentale tesi marxista che solo quando ci fu tra i membri di un gruppo sociale inconciliabile contrasto d’interessi materiali fu necessaria una speciale struttura coercitiva per ottenere la stessa centralizzazione che nella primitiva comunità si otteneva in maniera naturale, spontanea, organica.
     «Che svolgimento centralistico delle funzioni ed esistenza di un apparato burocratico e coercitivo non siano assolutamente la stessa cosa, è questione che non possono capire solo i socialdemocratici staffilati da Lenin in «Stato e rivoluzione» i quali sostenevano essere eterna la necessità della macchina statale, perché altrimenti gli interessi individuali avrebbero disgregato la società, mentre postulato e fine del comunismo è la società senza stato, senza mezzi di coercizione sugli uomini con la conclusione che in lei la centralizzazione sarà massima e molto più completa che nella società attuale e si fonderà su di un comportamento naturale e spontaneamente solidale degli uomini fra di loro ».

Descrivendo l’organizzazione delle tribù indigene sulla base delle osservazioni dell’antropologo americano Lewis Henry Morgan, che aveva vissuto per un lungo periodo tra gli irochesi, Engels affermava: «La società senza Stato è una società in cui non esiste la coercizione degli uomini; la centralizzazione sarà totale e completa rispetto alla società attuale e sarà fondata sulla solidarietà naturale e spontanea tra gli uomini».

Engels affermò anche: «Che cosa distingue una tribù indiana in America? Il suo territorio e il suo nome. Oltre all’effettivo luogo di insediamento, ogni tribù possedeva un territorio considerevole per la caccia e la raccolta. Al di là di questo si trovava un’ampia striscia di terra neutrale che arrivava fino al territorio della tribù vicina».

I primi coloni anglosassoni del New England e gli indigeni, chiusi all’interno delle proprie comunità razziali, in fasi di sviluppo decisamente diverse, entrambi mantenevano un rapporto comunistico con la terra. Nonostante le loro evidenti differenze culturali, praticavano rapporti fondiari simili, adottavano l’unanimità nella presa delle decisioni. Una società sulle stesse basi materiali porta a forme analoghe di organizzazioni politiche e sociali. Nonostante entrambe siano stati erroneamente attribuite da accademici borghesi a fulgidi esempi di “democrazia”, la loro forma sociale egualitaria non era che un aspetto del loro modo di produzione comunistico e del loro rapporto con la terra.

Mentre questi due gruppi razziali sarebbero stati spinti in conflitto l’uno con l’altro nella contesa per la terra, incapaci di integrarsi a causa dall’omogeneità razziale ed etnica delle rispettive società, che costituivano il fondamento della loro unità culturale sviluppatasi nel corso di millenni.

Questa competizione è naturale per le prime società umane in questa fase. Tuttavia in America del Nord saranno i movimenti titanici del capitale e lo sviluppo della borghesia a spingere i coltivatori delle colonie britanniche verso un progetto di conquista e di pulizia etnica.


3. - Razza e nazione nella formazione dello Stato in America

A differenza dei borghesi, che considerano la razza come una mera costruzione ideologica o come una gerarchia di diverse sottospecie umane, come nel darwinismo sociale, nella letteratura marxista i termini “razza” ed “etnia” sono usati in modo intercambiabile. Noi intendiamo la razza e l’etnia come fatti biologici e materiali, in quanto direttamente legati all’emergere di diversi mezzi di produzione all’interno delle comunità primitive, come strumenti, lingua e costumi, che hanno sviluppato la loro cultura all’interno di comunità e bande tribali isolate e omogenee nel trascorrere dei millenni.

Se, nel tempo ciò ha portato allo sviluppo di caratteristiche genetiche e fisiche diverse all’interno della specie umana, proprio come qualsiasi specie animale si è evoluta nel corso del tempo quando è stata isolata da altri suoi simili per lunghi periodi, tuttavia più significative sono state le diverse usanze culturali, gli strumenti e le distinzioni linguistiche che sono nate. Nel mondo moderno, a causa dell’espansione dei mercati globali e della mescolanza delle popolazioni iniziata millenni fa, tali differenze sono progressivamente svanite fino a diventare quasi del tutto irrilevanti.

Tuttavia, in epoca preistorica, i membri di questi diversi gruppi tribali ed etnici si consideravano a malapena come membri della stessa specie animale, vedevano gli estranei come creature non umane o, in alcuni casi, spiriti.

Con l’arrivo degli europei in Nord America, queste due grandi masse umane, prima isolate, entrarono in contatto. Gli europei, che vivevano in culture con allevamento di animali, portarono con sé pestilenze che decimarono le popolazioni indigene.

Dato che la maggior parte degli indigeni del Nord America viveva in società con relazioni comunistiche, alle colonie inglesi, nella loro espansione, si impose il compito ineludibile di distruggere questo comunismo primitivo per imporre ovunque le relazioni sociali di classe. Data la completa incompatibilità delle due forme sociali ciò poteva avvenire solo attraverso una conquista di impronta genocida, cacciando questi popoli nativi dalla terra.

Mentre la colonizzazione mercantile europea in luoghi come il Messico, il Perù, l’India, la Cina e alcune parti dell’Africa incontrò società che si erano già sviluppate in grandi formazioni statali, che praticavano una agricola sviluppata, con una propria gerarchia di classi e di rapporti di proprietà consolidati, la maggior parte delle tribù nordamericane viveva ancora in uno stato di comunismo primitivo, con alcune eccezioni, in particolare nel Pacifico nordoccidentale. Ma l’esistenza di gruppi relativamente grandi di nativi, seppure vivessero senza alcuna struttura statale, si dimostrarono estremamente difficili da assoggettare e assimilare da parte dei primi gruppi di coloni inglesi.

Possiamo paragonare questo alla rapidità della colonizzazione spagnola in Messico, dopo la conquista dell’Impero azteco ad esempio, quando gli elementi delle élite dominanti locali giurarono fedeltà alla Corona e si convertirono al cristianesimo, e i conquistadores si mescolarono con gli indigeni creando spesso grandi gruppi etnici di mestizos.

Data l’assenza di una formazione statale centralizzata, il processo di colonizzazione negli Stati Uniti avrebbe richiesto molto più tempo, poiché questa nuova formazione statale doveva essere creata quasi completamente ex novo. Così, i popoli e le nazioni indigene senza Stato che vivevano ancora in un comunismo primitivo, e le cui pratiche etniche e culturali materiali si erano sviluppate da quella relazione con l’ambiente, avrebbero dovuto essere estirpati con la forza, mentre i sopraggiunti borghesi lavoravano per estendere all’interno i mercati, i rapporti di proprietà e il loro sistema di produzione.

In “Fattori di razza e nazione nella teoria marxista” affermiamo: «Il passaggio dal gruppo etnico o "popolo" alla "nazione" non avviene che in relazione alla comparsa dello Stato politico, con le sue caratteristiche fondamentali di circoscrizione territoriale e di organizzazione di forza armata - e quindi dopo la cessazione del primitivo comunismo e la formazione delle classi sociali (…) La premessa dell’origine dello Stato è la formazione di classi sociali, e questa presso tutti i popoli si determina colla spartizione della terra da coltivare tra i singoli e le famiglie e con le parallele fasi della divisione del lavoro sociale e delle funzioni, da cui deriva una diversa posizione dei vari elementi rispetto alla generale attività produttiva, e il profilarsi di gerarchie diverse con funzioni di primo artigianato, di azione militare, di magia-religione, che è la prima forma della scienza tecnica e della scuola, a sua volta staccatasi dalla vita immediata della gens e della famiglia primitiva».

I protestanti anglosassoni di origine germanica che si erano insediati nel New England ristabilirono la forma molto antica di comunione delle proprietà e della terra, circondati da bande e tribù indigene ostili, che ovviamente non sopportavano la nuova invasione. Questi avamposti di primi coloni si organizzarono in un campo armato fortificato, recintato e chiuso, per difendersi dai nativi. Si stava sviluppando così una nazione, completa di classi sociali, Stato politico, confini nazionali e forze armate, fondamentalmente incompatibile con il comunismo della popolazione nativa. Così questa nazione iniziò a incorporare nella sua identità interessi completamente antagonisti a quelli dell’altro razziale e dei popoli nativi delle Americhe.

Notando la barbarie delle prime colonie protestanti nei confronti degli indigeni, Marx scrisse nel “Capitale” Vol. 1. «Quei sobri virtuosi del protestantesimo che sono i puritani della Nuova Inghilterra misero nel 1703, con risoluzioni della loro assembly, un premio di quaranta sterline su ogni scalpo d’indiano e per ogni pellirossa prigioniero; nel 1720 misero un premio di cento sterline per ogni scalpo, nel 1744, dopo che Massachusetts-Bay ebbe dichiarata ribelle una certa tribù, i premi seguenti: per uno scalpo di maschio dai dodici anni in su, cento sterline di valuta nuova, per prigionieri maschi centocinque sterline, per donne e bambini prigionieri cinquantacinque sterline, per scalpi di donne e bambini cinquanta sterline! Alcuni decenni dopo, il sistema coloniale si prese la sua vendetta contro i discendenti dei pii pilgrim fathers che nel frattempo erano diventati sediziosi. Per istigazione inglese e al soldo inglese essi furono tomahawked (uccisi a colpi di scure di guerra dai pellirossa). Il parlamento britannico dichiarò che i cani feroci e gli scalpi erano “mezzi che Dio e la natura avevano posto nelle sue mani”».

Poiché erano gli interessi economici di sfruttamento del capitale coloniale mercantile che finanziava le prime colonie, e i cui interessi questi coloni in definitiva servivano, lo sviluppo di un profondo odio nazionale contro l’altro razziale era inevitabile e necessario per l’accumulo e l’espansione del capitale. «Il tesoro catturato fuori d’Europa direttamente con il saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio rifluiva nella madre patria e qui si trasformava in capitale». Il sistema coloniale «proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità».

Man mano che i primi insediamenti iniziavano a espandersi, stringevano alleanze con le tribù e guerreggiavano con altre, costantemente in un gioco di intrighi tra i diversi gruppi tribali. In questo modo estendevano il controllo sui territori degli ex alleati, che paternalisticamente affermavano di proteggere.


4. - Il revival delle antiche pratiche agricole germaniche nelle colonie del New England

Nell’opera del 1902, “Agitazione socialista tra gli agricoltori in America”, Kautsky riconosce le condizioni uniche degli Stati Uniti in relazione alla questione agraria e loda il libro “The American Farmer” scritto dal socialista Algie Martin Simons, editore della “International Socialist Review”, come “particolarmente ben fatto”. Nonostante i disaccordi sulle prospettive di conquistare gli agricoltori alla causa del socialismo in quel periodo, Kautsky descrive il libro come un testo centrale per comprendere le condizioni materiali e storiche della questione agraria in America. Il testo rappresenta il punto di vista dei marxisti sulle dinamiche di classe che si stavano sviluppando negli Stati Uniti, intimamente legate alla questione agraria, all’esistenza della Frontiera e della “spinta verso il West”.

Nel testo descrive come le colonie iniziali del New England fossero piccoli insediamenti basati sulla proprietà comune, governate da una rigida teocrazia protestante. Descrive questi primi coloni come comunità sullo stesso modello, in sostanza, delle vecchie comunità tedesche, scomparse in Europa centinaia di anni prima.

«I primi coloni del New England provenivano da una società europea che si trovava ancora nella fase sociale caratterizzata dalla proprietà comune delle terre dei villaggi. Ma le condizioni economiche del New England erano quelle di una fase sociale molto precedente, e quindi vediamo una riproduzione delle istituzioni europee di secoli addietro. La somiglianza con questi tempi precedenti era così stretta che uno dei nostri storici più autorevoli può spiegarla solo sulla base di una rinascita consapevole o di una consuetudine ereditaria.

«In realtà, le stesse condizioni economiche che al tempo di Tacito causarono la formazione di insediamenti comunisti isolati in Germania, produssero gli stessi risultati nel New England. I primi insediamenti in America, come quelli dei primi tedeschi, non erano che piccole radure in mezzo alla foresta, circondate da indiani ostili, senza un governo centrale forte che mantenesse l’ordine e proteggesse i coloni dai loro vicini selvaggi. Le recinzioni erette dal lavoro comune isolavano il villaggio dal resto del mondo».

In “I fattori di razza e nazione nella teoria marxista” il partito ha anche osservato che i popoli germanici passano da un’orda di nomadi a contadini stanziali, probabilmente a causa di una rapida crescita della popolazione. Nel nostro testo notiamo che furono i barbari a rovesciare la forma schiavistica romana e a smantellare i latifondi delle piantagioni, implementando al loro posto una forma di coltivazione comunista della terra. «Dato il numero relativamente ridotto di conquistatori e la loro tradizione di lavoro comunista, la nuova organizzazione dell’agricoltura in queste terre lasciò vaste aree indivise – non solo boschi e pascoli, ma anche terreni coltivabili, con forme di diritto germanico che prevalevano su quelle romane, o si combinavano con esse».

Alla fine questa forma di agricoltura avrebbe lasciato il posto al feudalesimo in Europa, quando i signori più forti cominciarono a portare i contadini indipendenti sotto il loro dominio. Questo sviluppo avrebbe poi consentito la nascita dei moderni Stati nazionali europei. Negli Stati Uniti ha conosciuto una curiosa rinascita, date le condizioni e le relazioni di classe all’interno delle prime colonie, che richiedevano contadini forti e indipendenti, in grado di organizzarsi per difendersi e senza il costoso sostegno statale centralizzato della madrepatria.

Le colonie del New England avevano attratto meno schiavi e operai a contratto rispetto al Sud e alla Virginia, poiché la terra era meno adatta all’agricoltura estensiva.

Ma l’afflusso nelle colonie del New England di rifugiati dalla madrepatria, in fuga dall’avanzata della rivoluzione borghese, avrebbe continuato a esercitare pressioni demografiche sui coloni affinché si espandessero e, alla fine, avrebbero spinto gli anglosassoni verso un progetto di formazione di uno Stato nazionale, mentre una borghesia regionale si sviluppava e cercava di emanciparsi dal mercantilismo britannico.

Per quei coloni, che un tempo avevano vissuto in questa forma di relazioni fondiarie comunistiche, la recinzione della terra, la loro pauperizzazione e la spinta verso le città per essere consumati come foraggio per le manifatture in via di sviluppo portarono a una disperata spinta verso il West, dove sognavano di mantenere il loro vecchio status sociale basato sulle loro vecchie relazioni fondiarie comunistiche.

Questo, naturalmente, avvenne al prezzo sanguinoso di estirpare i nativi dal comunismo primitivo. Il loro spietato genocidio, lo sviluppo della nazione germanica anglo-bianca “americana” e il progetto coloniale di estendere il mercato del capitale verso ovest andranno di pari passo.


5. - La Guerra d’Indipendenza e l’espansione verso il West

Le prime colonie inglesi, fondate prima dell’inizio della Rivoluzione inglese nel 1607, rimasero piccole, con poche migliaia di abitanti fino all’avvento del periodo rivoluzionario, aumentando di oltre il 400% nel decennio del 1640 fino a circa 30.000 e poi a 210.372 nel 1690, mentre le masse fuggivano dai tumultuosi eventi in patria. La Rivoluzione inglese, man mano che si avviava e si completava, portò nuove ondate migratorie di profughi di guerra e di contadini senza terra che si ritrovavano senza terra a causa delle recinzioni.

La Guerra d’Indipendenza americana significò lo scontro di piccoli borghesi, artigiani, operai e agricoltori contro gli interessi commerciali e il capitale finanziario britannici.

Per questo, nell’imminenza della Guerra d’Indipendenza, il mercantilismo britannico avrebbe trovato un alleato nelle popolazioni indigene del Nord America, che cercavano anch’esse di ostacolare lo sviluppo di una borghesia e di un capitale nordamericani indipendenti.

Nell’ambito del colonialismo dell’Impero britannico, il sottosviluppo dei territori coloniali era fondamentale per il suo dominio globale. La produzione di materie prime nelle periferie dell’Impero imponeva alle aree conquistate di rimanere in uno stadio di sviluppo feudale o barbarico. Anche le colonie della Nuova Inghilterra avrebbero dovuto mantenersi in una sorta di stadio semi-barbarico, all’interno del sistema coloniale mercantile. L’Inghilterra, per mantenere la posizione di dominio nello smercio in tutto il mondo dei suoi prodotti finiti, impediva lo sviluppo di poli alternativi di produzione all’interno dell’Impero.

Il monopolio mercantile inglese aveva organizzato le sue colonie per la produzione di materie prime da esportare in Inghilterra, dove sarebbero state trasformate in prodotti finiti da vendere in tutto l’Impero. Il colonialismo britannico aveva imposto un monopolio commerciale che imponeva l’acquisto delle proprie merci, bloccando lo sviluppo della manifattura nelle colonie per ridurre la concorrenza con l’industria nazionale e vietando alla colonia di esportare al di fuori dell’Inghilterra.

Nelle colonie di America impose ampie restrizioni alla produzione, vietando persino di fabbricare cappelli, proibendo l’insediamento a ovest degli Appalachi, il conio di monete e le banche locali. Con l’aumento del potere delle classi medie urbane e dei piccoli borghesi nelle colonie, queste condizioni furono sempre più contestate.

Alla fine del XVIII secolo, la popolazione passò da appena 250.888 abitanti nel 1700 a 2.780.369 nel 1780. Questa esplosione demografica creò una crescente domanda di nuove terre. Il cittadino-soldato che costituiva la base dell’esercito continentale era un contadino indipendente. In effetti al momento della guerra più del 90% dei coloni viveva della terra. Impadronirsi di un appezzamento era la motivazione primaria di molti coscritti.

Nel frattempo, la speculazione immobiliare divenne un importante fattore economico. Dopo la guerra franco-indiana gli inglesi non mantennero la promessa di concedere ai combattenti terre a ovest degli Appalachi, nel timore che si sviluppasse un polo commerciale alternativo minacciante il loro dominio mercantile. Grandi speculatori terrieri come George Washington si trovarono a rischiare la svalutazione totale di 30.000 acri di terra, e fatti analoghi si verificarono per molti altri “Padri Fondatori” della futura Repubblica. Questo, insieme alle altre spinte materiali citate, crearono le condizioni per la Guerra d’Indipendenza.

Alla fine della guerra il vasto territorio a ovest dei Monti Appalachi, ceduto agli Stati Uniti dalla Gran Bretagna con il Trattato di Parigi, del 1783, raddoppiava le dimensioni della nuova nazione. Tuttavia, all’inizio i soldati avrebbero trovato molte difficoltà a ottenere l’accesso alle nuove concessioni terriere che erano state promesse.

Per iniziare a sviluppare la propria industria, la borghesia urbana aveva bisogno di espropriare in massa i contadini del New England. Doveva spingerli a lavorare come salariati e a trasferirsi nelle città dove si trovavano le manifatture. Dopo la fine della guerra, masse di contadini indipendenti scoprirono che i vecchi beni comuni erano stati recintati e venduti e si ritrovarono senza terra. Questo processo, iniziato in parte per ripagare i debiti di guerra, portò i mercanti a richiedere pagamenti in denaro in cambio di merci, costringendo masse di contadini all’estrema povertà e all’indebitamento. Questo ebbe l’esito voluto: molti contadini poveri furono spinti a lottizzare e vendere le loro terre, diventando lavoratori salariati a basso costo per le manifatture in via di sviluppo. Altri furono costretti a intraprendere il pericoloso e rischioso viaggio verso l’Ovest per cercare di guadagnarsi da vivere, un risultato che soddisfaceva i ricchi speculatori terrieri che avevano bisogno di aumentare il valore delle terre che avevano acquistato a basso prezzo.

Le condizioni erano così negative per il contadino medio che portarono allo sviluppo di un’agitazione popolare e di proteste in tutto il Paese, che alla fine sfociarono nell’esplosione della Ribellione di Shays, dove nel Massachusetts 1.500 contadini, armati e indignati per la riscossione dei debiti e per la mancanza di assegnazione delle terre, si ribellarono e tentarono di assaltare un’armeria militare. Il nuovo governo centralizzato sedò rapidamente la ribellione e quasi tutti i “Padri Fondatori”, che esibivano il loro nuovo status di classe dirigente, denunciarono duramente l’insurrezione.


6. - Il contadino indipendente

Il “contadino” americano era uno strato estremamente eterogeneo all’interno della società americana, con diverse pratiche e metodi impiegati adatti all’ambiente naturale di ciascuna area. In “The American Farmer”, Simon osserva: «Quando parliamo dell’agricoltore americano, è necessaria la massima attenzione e la più ampia conoscenza se vogliamo evitare di attribuire loro caratteristiche proprie solo di una singola sezione o classe (...) Nel West sarebbero nati gli allevatori di bestiame e i cowboy, nelle praterie i contadini avevano accesso a terre fertili che consentivano loro di rovinare i contadini relativamente poveri del New England, e nel Sud predominava nelle piantagioni il lavoro degli schiavi. Nella periferia esisteva uno strato di contadini indipendenti e di uomini di frontiera che spesso conducevano una vita relativamente isolata e rude di autosufficienza». Questo accomunava tale parte della popolazione: costituivano uno strato di agricoltori indipendenti, quasi totalmente autosufficienti. Ne “La questione agraria” Kautsky è attento a sottolineare che il farmer è il contadino all’ultimo stadio, che non è più indipendente, in quanto la sua produzione non è più destinata alla sussistenza ma principalmente a merci da portare sul mercato in cambio di denaro. Solo molto avanti nella storia, fino a dopo la Guerra Civile, la maggior parte dei contadini ha iniziato a passare da un’agricoltura di sussistenza alle colture da reddito.

Questo strato di contadini indipendenti negli Stati Uniti si trovava a metà strada tra l’identità del lavoratore e quella del piccolo borghese. Infatti l’aspirazione del contadino e del proprietario indipendente è sempre stata quella di accumulare abbastanza ricchezza da poter acquistare uno o due schiavi o assumere dei salariati. Secondo Lenin, in “Il contadino e la classe operaia”, «Il cosiddetto contadino “lavoratore” è in realtà un piccolo proprietario, o un piccolo borghese, che quasi sempre o si affida al lavoro di qualcun altro o assume egli stesso degli operai. Essendo un piccolo proprietario, anche il contadino “lavoratore” oscilla in politica tra i padroni e gli operai, tra la borghesia e il proletariato».

La confusione tra operai e contadini creata dall’esistenza della Frontiera, che fungeva da valvola di sfogo per le ansie urbane represse tra gli operai americani e spingeva i capitalisti del Nord-Est a incoraggiare l’immigrazione europea per riempire le manifatture in via di sviluppo, può essere vista nello scritto di Kautsky in “L’agitazione socialista tra gli agricoltori americani”: «Gli operai non si sentivano proletari, ma consideravano la loro posizione solo come una transizione per diventare agricoltori, capitalisti, il che non era insolito per molti decenni. Fare soldi, per sfuggire alla propria classe, era la premura dominante del proletariato».

Tuttavia, l’esistenza di contadini indipendenti dipendeva dalla costante espansione della Frontiera, dalla disponibilità continua e crescente di terreni adeguati per il sostentamento di una famiglia e la sua riproduzione. Commentando il ruolo svolto dalla Frontiera nel ritardare lo sviluppo di forti organizzazioni proletarie e la confusione che i socialisti europei facevano sulla situazione, Simmons afferma: «In questo Paese gli elementi che in altre terre erano in continua rivolta contro l’ingiustizia sociale, qui semplicemente si spostavano alla Frontiera, e che quindi sarebbe stato dove la Frontiera si trovava al momento, che il malcontento sociale avrebbe trovato la sua prima forte espressione autoctona unita».


7. - Il Destino Manifesto, la Frontiera e lo sterminio dei nativi

La Guerra d’Indipendenza era stata combattuta su due fronti: uno contro gli inglesi, l’altro alla Frontiera contro i nativi, che si erano alleati con la Corona a causa della minaccia alle loro terre.

Alla fine della guerra, quelle terre furono parcellizzate e i coloni vi cominciarono ad affluire. Gli uomini della Frontiera, gli agricoltori indipendenti che si insediarono in queste terre appena acquisite, si presentarono con i moschetti in mano, poiché il loro compito era quello di far rispettare i nuovi rapporti di proprietà, di difendere la loro proprietà privata appena recintata, in aree in cui l’autorità statale centralizzata era scarsa o inesistente. In tutti questi territori di recente insediamento, le incursioni degli indigeni, che cercavano di difendere le loro terre dall’invasione e di sfrattare i nuovi coloni, erano una minaccia costante, per cui i coloni erano allo stesso tempo agricoltori e agenti del nuovo ordine.

Dopo la Guerra d’Indipendenza, le incursioni degli indigeni si intensificarono fino a sfociare in una guerra. George Washington mobilitò un esercito contro la Confederazione del Nord-Ovest, composta da Shawnee, Miami, Lenape e Ottawa, che si era formata per resistere alla colonizzazione della loro regione. In una battaglia chiave le tribù inflissero la peggiore sconfitta nella storia per opera dei nativi contro l’esercito americano, costringendo il governo a chiedere la pace; tuttavia, non fu possibile decidere una linea di confine e la guerra riprese con le confederazioni, sconfitte oltre dieci anni dopo.

Ma le popolazioni native hanno continuato a rappresentare una seria minaccia militare e i guerrieri indigeni erano temuti dai coloni: in molti affrontamenti il loro semplice avvistamento portava spesso le unità della milizia a fuggire dal campo di battaglia. Le popolazioni indigene della regione si sarebbero nuovamente sollevate durante la Guerra anglo-americana del 1812, unendosi, sotto la guida di un guerriero Shawnee di nome Tecumseh, che formò una confederazione di tribù: si sarebbe alleata con i britannici e avrebbe svolto un ruolo militare fondamentale nella guerra.

Fin da dopo l’indipendenza, Thomas Jefferson aveva iniziato a divulgare la visione di una democrazia contadina che si sarebbe diffusa in tutto il continente. Per quanto riguarda le popolazioni indigene, egli si riferiva a loro come alla “razza rossa condannata”, che sarebbe stata “sterminata” o spinta oltre il Mississippi.

L’insediamento nel West avvenne attraverso unità paramilitari e gruppi di coloni che collaboravano per allontanare i nativi dalla terra. Periodicamente si verificarono guerre aperte tra l’esercito degli Stati Uniti e confederazioni di bande tribali, con occasionali incursioni dei nativi negli insediamenti.

Ma si verificò comunque un rapido spopolamento dei territori indigeni a causa di omicidi di massa, pestilenze, fame ed espulsioni. Con il passare del tempo i nativi rimasti furono concentrati su terre ritenute inutili e inadatte all’autosufficienza, in quelle che furono e continuano a essere chiamate “riserve”. Il sostegno a queste politiche tra gli strati borghesi era molto diffuso.

In “American Farmer” Simon osserva:
     «È estremamente interessante, per non dire altro, sapere che se non si fosse ottenuta l’indipendenza Washington avrebbe perso circa 30.000 acri di ricche terre occidentali (...) Il possesso della terra non comporta alcun beneficio se non porta con sé il potere di appropriarsi dei frutti del lavoro altrui. Ovviamente, se il proprietario vuole assicurarsi tali frutti, deve in qualche modo far arrivare gli uomini dove si trova la sua terra. Fu così che i poteri governativi diedero tutto l’incoraggiamento possibile a questo movimento verso l’Ovest. Il risultato di tutte queste tendenze fu che un potente esercito di conquista e occupazione si riversò oltre le montagne e lungo i fiumi verso il deserto. Furono i primi membri di quella schiera sempre in fuga e sempre alla conquista che da allora fino ad oggi è fuggita dallo sfruttamento e dal monopolio dell’Est, per poi creare nella nuova patria una nuova tirannia dalla quale i loro figli devono a loro volta fuggire.
     «Questo esercito si muoveva in battaglioni irregolari ma abbastanza distinti, ognuno dei quali teneva il campo per una fase sociale, e poi cedeva il passo agli elementi che avrebbero formato una società più elevata e complessa. Il primo corpo a invadere la natura selvaggia fu quello dei cacciatori e dei trafficanti, ma alle loro calcagna arrivavano gli agricoltori pionieri, la vera guardia avanzata dell’esercito invasore. Questi agricoltori pionieri, che per quasi un secolo furono i tipici americani, avevano come compito la conquista di un continente».

In questo frangente storico emerge il “sogno americano” della classe media, un adattamento moderno dell’ideale jeffersoniano della democrazia contadina indipendente.

Si costituiva sui cadaveri di un numero incalcolabile di vittime native. In “Colonization and Christianity: A Popular History of the Treatment of the Natives by the Europeans in All Their Colonies”, del 1838, che Marx studiò nel 1851, Howitt, scrivendo all’epoca del “Trail of Tears”, della massiccia deportazione dei nativi americani del Sud-Est, concludeva: «Nulla potrà impedire il trasferimento definitivo di queste tribù meridionali: dovranno passare il Mississippi, finché la popolazione bianca non sarà aumentata tanto da richiedere di attraversare il Missouri; a quel punto rimarranno solo due barriere tra loro e l’annientamento: le Montagne Rocciose e l’Oceano Pacifico».

Negli Stati Uniti, questo cammino dei piccoli borghesi verso ovest, per realizzare il loro sogno di indipendenza economica e autosufficienza, si sarebbe giustificato con la dottrina sociale del “Destino Manifesto”, il destino, intrinseco e divino della nazione, di estendersi da una costa all’altra.

Il posteriore slogan del Partito Democratico “Supremazia Bianca”, nel periodo successivo alla Ricostruzione, avrebbe consolidato questa identità nazionale, mentre le forze convergenti del Capitale cercavano di continuare il loro iper-sfruttamento, allo stesso tempo agitando la carota dei miti piccolo borghesi di fronte ai contadini americani indipendenti, agli artigiani, e infine ai proletari.

Il Destino Manifesto, una dottrina che copriva con alti ideali un progetto di espansionismo, era guidato dalle forze materiali impersonali di accumulazione del capitale che, in modo inarrestabile e inevitabile, stavano diffondendo i loro tentacoli sanguinari in tutto il mondo. Queste conquiste – storicamente progressive – furono presentate come una panacea sociale.

Tuttavia, i contadini non riusciranno a conservare la loro indipendenza e tutta la vita americana finirà per essere dominata dalle forze potentemente rivoluzionarie del capitale industriale. La sua progressiva proletarizzazione delle masse continua ancora oggi, nonostante l’esistenza di una grande ma sempre più ridotta aristocrazia del lavoro.

Il capitale rovina sempre i contadini liberi, ma allo stesso tempo li illude per cercare il loro sostegno contro la classe operaia. Persino il nazismo in Germania, all’altra estremità del ciclo storico borghese, dei piccoli contadini fece, nella sua ideologia, dei mitici eroi, i veri rappresentanti della nazione, del ceppo razziale e della storia tedesca. La cultura urbana veniva invece etichettata come “cultura dell’asfalto”, “ebraica”. In sostanza, si trattava del solito sogno piccolo-borghese di una rinnovata indipendenza contadina.

Il capitale, nella sua furia espansiva, è anonimo e globale, indifferente alla razza, potente unificatore di popoli e culture, ma diventa sterminatore razzista non appena questo diventa utile ai suoi bisogni, di affermazione o di sopravvivenza, all’inizio o alla fine del suo percorso. Così Hitler scriverà: «Nel nostro Oriente si ripeterà per la seconda volta un processo simile a quello della conquista dell’America: il nostro Mississippi sarà il Volga».

Dopo la crisi economica del 1873 partirà la campagna per la “Supremazia Bianca”, portata avanti dal movimento dei “Reduci” del Partito Democratico, e alla definitiva alleanza di questo con l’emergente capitale industriale nazionale. L’iniziativa mirava a schiacciare le organizzazioni dei lavoratori e, contro gli ex schiavi proletarizzati, sostituire i regimi radicali repubblicani che ai tempi della Ricostruzione, dopo la Guerra Civile, si erano instaurati nel Sud.

Prima dell’ascesa delle Camicie Nere in Italia e delle Brune in Germania, è negli Stati Uniti che si assiste alla prima manifestazione delle Camicie Rosse suprematiste bianche nel Mississippi e nelle Caroline, e naturalmente di gruppi simili del KKK e della Lega Bianca. Queste organizzazioni paramilitari, legate al Partito Democratico, adottarono tattiche terroristiche nel periodo della Ricostruzione del Sud.


8. - Il nazionalismo bianco, l’operaio americano e l’aristocrazia del lavoro

Prima della Guerra Civile la stragrande maggioranza della popolazione degli Stati Uniti apparteneva alla classe media, composta da contadini indipendenti, operai urbani o artigiani indipendenti. Nel 1860 le piccole imprese e le officine che utilizzavano strumenti manuali superavano ancora di gran lunga le fabbriche. Ugualmente, nel 1790, nove americani su dieci vivevano completamente di terra. Nel 1860 erano ancora 8 su 10. L’economia del piccolo agricoltore si basava sull’autosufficienza: oltre alla coltivazione della terra e all’allevamento del bestiame, e alle relative industrie agricole, altre attività come la filatura e la tessitura venivano svolte all’interno dell’unità familiare.

Come abbiamo scritto nella nostra “Storia del Movimento operaio negli Stati Uniti”:

«All’interno delle piccole officine per le quali era organizzata la maggior parte della produzione c’era il proprietario dell’officina (il maestro), l’operaio specializzato e l’apprendista. L’artigiano era dotato di una serie di strumenti tipici del suo mestiere, che gli permettevano di realizzare il prodotto finito. I maestri erano proprietari che si occupavano di tutto, dal mantenere i rapporti con i clienti e ordinare le materie prime, alla tenuta della contabilità. Inoltre, pianificavano il lavoro, controllavano i giovani apprendisti e lavoravano a fianco dei loro subordinati. Per la maggior parte si trattava di ex operai specializzati, lavoratori esperti pagati in passato a giornata o a cottimo, a seconda del mestiere. Questi artigiani erano stati a loro volta apprendisti, che avevano iniziato il mestiere quando erano ancora adolescenti e avevano trascorso da tre a sette anni ad apprendere i segreti del mestiere sotto la tutela del loro maestro.

«La rivoluzione industriale in Nord America fu preceduta da un periodo, tra gli anni Venti e Quaranta dell’Ottocento, in cui la bottega artigiana subì importanti cambiamenti. La prima trasformazione importante fu l’aumento del numero di persone impiegate nella bottega, che arrivò a qualche decina e minacciò il tradizionale equilibrio tra i tre ruoli appena descritti. La conseguenza fu l’arricchimento dei proprietari, una sempre minore speranza per gli apprendisti di mettersi in proprio (possiamo datare a questo periodo la morte precoce del “sogno americano”, la cui esistenza successiva fu un mero miraggio per la stragrande maggioranza dei proletari) e apprendisti visti sempre più come manodopera a basso costo piuttosto che come futuri artigiani. Seguì poi la trasformazione del modo di lavorare tipico della fabbrica, sia attraverso l’introduzione di macchinari, sia attraverso la suddivisione del processo lavorativo in una serie di fasi semplici, che permisero di assumere manodopera non specializzata e quindi più economica e facilmente sostituibile, come donne e bambini.

«Le due classi contrapposte cominciarono nel frattempo a definirsi e a chiarire le rispettive identità dal punto di vista teorico, con la borghesia in ascesa certamente molto più prolifica da questo punto di vista. Adam Smith fu una delle principali fonti dell’ideologia borghese americana di questo periodo, un’ideologia che si sarebbe poi sviluppata nel postulato del Libero Lavoro, che ancora oggi, ridotto a una vuota illusione, si insinua tra i nostri piedi. La società ideale, si suppone, è quella in cui c’è un minimo di interferenza politica nel mercato e nella produzione, la cui dinamica dovrebbe favorire naturalmente il raggiungimento dell’indipendenza economica da parte dei contadini e degli operai, se, cioè, sono sufficientemente diligenti e industriosi. In breve, è la teoria del “self-made man”: tutti hanno la possibilità di fare soldi (come, è irrilevante), dopo tutto, dove c’è una volontà c’è un modo... Per di più, il Free Labor è considerato l’ideologia fondante del Partito Repubblicano, che si sarebbe costituito come tale a metà degli anni ’50 del XIX secolo».

Dopo la Guerra d’Indipendenza, l’avanzare della rivoluzione commerciale era venuta ad eliminare i sistemi di scambio e baratto non monetari. Questo portò a un progressivo declino dei contadini e degli artigiani indipendenti e alla fine emerse un gruppo di imprenditori non più maestri artigiani, ma determinati a fare soldi a tutti i costi. Con lo sviluppo delle manifatture, all’interno dell’artigianato e del suo vecchio sistema di corporazioni, nacque una spaccatura tra i proprietari e i dipendenti, che infine si distinsero del tutto dando origine alla nascita dei primi sindacati di mestiere composti di soli lavoratori.

La crescita delle manifatture portò a una crescente richiesta di manodopera non qualificata. In questo periodo gli immigrati venivano spesso importati direttamente a sostituire gli scioperanti. Pertanto molte delle prime politiche dei sindacati di mestiere mirava a tenere lontani gli immigrati, allora spesso tedeschi in fuga dal fallimento della Rivoluzione del 1848. Infatti molte delle politiche della prima Associazione Internazionale (AIL) si basavano su patti reciproci tra i lavoratori per evitare di immigrare in certi Paesi e di lavorare per salari inferiori a quelli degli altri lavoratori. Ad esempio nel 1871, attraverso l’AIL, le società dei tipografi americane e britanniche raggiunsero un’intesa in cui stabilirono regole reciproche per l’ingresso negli Stati Uniti di immigrati di quel mestiere.

Vediamo qui due approcci: uno che chiede a partiti politici borghesi di fermare l’immigrazione, l’altro volto a raggiungere un patto reciproco con i lavoratori a livello internazionale; il primo, ovviamente, è sulla base di un comune interesse nazionale sciovinista con la classe dominante, mentre il secondo è un approccio proletario internazionalista che riconosce un interesse di classe condiviso e un’azione basata sulla solidarietà reciproca.

Sebbene questi primi sindacati si organizzassero per un’azione collettiva, la loro attività arrivava spesso alla raccolta di fondi per avviare imprese cooperative, che per gli individui diventava sempre più difficile. La “forza d’attrazione dell’Ovest”, in ultima analisi, fungeva da valvola di sfogo per la possibilità di diventare proprietari indipendenti altrove.

Un chiaro esempio è rappresentato dal “Cooperative Commonwealth” fondato nel 1888, di cui Eugene V. Debs sarebbe stato per breve tempo presidente. Dopo che il Sindacato delle Ferrovie Americane era stato spezzato dalle truppe federali e sciolto nel 1877, i suoi resti si unirono a vari gruppi di colonizzazione, socialisti e sezioni locali del sindacato e ad associazioni religiose radicali per formare la Social Democrazia, con Debs come presidente. L’organizzazione mirava a colonizzare il Pacifico nordoccidentale, a creare un’industria cooperativa e a costruire un nuovo sistema economico che avrebbe abolito la schiavitù salariale. I capi del movimento lo paragonarono a quelli dei Free Soilers, che si erano battuti affinché nello Stato del Kansas fosse impedita la diffusione della schiavitù. Alla fine ci si rese conto che questi progetti allontanavano i lavoratori dal movimento urbano e quindi il progetto fu abbandonato.

Dato il costante ripetersi di crisi economiche in questo primo capitalismo, la disoccupazione era una grave preoccupazione. La paura dell’immigrazione era accompagnata dalla paura degli schiavi neri liberati che competevano sul mercato del lavoro. Per questo motivo nel Nord ci sono molti esempi di feroce contrapposizione e guerra reciproca fra sindacati di mestiere di bianchi e di neri. Già nel 1858, a Baltimora, i calafati organizzati neri e quelli tedeschi e irlandesi si scontrarono dopo che le associazioni bianche avevano brigato per estromettere la manodopera nera dal mestiere. Nel frattempo, alla fine della guerra, i giornali del Partito Democratico avrebbero usato la loro retorica razzista per incitare i lavoratori bianchi contro i neri come capro espiatorio per i problemi economici e la disoccupazione, una tattica che sarebbe continuata per un secolo portando a molti pogrom e massacri perpetrati dai lavoratori bianchi contro i neri in tutto il Paese.

Durante la Guerra Civile, i giornali del Partito Democratico incitavano i bianchi ai pogrom, incolpando i neri delle impopolari misure di leva. Dopo la guerra i capitalisti del Nord usavano i neri come crumiri, spesso reclutandoli intenzionalmente dal Sud per incoraggiare le divisioni e l’odio razziale. Nel 1863 uno sciopero di 3.000 scaricatori di porto fu interrotto perché il padrone si servì di crumiri neri. Dopo la guerra si temeva che venissero costituite agenzie per spedire 200.000-300.000 neri a far da crumiri in tutto il New England.

Ciononostante, durante la guerra sempre più lavoratori neri del Nord iniziarono a organizzarsi.

Mentre molti sindacati rimasero amichevoli e la direzione della National Labor Union sotto Sylvis insistette sulla non discriminazione, alcuni avevano già iniziato da tempo a escludere i neri, in particolare nel Sud, e nel Nord molti erano indifferenti alla condizione dei lavoratori neri.

La National Labor Union si era originariamente aperta sia ai bianchi sia ai neri; ma dopo la morte di Sylvis gli atteggiamenti discriminatori dei bianchi costrinsero degli operai neri a uscire dal sindacato per formarne uno proprio.

Nei primi tempi i Cavalieri del Lavoro si erano vantati della loro inclusione razziale, con 60.000 iscritti neri; tuttavia, con il passare del tempo, molti episodi di opportunismo razziale da parte della direzione, a livello locale e nazionale e alla base dell’organizzazione, cominciarono a compromettere la solidarietà. Dopo la crisi economica del 1893 la manodopera specializzata all’interno del sindacato iniziò a ridimensionarsi e a legarsi più strettamente al padrone. A quel punto l’adesione dei neri ai Cavalieri del Lavoro era quasi inesistente. L’anno successivo, al suo congresso, l’organizzazione approvò risoluzioni che chiedevano la deportazione dei neri in Africa.

Nel frattempo, nel 1893, l’AFL avrebbe ufficialmente revocato il divieto di accettare sindacati esclusivi dal punto di vista razziale, portando alla fine al completo abbandono del suo impegno per l’inclusione razziale e all’ascesa di una forma di “sindacalismo alla Jim Crow”.

In molti casi, quindi, nonostante i migliori sforzi dei capi per incoraggiare l’unità, un profondo odio razziale era diventato elemento fondamentale dell’identità nazionale e un argomento fin troppo facile per mobilitare gli elementi social-sciovinisti dell’aristocrazia sindacale. La predominanza della piccola borghesia, il precoce sviluppo di un’aristocrazia del lavoro dalla evoluzione dagli operai delle botteghe artigiane e dal proletariato non qualificato con connotazioni razziali separate, e la progressiva ascesa di una grande borghesia, ritardarono lo sviluppo dell’organizzazione sindacale e favorirono l’avanzata di un’unità nazionalista bianca contrapposta alle razze nere e native.

L’aristocrazia del lavoro bianco, che svolgeva i mestieri più qualificati, il più delle volte non vedeva i suoi interessi distinti da quelli del capitale, e considerava le sue associazioni di mestiere non come un organo di difesa di classe ma per la loro elevazione sociale. Spesso organizzavano i loro sindacati in associazione con i padroni, in modo monopolistico e protezionistico per tenere fuori la concorrenza dei peggio pagati.

(continua al prossimo numero)