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Aspetti della rivoluzione africana

(Il Programma Comunista, n.12-13, 1958)




Il Programma Comunista 1958, n.12

Nel movimento anticoloniale l’Africa è stata preceduta dall’Asia.

La rivoluzione nazional-democratica nelle colonie – l’accadimento più importante di questo secolo, dopo la Rivoluzione socialista russa – in pochi anni ha percorso l’intero continente asiatico, e con la sua ondata ha spazzato via imperi secolari.

Al grandioso rivolgimento l’Africa ha partecipato validamente, ma in essa gli avvenimenti si sono svolti finora con un ritmo meno veloce.

Solo il settore del continente che si suol definire Africa bianca, in quanto abitata da razze non propriamente negre, è riuscito a condurre vittoriosamente la rivolta contro l’imperialismo. La lotta è tuttora aperta in Algeria.

Ciò non significa che nel resto del continente il colonialismo abbia avuto giorni facili. Il moto rivoluzionario inizia subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Infatti è dal 1946 che nell’Africa nera l’indistinto movimento di rivolta all’oppressione coloniale francese assume forme organizzate. A cominciare da quell’anno sorgono i primi partiti africani moderni, quali l’Unione Democratica africana (Rassemblement Democratique Africaine, RDA), la Convenzione Africana, il Movimento Socialista Africano, l’Unione dei Popoli del Camerun.

Scoppiano grandi lotte rivendicative, le organizzazioni sindacali, affiliate in origine alle centrali sindacali parigine, si emancipano, divenendo organizzazioni propriamente africane.

Né manca la lotta diretta contro l’occupante straniero. Nel 1950, il governo francese, che i nazionalisti degollisti accusavano di “mollezza”, condusse una sanguinosa repressione contro il movimento anticolonialista. La Costa d’Avorio, dove il RDA era sorto per diffondersi in tutta l’Africa nera francese, fu particolarmente presa di mira dai giannizzeri colonialisti, che si abbandonarono ad un’orgia di arresti, deportazioni, ed esecuzioni sommarie.

Ancor più sanguinaria era stata la repressione della rivolta malgascia, rimasta tristemente nota. Nel marzo 1947, il Madagascar si levò in armi contro gli oppressori francesi, che risposero perpetrando un spaventoso massacro. Gli stessi documenti ufficiali francesi ammettono che persero la vita per mano delle truppe di repressione oltre 80.000 ribelli malgasci su una popolazione di 4.600.000 persone. Ogni attività politica fu soppressa nell’isola. I capi della rivolta, tra cui i deputati del Madagascar all’Assemblea Nazionale Francese, furono deferiti alle Corti marziali benché si trovassero fuori del Madagascar all’epoca della rivolta. Condannati a morte, ebbero commutata la pena nel carcere a vita e si trovano tuttora in carcere.

Certo, mentre i popoli asiatici lottavano contro il colonialismo gli africani non ristavano. Non si muovevano solo i negri e i malgasci. Come non ricordare l’eroica, per quanto confusa, rivolta dei Kukuiu del Kenya, le enormi perdite subite dagli insorti in Marocco, in Tunisia, i 700.000 morti algerini.

È vero che, pur non perdendo d’occhio gli avvenimenti africani, noi abbiamo dato maggior risalto a quelli asiatici. Ciò è accaduto per due ragioni. Innanzitutto è in Asia, sede di civiltà precoloniali più evolute, che i fenomeni economici e sociali suscitati dall’invasione colonialista si presentano nella loro forma più chiara. Qui più che altrove il colonialismo ha svelato apertamente la sua essenza reazionaria, impedendo lo sviluppo dei paesi soggetti e perpetuando rapporti sociali retrogradi. In secondo luogo, è nei movimenti rivoluzionari asiatici che si è verificato il fenomeno del connubio tra il revisionismo antimarxista dei falsi partiti comunisti della scuola di Mosca e l’ideologia radicale della democrazia rivoluzionaria piccolo-borghese, assimilabile, in senso lato, al giacobinismo delle borghesie occidentali del secolo XVIII.

Il compito del marxista che intende rendersi conto della sostanza dei rivolgimenti afro-asiatici, non è facile. Il declino del colonialismo non ha dato luogo, come pretendono molti, a un cambio della guardia tra i nuovi e i vecchi imperialismi. La formazione degli Stati nazionali sulle macerie degli imperi coloniali, anche se non ha cancellato la dipendenza economica dei nuovi Stati verso le centrali finanziarie dell’imperialismo, è un fatto rivoluzionario, come insegna la dottrina leninista sul principio del diritto delle nazioni alla autodecisione, cioè alla separazione dai super Stati plurinazionali e plurirazziali. La separazione resta un fatto rivoluzionario, anche se è facilitata dalle rivalità egemoniche che dividono gli imperialismi.

Nelle attuali condizioni dei rapporti di forza mondiali tra borghesia e proletariato, sboccando la rivoluzione anticoloniale in regimi di democrazia borghese, è assolutamente secondaria la questione dei rapporti tra i nuovi Stati indipendenti e gli Stati di antico capitalismo. Presto o tardi, prima o dopo la conquista dell’indipendenza, gli Stati afroasiatici, in quanto regimi borghesi, cercheranno la “coesistenza pacifica” coi colossi capitalistici che dominano il mondo. Ciò che è veramente rivoluzionario è il fatto che la soppressione del colonialismo e la formazione dello Stato nazionale sbloccano, per dirla con Lenin, i “potenti fattori economici” che sono alla base della rivoluzione nazional-democratica, cioè liquidano gli ultimi residui di modi di produzione precapitalistici.

Ma a tale consapevolezza teorica arriva solo chi ha smascherato il gioco dei revisionisti del marxismo. Questi tendono – l’esperienza del P.C. cinese insegni per tutti – a far passare per politica comunista il blocco leale coi partiti della piccola borghesia nazionalista, e per socialismo le finalità cui tendono programmi di schietto capitalismo di Stato. Bisognava allora, per evitare che si falsasse il significato dei rivolgimenti afro-asiatici, lottare anzitutto contro il revisionismo dei partiti “comunisti” legati a Mosca. Perciò abbiamo dedicato maggiore attenzione agli avvenimenti asiatici, trascurando un po’ quanta accadeva in Africa. Da questo momento lavoreremo ad eliminare lo squilibrio.

Ma prima di passare in rassegna i movimenti politici africani, sarà bene occuparci di alcune questioni generali che interessano l’intero continente.

Facevamo la constatazione che l’Asia ha preceduto l’Africa nel cammino verso la emancipazione. Spiegandoci le ragioni del primato asiatico verremo a comprendere il perché del ritardo segnato dall’Africa. Non si tratta di una questione accademica. La liberazione dell’Asia ha comportato conseguenze enormi per il movimento anticoloniale africano. Infatti, le potenze colonialiste, essendo state scacciate dai loro possedimenti asiatici e costrette a trincerarsi nelle ultime roccheforti coloniali rimaste nelle loro mani, hanno inasprito drasticamente i loro metodi di repressione. La liberazione dell’Asia ha in un certo senso facilitato il compito dei colonialisti nelle altre parti del mondo, in quanto li ha esentati dall’obbligo di disperdere le loro forze in un immenso teatro di operazioni. È ovvio, ad esempio, che la Francia, se dovesse mantenere ancora truppe negli ex possedimenti asiatici, troverebbe difficoltà a mantenere, non solo l’entroterra del Nordafrica, ma la stessa città di Algeri.

La condizione ideale per una rapida vittoria della rivoluzione anticoloniale in Asia e in Africa sarebbe stata la simultaneità dei moti nei due continenti. Ciò non è accaduto. Non poteva accadere. L’Asia non poteva non muoversi e vincere per prima, per una serie di cause che crediamo di poter raggruppare in tre ordini principali: la grande tradizione storica dell’Asia, l’influenza della rivoluzione russa, la posizione geografica.

1) La grande tradizione storica dell’Asia. Il colonialismo europeo è stato soffocatore implacabile delle forme di civiltà portate avanti dai popoli sottomessi, ma non ha potuto condurre in Asia la sua opera di demolizione nella misura che doveva raggiungere in Africa. L’epoca precoloniale aveva prodotto nel continente asiatico, antichissima culla di civiltà, organizzazioni sociali che nulla avevano da invidiare agli Stati europei coevi. Il vero “distacco” tra Europa e Asia ha inizio allorché l’industria si sgancia dalle forme artigiane, aprendo l’epoca della manifattura e, quindi, del macchinismo. Ma il balzo in avanti dell’industria europea avviene dopo che l’Asia (e l’Africa) sono cadute sotto l’invasione coloniale. Meglio, avviene perché l’Asia (e l’Africa) sono discese al rango inferiore di colonie, cioè di terre di sfruttamento e spoliazione. L’accumulazione primitiva senza di che il capitalismo europeo non si sarebbe sviluppato così rapidamente, non avrebbe marciato al ritmo che conosciamo, se i pirati colonialisti non avessero spogliato le terre d’oltremare.

La dominazione europea poteva arrestare lo sviluppo dell’Asia, non cancellare le insopprimibili sopravvivenze di millenni di storia, nel corso dei quali giganteschi Stati si erano formati testimoniando delle altissime vette raggiunte dall’organizzazione sociale e dell’evoluzione culturale delle nazioni. In realtà, il colonialismo europeo non era riuscito a cancellare del tutto l’indipendenza politica dell’Asia. Tranne la temporanea occupazione americana, il Giappone non ha mai perduto l’indipendenza. Né un secolo di reiterate aggressioni riusciva a sottomettere definitivamente la Cina, il massimo Stato asiatico per dimensioni fisiche ed economiche, per tradizioni sociali e per sviluppo culturale. Questi Stati, pur combattendosi tra loro (destino ineluttabile di tutti gli Stati nazionali) dovevano mantener viva la lotta per l’indipendenza.

Sarebbe ozioso mettersi ad immaginare che cosa sarebbe accaduto se il colonialismo europeo avesse impedito l’esistenza indipendente del Giappone. È certo, però, che le velleità imperialistiche del capitalismo nipponico dovevano contribuire, sia pure negativamente, alla sconfitta del colonialismo europeo. Infatti, invadendo gli antichi possedimenti europei d’Asia, le armate del “Tenno” dovevano vibrare un colpo mortale al prestigio bianco.

Le grandi tradizioni storiche dell’Asia dovevano impedire agli invasori colonialisti di imporre una dominazione totale sui continente. Al momento della lotta contro i dominatori coloniali, esse si sono trasformate dialetticamente in forze materiali.

2) L’influenza della rivoluzione russa. Esiste una non causale coincidenza tra le sollevazioni rivoluzionarie in Russia e in Asia. Il 1905 è l’anno della prima rivoluzione russa. Per Lenin esso segna l’apertura di un’epoca rivoluzionaria nell’Europa orientale e in Asia. Difatti alla rivoluzione russa seguono le rivoluzioni di Persia, di Turchia, di Cina. Specialmente sui capi della rivoluzione cinese, massimo Sun Yat-sen, le tradizioni rivoluzionarie russe esercitano una grande influenza.

Non è il caso di occuparsi qui degli articoli scritti da Lenin su Sun Yat-sen. Pur vedendo in lui un esponente della democrazia rivoluzionaria piccolo-borghese e lodandone l’onestà politica e la saldezza di carattere, Lenin misurava scrupolosamente le distanze che separavano l’ideologia e il programma del fondatore del Kuomintang dal comunismo marxista. Ma era innegabile che il Kuomintang e Sun Yat-sen si riattaccavano ad alcune correnti del pensiero rivoluzionario russo, nel solco del populismo, la tendenza a concepire la democrazia contadina come ponte di passaggio al socialismo, e quindi a ritenere possibile il “salto” dal feudalismo al socialismo senza passare per la dittatura del proletariato. Lenin sapeva che le ideologie e l’azione politica di Sun Yat-sen e seguaci, divergevano dalle finalità del comunismo.

Conseguentemente, allorché si trattò di dettare il programma dei partiti comunisti operanti nei paesi coloniali e arretrati, Lenin pose la condizione indispensabile che i partiti comunisti, pur cooperando con i partiti demonazionali sul terreno insurrezionale, mantenessero ben distinti i loro programmi e le loro organizzazioni. Se il partito comunista cinese, fin dalle sue prime azioni, si confuse col Kuomintang fino a far proprio il programma di Sun Yat-sen, appiccicandovi sopra l’etichetta di comunismo, tutto ciò non torna certo a colpa del leninismo e del movimento internazionale.

Ma non è questo il luogo per ritornare su tali questioni. Quel che interessa è di portare l’attenzione sul fatto innegabile che le influenze della rivoluzione russa agirono come un acceleratore sul movimento rivoluzionario, non soltanto cinese, ma di tutta l’Asia. Fatti come il congresso dei popoli di Oriente (Baku, settembre 1920) non potevano non lasciare una traccia profonda. Partecipavano all’assemblea duemila delegati provenienti da tutti i paesi coloniali e arretrati d’Asia e d’Africa. L’Internazionale Comunista si metteva in tal modo alla testa della rivoluzione anticoloniale.

Trentacinque anni dopo, nell’aprile del 1955, la Conferenza afro-asiatica di Bandung, offrendo all’Occidente capitalista la “coesistenza”, è venuta a provare come la rivoluzione asiatica, arrestandosi alla fase democratico-borghese, abbia attuato solo in parte il programma di Baku. La rivoluzione nazional-democratica nelle colonie doveva, nella grande concezione strategica della III Internazionale, indebolire il campo dell’imperialismo facilitando l’attacco del proletariato occidentale alle cittadelle borghesi d’Europa e d’America. Il mancato attacco rivoluzionario del proletariato occidentale – immobilizzato dagli apparati venduti della socialdemocrazia prima e dalla controrivoluzione staliniana poi – impediva che la rivoluzione nazional-democratica nelle colonie superasse la fase borghese.

È chiaro, tuttavia, che, indipendentemente dall’involuzione delle sue finalità sociali, l’industrializzazione dell’enorme area formata dalla Russia europea e dalle sue propaggini asiatiche ha influito profondamente sullo sviluppo ulteriore del continente. Infatti non ai modelli sorpassati dell’Occidente ma all’esperienza viva della rivoluzione industriale russa si ispirano i programmi e l’azione politica dei nuovi regimi asiatici, non solo quelli che assumono ad etichetta il nome di Mao Tse-Tung, di Ho-Ci-Min, di Kim-ir-Sen, ma anche gli altri che hanno per bandiera i Nehru e i Sukarno.

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Programma Comunista
1958, n.13

Nella prima puntata del numero scorso si sono illustrate due delle cause che determinarono la precedenza dell’Asia sull’Africa nel moto anticoloniale e anti-imperialistico: una tradizione di grande civiltà fondatrice di Stati e l’influenza della Rivoluzione russa. Veniamo alla terza.

3) La posizione geografica. È il fattore di più immediata comprensione. Ogni lotta, guerra o rivoluzione è legata alle condizioni del territorio.

I movimenti rivoluzionari asiatici dovevano giovarsi delle insuperabili difficoltà logistiche create agli imperi coloniali dalle eccessive distanze tra le metropoli e i possedimenti d’oltremare.

Le vie di comunicazione imperiali, che non erano state né lunghe né faticose per le potenze imperialistiche europee finché esse riuscirono a conservare l’egemonia navale conquistata sin dai primordi del colonialismo, lo divennero improvvisamente nel corso della 2a guerra, quando lo sviluppo esplosivo della aviazione ridusse praticamente a zero il potere offensivo delle flotte navali non appoggiate dall’arma aerea. In sostanza, divenivano idonee a dominare gli oceani le potenze capaci di trasformare le vecchie flotte navali combinando la nave e l’aereo, trasformazione tecnica però condizionata all’esistenza di una superiorità industriale e finanziaria ormai sfuggita di mano alle vecchie potenze colonialiste europee.

La rivoluzione vince a due condizioni: che il campo rivoluzionario sia deciso a lottare; che il campo della reazione sia impotente ad opporvisi. Queste condizioni si verificavano nella rivoluzione anticoloniale asiatica. I colonialisti non riuscirono ad essere fisicamente presenti nel teatro della rivolta, almeno nella misura atta a fronteggiare gli avvenimenti. D’altra parte la nuova potenza marittima egemone – gli Stati Uniti – era impotente a ereditare il vecchio colonialismo. È facile immaginare le conseguenze di una brutale sostituzione dell’occupazione americana ai declinanti governatorati coloniali. Essa avrebbe provocato la violenta reazione delle potenze europee e spezzato i legami che le uniscono all’imperialismo americano. Anziché esporsi a un pericoloso isolamento, il governo americano fu costretto a seguire una politica di non-intervento, salvo a tentare la conquista economica dei nuovi Stati.


La civile Africa Nera

Anche l’Africa ha dietro di sé una tradizione storica di grande importanza. Il colonialismo bianco non si sovrappose conquistandolo ad un mondo di tenebre e di barbarie come pretendono i più volgari strumenti del razzismo bianco. L’Africa veramente semiselvaggia si riduce a poche razze di nomadi della grande foresta equatoriale o del deserto del Kalahari. E anche verso questi popoli (pigmei, boscimani, ottentotti) l’oppressione colonialista ha agito, non diciamo come fattore di ritardo nello sviluppo dei popoli soggiogati, ma come forza cieca e distruttrice che ha sospinto indietro l’evoluzione, sia pure lenta, degli autoctoni.

A seconda della resistenza incontrata, il colonialismo bianco, codesto “dispensatore di civiltà” o ha bloccato la marcia dei popoli caduti sotto il suo giogo o ne ha addirittura invertito la direzione, reimbarbarendo popoli già civili e inselvatichendo gruppi razziali che stavano uscendo dalle fasi più basse della barbarie.

Ciò vale soprattutto per l’Africa. In un articolo che pretende di essere solo una introduzione allo studio dell’evoluzione politica dell’Africa, non si può trattare diffusamente l’argomento delle civiltà che fiorirono in Africa nel periodo precoloniale. Cercheremo di dire le cose alla svelta, ripromettendoci di ritornarvi sopra in seguito.

Quello che i difensori del colonialismo bianco non intendono ammettere è che gli africani – non solo gli abitanti semitici dell’Africa “bianca”, ma anche le razze melano-africane che compongono l’Africa nera propriamente detta – non hanno da conquistare la civiltà. I negri, ancor prima che gli avvoltoi colonialisti calassero sulle coste del Golfo di Guinea, avevano già dato vita ad alte forme di civiltà. Certo non si trattava di organizzazioni sociali, di Stati, di manifestazioni di sviluppo culturale comparabili per restare ai paesi caduti sotto il colonialismo, alla Persia Safavide, all’india del Gran Mogol, alla Cina del Sung e dei Ming.

Se si considera che le antiche società africane non hanno tramandato che rari monumenti architettonici d’importanza, si deve concludere che la civiltà africana si quota – almeno in questo campo – al di sotto delle civiltà americane precolombiane – gli Aztechi, gli Incas, i Maya – che hanno lasciato grandiosi esempi di costruzioni di pietra. Ma è certo che l’Africa nera, cioè quella parte del continente meno esposta alle influenze delle civiltà europea e asiatica, è pur sempre capace, fondandosi sulle sue risorse, di uscire dalle tenebre della barbarie. Non ci si può certo accusare di opporre al razzismo bianco un contro-razzismo afro-asiatico, se sosteniamo energicamente queste verità.

L’Africa, non meno degli altri continenti, ha partecipato, attraverso i secoli, all’evoluzione sociale della specie umana. Se lo Stato è un necessario quanto sinistro ponte di passaggio dalla barbarie alla civiltà, bisogna dire che gli africani conoscevano l’arte di governarsi, cioè erano civili ancor prima che negrieri e missionari scendessero a “cristianizzare” la boscaglia tropicale. Fiorenti imperi, organizzati secondo lo schema della gerarchia feudale, sorsero nel Sudan occidentale, sulle coste del Golfo di Guinea, nell’Africa congolese, nella Rhodesia. Basti per ora solo nominarli: l’impero di Ghana, il più importante e famoso di tutti, fondato nel secolo IV; l’impero mandingo del Mali, apparso all’inizio del secolo XIII; l’impero terrestre e navale di Gao. Più suggestivo di tutti, per il mistero che ancora ne avvolge le origini, è il favoloso regno di Monomotapa, sorto sulle coste dell’attuale Rhodesia, nell’Africa australe, di cui sono rimaste rovine di grandiose costruzioni in pietra che mancano negli altri regni africani.

Queste formazioni statali che tenevano sotto la propria giurisdizione vastissimi territori e popoli diversi e intrattenevano relazioni commerciali e diplomatiche con l’Africa araba e il Mediterraneo, testimoniano dell’alto livello raggiunto dalla tecnica produttiva africana.

I popoli di razza negra percorsero, prima d’essere gettati nella galera del colonialismo, tutte le “tappe” della civiltà anteriori a quella – introdotta dal capitalismo: la coltivazione della terra, l’allevamento del bestiame, l’industria e il commercio. Il fondamento economico della civiltà euro-americana moderna è l’industrialismo. Se i popoli africani, come i popoli asiatici, si arrestarono alle soglie della fase manifatturiera e macchinistica dell’industria — vantato monopolio della razza bianca – ciò non va spiegato con una pretesa inferiorità intellettuale della razza negra. È innegabile che la civiltà africana si è sviluppata con un ritmo relativamente lento.
I popoli guineani possono aver dato prova di avanzate conoscenze tecnologiche, portando a ragguardevole perfezionamento la metallurgia del bronzo. Gli antichi abitatori del Sahara e dell’Africa australe possono aver fornito mirabili testimonianze del loro senso artistico, lasciando all’ammirazione dei posteri capolavori di pittura rupestre. Gli Stati negri possono aver dimostrato le capacità organizzative e amministrative dei popoli melano-africani. Ma dall’esame della civiltà africana emerge chiaramente che essa procede con lentezza.

Ciò si spiega con cause di ordine geofisico oltre che storico. Ovviamente, la civiltà è un processo che si svolge in stretta dipendenza con l’allargarsi indefinito della sfera delle relazioni sociali tra gli uomini. La civiltà ha un ritmo veloce o lento, a seconda che esistano o no condizioni di agevoli e frequenti rapporti tra le nazioni e le collettività. E quale forma di comunicazione è più facile e redditizia che la navigazione marittima? Ebbene, in Europa e in Asia esistevano le condizioni naturali per il progresso della navigazione e la conseguente intensificazione del traffico intercontinentale. Ineluttabilmente dietro le merci si diffondevano le tecniche produttive, cioè la cultura. Come calcolare quello che il vasto consorzio civile euro-asiatico avrebbe generato, nel campo della produzione materiale e della dottrina, se felici condizioni geo-fisiche avessero permesso l’incessante scambio di esperienze in tutti i campi tra i popoli che per millenni abitarono i due continenti?

La Spagna, l’Italia. l’Ellade, l’Asia Minore. il Sinai, la penisola arabica, il vasto subcontinente indiano, la penisola di Malacca, sezionando le grandi vie di comunicazione in una serie di piccole tappe facilmente superabili, dovevano permettere che si abbreviasse di molto la prodigiosa evoluzione dalla piroga alla grande nave da carico e da guerra, dallo stato selvaggio alla civiltà. A rendere ancora più facili le comunicazioni contribuiva la immensa collana di isole e di arcipelaghi che, dalle Baleari, si snoda fino all’arcipelago nipponico, passando per la Sardegna, Malta, Creta, Ceylon, le tremila isole della Sonda.

I prodotti del lavoro mentale, come possono solo essere la somma del lavoro sociale della collettività, così non possono raggiungere la massima perfezione se sono impediti di varcare l’angusto confine del clan, della tribù, della nazione, della razza. Orbene, le condizioni del mondo fisico hanno permesso che Europa e Asia fossero come i grandi collettori delle correnti vivificatrici dell’attività di innumeri agglomerati sociali. Per gli altri continenti, l’Africa — e soprattutto le Americhe, assediate da due oceani invarcabili — tali condizioni mancarono in gran parte. Ecco perché la civiltà euro-asiatica ha marciato più in fretta. Le grandi religioni, che erano concezioni complete della natura e della società, i monumentali sistemi filosofici, le scienze, i capolavori della letteratura e dell’arte che conferiscono il primato di civiltà alla Europa e all’Asia, sono i segni esteriori di un’evoluzione sociale millenaria che ebbe la sua origine in un rapporto deterministico tra ambiente fisico e aggregati umani. Le razze hanno progredito socialmente, raggiungendo livelli diversi, non perché soggette a leggi biologiche differenziate, ma perché in un diverso rapporto con le condizioni della natura fisica.

Poiché siamo convinti di ciò, siamo nemici radicali del razzismo che considera le differenze di sviluppo sociale tra le razze in assoluto, cioè indipendentemente dalle condizioni naturali entro le quali esse si sono socialmente sviluppate. Il relativo livellamento delle condizioni naturali, che ormai si può ottenere impiegando le grandi risorse della tecnica moderna, cancellerà definitivamente le differenze sociali tra le razze del mondo. Ma ciò non si ottiene senza l’impiego della forza rivoluzionaria. L’isolamento geografico dell’Africa è stato da tempo superato dal progresso della navigazione oceanica e, in epoca recentissima, da quella aerea.

Ma l’Africa resta un continente arretrato. Gli impedimenti posti dalla natura allo sviluppo della sua civiltà sono tecnicamente, e da molto tempo, aboliti, ma essa non è ancora in grado di mettersi al passo con l’Europa e l’America come sta facendo l’Asia. Ciò significa che le cause naturali hanno ceduto a quelle storiche. L’ostacolo che occorre far saltare è lo stesso che, qualche secolo fa, spezzò l’ordinamento civile dei popoli africani: il colonialismo capitalista.

I grandi regni africani dell’epoca precoloniale, affacciandosi al mare, non avevano di fronte a sé che l’immenso oceano aperto, mentre erano ostacolati nelle comunicazioni terrestri dalle due gigantesche barriere del deserto del Sahara e della grande foresta equatoriale. Continuiamo — è ovvio — a riferirci all’Africa originaria abitata da popoli di razza negra, non all’Africa abitata da razze bianche (berberi, arabi, ecc.) che per molti aspetti appartiene alla civiltà euroasiatica. Il Sahara non è stato in tutti i tempi l’immensa distesa di aride sabbie che è oggi (ma pare stiano ridiventando “fertili” per i petrolieri). Nell’antichità era rivestito di grandi foreste, e nel Medioevo era ancora facilmente percorribile perché meno arido e spopolato. È però risaputo che i trasporti terrestri, per di più attuati su piste carovaniere, non sono paragonabili per rendimento ai trasporti su rotte marittime. Del tutto impraticabile, invece, era la foresta equatoriale, in specie durante la stagione piovosa con conseguenti piene dei fiumi, straripamenti, allagamenti di intere regioni.

Queste condizioni naturali spiegano il lento progredire della civiltà negra dalla preistoria alla caduta degli Stati indipendenti del Sudan occidentale. Ma non spiegano la rottura delle grandi linee dell’evoluzione sociale africana. Fino all’invasione bianca, l’isolamento non aveva impedito il progredire sociale dei negri. Il progresso c’era; era lento, ma c’era. Poi l’evoluzione fece un pauroso salto all’indietro. Ciò avvenne quando la spietata oppressione colonialista vibrò distruttivi colpi di maglio alle civiltà autoctone, non sapendo sostituirle che coi metodi del lavoro forzato e le mille infamie della segregazione razziale.


Entra in scena l’imperialismo

Questo non significa che noi ci rappresentiamo in modo idilliaco le società pre-coloniali. Se non ci risparmiamo a descriverne i passati splendori, lo facciamo per provare la falsità delle teorie apologetiche dei servi dell’imperialismo, i quali amano contrapporre colonizzatori a colonizzati come civili a selvaggi. Per il resto, sappiamo bene che le società extra-europee, ancor prima d’essere invase e conquistate dal colonialismo capitalista, erano aggregati sociali nei quali vigeva già la divisione sociale. In Africa, vediamo che residui di comunismo primitivo, ravvisabili nell’economia agraria dei popoli negri (Uolof, Sere, Fulbe, Mande, ecc.), si accompagnano con forme di divisione sociale in cui si tramandano le sopravvivenze di caste privilegiate, di corporazioni di mestiere, di nazionalità dominanti, ecc. Quello che veramente interessa — soprattutto discutendo con certi marxisti che dubitano del carattere indipendente dei moti rivoluzionari afro-asiatici, da loro ridotti a semplici proiezioni delle rivalità fra i grandi imperialismi — è far comprendere come le società africane precoloniali contenessero in sé gli elementi propulsivi dell’evoluzione sociale.

Ma continuiamo nell’esame delle cause storiche dell’arretratezza africana. Due forme di rapina coloniale dovevano gettare l’Africa precoloniale in una paurosa involuzione: il commercio dell’oro e la tratta degli schiavi. Le conseguenze sociali di questi infami traffici dovevano paralizzare le civiltà africane, gettandole nel terrore. Lo stesso equilibrio tra popolazione e territorio ne doveva risultare sconvolto, perché interi villaggi erano svuotati dei loro abitanti, mentre i superstiti delle razzie fuggivano dai luoghi di residenza. Le strutture economiche e sociali erano minate alle fondamenta, mentre la libidine del guadagno travolgeva le stesse caste dominanti che si trasformavano in fornitrici di schiavi, consegnando i sudditi ai negrieri arabi che rivendevano i carichi umani agli incettatori bianchi, calati con le loro navi negriere dai porti atlantici del Portogallo, della Francia, dell’Inghilterra, Vecchia piaga dell’Africa, la tratta praticata dagli arabi nel Sudan orientale non aveva colpito a morte gli organismi sociali africani, pur infliggendo amare sofferenze. Ma, appena scoperta l’America e rilevata l’esigenza di manodopera per le piantagioni, la tratta fu rilanciata in grande stile dalla cristiana Europa, e porto la devastazione in Paesi che avevano dato vita a Stati universalmente famosi. Non meno funeste le conseguenze arrecate dalla caccia all’oro.

L’agonia della vecchia civiltà africana è durata fino al secolo scorso, quando l’ultimo colpo ai sopravvissuti Stati indigeni fu vibrato dall’imperialismo europeo. La resurrezione è cominciata sotto i nostri occhi, all’indomani del 2 conflitto mondiale. Ma non si tratta di una restaurazione. L’imperialismo, per i suoi fini di sfruttamento, è stato costretto a introdurre nelle rattrappite comunità africane il lavoro salariato. L’Africa nera è oggi un miscuglio di forme economiche disparato dove si confondono i residui del comunismo primitivo agrario (proprietà collettiva della terra), della proprietà patriarcale, della piccola proprietà, dell’azienda agraria capitalistica, dell’industria moderna legata soprattutto all’estrazione dei minerali. Questo ibrido economico e sociale (nel campo dell’ordinamento familiare denunziato dal curioso intrecciarsi di tradizioni matriarcali e patriarcali), proprio delle società pre-borghesi, ammette per ora un solo scioglimento: la rivoluzione nazional-democratica. Teoricamente, non è da escludere la possibilità della doppia rivoluzione antifeudale e antiborghese — attesa da Marx e Engels per la Germania nel 1848, e dall’Internazionale Comunista per la Russia e l’Asia nel 1920. Ma tale eventualità storica è condizionata all’attacco rivoluzionario del proletariato nelle metropoli di Europa e America.

L’Africa si libererà prima che l’incendio rivoluzionario si appicchi alle superbe metropoli colonialiste? O la storia, prima che perisca l’infamia della dominazione di classe, darà un altro esempio di doppia rivoluzione?

I popoli africani si sono messi animosamente all’opera. A pochi de cenni dalle ultime battaglie combattute per arginare la marea colonialista (fu il 2 settembre 1898 che a Omdurman si svolse l’ultima grande battaglia campale contro l’invasore colonialista britannico) l’Africa nera è di nuovo in movimento.

La lotta ha assunto forme nuove e tende a finalità nuove. Non più la conservazione delle antiche tradizioni africane, ma la fondazione dello Stato nazionale moderno è l’obiettivo della rivoluzione democratico-nazionale. Il proletariato che, giusto il Manifesto dei Comunisti, è dalla parte di chiunque lotti sul piano rivoluzionario contro l’ordine esistente, è schierato coi negri, gli arabi, i berberi, i malgasci, in lotta sanguinosa contro l’ultimo bastione del sozzo colonialismo.