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I - Evoluzione politica dell’Africa nera (Il Programma Comunista, n. 18, 19, 20 e 21 del 1958) |
Il Programma Comunista, N° 18, 1958
A completamento della trattazione svolta nel lungo articolo “Le grandi epoche della storia africana”, facciamo seguire la presente rassegna dei movimenti politici che ora conducono la lotta contro il colonialismo nell’Africa nera e nel Madagascar. Tale lavoro torna a proposito dopo la farsa del referendum gollista che, nelle demagogiche presentazioni datene dal generale nel suo viaggio nei possedimenti francesi africani, dovrebbe segnare una svolta nei rapporti tra la metropoli e le colonie. Accettando la nuova Costituzione para-fascista, le colonie francesi si metteranno dunque sulla via della liberazione? Il capitalismo francese che ha sostenuto innumeri guerre coloniali, condotto repressioni tremende e seguito protervamente una politica di inganni verso i suoi sfruttati di colore, si è dunque ravveduto, e convertito a una politica pacifica?
La verità è che il capitalismo francese ha permesso agli africani di mettere bocca in una consultazione elettorale, provocata soprattutto dalle contraddizioni interne della metropoli, per la semplice ragione che era certo in anticipo di ottenere l’adesione dei notabili indigeni, dei capi tribù e degli ausiliari e ruffiani indigeni dell’amministrazione coloniale. Oltre alle influenze conquistatesi entro le caste privilegiate indigene mediante una astuta politica di corruzione e intimidazione, il colonialismo francese si è affidato, per mandare avanti la truffa del referendum, al ricatto con cui tradizionalmente paralizza l’azione dei movimenti politici africani, che pure sono per l’indipendenza. Quando De Gaulle, nelle sue “adunate oceaniche” di Tananarive, Brazzaville, Conakry e Dakar, ha lanciato in tono di sfida il suo “aut aut”: o adesione alla “comunità franco-africana” o “isolamento economico”, egli parlava come chi conosce il punto vulnerabile dello schieramento politico avversario. Come abbiamo detto nell’articolo citato, il grande ostacolo dei partiti africani, che pure sono appassionatamente legati al principio indipendentista, è rappresentato dalla paura di restare soli, dalla sfiducia nelle capacità del futuro Stato nazionale africano di marciare da solo senza l’intervento del capitale francese.
Nel suo viaggio pre-elettorale, De Gaulle si è scontrato nella freddezza e diffidenza degli ascoltatori, e a Dakar la folla ha addirittura inscenato una vivace dimostrazione anti-francese, inneggiando al Fronte di Liberazione algerino. Ma è un fatto che, fra tutti gli uomini politici africani, soltanto Sékou-Touré, presidente del “Consiglio di governo” della Guinea, ha preannunciato il voto negativo del suo popolo. “Preferiamo la povertà nella libertà alla ricchezza nella schiavitù” esclamava fieramente Sékou-Touré nel suo indirizzo di saluto a De Gaulle. Il combattivo politico africano appartiene all’ala sinistra del R.D.A. (Rassemblement Democratique Africain) di cui parleremo in seguito. Per ora basti sapere, per farsi un’idea delle contraddizioni che viziano il movimento indipendentista africano, che lo stesso presidente del R.D.A. Houphouët-Boigny è ministro nel gabinetto De Gaulle. Comunque, è già venuto l’annunzio che la Guinea ex-francese, coi suoi 2,26 milioni di abitanti su 275.000 kmq. e coi suoi giacimenti di ferro, stagno e diamanti, si è resa indipendente avendo risposto no al referendum gollista, e che la risposta francese è stata, subito: “vi taglieremo i viveri! Non vi daremo più quattrini!”
Promettendo ai popoli africani nuovi legami di tipo federale con la metropoli, De Gaulle sfruttava un’altra deficienza dei partiti nazionalisti, cioè la tendenza a concepire i nuovi rapporti con la Francia appunto su base federale. Ma si è affrettato subito a fissare i limiti dell’autonomia che il governo di Parigi intende accordare ai possedimenti d’oltremare. A che si riduce, in definitiva, la proposta “comunità” franco-africana? “Ciascuno avrà il governo libero e completo di sé stesso”, proclamava De Gaulle a Brazzaville il 24 agosto, ma subito dopo aggiungeva che nella comunità “si metterà in comune un campo che (...) comprenderà la difesa, l’azione esterna, politica, economica, la direzione della giustizia, dell’insegnamento e delle comunicazioni più lontane”. Chiunque capirà che l’espressione “mettere in comune” l’amministrazione di tali fondamentali dicasteri era un ipocrita eufemismo per non dire che la Francia si aggiudica il diritto di continuare a godere, indefinitamente, delle sue prerogative di privilegio e della sua posizione di Stato dominante. Che resta, infatti, di “autonomo” ai futuri governi “federati” dell’Africa nera?
I seguaci del federalismo che ancora detengono posizioni dominanti nei principali partiti nazionalisti africani, sono serviti. Ora sanno che sorta di “federazione” la Francia intende concedere. Nulla di più, in sostanza, di quanto già accordato con la famosa “legge- quadro”, varata nel febbraio 1956 dal governo Mollet. Essa si ispirava ai vecchi principii paternalistici con cui il colonialismo governa da tempo remoto le sue colonie; anzi, dava ad essi novo ossigeno. Infatti, mentre i nuovi organi di autogoverno indigeni previsti dalla legge-quadro non scalfivano i poteri del governatore, per l’occasione ribattezzato con un nuovo titolo ufficiale, offrivano ampio pascolo alle ambizioni degli esponenti politici africani asserviti alle autorità colonialiste.
Nel corso della presente rassegna riprendiamo l’esame di tutti i fatti e le questioni qui appena elencati. Per dare al lettore una chiara visione degli avvenimenti occorre disporre tutta la materia in ordine cronologico degli avvenimenti. Inoltre, pur senza perdere di vista il senso dell’evoluzione politica generale in atto nell’Africa francese, trattiamo gli avvenimenti territorio per territorio. Inizieremo dal Togo e dal Camerun, che rappresentano un caso particolare, avendo regime di territori affidati dall’ONU in amministrazione fiduciaria alla Francia. Passismo poi all’Africa Occidentale e all’Africa Equatoriale francese, e terminiamo occupandoci della lotta che si svolge nel Madagascar, territorio che etnicamente e storicamente non appartiene, come si sa, all’Africa nera.
Questi territori, insieme all’Algeria, alle isole Comore e Réunion, e alla Somalia francese, compongono l’immenso impero coloniale di Parigi in Africa. Si tratta di un’area immensa, vasta più di 10 milioni di kmq., cioè oltre un terzo del Continente e maggiore dell’intera Europa. La dominazione francese su questa enorme estensione, scarsamente popolata, riguarda una popolazione totale di oltre 42 milioni.
Prima di affrontare il primo argomento, cioè l’evoluzione politica del Togo (di cui è già stato annunziato che otterrà l’indipendenza nel 1960) e del Camerun, è opportuno qualche cenno molto sintetico sulle condizioni naturali ed economiche dei due territori.
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Il Togo è una sottile striscia di terra di forma rettangolare, con una superficie di 56.500 kmq., che si estende tra la repubblica di Ghana (ex Costa d’Oro) e il Dahomey, affacciandosi per un breve tratto sul Golfo di Guinea. Vi prevalgono la savana e il bosco rado, rappresentato da steppe associate a boscaglia. L’agricoltura indigena è notevolmente sviluppata, essendo basata sulla cultura intensiva e sulla concimazione razionale. Principali colture sono: mais, riso, manioca, sorgo e miglio, patate dolci. Ma la più importante è quella del cacao, introdotta dai coloni francesi e gestita in forme capitaliste. Ma, mentre nel Togo sotto amministrazione britannica, che attualmente fa parte di Ghana, il cacao acquista i caratteri della monocoltura, con tutti gli aspetti negativi ad essa inerenti, ciò non avviene nel Togo francese. Qualche cifra comparativa: Ghana, massimo produttore mondiale di cacao, nel 1955 produsse 2.237.000 quintali di semi, mentre nello stesso anno il Togo toccava la cifra di 54.000 quintali. Il Paese gode di un discreto sviluppo ferroviario, legato appunto alla produzione del cacao. La popolazione assommava nel 1956 a 1.095.000, di cui 1.300 di origine europea, in maggioranza francesi. La popolazione indigena è prevalentemente negra-sudanese, ripartita in numerose tribù. Nel Sud risiedono gli Ewe, che coltivano la terra e rappresentano il gruppo etnico più importante. Nel Nord vi sono tribù di Fulbe, che praticano la pastorizia nomade.
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Molto più grande del Togo, quanto a estensione e popolazione, è il Camerun (kmq 432.000; abitanti 3.146.000, di cui 14.100 europei, in maggioranza francesi). La densità è più bassa che nel Togo per l’inospitalità dei bassopiani insalubri, ma è superiore alla media del resto dell’Africa Equatoriale. Il Camerun è terra di paesaggio mutevole. Incastrata tra la Nigeria britannica e i territori dell’A.E.F., si affaccia sulla costa orientale del Golfo di Guinea. Il clima equatoriale caldo-umido diventa più secco a mano a mano che dalle pendici del massiccio vulcanico del Camerun, quasi interamente entro i confini britannici, si sale verso il lago Ciad; di conseguenza, la foresta equatoriale si dirada fino a cedere il posto alla foresta a galleria, alla savana e alla steppa.
Alla varietà delle condizioni naturali corrisponde una diversificazione delle attività economiche. L’allevamento del bestiame è limitato alla savana del Nord (circa un milione di bovini, e altrettanti ovini e caprini) ed è esercitato da negri sudanesi, tra i quali esistono gruppi di Fulbe. Non è il caso di soffermarsi sui criteri seguiti dalle potenze colonialiste, a cominciare dalla Conferenza di Berlino del 1895, per tracciare i confini dei possedimenti africani. Ma la condizione dei Fulbe, che abbiamo visto risiedere anche nel Togo, mostra come i colonialisti non si sono mai preoccupati di conservare l’unità etnica dei popoli oppressi, anzi hanno lavorato premeditatamente in senso opposto inventando assurdi mosaici di razze, per poter poi dichiarare che la “nazione africana” è una utopia. Ma proseguiamo.
Tutta la zona a foresta che occupa più del 40% dell’intera superficie è abitata da negri Bantu, tra i quali i più attivi ed evoluti sono i Duala, pescatori e commercianti. Prodotti dell’agricoltura indigena sono la manioca, il taro, l’igname, la patata, prodotti forestali e riso, sorgo e mais nelle aree a savana. Contrapposto alle strutture sociali indigene, che perpetuano antiche forme di patriarcalismo agricolo, è il settore economico-sociale europeo, che si fonda sulla piantagione capitalista. Introdotta dai tedeschi, le aziende agrarie capitalistiche passavano in eredità ai francesi, che in quarant’anni hanno portato avanti le colture industriali più redditizie, quali il cacao, che cresce felicemente nel clima caldo-umido delle regioni costiere, e del caffè che è più adatto agli altipiani interni. Anche la palma da olio è coltivata in grandi piantagioni, gestite da grosse società europee. Egualmente importanti sono altre piante oleifere, come l’arachide e il sesamo.
Non occorre dire che, mentre l’agricoltura indigena serve all’alimentazione popolare, le colture industriali in mano degli europei sono destinate interamente all’esportazione. Qualche cifra: cacao: 580.000 quintali di semi prodotti nel 1955 (il Camerun occupa il terzo posto come produttore africano di cacao dopo il Ghana e la Nigeria); caffé: 108.000 quintali; palma d’olio: 206.000 quintali di noci. Tra i prodotti forestali destinati all’esportazione, figurano legnami pregiati come mogano, ebano e iroko, un albero simile al teak.
Il Camerun dispone di un’ottima rete ferroviaria e stradale, sorta per
soddisfare le esigenze del commercio di esportazione. Parte dei tronchi
ferroviari furono costruiti dall’amministrazione tedesca, ma ne esistono anche
di nuovi, come la linea Duala-Mbalmayo, che unisce la costa all’altopiano, nel
Camerun meridionale. Molto importante è il fenomeno dell’urbanesimo. Gli
indigeni tendono a sottrarsi all’autorità dei capi e a concentrarsi nelle città
e nei porti, attratti dalle forme moderne di organizzazione sociale. E tale
concentramento spiega le cause della evoluzione politica del Paese, che da
qualche tempo ha assunto aspetti assai interessanti.
Un Paese negro all’avanguardia: Il TOGO (Il Programma Comunista, N°.19, 1958) |
Non a caso diamo l’assoluta precedenza, nella nostra sintetica disamina – di cui si veda l’introduzione al numero precedente – al Togo e al Camerun. La storia moderna dell’indipendentismo africano non si comprenderebbe bene se si ignorasse l’evoluzione politica di questi due territori dalla fine della seconda guerra mondiale.
Il movimento indipendentista ha avuto modo di svilupparsi nel Togo più felicemente che altrove, perché, come il Camerun, esso si giova di particolari condizioni favorevoli, dovute al fatto di non essere formalmente una colonia francese: invero, entrambi i Paesi sono amministrati dalla Francia per conto delle Nazioni Unite. Nel linguaggio ufficiale il Togo è quindi un territorio “in regime fiduciario”, che è poi la stessa cosa dei famigerati “mandati” che la Società delle Nazioni affidava alle potenze colonialiste. Perciò i togolesi non si sono mai sentiti sudditi francesi, ma hanno sempre guardato alla Francia come a una tutrice provvisoria, da cui liberarsi al più presto. Del resto, le N.U. sono ufficialmente impegnate a riscattare il territorio dalla tutela francese e renderlo indipendente. In tali condizioni, la Francia doveva usare un atteggiamento ben diverso che nel Madagascar o in Algeria. Non potendo adoperare la ghigliottina, si è data all’imbroglio; ma non ha potuto impedire che il Togo giungesse a una fase evolutiva, che ha avuto importanti ripercussioni in tutta l’Africa nera.
Come in tutte le questioni storiche, per ben capire il presente occorre ripercorrere il passato, rifarsi alla conquista tedesca. Il territorio, ad onta delle mitologie costruite sulla “barbarie germanica”, fu acquistato alla Germania del Kaiser dal viaggiatore Nachtigal che, nel 1884, riuscì a stipulare alcuni trattati coi più autorevoli capi tribù della Regione. È un fatto noto che la parte superiore della società, sia essa una casta tribale o una moderna classe economica, è quella che di solito si accorda con lo straniero. La dominazione tedesca nel Togo ebbe fine il 27 agosto 1914, quando la piccola guarnigione si arrese agli alleati dell’Intesa.
Alla fine delle ostilità, i nuovi padroni si divisero fraternamente le spoglie del vinto, e a santificare la transazione intervenne la Società delle Nazioni, incurante del fatto che francesi e inglesi avessero mutilato il territorio. Non è da credere che capolavori di giustizia internazionale, come la separazione delle due Coree o delle due Indocine, o, peggio, delle due Germanie, siano il frutto di una degenerazione. Gli organismi internazionali procreati dall’imperialismo non hanno mai manovrato i confini che come scimitarre sul corpo dei popoli. Comunque la spartizione che il brigantesco organismo ginevrino sanzionò il 20(?) luglio 1922, aggravò enormemente l’operazione congenere già effettuata dalla Germania e dall’Inghilterra non ancora rivali. Infatti, le due potenze, con le convenzioni firmate nel 1890 e nel 1900, si erano spartite l’area occupata dalla tribù degli Ewe. In tal modo la divisione del territorio in Togo sotto mandato francese e Togo sotto mandato britannico venne a dividere il già diviso. Attualmente gli Ewe, pur parlando la stessa lingua e avendo in comune i modi di vita, si trovano separati in tre parti distinte. Gli Ewe sono un popolo di attivi coltivatori di razza negra sudanese e costituiscono il maggior gruppo etnico della Regione.
Secondo statistiche recenti, vi sono 400.000 Ewe nella Costa d’Oro; 150 mila nella parte meridionale del Togo britannico e 175.000 nella parte meridionale del Togo francese.
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La vivacità politica del movimento indipendentista togolese, si spiega anzitutto con le tendenze alla riunificazione fortemente radicate nel popolo togolese. Il problema della riunificazione di Togo fu affrontato per la prima volta nel 1947, quando il partito indipendentista (Conferenza pan-Ewe) del Togo britannico inoltrò una petizione al Consiglio di Tutela dell’ONU per chiedere la riunione del territorio abitato dalle tribù degli Ewe sotto un’unica amministrazione. L’opposizione dell’Inghilterra e della Francia, dissimulata ipocritamente dietro le solite mascherature giuridiche, si comprende bene. Da potenze fiduciarie, esse hanno sempre tramato per spingere l’evoluzione politica dei territori in modo che si creasse una struttura costituzionale tale da permettere il suo definitivo inserimento nei rispettivi imperi coloniali. Cioè, hanno lavorato per ottenere che allo spirare del regime fiduciario, i due Togo fossero posti nell’impossibilità di darsi una esistenza indipendente, e di riunirsi. Così la Gran Bretagna ha sempre puntato sull’incorporazione del Togoland alla Costa d’Oro (oggi Ghana), mirando a fomentare divisioni razziali nel costituendo Stato africano. Con non minore protervia, la Francia svolgeva una politica parallela, sforzandosi di ottenere la definitiva cattura del Togo sotto suo mandato, e, per giungere a tale non dichiarato scopo, si metteva alla ricerca di una qualsiasi riforma costituzionale che, sotto la scusa di por fine al regime fiduciario, elevasse il Togo a territorio autonomo per inserirlo poi immediatamente nella struttura carceraria della Union française.
Il gioco era pericoloso. I razzisti bianchi, a furia di ripetere che i negri sono una razza inferiore, si persuadono che ogni trucco e ogni inganno, anche il più grossolano, permetterà ai bianchi di averla vinta sul negro, eterno bambino. Proclamare decaduto il regime fiduciario del Togo per annetterlo, a seguito di un’elezione-truffa, nella Unione francese, cioè nell’impero coloniale dei capitalisti francesi, è un atto che rivela un’inguaribile mentalità razzista. Infatti, non solo i togolesi conservano intatta l’avversione per il colonialismo, come la recente grave sconfitta elettorale ha mostrato alle autorità colonialiste e ai loro servi, ma le autonomie accordate ai togolesi, sia pure con ampie riserve mentali, dovevano creare un “precedente” al quale si rifaranno le formazioni politiche dell’intera Africa nera francese in lotta per la emancipazione.
Sarà bene seguire con rigore cronologico gli avvenimenti, perché il lettore si faccia un’idea chiara del loro significato. Nel 1948, Francia e Inghilterra, per tacitare le richieste di riunificazione, montarono una ennesima truffa creando una Commissione mista anglo-francese, il cui scopo conclamato era di coordinare la politica dei due Paesi in determinati settori, quali l’esazione delle imposte, la gestione economica, l’attività culturale. Ma i partiti togolesi si rifiutarono di partecipare all’organismo truffaldino, la cui formazione collegiale era stata scrupolosamente dosata in modo che l’elemento negro, come al solito, risultasse in minoranza. Non tradendo la sua natura, la Commissione si sciolse nel 1950, dopo aver respinto una nuova richiesta di unificazione avanzata dalle tribù Ewe. Al suo posto fu istituito un “Consiglio comune per gli affari togolesi”, ma anche questo aborto venne a rapida fine. Gli sforzi delle potenze amministratrici in vista della riunificazione dei due Togo non andavano oltre questo ipocrita carosello di commissioni.
Ma forse si comportavano meglio le Nazioni Unite? A esse spetta teoricamente il diritto di decidere in ultima istanza della sorte dei territori sotto tutela: ebbene, l’unica cosa che l’organismo degnamente succeduto alla Società delle Nazioni abbia fatto, oltre al solito bizantinismo delle assemblee plenarie, è stato di inviare nel Togo delle commissioni.
Per divertire il lettore, ne racconteremo la storia. La prima commissione visitò il Paese nel 1949 e riferì che “l’aspirazione (dei togolesi) all’unificazione stava acquistando sempre maggior presa”, cioè scoprì ciò che tutto il mondo sapeva. La seconda, inviata nel 1952, percorse in lungo e in largo il Paese per convincersi che coloro che l’avevano preceduta avevano interpretato male i sentimenti della popolazione. Infatti, affermò nel suo rapporto che non esisteva nessuna maggioranza favorevole a una determinata soluzione. Evidentemente, nel corso di tre anni, la popolazione del Togo aveva subìto una profonda crisi psicologica, ed era piombata in un incredibile amletismo: non sapeva che volere! Il mistero fu svelato dalle proteste di alcune organizzazioni togolesi levatesi ad accusare le autorità francesi di aver preso misure di “intimidazione e di coercizione” per impedire la libera espressione dei negri.
Nel 1953, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite invitò la Francia e l’Inghilterra a ricostituire il Consiglio comune per gli affari togolesi, ma la richiesta cadde nel vuoto. Evidentemente, le due potenze amministratrici erano contrarie a ogni innovazione che potesse sembrare una concessione alle richieste di unificazione dei partiti indipendentisti togolesi. Ma la Francia fece di più. Infatti, nell’anno 1955, le autorità francesi risolsero d’inscenare, in spregio delle decisioni delle N.U., la farsa costituzionale cui abbiamo poc’anzi accennato.
Il 16 aprile furono accordati al Togo, primo fra tutti i territori d’oltremare, un “Consiglio di governo” e i “Consigli di circoscrizione”. Ciò prova come il Togo abbia marciato all’avanguardia del movimento indipendentista anti-francese. Difatti tale ordinamento, che segna il primo cedimento del colonialismo francese nell’Africa nera, anche se i nuovi organi non intaccano la sostanza della dominazione coloniale, venne esteso agli altri territori soltanto nel luglio 1956. Come vedremo meglio per l’Africa Occidentale e l’Africa Equatoriale francesi, simili organi avevano e conservano un potere meramente nominale, la fonte del potere effettivo essendo tuttora il governatore del territorio, anche se a costui è stato cambiato il titolo, troppo legato alle tradizioni colonialiste. Comunque, la loro introduzione nel vecchio sistema coloniale veniva a chiudere in un certo senso un’epoca: quella dell’assolutismo della burocrazia coloniale.
Alla “riforma” istituzionale seguirono nuove elezioni. Avendo compreso il gioco francese, i partiti nazionalisti favorevoli alla riunificazione dei due Togo in un solo Stato, le boicottavano. In tal modo risultava eletta un’Assemblea territoriale formata unicamente da collaborazionisti filo-francesi. Nel luglio, la commedia arrivava allo snodamento voluto dai registi francesi. L’Assemblea votava all’unanimità (si badi: all’unanimità!) una mozione reclamante l’abolizione del regime di tutela internazionale e proclamante la “volontà dei togolesi di proseguire la loro evoluzione in stretta associazione con la Francia”. Vale a dire che il governo di Parigi mirava a mettere fuori discussione con un solo colpo, sia le Nazioni Unite, alle quali spettava il diritto di dare un assetto definitivo al territorio in “amministrazione fiduciaria”, sia il campo dei partiti indipendentisti. Crediamo non sia indispensabile l’“esprit” francese per architettare simili manovre. Trucchi così sfacciati, resi possibili dalla venalità e dalla vigliaccheria di pochi abbrutiti, sono alla portata di qualunque imbroglione.
L’improntitudine delle autorità colonialiste raggiungeva il colmo l’anno dopo, quando l’Assemblea territoriale approvava (10 agosto 1956) un nuovo Statuto elaborato dal governo francese. In base ad esso, il Togo diventava una “repubblica autonoma nel quadro dell’unione francese”. In altre parole, il Togo nel medesimo istante in cui diventava “indipendente”, veniva annesso all’Unione francese, alias all’impero coloniale francese. Che facciamo a questo punto: ci mettiamo a ridere o ci sdegniamo? Certamente gli illustri dirigenti della politica coloniale francese si saranno fregate le mani, quando da Lomé giunse la notizia che confermava la riuscita dell’odiosa manovra. Ma essi non ingannavano che sé stessi. Con simili arlecchinate non si salva dalla rovina un impero coloniale.
Che il nuovo statuto perpetuasse, sotto i soliti fronzoli giuridici, l’antico rapporto coloniale è provato da un esame, anche non severo, delle attribuzioni e competenze dei nuovi organi. L’assemblea territoriale diventava un’assemblea legislativa eletta a suffragio universale per cinque anni, mentre il vecchio “consiglio di governo” era promosso al rango di un Consiglio di ministri, responsabile di tutta l’amministrazione interna. Ma al governo togolese così congegnato veniva sottratta l’amministrazione della sicurezza interna ed esterna (cioè delle forze armate) che restava nelle mani del commissario francese, ex-governatore. Parimenti erano riservati agli organi centrali della Repubblica francese, cioè al governo e al parlamento di Parigi, la difesa, le relazioni con l’estero e i servizi pubblici. Con non diversi criteri De Gaulle inventerà la “comunità” franco-africana.
L’ipocrisia democratica richiedeva che il nuovo statuto, elaborato dal governo francese e approvato dal governo-fantoccio togolese, fosse sottoposto a referendum. C’è poco da stupire: la borghesia, nella metropoli o nelle colonie, indice le elezioni che sa in anticipo di vincere. Il referendum, dal punto di vista della speciale (e inane) giurisprudenza dell’ONU, era illegale, non spettando alla Francia, potenza fiduciaria, di orientare l’evoluzione politica del Togo. Le Nazioni Unite rifiutavano di inviare loro osservatori. Ma il referendum ebbe luogo egualmente alla data fissata, e cioè il 28 ottobre 1956. Ancora una volta, i partiti nazionalisti boicottavano la consultazione riuscendo a farsi seguire dal 20% degli elettori iscritti. Votava il 77% degli elettori, con i seguenti risultati: il 71% si pronunziava a favore del nuovo statuto, vale a dire per l’ingresso nella Union Française; il 5% per il mantenimento del regime di tutela.
Il modo in cui i pretoriani di Salan e Massu hanno organizzato le elezioni in Algeria, dove gli elettori hanno ricevuto due schede di diverso colore, per cui chi votava per l’indipendenza sapeva di essere immediatamente identificato dagli sgherri che lo attorniavano, ha gettato molta luce sui metodi “democratici” della Francia. Quanto accede oggi autorizza a revocare in dubbio tutte le consultazioni popolari organizzate dalle autorità francesi nelle colonie. Di certo v’è che il referendum togolese si svolgeva senza alcun controllo degli osservatori dell’ONU. D’altra parte, all’epoca in cui si svolgeva la consultazione, era presidente del governo-fantoccio Nicola Grunitzky, noto fautore della “indipendenza nel quadro di una stretta collaborazione con la Francia”, lo stesso che dire annessione alla Francia. Che gli elettori fossero stati tratti in inganno dalla promessa di indipendenza, e credessero davvero che la proclamazione della cessazione del regime di tutela segnasse l’inizio di una esistenza indipendente mentre essa serviva alla Francia solo per estromettere l’ONU dal territorio, è provato ampiamente dai risultati delle elezioni dell’Assemblea legislativa, nell’aprile di quest’anno.
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Anche questa consultazione ha una sua storia. Il lettore forse si meraviglierà che noi, antielezionisti e astensionisti, ci occupiamo diffusamente delle lotte elettorali borghesi. Ma, come abbiamo avuto occasione di dire altrove, altro è la competizione elettorale che si svolge nell’ambiente della rivoluzione nazional-democratica, dove accade che si deponga la scheda per impugnare le armi; altro è la squallida gazzarra schedaiola che si svolge nei Paesi capitalisti, dove tutti i partiti sono legati alla stessa mangiatoia.
Le Nazioni Unite, che avevano rifiutato di sovrintendere al referendum, non accolsero la tesi francese secondo cui il territorio era ormai maturo per la fine del regime di tutela e rinviarono ogni decisione a dopo l’elezione a suffragio universale di un’Assemblea legislativa. Qui risalta ancora una volta la sfacciataggine dei colonialisti francesi, i quali si battono contro l’ONU sostenendo che i togolesi sono ormai politicamente maturi per sottrarsi al regime di tutela, ma subito dopo si affrettano a negar loro il diritto di governarsi, effettivamente e non sulla carta, da soli.
Nello stesso periodo di tempo, le Nazioni Unite nominarono una commissione (un’altra!) incaricata di recarsi sul posto “per esaminare la situazione complessiva del Togo risultante dall’applicazione pratica del nuovo statuto, e le condizioni nelle quali lo statuto stesso era stato attuato”. Questa volta la commissione (composta da rappresentanti del Canada, Danimarca, Filippine, Guatemala, Jugoslavia e Liberia) vedeva le cose con maggiore perspicacia, pur non riuscendo a liberarsi dallo spirito di compromesso. Infatti, pubblicava nell’agosto 1957 un rapporto nel quale si avanzavano “gravi riserve sulla portata dell’autonomia concessa al governo togolese”, ma si definiva lo statuto del 1956 un “passo importante, ma non definitivo” sulla via della emancipazione politica del Togo. Chiaro esempio di giudizio “made in ONU”. Ecco la Francia che si mette sotto i piedi la “legalità internazionale”; i “commissari” dell’ONU si guardano bene dal condannarla. Quello che è un aperto arbitrio della Francia (la decisione di por fine al regime di tutela per incorporare il territorio nell’Unione Francese), viene definito pilatescamente un “passo importante” sulla via della indipendenza politica togolese! In compenso era approvato il rapporto che insisteva anch’esso sulla necessità di una nuova consultazione elettorale per la designazione dell’Assemblea legislativa togolese.
Il crollo di tutto il castello di miserabili inganni costruito dai funzionari francesi si è avuto non appena la nuova consultazione elettorale si è svolta. Che si sia trattato di una grave sconfitta per il colonialismo francese e i suoi servi lo dimostrano i commenti della stampa borghese. Il 29 aprile 1958, “Il Tempo” intitolava così la corrispondenza da Lomé: “Vota per l’indipendenza la popolazione del Togo” e aggiungeva nel sottotitolo: “Le elezioni, svoltesi sotto il controllo dell’ONU, hanno dimostrato che l’ex colonia vuol staccarsi dalla Francia”. Certe verità non si possono nascondere. Di certo v’è che si produceva nel Togo un radicale capovolgimento politico che sventava tutte le manovre della Francia e provava come l’elettorato, che due anni prima aveva approvato il nuovo statuto imposto dalle autorità colonialiste, era stato abilmente ingannato, avendogli il campo filo-colonialista prospettata l’adesione alla Unione francese come l’inizio della indipendenza. L’esperienza doveva invece aprirgli gli occhi e mostrargli come la vera indipendenza togolese sia ancora da conquistare.
Le elezioni del 27 aprile 1958 vedevano la schiacciante vittoria di una coalizione di partiti dell’opposizione. Dei 46 seggi della nuova assemblea legislativa, ben 28 toccavano al principale partito dell’opposizione, il “Comitato dell’unità togolese”. I partiti governativi, favorevoli “a una indipendenza nel quadro di una stretta collaborazione con la Francia” subivano una clamorosa sconfitta. Essi riuscivano a strappare a stento 13 seggi, di cui 10 erano assegnati all’“Unione dei capi e della popolazione del Nord” e 3 al “Patito togolese del progresso”, di cui è leader Pietro Grunitzky, accanito sostenitore della “comunità franco-africana” e, all’epoca, primo ministro uscente.
La questione togolese resta tuttora aperta. Se la Francia ha manovrato per ottenere
un decadimento di fatto del regime di tutela, l’ONU deve dire la sua parola
definitiva. Ma, più che il responso dell’assemblea di quello che è il massimo
organismo della conservazione internazionale, conta la volontà espressa
inequivocabilmente dalla popolazione togolese. Che il Togo non intenda restare
sotto la dominazione francese non può più essere negato da nessuno. Esso è un
piccolo Paese creato dagli imperialisti e non un prodotto di condizioni naturali.
Da solo non potrebbe svilupparsi bene, come del resto quasi tutti i territori
che la Francia ha tagliato arbitrariamente nel corpo delle Nazioni africane:
l’indipendenza, in tali condizioni, avrà un senso solo se rafforzerà le tendenze
unificatrici dei popoli che gli attuali confini innaturalmente dividono. Resta
comunque il fatto che l’evoluzione politica del Togo ha messo in moto tutta
l’Africa nera assoggettata al colonialismo francese.
III -
Introduzione
alla storia recente del Camerun (Il Programma Comunista, N°.20, 1958) |
Seguendo la traccia fissata nel primo articolo di questa serie, passiamo a descrivere le fasi dell’evoluzione politica del Camerun. Senza abbandonare la forma di cronistoria, presentiamo al lettore la massa grezza degli avvenimenti, rinviando a poi una cernita più scrupolosa. Tale riserva è necessaria perché, tra l’altro, non è possibile ricavare informazioni da altre fonti che non siano la stampa borghese atlantica, tendenzialmente favorevole al colonialismo, e a quella stalinista, i cui dati e giudizi politici non sono meno tendenziosi perché, pur posando a protettrice dei movimenti indipendentistici delle colonie, essa non può non servire le grandi operazioni diplomatiche della Russia, che disinvoltamente concede patenti di socialismo e di filo-socialismo ai regimi afro-asiatici che vanno orientandosi, nella sfera politica ma non sociale, contro il blocco politico-militare dell’Occidente.
Abbiamo iniziato questa rassegna dal Togo perché questo territorio, poco esteso e non certo tra i più importanti dal punto di vista economico e sociale, ha potuto imboccare per primo la strada verso l’indipendenza, sbloccando una situazione che durava praticamente nell’intera Africa nera dall’epoca della Conferenza di Berlino, la Conferenza della spartizione dell’Africa. La rottura delle forme coloniali in questo territorio doveva, ora lo sappiamo, dare una grande spinta al moto indipendentista che sommuove tutta l’Africa nera francese sin dalla fine della seconda guerra mondiale, con epicentro nelle evolute popolazioni urbane del Sudan Occidentale. Il colonialismo francese, dovunque in rotta, si era illuso di trincerarsi nelle residue posizioni conservate in Africa. Ma da quando la Francia capitalista fu costretta a venire a patti con l’indipendentismo togolese, il tentativo poteva dirsi fallito.
Fatto che riempie di soddisfazione chi concepisce dialetticamente il movimento storico, la sconfitta del colonialismo francese nel Togo era provocato non tanto dall’opposizione sia pur tenace e coraggiosa dei partiti indipendentisti, quanto dalle contraddizioni insolubili in cui il colonialismo cade per effetto degli scontri tra le forze imperialistiche che si affrontano permanentemente sul terreno della spartizione del mondo.
Il Togo, anzi i due Togo francese e britannico derivati dalla spartizione della vecchia colonia germanica, avevano un regime di amministrazione fiduciaria, cioè erano nominalmente posti sotto la tutela ieri della Società delle Nazioni, oggi dell’ONU, ma erano “affidati” all’amministrazione francese e inglese. E che cosa differenzia una colonia da un territorio “in amministrazione fiduciaria” se non un diverso rapporto, non tra le popolazioni indigene e la potenza occupante, ma fra questa e gli altri briganti imperialistici? Dovunque, i pirati del colonialismo francese e inglese non poterono accordarsi, dopo il primo conflitto mondiale, nella spartizione degli imperi coloniali turco e tedesco; e si dovette ripiegare sul compromesso dei “mandati” dovunque si scontrarono con gli appetiti degli altri predoni imperialistici (Stati Uniti, Giappone, Italia, ecc.). Cioè si evitava di assegnare in maniera definitiva un territorio alla potenza che ne bramava il possesso, inscenando la commedia giuridica che attribuiva all’organizzazione internazionale la qualifica di “potenza mandante” e ai governi che materialmente lo occupavano quella di “potenza mandataria”, autorizzata ad amministrarlo temporaneamente in attesa che il territorio sotto mandato diventasse “maturo” per l’indipendenza.
Il regime dei “mandati” ha tirato avanti fino a che, nel rivolgimento provocato dalla seconda guerra mondiale, non sorsero nelle colonie i moderni partiti nazionali. Facendosi forti degli impegni assunti dalle potenze “mandatarie”, questi non tardarono a chiederne l’attuazione. D’altra parte, le altre potenze inquadrate nell’organismo delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Russia e via dicendo) non avevano alcun interesse ad appoggiare le manovre dell’Inghilterra e della Francia per sottrarsi ai loro impegni: al contrario, esse perseguivano e perseguono nuovi piani di spartizione del mondo. In situazioni come queste, lo svolgersi degli avvenimenti sembra smentire la tesi materialistica secondo cui, in una società di classe, unico agente della conservazione, e perciò della rivoluzione, è la forza. Ma in effetti, se il regime dei mandati è dovunque crollato e dalle sue rovine sono sorti i nuovi Stati di Siria ed Israele, come nel 1960 sorgerà quello del Togo, ciò è accaduto non perché le potenze “mandatarie” abbiano spontaneamente deciso di rispettare gli impegni a suo tempo assunti e di ritirarsi, ma perché la convergenza tra la spinta indipendentista dei partiti nazionalisti locali e le mire espansionistiche dei più potenti Stati imperialistici non permetteva altra soluzione.
Per forza di cose il Togo, e come questo il Camerun, in quanto territori ad amministrazione fiduciaria, costituiva il punto più debole dello schieramento colonialista francese. L’assolutismo di governo che la burocrazia coloniale francese esercita in tutto l’immenso impero d’oltremare, era minato dal fatto che ad esso si soprapponeva, sia pure formalmente, la giurisdizione dell’ONU. Tale circostanza permise ai partiti indipendentisti di svolgere apertamente un’interrotta campagna per la liberazione del territorio senza che la Francia potesse trattarli da ribelli, come fece nel 1946 nel Madagascar e come fa dal 1954 in Algeria. Unica via di salvezza per il privilegio colonialista era rappresentato dai collaborazionisti locali, cioè dalle forze sociali che vivono nella scia dei grossi monopoli colonialisti, fungendo da sensali, intermediari o impiegati, o che affidano al perpetuarsi del colonialismo la conservazione dei privilegi di caste tribali.
Abbiamo visto come il colonialismo francese lavorò tenacemente a formarsi nel Togo una classe politica indigena asservita ai propri interessi, cui affidare formalmente la amministrazione dello Stato togolese del quale esso era impotente a evitare la nascita. Purtroppo, questo meccanismo politico che, ad onta dei vari Grunitzky, è miseramente crollato nel Togo, la burocrazia coloniale francese riesce ancora a farlo funzionare nel Camerun. Il colonialismo ha qui potuto dividere le forze dello schieramento politico africano asservendone una parte e facendone uno strumento di repressione contro il movimento indipendentista che, forte dell’esperienza togolese, chiede la fine dell’amministrazione fiduciaria, l’espulsione dei francesi, e l’indipendenza. Perciò, l’evoluzione politica del Camerun è segnata da frequenti scoppi di violenza, da rivolte cui seguono feroci repressioni.
Abbiamo già dato qualche notizia sulle condizioni naturali del territorio, mostrandone l’importanza economica. Accanto alla sfera di produzione indigena, che tramanda forme arcaiche in via di dissoluzione, si stende la moderna economia capitalistica che ha ormai tradizioni abbastanza vecchiotte, essendo stata introdotta dai tedeschi, divenuti padroni del territorio nel 1884. Caposaldo della produzione di tipo capitalista è la grande piantagione, che lavora per l’esportazione e dà vita a importanti forme di attività economica decisamente capitalistiche, quali i trasporti su ferrovia e su strada, e a fenomeni sociali propri delle epoche di transizione all’industrialismo capitalista.
Intendiamo alludere soprattutto all’urbanesimo, che nel Camerun è in forte ascesa provocando l’asfissia dei vecchi ordinamenti patriarcali-tribali. Basti dire che, secondo i dati forniti da “Cahiers du communisme” e da “France nouvelle” (due periodici stalinisti francesi), l’incidenza della classe operaia sul totale della popolazione africana, che nel Togo tocca appena l’1,6%, raggiunge il massimo proprio nel Camerun col 4,1%. Cioè il Camerun è il territorio dell’Africa nera dove l’indice di concentrazione del salariato è più alto. Non a caso il colonialismo francese, che negli ultimi tempi ha sfornato grossi progetti di impianti industriali, ha previsto per il Camerun il grandioso complesso minerario elettrico di Edea, la città che sorge sul Sanaga, il fiume da sbarrare.
La presenza di masse relativamente grandi di proletari addensate soprattutto nella Sanaga marittima (Camerun meridionale) ha avuto origine dal lavoro coatto introdotto dalla dura colonizzazione tedesca ed ereditato in pieno dai degni successori francesi. Essa spiega il radicalismo che contraddistingue le lotte sindacali e politiche del Camerun, la storia degli ultimi anni che è punteggiata di grandi scioperi, di scontri armati, di spietate repressioni. Se il colonialismo capitalista, come quello antico, ha per mira la conquista e lo sfruttamento di schiavi, senza i quali le ricchezze dei Paesi resterebbero inutilizzabili, si comprende l’accanimento della Francia nella lotta per conservare il territorio e per succedere come amministratrice diretta al regime di mandato che tende a prolungare indefinitamente, sotto altre forme, una struttura politica di comodo. Dai porti di Douala, di Bonabèry e di Kribi muovono infatti le correnti di esportazione che immettono nel circuito commerciale della metropoli il cacao, il caffè, le banane, il caucciù, i legni pregiati, tutti prodotti che resterebbero allo stato di elementi grezzi nella terra camerunese senza il duro lavoro da schiavi dei salariati indigeni. E si spiega altresì la protervia e il cinismo dei collaborazionisti alla Mbida nella repressione dei militanti dell’ “Unione dei Popoli del Camerun”, che dal 1956 vive alla macchia.
Cerchiamo ora di ripercorrere le tappe del movimento di
riscossa delle popolazioni del Camerun come abbiamo già fatto per il Togo e come
faremo in seguito per l’AOF, l’AEF e il Madagascar conformemente al bisogno
sentito nel nostro movimento di aver sottomano una ricostruzione ordinata dei
fatti che la grande stampa di lor signori passa sotto silenzio o annota di
sfuggita, mai sospettando che in Africa, persino nell’Africa nera piombata da
secoli in un sonno letargico, stesse rimettendosi in moto la grande ruota della
storia.
La lotta d’Indipendenza del Camerun
(Il Programma Comunista, N°.21, 1958)
Il Camerun, circa un secolo fa, fu occupato dai portoghesi che introdussero tale nome nella geografia politica, battezzando il fiume Wuri “rios dos camaroes”, cioè Fiume dei Gamberi. Sfortunatamente per loro e per i loro successori, è il caso di dire che il Camerun si è palesato… un gambero che ha fretta di marciare. Successivamente, il territorio passò nelle mani degli olandesi. Infine, nel luglio 1884, l’esploratore tedesco Gustav Nachtigal, che già abbiamo visto trattare l’acquisto del Togo, piantò la bandiera germanica alla foce del Camerun. L’espansione verso l’interno avvenne soprattutto in seguito alla sottomissione del potente sultanato di Adamaoua e poté spingersi fino alle rive del lago Ciad. Lo Stato di Adamaoua fu fondato da conquistatori Fulbe, provenienti dal Fouta Djallon, che invasero il Paese nel terzo decennio del secolo scorso. Capitale dello Stato era Yola, che ora appartiene alla Nigeria. Una serie di convenzioni tra Germania, Francia e Gran Bretagna, stipulate tra il 1893 e il 1898, mise fine al regno indigeno. La Germania si prese la parte centrale, la Gran Bretagna l’orlo occidentale e la Francia il lembo nord-orientale che inglobò nel territorio del Ciad. La spartizione fu motivata con la scusa che lo Stato di Adamaoua praticava la tratta, cioè un’industria inventata dall’Europa cristiana e richiesta a gran voce dall’America post-colombiana.
I “liberatori” tedeschi non persero tempo a mettere a profitto la conquista: coprirono il Paese di fortilizi e l’assoggettarono a una dominazione militare simile a quella che dovettero assaggiare nello stesso torno di tempo i cinesi dello Shan-tung. Lo sfruttamento economico si limitò in principio alla sfera commerciale, in seguito vennero introdotte le piantagioni a lavoro coatto. Da quest’epoca data la nascita del capitalismo nel Camerun.
La dominazione germanica ebbe fino nell’anno 1916, allorché truppe anglo-francesi, non senza incontrare resistenza, occuparono il Paese. Al termine del conflitto, nuova spartizione del Camerun. L’antica colonia del Kaiser venne spezzata in due e divisa da buoni ladroni tra francesi e inglesi.
È da annotare un fatto che rivela la mentalità usurpatoria dei colonialisti. Nel novembre del 1895, la Francia e la Germania avevano concordato un’altra spartizione della preda africana. Poiché il governo di Parigi aveva interesse in quel momento a stornare le mire annessionistiche tedesche del Marocco, credette utile di cedere alla Germania un territorio contiguo al possedimento tedesco che arrivava fino al Congo, in corrispondenza della foce del Sanaga. La Germania, che era in piena euforia colonizzatrice, abboccò. Era l’epoca in cui la diplomazia tedesca sognava di congiungere i territori affacciantisi sul Golfo di Guinea a quella che allora si chiamava Africa Orientale tedesca, fondando in tal modo un impero coloniale continuo, dall’Atlantico all’Oceano Indiano. A guerra finita, la Francia si accorse solo allora di aver sbagliato i conti: incorporò i territori ceduti nel 1895 alla Germania, e si fece attribuire i 4/5 del territorio sotto veste di potenza “mandataria”. A seguito di questa operazione di aritmetica coloniale, il territorio del Camerun, che all’epoca della occupazione tedesca era di 795.000 kmq., si riduceva a 520.000 kmq. Il quinto sfuggito alle grinfie francesi, cioè la fascia di confine con la Nigeria, colonia britannica, passava sempre come mandato alla Gran Bretagna e veniva praticamente incorporato alla Nigeria. Non con diversi metodi si sono formati i grandi imperi coloniali, glorie delle negriere borghesie europee.
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Il movimento indipendentista del Camerun inizia, nelle sue forme moderne all’indomani della seconda guerra mondiale. Infatti tranne il Senegal, i Paesi dell’Africa nera sono usciti dallo stadio più basso, e più atroce, del colonialismo soltanto da pochi anni. La Francia, la “grande democrazia” cara ai Blum e agli Herriot, come ai Duclos e ai Thorez, ha tenuto in vita fino a qualche anno dopo la fine della guerra non solo la discriminazione razziale, ma lo stesso lavoro forzato. Cioè, l’indigeno africano differiva di poco – di fronte al padrone capitalista – dal criminale comune che la giustizia francese inviava un tempo alla Cayenna. L’abolizione di tali infamie, che speriamo vedere presto documentare da storici africani, fu conquistata mediante lotta grandiose, quali il memorabile sciopero del 1952 esteso a tutta l’Africa Occidentale, e gli scioperi non meno importanti del 1953.
Il Camerun, che ha dato vita a combattivi movimenti politici e sindacali, ha partecipato attivamente al processo rinnovatore. È dal 1948 la fondazione della “Unione dei popoli del Camerun” (UPC): il maggior partito indipendentista camerunese, un partito nazional-democratico di sinistra, cui partecipano elementi comunisti, schierato contro il campo moderato e collaborazionista, che è divenuto strumento della politica francese. Il suo programma si fonda sui principii della indipendenza immediata, dell’unificazione del Paese, della fondazione di uno Stato nazionale camerunese a forma repubblicana. Secondo “l’Unità” del 20 febbraio 1958, per i suoi orientamenti l’Unione dei popoli del Camerun, più che ai partiti indipendentisti del tipo del Fronte di Liberazione algerino, è vicina all’orientamento politico del Viet Minh di Ho Chi Minh. Non abbiamo modo di controllare questa caratterizzazione, ma, tenendoci ai principi generali seguiti dal marxismo nella questione nazionale, al rivoluzionario comunista interessa soprattutto che i partiti indipendentisti nelle colonie costituiscano veramente una forza rivoluzionaria di fronte al colonialismo imperialista e alle arcaiche brutture sociali locali che il colonialismo mantiene in vita.
Nel 1950, Um Nyobé, segretario generale dell’UPC, presentava all’ONU, “potenza tutrice” la prima richiesta ufficiale di indipendenza, cioè appunto la fine dell’amministrazione fiduciaria. Al gesto del dirigente africano, il governatore francese Roland ripose con una frase che riassume egregiamente la mentalità dei colonialisti: “Se volete l’indipendenza, si farà a fucilate”. In seguito Um Nyobé doveva, a varie riprese, esporre all’ONU le richieste dell’Unione, chiedendo soprattutto la revisione della clausola del regime di tutela che fa del Paese un territorio praticamente annesso alla Francia.
L’ondata di scioperi che percorse negli anni 1952-53 tutta l’Africa Occidentale fu preso a pretesto dagli sgherri colonialisti per sferrare nel Camerun una furiosa repressione. I francesi effettuarono grandi rastrellamenti, bruciarono interi villaggi, deportarono migliaia di persone. All’inizio dell’anno dopo l’azione terroristica era ancora in corso. Nel maggio si ebbe l’ “operazione arrostimento”. Nel cannibalesco linguaggio dei colonialisti, così venne chiamato l’assalto sferrato dalla polizia alle sedi dell’UPC a Douala. I “civilizzatori” trovarono edificante cospargere di petrolio le sedi e appiccarvi il fuoco, non senza avere provveduto a chiudervi dentro tutte le persone che vi si trovavano. Il massacro si estese a tutto il Paese. Analoghe gesta vennero compiute a Yaoundé, Mbanga, Nkongsamba, Loum, Penja e altre località. Oltre 100.000 persone, una cifra enorme in rapporto alla popolazione del territorio, trovò scampo nel Camerun britannico.
Finalmente, nel 1955, le autorità governative, appoggiate dai collaborazionisti, fecero il colpo da lungo premeditato: dichiararono illegale l’UPC e ne ordinarono la scioglimento. La decisione seguiva ai moti popolari, scoppiati a Douala in seguito ad una provocazione del governo francese, e nel corso dei quali vennero uccisi alcuni francesi. Il governatore che non aspettava altro, sferrava una feroce repressione contro il movimento nazionalista, facendo uccidere decine di militanti dell’UPC e bruciare interi villaggi fedeli a Um Nyobé. Centinaia di uomini furono costretti a riparare di nuovo nel Camerun britannico o a darsi alla macchia. Furono giorni tremendi per i rivoluzionari indipendentisti. Da allora data l’attività clandestina dell’UPC, forte specialmente nel Camerun meridionale, dove per conseguenza più spietati sono i metodi repressivi dei colonialisti e dei loro servitori indigeni.
Quando il governo Mollet, su proposta del ministro dei Territori di oltremare, emanò la famigerata “legge-quadro” (giugno 1956) l’UPC si fece promotore di una campagna nazionale contro detta legge. Non a caso tale “riforma” era varata dal governo socialdemocratico e da uomini del tipo dei sunnominati. Essa perseguiva i soliti obiettivi del canagliesco riformismo socialdemocratico: ritoccare gli istituti giuridici della dominazione capitalistica e indebolire il campo rivoluzionario. Infatti, creando presunti organi di governo locale, i quali non intaccavano affatto i poteri assolutistici del governatore e della polizia, la riforma mirava a dare sfogo alle ambizioni dei politicanti indigeni inclini al compromesso con i dominatori colonialisti. Sarebbe interessante vedere fino a che punto l’applicazione della “legge quadro” di Mollet-Defferre ha preparato da lontano il trionfo elettorale africano di De Gaulle, ma ciò esula dal nostro argomento.
Per combattere la “legge quadro” venne creata l’Unione Nazionale, una specie di “fronte popolare”. Ma la mossa dell’UPC si rivelò erronea. Unire tutte le forze politiche del Paese contro il potere coloniale era una illusione, visto che esistono nel Paese tenaci correnti collaborazioniste la cui esistenza si spiega soprattutto con la convergenza di interessi tra lo sfruttamento coloniale e le attività economiche degli strati sociali indigeni legati ai piantatori capitalistici. La dissoluzione del “fronte” si verificò a breve scadenza. Nell’agosto, il governo francese, in applicazione della legge-quadro, sciolse la vecchia Assemblea territoriale e indisse le elezioni per un’Assemblea chiamata a discutere il nuovo Statuto da dare al Paese. Il colonialismo ricalcava i metodi politici già sperimentati nel Togo e tendenti a creare un organismo elettivo di comodo, formato da elementi asserviti, da cui fare approvare nuove forme costituzionali miranti a porre fine formalmente al regime di mandato, ma ad assicurare la continuazione della dominazione francese, della “présence française”.
L’Unione nazionale chiese, come condizione per partecipare alle elezioni, che venissero amnistiati tutti i dirigenti dell’UPC, tenuti in carcere, e fosse loro concesso di presentarsi come candidati. Richiesta, a dir poco, ingenua. Permettere che la futura Assemblea fosse dominata, o contasse quanto meno una forte opposizione nazionalista, significava per la Francia perdere in partenza la partita. Infatti, il governo di Parigi lasciò insabbiare il progetto di amnistia. Nel novembre, si ebbe lo sfasciamento dell’Unione Nazionale. Il presidente Paul Soppo Priso, segretario dell’Assemblea territoriale e deputato apparentato ai socialisti, compì un clamoroso voltafaccia dichiarandosi disposto a partecipare alla consultazione, e tradendo così il patto con l’UPC.
Le elezioni-truffa si svolsero, nel dicembre, in un clima di stato di assedio. Una settimana prima della consultazione, l’UPC, dalla clandestinità, invitava i cittadini a boicottare le elezioni con tutti i mezzi ma a non cadere nelle provocazioni poliziesche francesi. La decisione che veniva a correggere l’errore commesso con la costituzione della Unione nazionale, riscuoteva l’approvazione della maggioranza dell’elettorato. Infatti, circa due terzi della popolazione si astenevano dal voto. Nella Regione di Douala, la più popolosa e avanzata del Camerun, su 90.000 elettori se ne presentavano alle urne 15.000. La lotta per il boicottaggio otteneva così una vittoria tanto più significativa in quanto le autorità e gli elementi collaborazionisti cercavano con tutti i mezzi di immobilizzare gli oppositori. Scontri armati si ebbero tra militanti dell’UPC e le forze di polizia, aiutate dai collaborazionisti. Ancora una volta il sangue scorreva. Le rappresaglie ufficiali organizzate contro gli astensionisti sfociarono nel solito abbruciamento di villaggi causando centinaia di morti.
I risultati delle elezioni, annunciati dopo alcune settimane, davano la palma della vittoria ai due arnesi del collaborazionismo camerunese, il detto Soppo Priso e André Marie Mbida. Che valore avessero tali risultati si vede considerando che a rappresentare 13.000 francesi venivano eletti 18 deputati, mentre a tre milioni e mezzo di africani toccavano 32 seggi. Cioè, un francese valeva 120 negri. Dati tali precedenti, può scandalizzare solo gli ipocriti o i traditori il fatto che migliaia di camerunesi si rifugiassero nelle foreste iniziando la guerriglia contro l’occupante. I rivoluzionari comunisti sono decisamente dalla parte dei ribelli al giogo coloniale.
L’oscena manovra ideata dagli sfruttatori colonialisti e attuata mediante la strage e il raggiro, si concludeva nel maggio 1957 quando la Assemblea-fantoccio, dominata dai Mbida e dai Priso, approvò lo statuto di “Stato sotto tutela”. Con tale buffonata, la Francia si presentava al mondo non più come potenza mandataria, ma come materna protettrice di un popolo di minore età, che “liberamente” chiede a Parigi di continuare nell’amministrazione del Paese. Che valore avesse tale “innovazione”, si legge in “Relazioni internazionali”, che, per essere legata al mondo politico ufficiale, non può certo essere sospetta di “sovversivismo”: «Il Camerun che giuridicamente è un territorio in amministrazione fiduciaria francese, ha ricevuto il 10 maggio dell’anno scorso lo statuto di “Stato sotto tutela”, che avrebbe dovuto segnare per esso la prima fase di avvio verso un’autonomia di tipo togolese e che oggi sembra invece servire a determinati esponenti francesi per smascherare un intervento di tipo coloniale nella vita politica ed economica del Paese e per frenare l’auspicata evoluzione verso l’indipendenza» (1958, n.9).
Il gioco dei colonialisti – governare con mano di ferro la colonia nascondendosi dietro le spalle di uomini di paglia del politicantismo collaborazionista – si svelava appieno con l’instaurazione del regime di André Marie Mbida, primo presidente del “Consiglio” del Camerun emerso dalle elezioni 1957. Costui faceva scopertamente la politica del governatore francese, riprendendo la repressione contro i militanti dell’UPC. Gli arresti, i rastrellamenti, le deportazioni, prima effettuati dalle autorità coloniali, adesso si giovavano anche della sanzione legale di un organismo di governo indigeno, nominalmente autonomo e tenuto in piedi dalle baionette francesi. Mbida si buttava contro il movimento indipendentista ricevendo il plauso della burocrazia coloniale locale e dei vecchi arnesi del parlamentarismo parigino.
Non a caso, bersaglio principale della feroce repressione da lui condotta con truppe francesi era ancora la Sanaga marittima, dove più animosa è la resistenza della clandestina Unione dei Popoli del Camerun. Ma nel febbraio di questo anno, Mbida, che invano si era recato a perorare la sua causa presso Coty e i capi della destra colonialista Pinay e Duchet, doveva mollare la carica essendo stato messo in minoranza dagli stessi partiti della sua coalizione.
Tuttavia non mutava sostanzialmente la situazione del territorio. Recentemente, il rappresentante del Camerun al Segretariato Permanente della Solidarietà tra i popoli afro-asiatici al Cairo, Osendé Afana, ha descritto a un inviato di “Vie Nuove” la situazione del suo Paese. La Sanaga marittima vive sotto il regime dello “stato di emergenza”. Dal dicembre del 1957, in questa Regione divampa la rivolta anticoloniale. Il governo franco-camerunese ha risposto alla rivolta con drastiche misure: coprifuoco, soppressione dei mercati e dei trasporti pubblici, nonché azione militare contro gli aderenti all’UPC. Gli abitanti della Sanaga vivono ora, in condizioni spaventose. Essi sono stati forzatamente raggruppati in “villaggi-fungo” circondati da palizzate alte 7-8 metri sulle quali vigilano giorno e notte le sentinelle, che tirano senza pietà sui contadini che osano di nascosto recarsi nei campi. I campi di concentramento rinchiudono 50.000 persone su 3 milioni e mezzo di abitanti. Ciononostante, la guerriglia dell’UPC si estende a tutta la parte Sud e Ovest del Paese.
Con simili metodi, che sono quelli mai smessi dal colonialismo, il capitalismo francese riesce a tener soggette le indomabili popolazioni del Camerun. Ma l’epoca obbrobriosa del colonialismo che è finita altrove non durerà a lungo in Africa. Noi ci auguriamo di veder presto la vittoria della rivolta camerunese. Gente che lotta con tanto coraggio contro un nemico ultrapotente, quale l’imperialismo francese, merita la ammirazione e l’appoggio dei rivoluzionari comunisti.