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Le grandi epoche della storia africana (Il Programma Comunista, n.14-16, 1958)
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La squallida apologetica borghese sul primato della razza bianca non regge alla critica più timida. Si pretende — misurando alteramente le distanze che separano i livelli evolutivi raggiunti rispettivamente da taluni Stati d’Europa e d’America e dalle nazioni delle altre parti del mondo — che il processo storico abbia avanzato con prodigiosa velocità nell’area abitata da popoli di razza bianca. Già abbiamo individuate, nel precedente articolo “Aspetti della rivoluzione africana”, le cause naturali e storiche del differenziato sviluppo della civiltà nei vari continenti. Conviene, prima di passare a vedere più da vicino il ciclo storico africano, aggiungere qualche altra considerazione.
Se si bada ai risultati, certamente la civiltà bianca appare come una marciatrice veloce. Ma che accade, se si confronta la civiltà europea con le altre forme di civiltà esistenti nel pianeta, tenendo presenti i fattori obiettivi che ovunque hanno influenzato il trapasso delle varie epoche storiche? Si vede allora, come già abbiamo mostrato, che i paesi bianchi, in special modo l’Europa, si sono giovati di condizioni assolutamente eccezionali nella loro affannosa marcia dalla caverna preistorica al moderno (e orribile) grattacielo capitalista. La relativa mitezza del clima mediterraneo che permetteva l’addomesticamento con minimo sforzo della flora e della fauna, e quindi la enucleazione delle prime tecniche produttive, la felice posizione geografica, la facilità delle comunicazioni e dello scambio mercantile e culturale, hanno rappresentato per lo sviluppo della civiltà europea quello che in economia agraria rappresenta la rendita differenziale per le aziende che si giovano di terreni più fertili. Due aziende agrarie, pur impiegando le stesse tecniche, si sviluppano diversamente a seconda delle condizioni geologiche, idrografiche, geografiche della terra da coltivazione. Qualcosa del genere avviene per le civiltà umane, anche perché è la scoperta e l’impiego delle tecniche agrarie che segna la transizione dalla preistoria.
È chiaro allora, tenendo in conto le condizioni di privilegio godute dall’Europa, che la velocità di sviluppo della civiltà europea diventa una superstizione. La verità è che, per effetto della lotta di classe, il corso storico europeo ha proceduto con esasperante lentezza. In Europa, la civiltà, cioè la divisione in classi, cioè la molteplice epoca storica che separa il comunismo atavico dell’umanità dal nuovo comunismo proletario, ha assorbito almeno quaranta secoli. Tanto è durata la civiltà che si giovò all’inizio di un humus fertilissimo e in seguito costrinse il resto del mondo a sacrificarsi per la sua grandezza, instaurando il più infame di tutti i colonialismi. Altro che prodigio di velocità! Per uscire fuori dallo schiavismo impiegò quasi duemila anni, sopportò poi almeno ottocento anni di feudalismo, né mostra di volere farla finita col capitalismo che imperversa da almeno quattrocento anni, se si prende come epoca di partenza la formazione del mercato mondiale determinata dalle grandi scoperte geografiche. Ciò significa, per il marxista, che nessuna razza, come quella bianca, ha sofferto così a lungo e così amaramente per la divisione in classi antagonistiche della società. Dov’è dunque la pretesa superiorità della civiltà bianca? È “superiore” una razza che per interminabili secoli ha praticato e subito l’orribile cannibalismo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della divisione in classi, delle vendette sociali?
Ciò che i bolsi apologeti del razzismo borghese non vedono, mentre è fonte di
meraviglia per le menti scientifiche, ciò che veramente appare prodigioso è il
fatto che popoli che la natura sembrava condannare a una eterna preistoria,
abitando essi territori tagliati fuori dal resto del mondo e soggetti a
condizioni climatiche e geologiche particolarmente severe, siano riusciti a dare
vita a forme superiori di civiltà. In questi casi appare in tutta la sua forza
creatrice la vitalità delle forme comunistiche della convivenza umana, perché è
in essi che si suffraga di prove inoppugnabili la tesi marxista che soltanto
organizzandosi comunisticamente la specie umana riuscì a sopravvivere nella
epica lotta contro la natura. Veramente meraviglia lo sforzo collettivo che fu
sopportato dai popoli dell’Africa nera (e delle Americhe precolombiane) nella
costruzione della loro civiltà, dovendo essi lottare con le condizioni più
sfavorevoli dell’ambiente fisico. Se veramente si volessero classificare le
civiltà dei continenti, bisognerebbe, a parere nostro, dare il primo posto a
quelle che sono durate di meno, cioè a quelle che per minore tempo hanno
perpetuato la divisione in classi, accorciando l’intervallo di sangue e di
violenze che separa il comunismo primitivo dal comunismo moderno. Usando di
questi criteri, certamente la divinizzata
Civiltà europea si quoterebbe all’ultimo posto.
Crocevia di razze
Non sarà mai ripetuto abbastanza che noi siamo egualmente nemici del razzismo bianco e di ogni eventuale contro-razzismo elaborato dalle nascenti borghesie coloniali. Come crediamo che nel processo sociale non esistano “responsabilità” individuali allo stesso modo rigettiamo quelle reazionarie ideologie sulla “responsabilità” di razza, che sono in fondo la vera essenza del razzismo. La lunga età della dominazione di classe in Europa non va certamente intesa come una “colpa” della razza bianca. Il fenomeno va spiegato con cause storiche, non psicologiche. Lo stesso va detto per quanto riguarda le civiltà extraeuropee. Soltanto intendiamo controbattere le fallici asserzioni dei razzisti borghesi e mostrare come i fatti, dialetticamente considerati, stritolino i loro bestiali pregiudizi.
Altra avvertenza che non tralasciamo mai di fare è imposta dagli attacchi che ci vengono mossi da altre parti dell’orizzonte politico. L’importanza che riconosciamo alla lotta del movimento anticoloniale, che per noi è autentico movimento rivoluzionario, non ci fa perdere di vista nemmeno per un istante la funzione determinante del proletario euro-americano nel futuro attacco allo Stato borghese. La rivoluzione comunista potrà iniziare nei paesi di sviluppato capitalismo, come in quelli in cui la rivoluzione nazional-democratica è di data recente. La rivoluzione socialista russa, scoppiata in un paese arretrato, ne resta la prova inconfutabile. Ma è altrettanto certo che la rivoluzione comunista potrà dire di avere definitivamente conquistato il campo e sbaragliato il nemico capitalista, solo quando avrà demoliti i grandi Stati capitalisti d’Europa e d’America.
Ciò premesso, possiamo passare a trattare l’argomento della lotta politica odierna nell’Africa nera. Ma si sente il bisogno, prima di scendere all’esame delle situazioni particolari, di guardare dall’alto l’intera storia del continente, elaborando i dati già forniti. Istituire delle partizioni storiche per comodità di studio non è cosa facile, nemmeno per un continente, quale quello africano, che pure ha avuto, appunto per minore durata dell’epoca civile, un’esistenza storica relativamente meno complicata. Ci pare giusto tuttavia che si possano distinguere tre grandi epoche: le prime due già trascorse o in via di esaurimento, la terza ancora allo stato sorgente, cioè rivoluzionario. Esse sono: l’evo delle grandi monarchie continentali, la dominazione coloniale europea, la rivoluzione nazionale democratica.
Naturalmente è superfluo avvertire che le date e gli avvenimenti base, come avviene del resto in ogni trattazione storica, non hanno valore di taglio netto tra fasi diverse, dato che accade spesso che epoche morte sopravvivono in parte in quelle viventi. Difatti l’atlante sociologico dell’Africa abbraccia allo stato tutte le forme della convivenza sociale, tranne il socialismo; residui potenti del comunismo primitivo, collettivista e anti-proprietario, resistono tenacemente, sussistendo accanto alla proprietà privata e alla azienda capitalistica; vecchi ordinamenti tribali si perpetuano accanto alle dure contraddizioni generate dall’individualismo e dalla molecolarizzazione della famiglia, che sono alla base dell’economia capitalistica. Il compito è reso difficile, inoltre, dal fatto che il continente ha perduto da moltissimo tempo la sua originaria omogeneità razziale. Ciò comporta difficoltà non lievi, poiché le partizioni storiche che abbiamo delimitate debbono tenere conto anche dei diversi sviluppi sociali segnati dalle popolazioni di origine extra-africana.
In attesa che gli etnografi riescano finalmente a raccapezzarsi nella massa dei dati raccolti (e non lo potranno fare, se non si liberano delle influenze delle ideologie razziste o cripto-razziste o inconsciamente razziste che paralizzano la scienza ufficiale) ci pare basti ai nostri scopi tenere presente che l’Africa poggia sulla coesistenza dialettica di tre grandi ceppi razziali: 1) gli abitatori antichi del continente, cioè le razze e le numerose sottorazze melano-africane, propriamente autoctone; 2) le popolazioni camito-semite che comprendono, oltre agli arabi, i berberi e gli abitanti della Mauritania e del Sahara occidentale, i mauri e i tuareg; 3) correnti migratorie delle nazioni europee (portoghesi, olandesi, francesi, inglesi).
In tal modo abbiamo semplificato al massimo la composizione razziale del continente, ma per i nostri scopi non potevamo fare diversamente. Va detto, però, che esce fuori dalla ripartizione tracciata il complesso delle popolazioni etiopiche che, pur facendo parte dell’Africa nera, parlano lingue semitiche o kuscitiche. È per tali caratteristiche che gli etnografi considerano l’Etiopia come una sorta di anello di congiunzione tra l’Africa nera e l’Africa bianca. A noi sembra, per semplificare, che si possa dire che abbiamo un’Africa nera, dove l’elemento razziale predominante è il negro, e un’Africa bianca — o meglio, non-negra — nella quale predominano razzialmente e politicamente gli arabo-berberi (Africa al di qua del limite meridionale del Sahara) oppure predominano politicamente e socialmente i popoli di origine europea (Algeria, Unione Sud Africana).
Tutto ciò comporta una situazione originale, non rinvenibile altrove. L’Africa è il punto di incontro delle grandi razze umane. Il quadro si allarga, se si considera che le popolazioni del Madagascar, di origine malese, e le forti minoranze indiane dell’Africa australe, apportano altri elementi al crogiolo razziale del continente.
L’Internazionale comunista non può che rallegrarsene. Sotto l’imperialismo e il regime degli Stati nazionali, tali condizioni tengono permanentemente accesi i fuochi di crude contraddizioni sociali. Ma è giusto prevedere che proprio in Africa, terra classica della tratta degli schiavi e delle più infami dominazioni di razza, la rivoluzione comunista mondiale attingerà i più grandi risultati, nell’applicazione dei principii dell’internazionalismo. Di certo c’è che la tesi di un’Africa esclusivamente africana è inammissibile. La coesistenza delle razze rappresenta ormai un dato incancellabile della storia passata e futura del continente. L’unica soluzione dei problemi posti dal razzismo bianco non può essere che l’internazionalismo proletario.
1) La grande epoca delle monarchie continentali. Su questo affascinante argomento bisognerà ritornare in seguito, dato che merita molto più spazio di quanto sia possibile accordargli ora. Ci contenteremo adesso di fissarne i limiti.
Tale epoca, pur avendo lo stesso infelice sbocco nella catastrofe provocata dal colonialismo, muove da diverse condizioni nelle grandi aree a nord e a sud del Sahara. Per la Africa nera, il periodo che inizia con la fondazione del vasto impero di Ghana (IV secolo dopo Cristo) si riattacca direttamente, sebbene il trapasso abbracci un lungo periodo di tempo, alle forme infime della civiltà. Per l’Africa mediterranea, invece, succede a fasi molto più avanzate della civiltà. Le monarchie musulmane (arabe e berbere) che si impiantano nell’Asia minore e in Egitto ricevono in eredità i resti dell’impero romano, passati nel frattempo nelle mani delle aristocrazie militari dei barbari e dell’impero di Bisanzio.
È il periodo questo più luminoso della storia del continente. Grandi prospettive di sviluppo si aprono specialmente quando i grandi Stati africani del Sudan occidentale e della Guinea entrano in contatto con gli arabi e accettano, in molti casi, l’evangelizzazione islamica. In questa epoca la proprietà privata della terra e dei mezzi della produzione sociale è sconosciuta; l’antichissimo comunismo tribale è il fondamento dell’esistenza sociale dei popoli africani, a nord e a sud del Sahara, non essendo intaccato dal pur florido commercio che si svolge attraverso il Sahara e lungo i grandi fiumi che solcano la savana sudanese; la produzione e il consumo dei beni economici sono tutti dentro la sfera del lavoro collettivo; la struttura centralizzata dello Stato non contamina le forme comuniste della famiglia.
Non è certamente l’età dell’oro. Il cinismo borghese, sempre pronto a
sogghignare sulle “utopie comuniste”, non mancò di insistere sul tasto della
guerre che è ora presente nella società africana precoloniale. Ma noi sappiamo
perfettamente che in tutte le fasi della civiltà, e anche all’esterno della
tribù comunista, la guerra e l’assoggettamento del vinto hanno largo impiego. Ma
è indubbio che lo sfruttamento economico dell’uomo, sconosciuto nel comunismo
primitivo e introdotto con la civiltà, raggiunge il massimo dell’infamia e della
ipocrisia sotto il capitalismo. Certamente ripugna molto di più la bestiale
politica dell’apartheid dei razzisti sudafricani così vicini al cuore dei
borghesi nostrani, che l’eccidio di guerra commesso da conquistatori zulu o la
soppressione che la tribù nomade infligge ai prigionieri di guerra, che non può
trascinarsi dietro nelle sue transumanze.
La lunga agonia coloniale
2) La dominazione coloniale europea. L’epoca inizia praticamente al momento della circumnavigazione dell’Africa realizzata da Vasco de Gama negli anni 1497-98. Si conclude negli ultimi decenni del secolo scorso, all’insorgere della patologia imperialista del capitalismo. Si apre allora la vergognosa serie delle guerre coloniali, che le grandi potenze europee conducono contro i popoli africani per impossessarsi completamente del continente. Tre secoli, dunque. Tre secoli di penosa agonia per l’Africa, tormentata a morte dalla tratta degli schiavi, dalla caccia all’oro, dal lavoro forzato, dalla monocoltura, la piaga più recente, ma non meno bruciante. Ma sono anche tre secoli di coraggiosissima lotta dei popoli africani, che mai piegarono alla prepotenza dell’invasore e sempre che poterono gli si opposero con le armi che avevano.
Il colonialismo europeo iniziò con la conquista delle coste e fu inaugurato dai portoghesi. Questi, in un certo senso, ricalcarono, su scala e con portata storica ben più grandi, i metodi dell’antico colonialismo fenicio, per il quale gli stabilimenti impiantati su territori stranieri dovevano servire anzitutto come scalo delle loro linee di navigazione internazionali e come centro di smistamento del traffico commerciale. Difatti, la già menzionata spedizione di Vasco de Gama ebbe l’effetto di creare stabilimenti e fattorie sulle coste del Golfo di Guinea, dell’Angola e dell’Africa orientale, da Mozambico fino alle foci del Giuba. Veramente, già alcuni anni prima altri navigatori portoghesi o al servizio del Portogallo; avevano scoperto e occupato le isole del Capo Verde, tratti della costa del Golfo di Guinea e l’arcipelago ad esso prospiciente, tra cui le celebri isole Sao Tomè, Principe, Fernando Poo, oggi assai importanti per la produzione del cacao.
Anche l’occupazione dell’Angola è di questo periodo, ma l’imperialismo portoghese prende consistenza soltanto dopo la circumnavigazione dell’Africa. Soltanto allora esso chiarisce a sé stesso i suoi obiettivi storici: lo stroncamento del primato navale di Venezia e il dominio sulle rotte per l’India. Il controllo delle coste dell’Africa era uno scopo secondario, nella geniale concezione dei conquistatoci portoghesi, quali gli ammiragli Almeida e Albunquerque, che si rivelò in pieno quando la marineria araba, socia di affari della Repubblica di Venezia, restò imbottigliata nel Mar Rosso.
Le navi del sultano d’Egitto trasportavano le merci del favoloso Oriente nei porti del Mar Rosso, dal quali per via di terra raggiungevano Alessandria e gli altri porti del Mediterraneo orientale, riserva di caccia esclusiva delle flotte veneziane. La conquista di quelle che oggi chiameremmo “basi”, scaglionate sulla costa africana, dovevano inquadrarsi nel grande piano strategico diretto a strangolare i rivali nella lotta per il monopolio del commercio con le Indie e la Cina. La occupazione di Sofala, la edificazione di una potente fortezza nell’isoletta di Mozambico e soprattutto la cattura di Socotra all’ingresso del Mar Rosso e di Ormuz all’ingresso del Golfo Persico spianarono la strada alla manovra portoghese. Alla battaglia di Diu, nel 1509, la flotta della coalizione arabo-veneziana riportava una sconfitta irreparabile.
I secoli che seguirono, il Seicento e il Settecento, furono i secoli della tratta. L’Africa che era servita ai portoghesi per la conquista dell’Asia, continuava a svolgere un ruolo secondario, questa volta per lo sfruttamento delle ricchezze della America. Interi territori della Guinea, dell’Angola, del Mozambico furono spopolati a viva forza per fornire mano d’opera schiava alle piantagioni americane. Sembra strano che il colonialismo abbia intrapreso con ritardo lo sfruttamento diretto delle risorse africane, gettandosi invece con impeto sul continente americano, nonostante le incognite della traversata atlantica. Ma ciò si spiega anche col fatto che avventure del genere di quelle accadute a Cortez a Pizzarro che con un pugno di uomini e pochi archibugi conquistarono enormi imperi, non potevano verificarsi in Africa. Se gli europei furono ridotti per lungo tempo sulla fascia costiera dell’Africa, ciò dipese non certo da un loro calcolo, ma dalla fierissima resistenza opposta dagli Stati indigeni, che, pur decaduti, si batterono fino all’ultimo contro l’invasore.
La penetrazione nell’interno si ebbe molto tardi. Essa avvenne negli ultimi decenni del secolo XIX. Le borghesie europee dovettero allora decidersi ad intraprendere la ingloriosa impresa. Era il momento in cui si formavano i grandi monopoli industriali e i consorzi bancari della fase imperialista. L’esasperato sfruttamento della mano d’opera metropolitana provocava una eccedenza di capitali che bramavano investimenti redditizi. In tali condizioni, il perpetuarsi di economie e di aggregati sociali extra-capitalistici in Africa e in Asia cominciò a rappresentare agli occhi dei borghesi europei come un attentato alle sacre leggi del Capitale. Fu allora che la dominazione europea, che era rimasta per lungo tempo arroccata sulle coste, si voltò a forzare le porte di accesso al cuore del continente. Va detto ad imperitura gloria delle popolazioni africane che non esistono altri esempi di guerre coloniali che costassero così care agli invasori. Gli Stati indigeni si difesero valorosamente e a lungo, costringendo le potenze europee a ritirare le spedizioni militari. Certamente, in quanto a coraggio ed eroismo, essi si rivelarono nettamente superiori ai banditi colonialisti, che con forze soverchianti e armamento micidiale, li assalivano da tutte le parti.
Particolarmente sanguinose le guerre condotte dagli inglesi contro la nazione zulu nel 1878-79. L’Egitto cadde nelle mani degli inglesi nel 1882. Un anno prima, la Francia si era annessa la Tunisia. Il Congo, che fin dal 1885 era stato proclamato “Stato indipendente” per essere messo sotto la sovranità della Corona belga, poteva essere occupato, nel 1892-94, solo mediante una campagna militare durata due anni. L’isola di Madagascar, sulla quale la Francia aveva imposto il protettorato sin dal 1885, veniva brutalmente occupata nel 1895, dopo circa un anno di guerra. Da parte loro, gli inglesi arraffavano nel 1895-1900, non senza incontrare fiere resistenze, il territorio che venne poi chiamato Rhodesia. La conquista doveva sfociare nella piratesca guerra contro le due repubbliche boere (1899), che diventavano colonie della Corona britannica. Nello stesso periodo — ultimo decennio del secolo — la Francia dava addosso agli ultimi Stati indigeni della Guinea, volendo ottenere il congiungimento delle colonie guineane con le estreme propaggini meridionali dell’Algeria, conquistata sin dal 1830. Fierissima la resistenza del Regno del Dahomey, che era stato fondato all’inizio del secolo XVII, e veniva sottomesso dopo una serie di logoranti campagne militari. Nel crollo generale periva l’ultimo grande Stato sudanese, quello dei Mossi, fondato otto secoli prima nelle regioni dell’Alto Volta.
La conquista coloniale dell’Africa si è protratta, come si vede, per tre secoli, dividendosi in due periodi distinti: l’occupazione della fascia costiera e, soltanto alla fine del secolo scorso, l’espugnazione dell’interno. Abbiamo assunto come l’avvenimento di apertura di questa epoca la spedizione di Vasco de Gama. Esiste un avvenimento, dopo il quale si può considerarla chiusa? Crediamo si possa indicarlo nella battaglia di Omdurman, svoltasi il 2 settembre 1898, con la quale si concluse praticamente la rivolta mahdista contro gli inglesi. Cronologicamente, la conquista coloniale continua dopo Omdurman, se si tiene presente che il Marocco venne a subire il protettorato francese nel 1912, per essere completamente “pacificato” soltanto nel 1934. Ma storicamente la campagna francese contro il Marocco, che non colse mai risultati definitivi, si può considerare già nella fase di transizione all’epoca nuova della rivoluzione nazional-democratica. Ciò vale, a maggior ragione, per l’effimera occupazione italiana dell’Etiopia (1935-40).
La battaglia di Omdurman, durante la quale morirono 11.000 combattenti dell’esercito mahdista e 16.000 restarono feriti, chiude veramente un’epoca della storia africana, perché nel movimento mahdista, che ebbe il suo epicentro nel Sudan orientale, confluirono le forze vive dell’Africa bianca musulmana e dell’Africa nera. L’imperialismo ha fatto scagliare dai suoi servi intellettuali ogni sorta di accuse infamanti contro questi rivoluzionari, che, dopo l’occupazione inglese dell’Egitto e la prona politica di collaborazione con l’occupante svolta dal feudalismo turco che dominava il paese, avevano trasferito nel Sudan il centro della resistenza all’aggressione imperialista. È vero, invece, che sul campo di Omdurman si combatté l’ultima battaglia contro l’invasione europea. Essa chiudeva una epoca e ne apriva un’altra.
* * *
Il Programma Comunista No. 15
Nella puntata precedente abbiamo distinto nella storia dell’Africa tre grandi epoche, ma abbiamo potuto occuparci per ragioni di spazio soltanto delle prime due: il periodo che abbiamo definito delle monarchie continentali, sorte soprattutto nel Sudan occidentale in un arco di tempo che coincide press’a poco col Medioevo europeo, e quello della dominazione coloniale, iniziatosi con le esplorazioni oceaniche, che aprirono in Europa l’epoca del capitalismo. Ci rimane da trattare la terza grande epoca africana, e cioè la rivoluzione nazional-democratica che dalla fine della seconda guerra mondiale, in concomitanza e in conseguenza dei similari rivolgimenti asiatici, ha preso a scuotere il continente nero.
Il risveglio dell’Africa eserciterà indubbiamente una profonda influenza sulla
evoluzione storica del mondo intero. Nessuno può prevederne tutte le conseguenze,
ma è certo fin da ora che la modernizzazione e l’industrializzazione del
continente provocheranno grandi sconvolgimenti nelle economie degli Stati
capitalistici che tra non molto saranno posti davanti al problema del
rifornimento di materie prime e dei mercati di sbocco, che finora hanno risolto
mutilando l’economia africana e facendo di essa una appendice dei monopoli
industriali di Europa e di America. La rivoluzione africana riempirà di sgomento
il mondo borghese che ha finito col credere alle leggende e ai pregiudizi che ha
messo in circolazione a carico degli africani. L’Africa ha alle sue spalle un
passato di civiltà e di progresso. Quando cadranno infranti gli ostacoli
coloniali (e le energie a lungo compresse di nazioni che forse più di ogni altra
hanno dovuto combattere contro la natura, finalmente avranno modo di spiegarsi)
i reazionari di tutto il mondo dovranno registrare una schiacciante sconfitta.
La rivoluzione in marcia
3) Osservare gli effetti di un rivolgimento storico è facile. La realtà è lì alla portata di chiunque. Ben diverso è ricercare le cause che hanno determinato il rivolgimento. I marxisti che si prefiggono di “modificare”, più che spiegare, la storia, non possono esimersi dallo studiare la causalità dell’evoluzione storica. Come accade nel mondo fisico, chi conosce le cause del prodursi degli avvenimenti, può influenzare il corso di essi. Non è superfluo ribadire la posizione fondamentale del marxismo, per cui agente storico cosciente è il partito di classe, cioè l’avanguardia teorica e politica della classe. Ma non di tale questione dobbiamo occuparci ora. Il richiamo ad essa ci viene imposto, come dobbiamo fare per altre questioni, dalla necessità di reagire alle tendenze di certuni che preferiscono, pur di non occuparsi seriamente dei movimenti anticoloniali, negare ad essi ogni importanza e considerarli come un riflesso della politica dei grandi Stati imperialistici che dominano la scena del mondo. Il movimento nei paesi coloniali ed ex coloniali esiste, è reale ed effettivo. Il partito rivoluzionario non può “modificarlo”, nel senso marxista, perché impedito dagli attuali rapporti di forza tra le classi. Ma non lo potrebbe nemmeno in una situazione capovolta, se fin d’ora non ne studiasse il meccanismo.
Quali cause, quali fattori storici hanno messo in moto la rivoluzione nazionale africana? A questo quesito occorre rispondere anzitutto mettendo in rilievo la grande tradizione di resistenza e di lotta che i popoli africani hanno condotto durante tre secoli, contro la invasione e la dominazione degli schiavisti bianchi e dei moderni capitalisti, loro degni discendenti pur avendo contro non solo gli eserciti dei più agguerriti Stati del mondo, ma anche la condanna presuntuosa della intellettualità borghese del mondo intero, sempre pronta a predicare sulla primitività della razza negra e la ineluttabilità della tutela bianca. Questo argomento l’abbiamo largamente trattato, naturalmente nei limiti consentiti dalla natura del presente lavoro, nel paragrafo dedicato appunto al periodo della dominazione coloniale in Africa.
Vogliamo occuparci adesso delle condizioni obiettive che hanno contribuito a sbloccare la situazione esistente nel continente e ad aprire la strada al movimento nazionale. Quali avvenimenti, che si svolgevano esternamente all’Africa e prendevano origine da rapporti esistenti al di fuori di essa, hanno influenzato profondamente il corso degli avvenimenti che dovevano portare alle prime conquiste dell’indipendentismo? Certamente, massima tra tutti, la guerra imperialista.
La seconda guerra imperialista ha fornito una conferma a tutto quanto si agitava confusamente nelle coscienze della parte politicamente più evoluta delle nazioni africane. L’estrema arretratezza sociale, l’avvilimento di lunghi secoli di dura oppressione, la disperazione subentrata al fallimento di tutti i tentativi di liberarsi del giogo coloniale, aveva inculcato negli stessi africani il pregiudizio, abilmente diffuso dalla propaganda di classe dei dominatori bianchi, che assumeva come verità l’incapacità delle razze africane a governarsi da sé, fuori della tutela bianca. Ancora oggi questo sentimento di inferiorità e di sfiducia fa capolino nei programmi e nell’azione di certi raggruppamenti politici africani che sembrano spaventarsi all’idea di prendere nelle mani il governo dei territori soggetti a regime coloniale. Per troppo tempo il colonialismo aveva astutamente sfruttato le differenze di lingua e di costume sociali, gli antagonismi tra i popoli agricoltori e i popoli allevatori, tra i nomadi e i sedentari, e per troppo tempo aveva predicato che tali contraddizioni rappresentavano un ostacolo invalicabile alla concessione dell’autogoverno, perché i popoli africani si potessero liberare da tali pregiudizi con uno sforzo intellettuale indipendente. Ma tutto il castello di menzogne dei colonialisti crollava miseramente allorché la guerra imperialista si estendeva all’Africa.
Cos’altro dimostrava la guerra imperialista agli africani, se non che la tanto favoleggiata civiltà della razza bianca, presentatasi come serena ordinatrice e regolatrice delle razze di colore, era straziata essa stessa da contraddizioni di gran lunga più insanabili e micidiali che i contrasti interni delle società africane? Le nazioni bianche che per due volte incendiavano il mondo, suscitando ogni volta tremende carneficine e paurose devastazioni, non potevano più, agli occhi degli africani, recitare la farsa della razza tutrice. Quel che conta di più è che il conflitto imperialista rompeva il fronte unito del colonialismo, che era apparso sempre compatto, qualunque avvenimento accadesse nel resto del mondo. Infatti, i popoli africani dovevano assistere non solo alla selvaggia mischia tra nazioni appartenenti alla stessa razza bianca, che venivano a massacrarsi ferocemente in terra d’Africa, ma addirittura alle scissioni che si producevano nel campo delle potenze coloniali. Non basta. Ad una certa svolta del conflitto, le autorità coloniali di una grande potenza imperialista, la Francia, venivano a schierarsi sugli opposti fronti della guerra civile. Sarebbe bastato anche meno per ridare agli africani la fiducia in sé stessi e indurli a dare consistenza di programma politico alle confuse aspirazioni alla indipendenza tanto a lungo accarezzate.
Per valutare appieno le profonde ripercussioni che ebbe nella politica africana la seconda guerra mondiale, bisogna tener presente che prima di essa l’Africa non aveva visto combattere sul continente una guerra tra le potenze occupanti. Naturalmente intendiamo riferirci agli ultimi due secoli, benché si possa risalire molto più indietro nel tempo ottenendo lo stesso risultato. L’Africa era abituata a vedere le nazioni bianche tutte quante coalizzate contro di lei. Non erano mancate nella tormentata storia del colonialismo africano casi clamorosi di rivalità tra Stati europei, come la controversia scoppiata nel primo decennio di questo secolo tra Francia e Germania per via del Marocco o, ancora prima, tra Francia e Italia per via della Tunisia. Ma giammai si era arrivati al conflitto armato.
La stessa guerra anglo-boera del 1899, benché mettesse di fronte Stati di razza bianca, era stata una tipica guerra di aggressione coloniale. I Boeri, discendenti dei coloni olandesi stabilitisi da oltre un secolo nell’Africa australe, avevano rotto ogni rapporto con la patria di origine, e si erano trasformati, sterminando i Cafri, in una nazione autoctona.
Parve, alla fine del secolo scorso che le due potenze coloniali egemoni, la Gran Bretagna e la Francia, lanciate nella corsa alle conquiste in terra africana, dovessero scontrarsi per dissensi nella spartizione del bottino. Il 10 luglio 1898, una spedizione francese occupava Fascioda sul Nilo. Era chiaro che la Francia intendeva approfittare della rivolta mahdista, che in quel momento affrontava lo scontro supremo con la coalizione anglo-egiziana, per penetrare nel Sudan orientale. Ma il piano ambizioso fu fatto fallire dalle truppe inglesi che accorrevano sul posto, avendo terminato da poco il massacro dei rivoluzionari mahdisti a Omdurman. Ne nasceva un grave incidente diplomatico e parve che si dovesse arrivare al conflitto; poi la Francia preferì abbandonare la località contesa. Evidentemente, a risolvere pacificamente l’incidente di Fascioda contribui il comune interesse delle potenze ad evitare un conflitto di cui si sarebbero giovate le forze della rivolta africana. Ogni buon razzista sarà sempre pronto a spiegarvi che non sta bene per i padroni bianchi litigare in presenza del servo negro.
Nemmeno la prima guerra mondiale, che pure venne a cambiare la geografia del colonialismo sopprimendo la colonizzazione tedesca, ebbe ripercussioni notevoli sulla politica africana. Operazioni militari contro i tedeschi, rimasti imbottigliati nel Tanganica e nel Togo, ve ne furono, ma non si può per nessun motivo paragonarle alle gigantesche battaglie che dovevano riempire di clamore tutta l’Africa, durante la seconda guerra. Né la conquista italiana dell’Etiopia venne venne meno alla tradizione. La stampa fascista, inguaribilmente drogata di megalomania imperiale, prese a favoleggiare sul tema della crociata romana contro la “perfida Albione”, ma la divergenza italo-britannica non usci mai dal terreno della diplomazia ginevrina. In effetti, il velleitario imperialismo fascista non dovette combattere, nella sua marcia verso Addis Abeba, che con la estrema precarietà delle risorse finanziarie e militari del governo di Roma.
La svolta decisiva si ebbe alla seconda guerra mondiale. Allora tutto un passato crollò inesorabilmente. Le potenze bianche che erano riuscite, ad onta dei loro tremendi contrasti interni, a conservare un fronte unito contro i popoli colonizzati, violarono la tradizione fino ad allora rispettata. Per quattro lunghissimi anni gli opposti eserciti presero ad avanzare ed indietreggiare nella fascia settentrionale, come nel cuore stesso dell’Africa, sterminandosi a vicenda con le armi super-extra fabbricate dalla orgogliosa tecnica bianca. E le razze di colore furono invitate a prendere parte al macello o vi parteciparono indirettamente lavorando nelle retrovie.
Ma tutto ciò era ancora niente di fronte a quanto doveva accadere all’indomani della sconfitta militare della Francia, massima tra le potenze coloniali dominanti in Africa. A seguito dell’armistizio franco-tedesco, accadde in Africa un fatto inaudito, che giammai i popoli africani avevano immaginato potesse verificarsi. Gran Bretagna e Francia, dimentiche ormai di Fascioda, entrarono subitamente in conflitto. I colpi di cannone che il 3 luglio 1940 la britannica Home Fleet sparò contro la squadra navale francese, rifugiata nella baia di Mers el-Kebir, presso Orano, non avendo potuto ottenere la resa, rimbombarono da un capo all’altro del continente. Ora sappiamo che chiudevano un’intera epoca, l’epoca della colonizzazione dell’Africa. A partire dal bombardamento di Mers el-Kebir, apparve chiaro che le potenze che dominavano in Africa, avevano cessato irrevocabilmente di essere le potenze che dominavano il mondo; e se la loro egemonia mondiale crollava non c’era più ragione di credere che durasse eternamente la loro dominazione sull’Africa. Le rivoluzioni non hanno altra origine. La decadenza delle classi dominanti inizia molto tempo prima che le classi oppresse ne abbiano coscienza; soltanto minoranze politiche selezionate pervengono ad acquisire il fenomeno. Poi, ad un tratto, scoppiano avvenimenti grandiosi che hanno la chiarezza e l’eloquenza di verità provate, ed allora tutti comprendono ciò che soltanto pochi sapevano.
Nel settembre dello stesso anno 1940, forze golliste tentarono di prendere il controllo della squadra navale di Dakar, ma il colpo non riuscì. Servì, invece, ad aggravare la crisi del colonialismo, mostrando agli africani come la potenza francese fosse divisa in due campi politici nemici. Alla Francia di Pétain si contrappose la Francia di De Gaulle, e la scissione del territorio metropolitano si allargò fine a comprendere l’impero coloniale. Le autorità colonialiste dell’Africa equatoriale e dell’Africa occidentale francesi, del Madagascar, dei possedimenti e dei mandati situati in altri continenti seguirono parte i gollisti e parte il governo di Vichy. Come è noto, la lotta tra le opposte fazioni ebbe il suo culmine in Siria e nel Libano, che dall’armistizio erano rimaste nelle mani di funzionari fedeli al governo di Vichy. Nel giugno 1941, un corpo di spedizione anglo-gaullista, proveniente dalla Palestina, invadeva la Siria. Attaccate anche dalle truppe britanniche che ritornavano dall’avere represso nel sangue la rivolta dei nazionalisti iracheni, le autorità petainiste finivano col chiedere l’armistizio. Madagascar, che pure era tenuta dai petainisti, fu invasa e occupata dagli inglesi tra il 5 e il 7 maggio del 1942.
Nel novembre, gli sbarchi alleati a Casablanca, Orano e Algeri aprivano un altro capitolo della guerra civile francese. Le forze petainiste che presidiavano l’Algeria e il Marocco contrattaccavano il corpo di spedizione alleato, ma si disperdevano dopo poche ore di combattimento. Da quel momento, l’Africa assisteva ad un ennesimo capovolgimento del fronte politico e militare, perché gli ex rappresentanti del governo di Vichy disertavano il campo e, con tempestivo doppiogiochismo, si mettevano in concorrenza con i gollisti, che godevano dell’appoggio americano. La sordida lotta doveva concludersi con l’uccisione dell’ammiragio Darlan, che fino all’invasione alleata aveva rappresentato il governo di Vichy nell’Africa settentrionale. Così finiva la gloriosa civilisation française. Tutto ciò che è accaduto dopo nell’impero, e che accadrà in seguito non si potrebbe spiegare, se non si valutassero le conseguenze prodotte dalla guerra imperialista, che diede la misura esatta della decadenza delle potenze colonialiste.
Se il conflitto mondiale aveva mostrato senza possibilità di equivoci la degradazione militare e politica della Gran Bretagna e della Francia, il dopoguerra ne doveva metterne a nudo l’impotenza finanziaria. Londra e Parigi che tradizionalmente aveva capeggiato la finanza internazionale, entravano nello stuolo degli Stati debitori di fronte al dollaro.
La colonizzazione dei colonizzatori
Da un articolo di Lord Hailey, apparso nel numero di maggio-giugno della rivista “Africa”, si traggono interessanti notizie circa gli “sviluppi in Africa negli ultimi 20 anni”. L’autore non è un marxista, ma riconosce l’importanza di «quegli sviluppi di carattere economico e sociale che nella storia del mondo hanno così spesso preceduto, se non direttamente provocato, importanti e rivoluzionari mutamenti nel campo politico». Evidentemente egli è un eclettico, se crede che le cause dei movimenti rivoluzionari possono ricercarsi anche al di fuori del terreno economico e sociale. Ma a noi interessano le risultanze dei suoi studi, più che i criteri di cui egli si serve.
Dopo aver tratteggiato le differenze esistenti tra l’Asia e l’Africa e tratta la giusta conclusione che la evoluzione africana è ostacolata dall’assenza di nazioni numericamente sviluppate, quali esistono in Asia, egli scrive: «Ciò non significa, però, che l’Africa continui ad occupare la posizione che occupava, nei confronti del resto del mondo, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale».
Quali, dunque, i mutamenti economico-sociali apportati dalla guerra? L’autore fa un rapido esame delle condizioni esistenti al momento nei vari territori africani. In alcuni paesi a sud del Sahara si è avuto un notevole incremento di attività industriale. Più drastici i cambiamenti avvenuti nell’Unione Sud-Africana. L’industria mineraria e le industrie agricole, prevalenti classicamente nei paesi coloniali o arretrati, sono passate dietro l’industria manifatturiera, che ora dà al reddito nazionale un contributo maggiore che le prime due. Importanti le conseguenze sociali dell’industrializzazione “afrikaaner”. Lord Hailey, anche se si guarda dal dirlo, fornisce una spiegazione materialistica del razzismo che imperversa nel Sud Africa. Egli osserva che la crescente industrializzazione costringe gli imprenditori ad assumere un numero sempre crescente di africani, ma addirittura ad affidare ad essi lavori da semispecializzati e persino di specializzati.
Evidentemente, i capitalisti sudafricani non possono evitare che si formi un proletariato africano, istruito ed evoluto, che non è possibile più trattare come gli schiavi coloniali, ma si preoccupano, come i loro colleghi di tutto il mondo, di impedire l’evoluzione politica dei loro sfruttati. E a ciò serve egregiamente la segregazione razziale, il regime dello “apartheid”, fondato sulla separazione fisica delle razze. Naturalmente, Lord Hailey usa un linguaggio diverso e certamente respinge le “ideologie” dello sfruttamento capitalista, ma non può evitare di spiegare con cause economiche il fenomeno razzista quando scrive: «Questo sviluppo (la formazione del salariato indigeno) è importante, e sembrerebbe che il timore delle sue conseguenze politiche sia appunto la ragione della urgenza di dare effetto pratico alla dottrina della segregazione, che il partito nazionalista mostra di avere». Pare che basti, no?
Dunque in testa alla industrializzazione africana figura il Sud Africa. Ma anche nel Congo belga e nella Federazione della Rhodesia si è avuto «un notevole sviluppo industriale». In tutti e tre questi paesi l’espansione industriale ha avuto come conseguenza «un aumento quasi spettacolare dell’urbanesimo». Cioè, i cambiamenti che si vanno producendo nel modo di produzione si ripercuotono direttamente sulle condizioni sociali. A dispetto di coloro che scoprono ogni giorno il superamento del marxismo, la rivoluzione africana prosegue secondo l’evoluzione dialettica materialista. Per tre secoli, la Chiesa cattolica ha lavorato a evangelizzare l’Africa, cioè a cambiarne la coscienza, ma ecco che la mentalità degli “indigeni” cambia veramente non appena cambiano i vecchi rapporti di produzione. «Anche questo (il fenomeno dell’urbanesimo) — scrive il nostro illustre autore — è significativo, perché ne è corollario una vasta frattura dei costumi indigeni, e la sostituzione di nuove associazioni agli antichi legami tradizionali».
Particolarmente notevole è un passaggio dell’articolo che stiamo citando, e alquanto lunghetto, dato lo spazio di cui disponiamo. Scrive Lord Hailey: «In una considerevole parte dell’Africa orientale ed occidentale lo sviluppo industriale è meno marcato, ma si è verificato un mutamento molto significativo nell’economia rurale. I prezzi più elevati hanno portato alla crescente sostituzione della produzione per consumo familiare con raccolti da vendere, e ciò ha dato per conseguenza un altro sviluppo: la formazione di una classe finora poco nota nell’economia africana, e cioè quella del “piccolo borghese”, imprenditore, commerciante o impiegato commerciale. Ed è stata proprio questa classe che in Asia ha dato i più attivi fautori di un mutamento politico».
Interrompiamo la citazione per un momento. È chiaro che lo studioso inglese ha compreso ciò che certe persone che pretendono di insegnare il marxismo non hanno saputo capire. Non abbiamo sempre sostenuto, sulla traccia del leninismo, che la rivoluzione nazionale nelle colonie è un movimento democratico che si appoggia su classi sociali sorte dalla decomposizione dei vecchi rapporti, cioè la piccola borghesia radicale e il proletariato nascente? I nostri acidi critici pretendono, invece, che le colonie hanno soltanto un valore “geografico” e che tutto quanto avviene in esse, fosse pure una rivolta armata contro le potenze occupanti, è... puro riflesso delle rivalità dell’imperialismo internazionale. Evidentemente, essi debbono pensare che la formazione di nuove classi sociali sia faccenda da... ufficio di collocamento.
«Nell’economia rurale si è avuto un altro mutamento significativo. Su vaste zone il tradizionale possesso della terra da parte della comunità va ora cedendo il passo a un sistema di possesso terriero individuale. La conseguente limitazione del numero di persone che continuano ad avere interessi terrieri dovrebbe tendere a produrre in Africa, come a suo tempo produsse in Europa, una disponibilità di mano d’opera stabile, e quindi più specializzata, al posto di quella instabile, ossia al posto della mano d’opera stagionale».
Ecco spiegato tutto il ribollire di movimenti ideologici e politici che fanno esclamare: “l’Africa si muove”. La guerra mondiale, stringendo i rapporti tra l’Africa e il resto del mondo, ha fatto entrare in crisi profonda il colonialismo. Allentandosi la stretta che ne impediva il dispiegamento, energie nuove sono zampillate dal sottosuolo sociale. I vecchi rapporti produttivi, le arcaiche strutture sociali, il modo di vivere e di pensare della vecchia Africa coloniale hanno subito una scossa sismica.
Dai residui del baratto è sorto il commercio moderno, dal comunismo primitivo agrario, che aveva svolto nel passato una funzione gloriosa permettendo il fiorire delle civiltà africane, è sorta la piccola proprietà terriera, che è forcaiola e controrivoluzionaria sotto il capitalismo sviluppato (e sia detto a eterna infamia dei “comunisti” italiani che, pur di accattare voti, predicano la lottizzazione della terra) ma è elemento propulsivo nelle fasi di passaggio al capitalismo. Certamente, sarebbe preferibile che forme associative, non individuali, di proprietà del suolo sostituissero la primitiva comunità agricola, ma tale trasformazione è possibile alla condizione che il potere politico sia nelle mani di un partito proletario che assuma la direzione della rivoluzione democratica. Purtroppo tale condizione, almeno per ora, è assente in Africa: la direzione politica del movimento rivoluzionario restando nelle mani di partiti della democrazia rivoluzionaria. È innegabile comunque che la rivoluzione politica africana sottintende ed esprime una profonda rivoluzione sociale.
Alla luce di tali fatti appare in tutta la sua insanabilità la crisi del colonialismo. Le nuove classi che stanno sorgendo in Africa possono progredire e svilupparsi (ciò vale tanto per la piccola borghesia quanto per il proletariato) a condizione che il processo economico e sociale che si è aperto raggiunga le sue tappe, l’una dopo l’altra. Queste nuove classi personificano le tendenze al progresso industriale, alla industrializzazione. E che le autorità colonialiste non possano fare a meno di preoccuparsene è provato dal fatto che i governi sfornano a getto continuo progetti di grandi imprese industriali, che regolarmente restano sulla carta.
Edificante è l’esempio fornito dalla Francia. Si fa un gran parlare a Parigi delle branche industriali da istituire in Africa, sui luoghi di estrazione di certi minerali e delle centrali idroelettriche da impiantare lungo i grandi corsi d’acqua del continente. Il petrolio del Gabon, i fosfati del Senegal e del Togo, il manganese del Medio Congo sono sulla bocca di tutti. Recentemente si è scoperto che il Sahara è un enorme serbatoio di materie prime, e si è portato il discorso anche sul ferro di Tindouf, sul metano di In-Salah, sul petrolio di Hassi-Messaud, sul carbone di Colomb-Bechar, sul platino e i diamanti dello Hoggar. Ma lo sfruttamento industriale al livello moderno di queste ricchezze potenziali è concepibile unicamente alla condizione che si creino le attrezzature industriali necessarie, ma soprattutto che si realizzino le infrastrutture (strade, ferrovie, oleodotti, elettrodotti, servizi logistici, ecc.). A ciò si oppone la deficienza di capitali di cui soffre la Francia, si dice. E si sente ripeterlo spesso dalla brava gente che gode figurandosi che i paesi coloniali organizzati in Stati indipendenti erediterebbero gli stessi problemi che il colonialismo non riesce a risolvere.
La verità è che il massimo ostacolo che si oppone alla industrializzazione delle colonie è appunto il regime coloniale, che è fondato sulle unioni doganali e sulle “preferenze imperiali”, concepite all’unico scopo di conservare il dualismo: metropoli industriale – colonia agricola.
Il ricorso al capitale straniero (benché sia tuttora allo stato di progetto) che si vorrebbe associare negli investimenti africani, più che con la deficienza di capitali nazionali si spiega con l’ostinata decisione dei capitalisti di conservare i criteri economici che regolano i rapporti tra la metropoli e le colonie. La pubblicistica francese, che invita lo Stato a procurarsi il contributo finanziario dei banchieri stranieri per attuare i piani di industrializzazione africana, si guarda bene dal chiedere l’abolizione dei sistemi che permettono ai monopoli industriali metropolitani di vendere i loro prodotti alle colonie a prezzi superiori a quelli del mercato internazionale. La confindustria francese non lo permetterebbe mai; essa vuole due cose completamente opposte: esaudire i febbrili bisogni di progresso dei popoli africani che intendono modernizzare e industrializzare i loro paesi, e conservare le bardature protezioniste che sono precisamente la causa dell’arretratezza coloniale.
Come al solito, il mezzo adoperato per mettere a tacere le critiche che la parte politicamente più evoluta delle colonie muove al governo metropolitano è la politica del mitra, cioè la politica dei coloni razzisti di Algeri.
Contraddizione delle contraddizioni, la Francia, mentre tende a scroccare denari
alle banche straniere, tira fuori il nazionalismo paranoico di De Gaulle.
Essendo chiaro che Parigi conduce la repressione coloniale in Algeria, nel
Camerun e altrove grazie ai dollari prestati dagli Stati Uniti, il mondo
assiste ad una sorta di infeudamento delle potenze colonialiste alla finanza
americana. Coloro che hanno colonizzato mezzo mondo non chiedono di meglio che
di essere colonizzati dai plutocrati americani! È l’epoca della colonizzazione
dei colonizzatori. Ma la arrogante borghesia francese non ama che le vengano
rinfacciate certe cose, allora inscena la commedia del nazionalismo irriducibile
di Serigny-De Gaulle.
* * *
Programma Comunista No. 16
A che tende la rivoluzione africana? Avendo discusso talune importanti questioni legate alla storia passata e ai mutamenti sociali che sono in corso nel continente, crediamo che convenga concludere il presente lavoro, cercando di rispondere a tale quesito. Probabilmente esso va posto meglio nei termini seguenti: esiste una “via africana” di uscita dal precapitalismo, cioè un corso diverso da quello seguito dalle rivoluzioni antifeudali che si compirono fino al 1871 in Europa e America e dal 1917 ad oggi nella Europa orientale e in Asia? Oppure le energie sociali liberate dallo sblocco dei vecchi rapporti precapitalistici coloniali tendono potenzialmente, a seconda delle condizioni obiettive, a diversi traguardi storici? Detto altrimenti: è da ritenere inevitabile che il processo di rivoluzione sociale, testè in corso nei paesi afro-asiatici, sbocchi in tipi di società qualitativamente eguali a quelle rappresentate dagli Stati capitalistici d’Europa e d’America?
Tale quesito, cui abbiamo risposto già in parte nei precedenti paragrafi, non può essere risolto basandosi sulle enunciazioni ideologiche e sulle piattaforme programmatiche, le une e le altre quasi sempre insufficienti, che vengono sbandierate dai partiti politici africani. Semmai ci si può servire di tale materiale per misurare il grado di coscienza che le forze soggettive del rivolgimento hanno dei limiti e delle possibilità reali del medesimo. Al contrario, per vederci chiaro, bisogna riflettere sulle condizioni obiettive che sono destinate a determinare in futuro l’evoluzione storica africana, e cioè: 1) il grado di sviluppo delle forze produttive; 2) la situazione della lotta di classe tra la borghesia e il proletariato internazionale.
Abbiamo già assodato che esiste nel continente africano un accumularsi di cambiamenti quantitativi di ordine economico-sociale che preludono al rivolgimento rivoluzionario tipico dei paesi precapitalistici. Si tratta di vedere ora in quale epoca storica verrà a svolgersi la rivoluzione africana: se nell’epoca del capitalismo, che è presentemente la forma sociale predominante nel mondo, oppure nell’epoca della dittatura del proletariato, attualmente dovunque assente. Esiste una terza alternativa. È possibile che la rivoluzione afro-asiatica, che oggi è nella fase iniziale, si intersechi o sia raggiunta e superata dalla rivoluzione socialista del proletariato internazionale, prima che concluda il suo ciclo storico.
Posta la questione in tali termini, appare chiaro come la rivoluzione afro-asiatica abbia davanti a sé diversi sbocchi in dipendenza dello sviluppo della lotta di classe nei paesi capitalistici sviluppati. Se la rivoluzione comunista ritarda e la dominazione borghese dura nel mondo, essa non potrà che seguire, checché dicano i leaders dei movimenti africani, la vecchia “via” delle rivoluzioni antifeudali (vecchia dal punto di vista della storia universale, nuova e rivoluzionaria per la storia africana). Cioè non potrà non costruire, poco importa se nelle forme giuridiche della proprietà privata o dell’azienda di Stato, l’industrialismo salariato, vale a dire il capitalismo. Se, invece, il rivolgimento venisse a coincidere con lo scoppio della rivoluzione comunista nelle metropoli capitaliste e la direzione politica del movimento anticoloniale venisse a trovarsi nelle mani del proletariato africano, sarebbe allora possibile imboccare una via diversa e sottrarsi alla condanna della costruzione della industria capitalista, inserendosi nella nuova economia pianificata del socialismo. Si verificherebbe allora il caso della “doppia rivoluzione” antifeudale e antiborghese che Marx e Engels nel 1847 e Lenin nel 1917 attesero di vedere innestarsi sul tronco, rispettivamente, della rivoluzione germanica e della rivoluzione russa.
Per il grado di consistenza del proletariato africano, di cui tra poco discorreremo, ci sembra, a meno che il brutale colonialismo anglo-francese non riesca a durare più a lungo di quanto è lecito prevedere, che la rivoluzione afro-asiatica solo a mezzo del suo ciclo si incrocerà con la rivoluzione del proletariato internazionale. Ma ciò che veramente interessa, per l’atteggiamento politico che il partito marxista deve mantenere di fronte alla rivoluzione anticoloniale, è di poter respingere a ragion veduta le semplicistiche argomentazioni di certa gente che si autodefinisce marxista e rivoluzionaria, soltanto perché assume una infantile posizione di ultra-sinistrismo nelle questioni nazionale e coloniale. Costoro non sanno fare la dovuta distinzione tra le fasi di un processo storico, e confondono “ciò che tende al capitalismo”, cioè un movimento di interessi che cercano di sbarazzarsi dalle pastoie feudali (o coloniali), e il capitalismo, cioè la chiusura del processo. Essi trattano con lo stesso criterio le perfezionate macchine produttive e politiche che rispondono ai nomi dei grandi Stati capitalisti e imperialisti d’Europa e d’America e, non già un ordinamento sociale o un modo di produzione, una “tendenza” ad arrivare a quel grado di sviluppo. Peggio ancora se essi sono capaci di fare tale distinzione: cioè sono convinti che nulla potrà impedire che il movimento iniziatosi in Asia e in Africa raggiunga il traguardo capitalista. In ambo i casi sono dei dialettici da quattro soldi e dei rivoluzionari saturi di dubbi.
I nostri criticonzoli non sanno fare altro che ripetere monotonamente che la rivoluzione afro-asiatica è “del tutto diversa” dalle rivoluzioni antifeudali che il “Manifesto dei Comunisti” dichiarò che si dovessero appoggiare. Benché essi non abbiano mai provato con argomenti seri le loro affermazioni, è indubbio che esiste una differenza sostanziale tra i movimenti rivoluzionari di oggi, che tendono ad uscire dal precapitalismo coloniale, e le rivoluzioni antifeudali del passato. È una differenza che riguarda appunto gli sbocchi finali dei due ordini di rivolgimenti. Ma è proprio perché la rivoluzione antifeudale coloniale, che si svolge nell’epoca dell’imperialismo e accresce le possibilità storiche dell’incrocio della rivoluzione nazionaldemocratica con la rivoluzione proletario-comunista, è proprio per ciò che la dottrina marxista e leninista dell’appoggio proletario alle rivoluzione democratiche resta confermata in pieno.
Cerchiamo di chiarire i termini del problema. In che coincidono le rivoluzioni antifeudali dei secoli XVI, XVIII e XIX con le rivoluzioni anticoloniali di oggi? Nel fatto che in ambo i casi il movimento tende a creare lo Stato nazionale come strumento di lotta contro gli ordinamenti semifeudali e prefeudali. In che si differenziano? Nel fatto che le rivoluzioni cromwelliana e giacobina avevano uno sbocco esclusivo: il capitalismo; mentre le rivoluzioni antifeudali che scoppiarono, quando il proletariato si era già costituito in classe, attorno al 1848, e, a più forte ragione, quelle che avvengono ai giorni nostri, possono “passare in gestione” al proletariato, cioè possono confluire nella rivoluzione comunista internazionale.
La liberazione dell’Africa, che appare più difficile che l’avvenuta liberazione dell’Asia, precederà la rivoluzione comunista nelle metropoli capitaliste? Coinciderà con essa dando luogo alla doppia rivoluzione antifeudale e antiborghese? Oppure si affiancherà alla rivoluzione comunista internazionale quando questa già avrà percorso parte del suo ciclo? Certamente non è possibile escludere nessuna di queste tre possibilità storiche.
È da augurarsi che il colonialismo anglo-franco-belga-portoghese che tiene l’Africa in una morsa di ferro, esclusi naturalmente gli Stati indipendenti della fascia araba e della Guinea, crepi quanto prima. Ma non si può escludere che la lunga agonia coloniale si prolunghi per molto tempo ancora, come fa temere l’insufficienza politica dei movimenti indipendentisti e nazionali africani.
Quel che interessa soprattutto, come dicevamo, è la posizione che il marxismo assume di fronte al movimento. Una cosa è certa: da buttare assolutamente via e da respingere come frutto di puro dilettantismo è la posizione dei nostri critici, per i quali, non sappiamo per quale soprannaturale virtù profetica, il ciclo evolutivo africano e asiatico è completamente scontato. Per noi, che ci sforziamo di applicare i metodi della previsione scientifica, la società capitalista (non quella fabbrica, o quella raffineria, o quei bacini di carenaggio) asiatica e africana è un ulteriore anello della catena evolutiva che oggi faticosamente sta cominciando a intrecciarsi. Poiché esistono delle cause — la situazione economico-sociale locale e le condizioni generali della lotta di classe — che determinano codesti effetti, noi riteniamo che un nuovo processo evolutivo avrà origine, se e quando cambierà una delle cause in parola, e cioè la dominazione mondiale del capitale. Per i nostri critici, invece, il capitalismo afro-asiatico non solo è già uscito dalla fase uterina ed è diventato adulto, ma è già arrivato al “1871” afro-asiatico. Si può allora considerare questa gente come dei seguaci seri del materialismo dialettico?
L’appoggio alle rivoluzioni nazional-democratiche delle colonie va dato proprio perché il ciclo rivoluzionario è ben lungi dal concludersi, essendo appena agli esordi. Nel periodo precedente il 1871, anno della sanguinosa repressione della Comune proletaria di Parigi, il movimento rivoluzionario democratico europeo non era ancora arrivato all’epilogo; il capitalismo non era ancora pervenuto a sottomettere tutto il campo dell’economia sociale; la dominazione di classe della borghesia, che doveva tuttora strappare le residue posizioni delle classi spodestate e difendersi contro i conati di restaurazione feudale, non era ancora un fatto storico irreversibile. Per tali ragioni i comunisti appoggiavano le insurrezioni repubblicane democratiche. In quanto miravano a seppellire il passato, esse avevano un contenuto rivoluzionario. L’appoggio fu ritirato e le energie insurrezionali del proletariato furono riservate esclusivamente alla rivoluzione comunista, quando fu chiaro, per le montagne di morti elevate dai carnefici della Comune, che il periodo della rivoluzione democratica era terminata in Europa occidentale e il capitalismo aveva conquistato il dominio assoluto dello Stato e della società.
Lo stesso sta accadendo nelle ex colonie. I nuovi regimi vivono sotto la costante minaccia di una restaurazione coloniale, come è dimostrato dal recente attacco armato anglo-americano al Libano e alla Giordania, come dimostra l’occupazione americana di Formosa e tanti altri fatti della politica internazionale. Manca in essi al presente una classe borghese indigena, la stessa industrializzazione che procede in mezzo a mille difficoltà è più discussa che attuata. In altre parole, il ritiro dell’occupante colonialista ha segnato soltanto l’inizio della rivoluzione democratica. Cioè si ripetono le condizioni storiche in cui si trovarono a lavorare i comunisti europei nel secolo scorso e i bolscevichi russi nei primi due decenni di questo secolo.
Esistono, per concludere l’argomento, due modi di impedire la formazione del
capitalismo nei paesi arretrati: uno rivoluzionario, l’altro reazionario. O si
lavora in vista di bloccare lo sviluppo di forze economiche nuove e mantenere i
vecchi rapporti sociali, e ciò compete alla reazione feudale alleata all’imperialismo, o si tende a “saltare” il capitalismo e legare l’evoluzione dei
paesi arretrati al socialismo trionfante nei paesi industrializzati: e questo è
un lavoro da rivoluzionario marxista. Noi siamo sicuri che la rivoluzione
comunista internazionale scoppierà in tempo per permettere ai popoli afro-asiatici
di saltare, se non tutte, almeno le fasi più micidiali del capitalismo. Ma ciò
può avvenire alla condizione che i comunisti, negando ogni appoggio ai partiti
del putrefatto capitalismo euro-americano, lavorino “dentro” la rivoluzione
afro-asiatica, applicando i principii marxisti.
Società precapitalista e proletariato
Bisognava premettere una enunciazione delle posizioni marxiste, perché dobbiamo adesso occuparci dei movimenti politici africani e giudicare quali di essi hanno posizioni avanzate e quali altri seguono direttive insufficienti. E lasciamo ai nostri critici il vezzo pseudo-sinistro di respingere in un blocco tutti i movimenti anticoloniali. Avendo ribadito che il marxismo di fronte alla rivoluzione dei Paesi arretrati e coloniali imposta la sua posizione in coerenza con il principio della “doppia rivoluzione” o in previsione della futura fusione del movimento rivoluzionario nazionale con la più grande e decisiva battaglia della rivoluzione proletaria comunista, noi possiamo tranquillamente operare delle scelte politiche tra i partiti e i programmi del campo anticolonialista. È chiaro che il nostro appoggio, anche se si tratta attualmente soltanto di adesione teorica, va dato ai movimenti la cui azione favorisce, poco importa se inconsapevolmente, la lotta che il proletariato afro-asiatico è destinato a condurre nell’ambito delle nuove società di classe che si vanno formando sulle rovine del colonialismo.
Prima di farlo, sarà utile porre in rilievo un’altra caratteristica importante dei movimenti anticoloniali: l’estrema debolezza numerica del proletariato indigeno. Ciò vale soprattutto per l’Africa. Naturalmente, il confronto è da istituirsi con le altre aree sociali che hanno avuto in comune con i popoli afro-asiatici uno sviluppo sociale ritardato, per cui hanno potuto uscire dal precapitalismo, mentre era già subentrata la fase estrema del capitalismo nei maggiori Stati del mondo. Come termine di paragone nulla può servire meglio della Russia zarista e, in linea subordinata, della Cina imperiale. Infatti, in ambedue questi paesi la classe operaia è nata ancor prima che maturasse la rivoluzione borghese, e ha raggiunto una maturità politica che le ha reso possibile, ad onta della debolezza numerica, di assumere la direzione del movimento rivoluzionario.
Il nostro movimento, nelle fondamentali trattazioni teoriche riguardanti la rivoluzione russa, ha dato esauriente spiegazione del formarsi della classe operaia nell’ambiente sociale precapitalistico russo. È stato provato in esso come lo stesso Stato zarista, che pure era fondato su classi sociali i cui interessi imponevano la conservazione delle forme produttive precapitalistiche, fosse indotto, per ragioni di sicurezza militare, a introdurre in Russia i moderni mezzi di comunicazione che sono alla base dell’industrializzazione (ferrovie, telegrafi, ecc.) e talune branche industriali indispensabili alla produzione di armamenti moderni. In altre parole, fu lo Stato a introdurre il capitalismo in Russia già alcuni decenni prima che la tirannia staliniana, spietata esecutrice della seconda ondata di capitalismo di Stato, portasse a fondo l’industrializzazione dell’immenso paese. Le rivoluzioni del 1905 e del 1917, nelle quali il proletariato sostituì superbamente l’imbelle borghesia, conducendo vittoriosamente la terribile lotta contro la reazione zarista, stanno li a provare come un proletariato numericamente debole, ma armato della teoria marxista, può assumere la direzione della rivoluzione antifeudale e passare addirittura oltre di essa, aprendo la via alla rivoluzione socialista, che nell’Ottobre 1917 trionfò in Russia. Se ha dovuto soggiacere alla controrivoluzione capitalistica dello stalinismo, che degnamente il sordido krusciovismo sta continuando, ciò non inficia, ma dimostra tutta la validità della teoria della “doppia rivoluzione”. Questa può essere iniziata e condotta validamente dallo scarno proletariato del paese precapitalistico, ma può vincere a condizione che i proletariati dei paesi capitalisti conquistino il potere. In definitiva, lo stalinismo ha vinto in Russia perché il capitalismo è riuscito nel primo dopoguerra a resistere e a durare nel resto del mondo.
Anche la Cina imperiale, altro grandissimo paese importante per dimensioni fisiche e tradizione storica, ma rimasto enormemente indietro nella via della rivoluzione capitalista, conobbe un fenomeno simile. Tuttavia la drastica menomazione dell’autorità dello Stato, assediato da tutti i lati dai predoni imperialisti e assoggettato al mortificante regime dei “trattati ineguali”, doveva impedire che i primi elementi del capitalismo raggiungessero proporzioni paragonabili a quelli russe. La fabbrica capitalista fece il suo ingresso nel paese solo pochi anni prima che scoppiasse la rivoluzione repubblicana. E il fatto che la rivoluzione cinese abbia avuto uno sviluppo tormentato, fatto di faticose avanzate e di repentini disastri, fino a sboccare nell’attuale regime pseudo- comunista, si spiega soprattutto con l’estrema debolezza numerica del proletariato e la sua insufficiente preparazione politica. Comunque, il sorgere di un combattivo e risoluto Partito comunista subito dopo la fondazione della Terza Internazionale e le grandi lotte da esso sostenute durante un intero trentennio, stanno a dimostrare quanta parte il proletariato abbia svolto nella rivoluzione antifeudale cinese, ad onta della degenerazione revisionista della burocrazia dirigente maoista.
Rispetto alla Russia e alla Cina, le altre rivoluzioni antifeudali che sono accadute nell’ultimo cinquantennio hanno presentato un decorso del tutto diverso. È mancato in esse, come elemento di propulsione e di guida, il proletariato socialista. Ciò è accaduto specialmente nei paesi assoggettati al regime coloniale e alla incorporazione forzata in grandi Stati imperialistici. La causa principale del fenomeno è da ricercarsi nel fatto che è venuto a mancare l’elemento storico che, come abbiamo visto, apporta deterministicamente importanti modifiche nella società preborghese, e cioè lo Stato indipendente. È legge della evoluzione storica che le società decadenti producono esse stesse le forze esplosive che ne determineranno il crollo. Il colonialismo, e i suoi alleati-servitori feudali, non hanno potuto impedire che sorgessero nelle colonie e nei paesi arretrati classi nuove, quale la piccola borghesia commerciale e intellettuale — e abbiamo visto che per l’Africa tale fenomeno è in pieno sviluppo — ma le condizioni obiettive della dominazione coloniale hanno permesso che si sviluppasse meno rapidamente il proletariato industriale, Anzi, in molte regioni dell’Africa il salariato industriale è quasi del tutto assente. Certamente ciò non sarebbe accaduto se la dominazione coloniale non avesse cancellato per lungo tempo ogni forma di Stato indipendente, sostituendo agli antichi apparati di potere locali le sue rapaci burocrazie periferiche, emanazione degli interessi capitalistici metropolitani.
Conviene a costo di ripeterci tornare sulla questione. Lo Stato, che è l’organo dell’esercizio del potere di classe, deve porre innanzi a qualsiasi esigenza il problema del costante miglioramento dell’armamento. La produzione di armi è la preoccupazione massima dello Stato, che è permanentemente mobilitato a perfezionare l’organizzazione della difesa contro il nemico interno e i rivali esterni. Ma porre la tecnica della produzione di armi al livello degli Stati più minacciosi esistenti al di là delle frontiere, non significa per lo Stato precapitalista essere costretto ad adottare i metodi industriali vigenti nei paesi capitalisti? Avviene così che società che sono al di qua del capitalismo e tendono accanitamente a restarvici presentano importanti elementi di industrialismo moderno. In essi, pertanto, il capitalismo, e quindi il lavoro a salario, e quindi il proletariato, preesistono alla rivoluzione antifeudale. Nelle società preborghesi che sono prive invece di ordinamenti statali indipendenti, lo industrialismo, e quindi il proletariato, mancano. Ne consegue che in questi ultimi il ciclo industriale è destinato ad avere inizio soltanto dopo il trionfo della rivoluzione anticoloniale. Ciò vale per i paesi asiatici ex coloniali e soprattutto per l’Africa nera.
L’esempio clamoroso di come lo Stato preborghese concorra in maniera determinante all’introduzione dei primi elementi di industrialismo capitalista nell’ambiente sociale arretrato da cui è espresso fu dato nei primi anni di questo secolo dal Giappone. Il fulmineo conflitto russo-nipponico fu vinto clamorosamente dalle armi giapponesi, che si rivelarono straordinariamente perfezionate e adatte alla guerra moderna. Ciò doveva provare come lo Stato di Tokyo, che fino al 1904 nessuno nel mondo intese giudicare meno che secondario, aveva saputo importare nel paese la tecnica industriale capitalistica. La vittoria sulla Russia e la conquista della Manciuria fecero il resto. In tal modo il Giappone divenne lo Stato più potente e l’unica potenza industriale dell’Asia.
Se Se la rivoluzione antifeudale nelle colonie procede asmaticamente, se la lotta dei “popoli di colore” è un miscuglio di azione armata e di mercanteggiamenti diplomatici con il gangsterismo imperialista, ciò accade appunto perché manca il potente lievito rivoluzionario proletario. Il movimento va avanti con esasperante discontinuità, fermandosi a ogni piccola avanzata per offrire tregue e compromessi al campo reazionario. Basti guardare appunto a quanto avviene nei paesi arabi. Dopo ogni brusco cambiamento, che sia il riuscito colpo contro la Compagnia del Canale di Suez o l’unificazione egizio-siriana o la rivoluzione irachena, i pan-arabisti nasseriani, invece di sfruttare il successo ottenuto, si affrettano a proclamare il “cessato allarme”, temendo di far indispettire più del lecito i potentati dell’imperialismo, temendo soprattutto di essere scavalcati dalle moltitudini affamate.
Non c’è nulla in esse che possa reggere il confronto con le magnifiche lotte che diedero grandezza a sconvolgimenti storici, come le ricordate rivoluzioni antifeudali di Russia e di Cina. E si comprende bene il perché. In queste battaglie il ruolo di protagonista toccò al proletariato industriale, la classe più rivoluzionaria che sia apparsa nella storia, l’unica capace di condurre una “doppia rivoluzione”. Invece, la circospezione e l’incertezza, la tendenza al compromesso e alla retorica che caratterizzano la rivoluzione anticoloniale tradiscono la mano piccolo-borghese. Non potrebbero comportarsi in altro modo movimenti che sono diretti, per l’assenza fisica del proletariato, dalla piccola borghesia. Evidentemente, la piccola borghesia intellettuale delle colonie, che sogna lo Stato nazionale indipendente e la industrializzazione, ha ereditato ben poco delle attitudini rivoluzionarie rivelate dagli organizzatori delle Comuni giacobine europee. C’è in essa il marchio indelebile del “complesso di inferiorità” (ci si perdoni la espressione) che prova di fronte alle arroganti borghesie delle stesse metropoli imperialistiche e colonialistiche.
È tale appunto l’impressione che si ricava esaminando i programmi dei partiti politici africani. Il lettore non pretenderà che si faccia qui una disamina dettagliata degli schieramenti politici africani e della loro evoluzione. Ciò stonerebbe con il carattere del presente lavoro che ha inteso soltanto trattare in maniera generale le principali questioni legate alla rivoluzione africana. Continueremo invece a seguire tale criterio, riservandoci di dare in altra sede la cronistoria dei movimenti politici sorti in Asia dalla fine della seconda guerra mondiale.
Il triplice quesito africano:
Unione, Federazione o Indipendenza?
Come detto nel titolo di questo paragrafo i partiti africani possono dividersi a seconda della risposta che essi danno al triplice quesito: unione con la metropoli, vincolo federale con la stessa, o indipendenza? Naturalmente tali linee di demarcazione politica e programmatica passano attraverso le compagini sociali considerate singolarmente, oltre che tra regione e regione.
1) Unionismo. — È questa la tendenza politica che è meno pericolosa ai fini della conservazione del regime coloniale e della “presenza” dei colonialisti sul territorio. Naturalmente le giustificazioni ideologiche di questa posizione variano da partito a partito, da luogo a luogo. Ma si può dire che le diverse interpretazioni non cancellano, a parere nostro, il fatto che l’unionismo, cioè la conservazione su nuove basi giuridiche dei rapporti tra metropoli e colonia si risolvono nella migliore delle ipotesi in una banale forma di autogoverno, che la scaltra politica coloniale britannica ci ha fatto già conoscere. L’autogoverno prevede, infatti, l’autonomia politica interna dei popoli soggetti, ma riserva alla metropoli il diritto di amministrare gli affari esteri del paese, come di conservare la direzione della difesa e il controllo finanziario. Come si vede, si tratta di strappare alle burocrazie colonialiste meno di quanto lo Stato borghese concede agli “Enti regionali”.
A questa forma reazionaria di governo sono interessati gli elementi “collaborazionisti” delle caste feudali locali e dell’apparato politico venduto ai colonialisti, quali i movimenti dai vari M’Bida o Grunitski, imperanti all’ombra delle baionette francesi nel Togo o nel Camerun, o quegli elementi della piccola borghesia che è asservita agli interessi dei monopoli capitalisti stranieri, come accadeva nella Cina imperiale per i “compradores”.
2) Federalismo. — Questo è un tipico prodotto della mentalità dei piccolo-borghesi istruiti che sono incapaci di concepire l’evoluzione storica fuorché in maniera volontaristica e sentimentale. Non a caso le utopie federalistiche trovano il più fertile terreno di coltura nei cervelli di poeti e altri intellettuali che vivono nel Sudan occidentale, che pure è la regione politicamente più avanzata dell’Africa Nera.
Il federalismo è una via di mezzo tra l’unionismo e l’indipendentismo. I suoi fautori tendono ad ottenere l’indipendenza statale dei territori coloniali, ma non se la sentono di rompere completamente con la metropoli. Ancora una volta, agisce nei seguaci del federalismo, ad onta delle declamazioni retoriche, la sfiducia nella possibilità che i popoli africani valorizzino autonomamente le risorse dei loro territori. E bisogna riconoscere che tale preoccupazione non è infondata, visto che la industrializzazione richiede la soluzione di problemi formidabili, come investimenti di ingenti capitali, istruzione professionale della mano d’opera, ecc. Ma è anche certo che tali problemi restano pressoché insolubili fino a quando la potenza colonialista mantiene in un modo o in un altro il proprio controllo sui possedimenti coloniali.
Il concetto fondamentale del federalismo, che naturalmente consente svariate interpretazioni e versioni, è che il costruendo Stato indipendente africano debba inserirsi in un più ampio organismo federale comprendente la stessa Potenza che attualmente occupa il territorio coloniale. Non si sa bene se pensare ad una sorta di Stati Uniti afro-europei o ad una nuova edizione per l’Africa del Commonwealth britannico. È chiaro comunque che i teorici del federalismo sono incapaci di un pensiero politico originale e riecheggiano, nel loro gioco intellettualistico, esperienze che hanno fatto il loro tempo. Figurarsi che lo stesso capo della “Convenzione africana”, il massimo partito del Senegal, e cioè il poeta Senghor, è autore addirittura di un progetto che prevede l’inserimento della Federazione franco-africana in un superiore organismo confederale destinato ad accogliere una vagheggiata Federazione degli Stati asiatici, una volta soggetti al dominio francese!
È da augurarsi che la svolta totalitaria e nazionalista, segnata nella politica dello Stato francese dall’avvento del gollismo, serva a dissipare tali utopie. Ci domandiamo come è possibile pensare che la Francia che cosi ferocemente massacra i fellagha algerini, e per meglio poterlo fare si è liberata dalle ipocrisie democratiche, possa accettare i piani dei federalisti. Bisogna, però, riconoscere il lato buono del federalismo, consistente nella lotta contro i pericoli del frazionamento territoriale. Lo spezzettamento della Africa ebbe solenne sanzione al Congresso di Berlino, a conclusione del quale le potenze colonialiste (Inghilterra, Francia, Belgio, Germania, Portogallo, ecc.) si riconobbero scambievolmente le rapine perpetrate nel continente.
I francesi innanzitutto divisero i loro domini africani nelle grandi sezioni amministrative dell’Africa Occidentale, Africa Equatoriale francese, con capoluoghi rispettivamente a Dakar, Brazzaville, e del Madagascar. In secondo luogo suddivisero in numerosi territori e province questi enormi possedimenti. Non poche volte è successo che una stessa compagine etnica o linguistica risultasse spezzata da una assurda barriera amministrativa. Naturalmente è interesse fondamentale degli africani che tali divisioni siano cancellate e sia superato il frazionamento delle stirpi e delle lingue nell’ambito di ampi organismi federali. Cioè il federalismo è un elemento di progresso ma se si concepisce come strumento di unione dei popoli africani e garanzia contro una “balcanizzazione” — per usare l’appropriata definizione di Senghor — dell’Africa, che gioverebbe unicamente all’imperialismo. Per il resto è null’altro che utopia.
Per meglio spiegarci è augurabile che i popoli africani, liberatisi dal giogo colonialista, si uniscano in uno Stato federale, che consenta la pacifica convivenza delle stirpi; ma è da combattere la tesi di una Federazione franco-africana, che perpetuerebbe le usurpazioni dell’imperialismo francese.
Eppure nello stesso R.D.A. (Rassemblement Democratique Africaine), il massimo movimento politico dell’Africa Nera, che insieme con la “Convenzione africana”, si sono fatti artefici della unificazione dei partiti politici dell’Africa Nera francese, esiste una corrente che propugna la Federazione franco-africana, con l’aggravante della tesi della adesione individuale dei vari territori dell’AEF e AOF. Rappresentante di tale corrente, per fortuna minoritaria, è lo stesso presidente del R.D.A., Houphuet Boigny, che sembra essere un ingrediente obbligatorio dei vari ministeri parigini, avendo fatto parte di alcuni governi del defunto regime parlamentare, ed essendo stato accolto nell’attuale governo De Gaulle. Non a caso le idee politiche di Houphouet-Boigny sono gradite a democratici e totalitari parigini, così pronti ad abbracciarsi teneramente quando c’è da salvare la preda coloniale. Non occorre spiegare che il tipo di federazione voluta dal presidente dell’R.D.A. coincide perfettamente con il programma unionista, cioè con la soppressione a parole del colonialismo.
3) Indipendentismo — Inutile dire che le nostre simpatie vanno a coloro che lottano in questo campo: ai rivoluzionari del Madagascar che perirono a decine di migliaia nella insurrezione del 1947, agli insorti algerini, ai guerriglieri del Camerun che combattono sotto la guida della “Unione dei popoli del Camerun”, alla sinistra dell’R.D.A. Il programma di costoro è sgombro di compromessi e di fantasticherie reazionarie, come di inutili ipocrisie. Essi chiedono apertamente la liquidazione della laida dominazione coloniale e la piena indipendenza politica. Anche i federalisti chiedono l’indipendenza, ma quando si esaminano i mezzi e i modi usando i quali essi dicono di poterla ottenere ci si convince che le loro posizioni politiche sono contagiate dall’opportunismo. Non è legittimo sospettare, invece, di coloro che dicono di essere decisi a lottare contro il colonialismo, tenendo le armi in pugno.
Il proletariato istintivamente è con tutti gli oppressi che decidono di affrontare in una lotta estrema i loro oppressori. Non sono ancora tramontate le parole del “Manifesto dei Comunisti” che dicono: «I comunisti appoggiano in generale ogni moto rivoluzionario diretto contro le esistenti condizioni sociali e politiche». Gli indipendentisti africani sono degli oppressi che lottano rivoluzionariamente contro le condizioni sociali arretrate che il colonialismo protervamente tende a perpetuare. Perciò il proletariato comunista è con loro.
È chiaro che per le speciali condizioni storiche che abbiamo illustrato più sopra, soltanto la fondazione di uno Stato nazionale può mettere in moto il processo di formazione dell’industrialismo e quindi dare vita al proletariato africano. In ogni epoca della lotta di classe, la classe che si accresce come determinante economica è destinata, presto o tardi, a impossessarsi del comando della società. Appoggiando le rivoluzioni afro-asiatiche il proletariato internazionale favorisce il sorgere di nuove condizioni, che trarranno da un materiale sociale in fermento nuove sterminate leve proletarie. E ciò, mentre la degenerazione monopolistica del capitalismo riduce sempre di più la classe della borghesia capitalistica a un pugno di sfruttatori. In tale senso, la rivoluzione anticoloniale avvicina la rivoluzione comunista.