Partito Comunista Internazionale Indice studi africani



Le spine del Congo nella corona belga

(Il Programma Comunista, n. 16-18 del 1959)




Bruxelles, settembre


I.

La “rivolta indigena” del 4 gennaio a Léopoldville, il cui fuoco – come dimostrano episodi anche recenti – cova tuttora sotto le ceneri, riprendendo a divampare qua e là ha gettato nel panico sia gli europei residenti nella colonia, sia i loro mercenari della forza pubblica sia i capi indigeni “prefabbricati” dalle autorità coloniali.

Perfino la stampa ufficiale aveva dovuto ammettere, allora, che i rivoltosi erano soprattutto adolescenti che si trascinavano, senza lavoro e denutriti, fra le catapecchie e le maleodoranti viuzze dei quartieri indigeni, gli occhi avidi fissi sulla ricchezza insolente dei quartieri europei. Eppure davanti a questa gioventù affamata e disarmata, i “civilizzatori”, orgogliosi e ben pasciuti, si sono dati a un fuggi-fuggi intonato al grido: “si salvi chi può”. Cosa ancor più notevole, a sei mesi di distanza quella “fiammata giovanile” sfocia ora in una “crisi di autorità” che trasforma la “colonia più calma dell’Africa nera” in un vulcano sociale, sul cui terreno infido gli sgomenti rifiuti della madrepatria e gli inviati del governo belga (il ministro delle colonie, stanco d’essere il bersaglio dei fischi e dei pomidori della popolazione di colore, ha offerto le sue dimissioni: ha capito, per dura esperienza, il poveraccio, che la toppa è ormai peggio del buco) non sanno più su che piede ballare.

Accusandosi a vicenda di silurare la nuova politica di “decolonizzazione” e di avvelenare le “relazioni umane” fra bianchi e neri, gli europei levano il tacco e vanno alla deriva sotto gli sguardi ironici degli “adolescenti” e gli sguardi stupefatti dei capi indigeni venduti: mentre i “padri fustigatori” delle missioni cristiane diventano gli zimbelli degli indigeni, l’“opera grandiosa del re costruttore”, Leopoldo II, crolla nel ridicolo, e rischia di precipitare nel nulla.

* * *

In Belgio, l’union sacrée, realizzatasi il 13 giugno nel corso di una “storica” seduta della Camera riunita d’urgenza, ha ceduto il posto a una discordia nazionale che aggiunge alla cronaca già brillante dei vaudevilles nazionalisti una nuova e spassosa nota di colore. Altrove, nel mondo dei grandi imperi coloniali, “ci si squaglia all’inglese”; in Algeria, “si muore per il re di Prussia”; nel Congo belga ci si rifugia nelle sacrestie religiose e civili per recitarvi il “mea culpa”, nell’atto stesso in cui, nella metropoli, il cosiddetto rilancio economico patrocinato e diretto dalle Alte Autorità supernazionali fa apparire la classe dominante nella luce di una squallida congrega di vecchi decrepiti messo sotto consiglio di famiglia.

Il compito dei liquidatori è, bisogna riconoscerlo anche se non siamo certo noi a commiserarli, dei più umilianti. Si tratta di far inghiottire allo spettro di un’”opinione pubblica” stupefatta, drogata da un decennale oppio democratico, l’amara pillola di un “buon affare” che di colpo si rivela un “affare bacato”, e di un’ “opera di carità cristiana” di cui, d’un tratto, i beneficati non mostrano alcuna gratitudine; di farle digerire il doppio affronto di un’autorità coloniale impotente a contenere l’ondata della “purga nera” e di un’autorità metropolitana mendicante l’aiuto delle potenze finanziarie “straniere” al barcollante edificio di una prosperità di cartapesta. Non a caso gli ex-ministri socialisti di S.M., difensori ardenti e patroni giurati della comunità nazionale nei tempi delle vacche grasse, si tengono ora prudentemente in un’opposizione che lascia a social-cristiani e liberali l’ingrato mestiere di liquidare la passata grandeur, e forse mieterà loro dei voti nel giorno agognato della scheda.

Può la liquidazione, presto o tardi inevitabile, trovare un ostacolo nei miseri resti di rifiuti umani ancora residenti in colonia? No certo. Se mai questi ne sentissero il prurito, se mai volessero giocare agli “ultra” come i loro fratelli bianchi d’Algeria, basterebbe che gli “adolescenti” ridiscendano in piazza per fargliene passare il capriccio. Non ci sono forze reali – molto, molto meno che dietro le promesse di De Gaulle agli algerini – dietro la solenne promessa dell’indipendenza congolese fatta il 13 gennaio al cospetto di un “tout Bruxelles” in altissima uniforme. Sbattuto fra lo scoglio di una politica del pugno duro che non ha braccia per sostenerla, e quello di una politica della mano tesa alla quale il moto delle cose nega fiducia, che farà la classe dominante, se non abbandonarsi alla deriva? Ben altre liquidazioni sono in atto, perché il piccolo regno dai piedi di argilla possa sperare che domineddio ne la risparmi.

L’aspetto negativo di questa situazione è che la classe operaia assiste bensì con indifferenza a questo storico vaudeville, infischiandosene di un impero coloniale in cui poche migliaia di belgi s’ingrassano a spese della popolazione indigena e che, per il resto, appartiene “in piena proprietà” a qualche dozzina di grandi società private e alle missioni cattoliche, ma si dimostra non meno sorda e indifferente davanti all’entrata tumultuosa delle masse popolari congolesi nell’arena della vita sociale contemporanea, di cui non afferra, se non in piccolissime minoranze, il significato e l’importanza storica per il movimento proletario. È questo il frutto del doppio tradimento socialista e staliniano, che l’ha deviata dal cammino della rivoluzione anticapitalista per farla precipitare a due riprese nel massacro dei conflitti imperialisti e impantanarla nella melma della legalità democratica e di un riformismo imbelle.

Non a caso la saldatura nel tempo fra i moti del Borinage e i moti di Léopoldville non si è invece operata sul terreno dell’azione politica e dell’inquadramento ideologico.

* * *

Nelle tragiche condizioni di isolamento in cui i moti delle popolazioni sfruttate di colore si svolgono, nello stato d’impotenza politica che vieta al proletariato internazionale di riprendere la sua storica funzione di sola classe rivoluzionaria capace di portare innanzi, sotto la direzione del Partito di classe, la lotta per la distruzione finale dell’imperialismo, e quindi anche di imprimere un orientamento ben più maturo e avanzato al risveglio delle popolazioni indigene sottoposte al giogo coloniale, è inevitabile – anche a prescindere dalle condizioni di ambiente – che la rivolta congolese e, in genere, “negra” prenda aspetti di odio razziale e forme di xenofobia, dirette contro la “razza eletta” senza distinzione di origine sociale. Quali che siano i “pentimenti” degli “uomini di buona volontà” della sinistra borghese, intorno a questi prolungano la loro agonia “operaista-democratica” le conventicole sparute di una cosiddetta “sinistra proletaria”. È l’inevitabile risposta al feroce razzismo di inglesi, francesi e belgi (per tacere del resto), in affannosa ricerca di un “interlocutore valido”, cioè servile. È il frutto secolare di una mistificazione ideologica e di una falsificazione storica dietro le quali si cela la realtà ripugnante dei saturnali imperialistici e colonialistici europei.

D’altra parte, quest’odio razziale si incrocia fino a confondersi con un odio le cui radici sono chiaramente d’ordine sociale. Se il timbro xenofobo è particolarmente vivo nel fermento delle popolazioni negre del Congo, le sue origini profonde vanno infatti cercate nel carattere ferocemente monopolistico dello sfruttamento coloniale a opera del capitalismo belga. Questo sfruttamento poggia sulle basi di un’industrializzazione che, per quanto geograficamente localizzata in poche aree, è tuttavia senza esempio nel resto dell’Africa nera. In tutte le altre colonie le esportazioni di prodotti agricoli superano quelle dei prodotti necessari alle industrie di trasformazione di Occidente. Nel Congo belga accade l’inverso: esso è quindi molto più dipendente dal mercato mondiale e più sensibile alle fluttuazioni economiche, ai periodi di prosperità seguiti, con sempre più forti convulsioni sociali, da periodi di crisi.

Questa potente immissione di strutture industriali (almeno in campo minerario) è avvenuta e avviene a opera e sotto il controllo del grande capitale metropolitano e internazionale. La Société Générale de Belgique è, beninteso, il gruppo finanziario che si è finora assicurata la parte del leone. I suoi poteri sono illimitati: esso controlla l’amministrazione coloniale e tutte le imprese “private”, senza dimenticare l’insieme delle istituzioni civili, religiose, militari e politiche della colonia. Ma i suoi poteri non sono meno vasti in Belgio, dove la “vigilanza democratica” del Parlamento ubbidisce servilmente ai piani di politica coloniale dello Stato agente in nome della “comunità nazionale”.

Il popolamento europeo del Congo belga e del Ruanda-Urundi è naturalmente subordinato all’onnipotente e anonima presenza del Capitale finanziario. All’ombra di questo “vitello d’oro”, gli europei – 108.000, di cui 85.000 belgi – godono di una priorità assoluta sui 12 milioni di indigeni del Congo più i 5 milioni del Ruanda-Urundi, confidato al Belgio in regime di amministrazione fiduciaria dall’ONU dopo la II guerra mondiale, come in regime di mandato dalla SDN nel 1922.

Fatta eccezione per i notabili indigeni, mercenari degli europei, l’insieme delle popolazioni congolesi costituisce un’immensa riserva di manodopera alla mercè delle imprese statali, degli apparati di produzione industriale e agricola, e delle compagnie di commercio. Nessuna borghesia indigena vi si è formata, visto che i notabili non sono se non capi “fannulloni” viventi alle spalle delle loro tribù. La piccola borghesia commerciante autoctona è soffocata dalla concorrenza del commercio europeo, a sua volta assorbito nell’orbita delle grandi compagnie industriali. Da qualche anno, si è formato un “contadiname indigeno” organizzato in cooperative; ma questa esperienza non fa che ingrassare un “kulakismo” di cui beneficiano in modo esclusivo le missioni cattoliche che le tengono sotto controllo.

L’allevamento è nelle mani o degli europei o dei signori feudali del Ruanda-Urundi, mentre solo una piccola percentuale è riservata alle tribù e al contadiname indigeno. Per il resto, tutte le forze produttive dono “salariate” in qualità di facchini, scaricatori, boys, donne di servizio, e proletari addetti nelle grandi imprese minerarie, industriali e commerciali. Ai margini di questa concentrazione cittadina del capitalismo straniero va nascendo un esile ceto “evoluto” proveniente dalle scuole tecniche organizzate sotto la frusta delle missioni. Qualche centinaio di questi giovani “colti” cresciuti “in vaso chiuso”, che – eccezion fatta per i pochi privilegiati scelti tra i figli dei notabili o di “negri bianchi” – non hanno mai lasciato il suolo natio, formano il vertice intellettuale che le popolazioni congolesi hanno potuto raggiungere dopo 80 anni di paternalismo politico e di piratesco sfruttamento economico belga – tutela sterilizzatrice che, fra l’altro, ha creato fra le “élites” indigene venute a contatto con gli intellettuali africani usciti dalle università europee un senso amaro di umiliazione, un doloroso complesso d’inferiorità.

Si deve aggiungere che la presenza europea e una certa proletarizzazione diffusasi fra gli indigeni a ritmo accelerato durante la guerra mondiale (ma in parte arrestata dalla recente crisi economica) hanno determinato un rapido deterioramento delle strutture tradizionali da una parte, e uno sradicamento di masse trasferite di colpo nei centri urbani industriali e commerciali e violentemente separate dalle comunità originarie dall’altra, che sono stati troppo precipitosi per distruggere usi e costumi ancestrali e per sostituire ad essi una mentalità e forme di associazione e di solidarietà paragonabili non diciamo a quelle del proletariato europeo nascente, ma neppure a quello attuale della Cina e dell’India. Tutto ciò spiega insieme la violenza degli scoppi di furore popolare e la gracilità delle sovrastrutture politiche e ideologiche che ad essi corrispondono.




Il Programma Comunista n. 17 del 1959


Bruxelles, settembre


II.

Malgrado gli squilibri che abbiamo illustrato nel numero scorso, lo slancio del moto anticoloniale africano, che audacemente si sviluppa alle frontiere del Congo, e il colpo di frusta degli avvenimenti di Léopoldville non possono alla lunga non liberare dal peso di antichi complessi d’inferiorità i giovani partiti in cui si esprime la volontà di riscossa delle popolazioni congolesi. Alludiamo ai due raggruppamenti più notevoli: l’Abako e il Mouvement Nationaliste Congolais, visto che gli altri gruppi moltiplicatisi dopo il 4 gennaio gravitano intorno ad essi o subiscono l’influenza europea.

Il primo, le cui radici popolari vanno ora ricollegandosi alle tradizioni del famoso movimento Kibanghista anti-bianco del 1921 e anni successivi, mira a costituire uno Stato africano autonomo nella provincia di Léopoldville. Questa provincia che, insieme al Katanga, è il centro più importante dell’immenso territorio congolese (2.350.000 kmq.), è considerato dai dirigenti dell’Abako come il trampolino di lancio del moto indipendentista. La nazione-pilota ch’esso si propone di fondare nella zona di Léopoldville – da dove è partito l’incendio del gennaio scorso – si riallaccia anch’essa a un precedente storico, cioè all’esistenza nella stessa provincia, fra il XIII e il XV secolo, di un regno africano di cui rievocheremo più sotto le vicende. È un piano che non manca di audacia ed è tale da mettere in serio imbarazzo le autorità belghe che, se il progetto riuscisse, dovrebbero ricucire il manto regale della metropoli sulle dimensioni di un pigmeo.

Il secondo partito, rivale dell’Abako che accusa di particolarismo, non gode di un’influenza altrettanto diffusa e, patrocinato – almeno all’origine – dalle missioni cattoliche, rappresenta le popolazioni dell’Alto Congo che meno subiscono l’influenza europea e perfino cosmopolita regnante a Léopoldville, il centro portuale e mercantile più notevole della colonia. La sua espansione trova ostacolo nel carattere ritardatario delle regioni in cui è nato e dove i vecchi poteri indigeni conservano tuttora una certa autorità. Comunque gli ultimi avvenimenti e la concorrenza dell’altro partito lo spingono a radicalizzarsi, sebbene gli scarsi successi elettorali nel dicembre 1957 e il fatto di non essere stato sciolto dopo i casi del gennaio 1959 non giovino a renderlo popolare. D’altra parte, il suo obiettivo di salvare l’“unità geografica” del Congo belga mal si concilia col fatto che questa unità è soltanto il prodotto dell’artificioso spezzettamento dell’Africa in zone d’influenza ad opera degli imperialismi inglese, francese, tedesco, portoghese e belga. Sotto quest’aspetto, la posizione dell’Abako appare più realistica, perché si fonda su gruppi etnici di maggior stabilità e di più lunga durata, che possono rappresentare un centro di attrazione tanto più notevole, in quanto dalla stessa sede geografica si irradia da oltre 80 anni il potere dell’autorità coloniale europea, mentre il MNC, volendo abbracciare e conservare lo status quo geografico e politico del Congo belga, rischia di sfasciarsi sotto l’urto dei particolarismi che inevitabilmente si scateneranno in seguito all’indebolirsi e infine allo scomparire delle forze colonialiste. Comunque, il MNC si dichiara per l’indipendenza immediata, per la formazione di un governo propriamente africano, e contro la “comunità belga-congolese”.

Accanto a questi due partiti, si è formata di recente l’Union des Travailleurs Congolais, prima organizzazione sindacale strettamente africana, che si contrappone ai sindacati europei addomesticati. (Notiamo fra parentesi che non esistono finora né leggi autorizzanti gli indigeni a costituire sindacati indipendenti dalle autorità sindacali europee, né il diritto di riunione o la libertà di stampa in senso proprio). Per tutti questi raggruppamenti, le prospettive future dipendono dal grado in cui l’evoluzione spontanea e la pressione violenta delle masse, anche in rapporto agli sviluppi politici e sociali nel complesso dell’Africa nera, si rifletteranno sulla combattività delle élites odierne e sulla composizione sociale dei loro quadri. Non va dimenticato che ostacoli economici e sociali giganteschi frenano la maturazione di una coscienza politica autonoma nelle popolazioni indigene. Gli avvenimenti di Léopoldville hanno aperto un periodo di marasma sociale e di agitazione popolare in cui riaffiorano di giorno in giorno le tare secolari del paternalismo bianco. L’eredità lasciata dai “benefattori belgi” si rivela sempre più come una delle forme più stomachevoli di sfruttamento da parte europea di quelle popolazioni indigene dell’Africa Centrale ch’essi proclamavano di voler innalzare al livello di vita di cui “godono i popoli civili”.

I 9/10 dell’immenso territorio sono tuttora coperti da una rete di strutture arcaiche in seno alle quali gli indigeni oscillano fra la carestia e la fame. Le autorità coloniali, molto democratiche, molto progressiste e molto cristiane, si aggrappano ai corrotti potentati indigeni dei centri tradizionali al fine di prolungare un’agonia che rende ancor più faticosa la rinascita politica delle popolazioni congolesi. Tocca ai movimenti nuovi estirpare per sempre i signorotti indigeni reazionari che, tremando per la propria sorte, invocano gli impegni contratti dal “re negriero” Leopoldo II, all’atto della fondazione del suo infernale impero africano, in vista del mantenimento dell’autorità tradizionale! Ma essi potranno farlo solo col concorso delle masse popolari concentrate nelle grandi città industriali e mercantili, in attesa del concorso decisivo – e per ora assente – del proletariato metropolitano europeo e, in particolare, belga. Sapranno essi, sotto questa spinta “di massa”, liberarsi dalla influenza sterilizzante dei veicoli della “coesistenza pacifica e democratica”, importata dall’Occidente in putrefazione come dall’Oriente in affannosa corsa a “raggiungere” il modello occidentale? Lo dirà il prossimo avvenire. Conviene, frattanto, rievocare la storia del passato politico del Congo, i cui riflessi riappaiono evidenti – come si è accennato – nei programmi dei partiti indigeni.


Un po’ di storia

Nell’epoca in cui l’Europa, uscendo faticosamente dal Medioevo, vedeva nascere i primi Stati borghesi ancora sotto la ferula delle monarchie “di diritto divino”, esistevano già nell’Africa Nera potenti unità etniche le cui organizzazioni politiche, più o meno apparentate col feudalesimo europeo, godevano tuttavia di una stabilità ben maggiore a causa della lontananza geografica dai grandi centri commerciali e civilizzatori del Mediterraneo e, più tardi, della Costa Atlantica. Ma si trattava di una stabilità tutta “provinciale” che, se era al riparo dai grandi tumulti sociali e militari della fascia mediterranea, non era tuttavia il frutto di un’evoluzione autonoma e, men che mai, di condizioni di vita “paradisiache”. Sotto la vampa infernale dei tropici, chiusi da un’insormontabile cintura di foreste vergini e, più oltre, di deserti, i popoli congolesi lottavano tenacemente contro condizioni materiali fra le più ostili alla razza umana e, se le forme di organizzazione sociali ch’essi si diedero meritano tanto più l’ammirazione dello storico, era inevitabile che, per la loro stessa evoluzione ai margini delle grandi correnti di civiltà del mondo mediterraneo, esse restassero prigioniere di un lento processo di decomposizione del comunismo primitivo, e incapaci di superarlo in seguito ai colpi mortali vibrati dal flagello colonialista e, al suo riparo, dalla corruzione dei capitribù.

Fra le popolazioni dell’Africa Occidentale che raggiunsero il livello del Regno, quelle stabilitesi nel Basso Congo furono indubbiamente le più notevoli. Di tutte le monarchie e i sultanati susseguitisi dall’inizio del primo millennio d.C. al secolo XIX nell’altopiano dominante la fossa centrale congolese, il Regno del Basso Congo è, invero, l’unico che si sia distinto nella storia mondiale, intrattenendo rapporti non solo con le prime monarchie europee marinare del Portogallo e dell’Olanda, ma perfino con la Santa Sede (giacché fu pure il solo ad adottare il cristianesimo come mezzo per accrescere il prestigio e rafforzare i privilegi della gerarchia dominante) e sopravvivendo per tre secoli circa nella stessa zona che nel gennaio 1959 fu teatro della rivolta popolare negra.

Prima di descriverne la storia, corre l’obbligo di mettere in evidenza la natura dei rapporti che le popolazioni del Basso Congo intrattenevano allora con quelle dell’interno e soprattutto coi pigmei, la cui sparizione attuale è oggetto della curiosità degli etnografi borghesi e delle filantropiche cure delle missioni cristiane. La tradizione orale delle popolazioni congolesi vuole che i pigmei fossero i primi occupanti del Basso Congo, in parte sommersi da popolazioni bantù immigrate da lontane Regioni dell’Africa Orientale. Comunque, ai tempi del Regno del Basso Congo, essi non erano, come oggi, “paternamente” chiusi in apposite “riserve”, ma trattati con rispetto dalle tribù dominanti sia perché la loro grande abilità nella caccia alle bestie feroci e agli elefanti selvatici li rendeva preziosi, sia perché il loro senso di orientamento nella foresta equatoriale, e il loro celebre fiuto, li rendevano indispensabili strumenti della penetrazione e del dissodamento delle terre nuove. Molti, perciò, vivevano da sedentari in seno alle tribù degli “invasori”, con le quali praticavano l’agricoltura come lavoratori liberi e mantenevano con esse rapporti di “buon vicinato”, anche se in regime di dipendenza politica. Non avvenne lo stesso con gli invasori bianchi: decisi a non lasciarsi addomesticare e, d’altra parte, incapaci di opporre una resistenza efficace sul piano della forza, i pigmei si salvarono “scomparendo” nel dedalo delle foreste vergini e conducendo una vita di fiera indipendenza più volte millenaria, che si concluse nella quasi totale sparizione della razza senza che i boia del colonialismo avessero bisogno di falciarli col ferro e col fuoco.

Ma ritorniamo al Basso Congo. Secondo gli etnologhi borghesi (non tutti concordi e sempre sospetti) e anche secondo certe cronache dell’epoca, il Regno del Basso Congo sarebbe stato fondato verso la fine del XIII secolo da popolazioni di razza bantù provenienti dal Sud-Est dell’Africa nel corso di una lunga e tortuosa migrazione storica. Giunte sulle rive atlantiche, alla foce del fiume Congo, queste sarebbero state all’origine della formazione di un regno conservatosi immune dall’influenza mediterranea, poiché né egiziani, né arabi penetrarono mai nell’Africa Centrale, né si spinsero lungo le Coste Occidentali del Continente. Inutile dire che contatti ebbero luogo con tribù distaccate gravitanti verso i centri della fascia nord-africana; ma è un fatto che le caratteristiche sociali, politiche ed economiche proprie delle civiltà e degli Stati dell’Africa del Nord e del Sud-Sahariano, non risultano presenti nel Regno del Basso Congo nel momento in cui i primi pirati europei vi sbarcarono. Se vi si notano influenze straniere, esse si limitano a elementi materiali della tecnica agricola, mentre non interessano affatto le strutture sociali, il cui tratto dominante e più notevole è la presenza ancora vivacissima del comunismo primitivo.

Nel 1484, il territorio del Regno, ora diviso tra la Francia, il Portogallo e il Belgio, raggiungeva una superfice di 300.000 kmq., non comprese le aree che subivano in modo più o meno diretto la sua autorità. Lo reggeva una monarchia non ereditaria ma elettiva, giacché il sovrano era scelto, alla morte del predecessore, da assemblee di capi delle tribù federate e vassallizzate dal potere regio, ed era diviso in province e distretti sulla base delle origini etniche, pre-bantù e bantù, delle popolazioni del luogo, controllate a loro volta da capi riconosciuti e sostenuti dalle tribù. La vita sociale era ancora fortemente impregnata da infrastrutture essenzialmente comunitarie, basate su un regime fondiario in cui le terre coltivate e quelle “vacanti” erano a disposizione delle tribù secondo il loro fabbisogno in prodotti agricoli e in riserve di caccia. Esisteva la schiavitù, ma limitata a una “domesticazione” che alla lunga si trasformava in assimilazione alla tribù: bisognò attendere l’arrivo dei “colonizzatori europei” perché il traffico degli schiavi celebrasse i suoi orrori.

La caccia, la pesca, la raccolta dei frutti spontanei, completavano la produzione agricola, eliminando il ricorso al cannibalismo di cui soffrivano ancora le popolazioni dell’interno, e che ricomparve con violenza sotto il regno del grande re bianco Leopoldo II perpetuandosi tuttora in alcune regioni, di recente messe in “quarantena” per risparmiare una poco gloriosa fine di carriera al forcaiolo colonialismo belga.





Il Programma Comunista n. 18 del 1959

Nei due articoli precedenti, si è tracciato un breve quadro della situazione attuale nella Colonia belga, e si è iniziata la rapida rievocazione del passato storico-politico indigeno, con particolare riguardo al Regno del Basso Congo prima dell’avvento dei colonizzatori europei.

III.

Le tecniche produttive avevano raggiunto, nel Regno del Basso Congo, un livello notevole: il ferro, il rame, l’oro e i diamanti estratti dal sottosuolo venivano lavorati localmente, e gli stessi esploratori del XIX secolo dovettero constatare che il ferro allora prodotto era di qualità superiore a quello di produzione europea. L’artigianato fabbricava armi, vasi, mobili, tessuti, gioielli, e si distingueva particolarmente nell’intaglio su avorio e su legno con prodotti che l’antiquariato europeo del nostro secolo lancerà sul mercato a prezzi favolosi.

Nelle campagne non si praticava l’allevamento in grande: predominava il bestiame minuto e da cortile – porci, montoni, capre, polli – perché i flagelli del paludismo e della malattia del sonno decimavano le mandrie dei buoi selvatici e di altri animali di grossa taglia, mentre erano sconosciuti il cavallo e il cammello, tuttora assenti dal quadro del paesaggio congolese. La scarsità di bestiame giustificava d’altra parte, sul piano storico, la riduzione in stato di schiavitù dei rappresentanti delle tribù sottomesse. L’agricoltura, in ragione delle particolarità del suolo e delle vaste estensioni equatoriali, era praticata sulla base della proprietà collettiva della terra e del lavoro in comune: la peste della piccola proprietà non aveva attecchito e, del resto, stenterà a diffondersi anche sotto l’insegna dei colonizzatori bianchi – elemento che si dimostrerà certo positivo negli sviluppi futuri delle lotte di classe e delle forme politiche ad esse corrispondenti.

Fino all’arrivo dei cavalieri-crociati del mercantilismo Occidentale col loro bagaglio di ideologie a sfondo individualistico, i rapporti sociali furono risparmiati (a prescindere dalla schiavitù, fenomeno tipico, del resto, di tutte le antiche civiltà, anche le più evolute) da forme arcaiche di arricchimento di una classe oziosa mediante l’oppressione e lo sfruttamento delle classi produttive. Il Regno non era ancora uscito dalla fase storica in cui gli uomini sono valutati in quanto forze di utilizzo produttivo sociale in un senso esteso alla comunità intera, non in quanto detentori di ricchezze acquisite sfruttando il lavoro altrui. Gli uomini procedevano al raccolto, alla coltivazione, alla pesca e alla caccia, senza essere tenuti ad altro che al rispetto delle leggi di una solidarietà inter-tribale imperante in tutto il Regno sotto il triplice aspetto dell’aiuto alimentare reciproco, della libera circolazione sulle terre, e della mutua assistenza in guerra. Vigevano legami di solidarietà per cui, salvo in casi di carestia generale, nessuno era condannato a morir di fame, e non esistevano “orfani e vedove”, nel senso che tutti trovavano nella comunità i mezzi per vivere o, se necessario, sopravvivere. Un quadro, insomma, di perpetuazione (nelle linee generali) del comunismo primitivo.

Ma la situazione interna del Regno del Basso Congo, esteriormente statica anche quanto a rapporti sociali, andava tuttavia deteriorandosi sotto la pressione dello sviluppo delle forze produttive che, pur non essendo ancora industriali, si erano ormai troppo sviluppate per poter essere mantenute entro i confini di una economia e di un mercato ristretti. Scambi avvenivano già fra le regioni situate lungo le coste, le strade e le vie d’acqua; l’artigianato fioriva parallelamente allo sviluppo dei bisogni materiali nelle popolazioni dell’interno, produttrici a loro volta di avorio e pelli e pronte a scambiarli contro derrate alimentari, manufatti ed armi. Così, pur senza dar luogo a nette divisioni di classe, cominciava a profilarsi una decomposizione dei rapporti tradizionali di cui l’aristocrazia regia doveva necessariamente trarre profitto, sebbene il suo arricchimento non andasse oltre i limiti della tesaurizzazione e non incidesse sulle basi generali di una struttura economica severamente regolata dai diritti consuetudinari in cui si riflettevano le condizioni obiettive di vita delle popolazioni indigene. Le rivolte contro il dispotismo di singoli capitribù, gli attacchi di tribù non ancora sottomesse, le incursioni di tribù affamate, e altre manifestazioni di disagio, turbavano solo superficialmente l’equilibrio instabile determinato dal gioco alterno di pesi e contrappesi a cui poli estremi si trovavano le consuetudini economiche e sociali del passato da una parte, e la spinta delle forze produttive in espansione dall’altra.

Questo equilibrio instabile doveva essere definitivamente rotto dallo sbarco dei primi mercanti e soldati europei, che, lungi dall’elevare il Congo al superiore livello di civiltà di cui si vantavano esponenti, ne precipitarono il crollo e infine lo cancellarono per secoli dalla storia africana.

Sbarcati nel 1482-83 alla foce del gran fiume equatoriale, e trovatisi di fronte a una struttura politica come il Regno del Basso Congo che, sebbene non rigida, non costituiva tuttavia un fragile aggregato di tribù soggiogabili con pochi colpi di cannone, i portoghesi sotto Diego Cam inviarono una prima ambasceria al re indigeno, che risiedeva a Banza (poi ribattezzata in San Salvador): deciso a difendere l’orgogliosa indipendenza congolese, il sovrano trattenne i messi europei come ostaggi, e Cam ripartì per Lisbona portando con sé un piccolo gruppo di indigeni, catturati per ritorsione e in vista di futuri contatti col prezioso territorio. Sembrava che non dovesse più tornare, e invece…

Il secondo atto del dramma si verificò pochi anni dopo, quando i portoghesi effettuarono un secondo sbarco inviando al re del Basso Congo una nuova ambasceria composta degli indigeni precedentemente catturati, che a Lisbona politici e religiosi avevano saggiamente provveduto a convertire, europeizzare e “condizionare”. Istruiti dai missionari, ottennero ciò che i navigatori si proponevano: impressionarono il re col racconto delle prodigiose ricchezze del Portogallo, ne lusingarono la vanità con un trattamento in condizioni di apparente parità, infine lo allettarono con l’esca di onori e di ricchezze. Il sovrano non solo si convertì, ma obbligò a fare altrettanto i dignitari di corte prima, i sudditi poi, e cominciò ad aprire agli europei le vie di un commercio che si rivelò ben presto non solo come scambio di prodotti, ma come traffico di carne umana, come feroce schiavismo. Spezzato l’isolamento economico e politico tradizionale, il Congo cadde preda degli “insetti vettori” dello sfruttamento coloniale: prima l’importazione di manufatti e l’esportazione di materie prime, poi l’alcolismo, le malattie veneree, l’oppio di una religione ben presto alleatasi coi riti magici primitivi, la corruzione al vertice come alla periferia, il commercio degli schiavi e la disgregazione del tessuto sociale e politico tramandatosi nei secoli.

In quest’opera, i colonizzatori bianchi fecero leva di volta in volta sulla corruzione dell’autorità regia, che prese ad inviare a Lisbona i suoi figli perché vi studiassero e facessero carriera come amministratori o come preti (il figlio di un signore locale, Afonso I, divenne il primo vescovo e vicario apostolico del Congo), e su quella dei signorotti delle provincie, che furono ben lieti non solo di commerciare, ma di offrire agli invasori il corpo e l’anima dei fratelli di sangue e di tribù. Frattanto, rapporti diplomatici si allacciavano pure con altre potenze europee e con la stessa Santa Sede: erano così gettate le basi della “santa alleanza” fra colonizzatori bianchi e potentati indigeni (spalleggiati dalla santa alleanza fra missionari cattolici e stregoni) e l’equilibrio instabile di cui parlavamo ne uscì definitivamente rotto. Il Regno era irrimediabilmente condannato a morte.

Il processo si svolse non senza gravi scosse: diverse tribù particolarmente colpite dal flagello dello schiavismo si ribellarono, in alcuni casi costringendo il re a chiedere la protezione interessata della Santa Sede (la quale lo rinviò alla benevola tutela della… Provvidenza) contro la minaccia di spopolamento e quindi di decadenza economica e civile del Paese, in altri costringendo sulla difensiva le forze unite del re e dei portoghesi. Ma questi ultimi, d’altra parte, avevano buon gioco nello sfruttare le rivalità fra tribù e tribù e nel manovrare i potentati minori contro i maggiori, e viceversa, mentre l’invasione del regno da parte delle guerriere ed orgogliose tribù degli jagga, verso la metà del Cinquecento, costringeva i potentati bantù, il re in prima fila, a sollecitare l’aiuto militare dei bianchi – i quali furono ben lieti di soddisfare la richiesta in quanto giungeva in buon punto per consentir loro di estendere le ricerche minerarie e di allargare il raggio del traffico degli schiavi. Tutto cospirava, dunque, contro l’indipendenza congolese.

Il declino della supremazia portoghese avvenne nel secolo XVII inoltrato, quando la decisione del re di concedere ai bianchi una certa estensione di terre provocò la rivolta di alcune tribù e, soprattutto, della provincia di Sogno: infatti, la cessione di terre a stranieri in proprietà privata colpiva alle radici il diritto consuetudinario in forza del quale il suolo era un bene collettivo in funzione degli interessi e dei bisogni della comunità. La rivolta divenne guerra, e infine i portoghesi vennero respinti sulla riva sinistra del Congo e nella vicina colonia dell’Angola, mentre gli olandesi, che già nel 1642 avevano inviato ambascerie al re del Congo, si sostituivano loro nel controllo dei mercati e dei porti, senza spingersi nell’interno e mostrando una maggior abilità diplomatica nei rapporti con gli indigeni, ma rivelandosi nella realtà pratica non meno avidi e spietati dei predecessori. I secoli successivi videro affacciarsi alla costa occidentale africana altre potenze europee, gli olandesi spostarsi verso il sud-Africa, i portoghesi riguadagnare in parte il terreno perduto, il Regno del Congo decadere e infine divenire l’ombra di sé stesso, prima che nel 1876, dopo le grandi scoperte geografiche di Livingstone e Stanley, Leopoldo del Belgio fondasse la “Società Internazionale per l’Africa”, nel 1885 il Congresso di Berlino riconoscesse il “Libero Stato del Congo” da essa colonizzato e, nel 1908, questo passasse sotto il dominio diretto del Regno Belga.

Prima di seguire quest’ultimo percorso della storia congolese, dobbiamo notare che il Regno del Basso Congo, se fu la struttura politica indigena di gran lunga più importante, non fu tuttavia l’unica. Nel secolo XVII cadde sotto la pressione bianca il Regno dei Bakuba – celebre per la raffinatezza a cui era pervenuta la sua arte – situato fra il Cassai (nome portoghese del fiume Kasai) e il Sankuru e fondato già nel VI secolo da tribù forse provenienti dalle savane sudanesi. Una vita un po’ più lunga ebbero l’Impero dei Baluba, fondato nel XVII secolo ed esteso sulle zone più interne del bacino fino al Tanganika, e quello dei Lunda, situato sugli altopiani del Cassai e allargatosi nel secolo XVI fino all’Angola, mentre sui primi del secolo scorso dilagò dal Tanganika nelle Regioni confinarie del Congo l’Impero dei Mitsiri. Non è qui il caso d’indugiare su questi Stati marginali se non per mettere ancora una volta in rilievo il fatto che, prima dell’invasione e colonizzazione bianca, l’immenso territorio si era già dato originali strutture politiche: contro la mitologia dell’imperialismo, l’apparizione dei “civilizzatori” europei fu il segnale non già di un’ascesa dell’Africa negra verso forme superiori di vita, ma del suo inesorabile inaridimento economico, sociale, politico, culturale.