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Africa gigante in marcia

(Il Programma Comunista, n. 2 e 3 del 1959)




Il Programma Comunista,
N° 2, 1959

Se noi seguiamo con entusiasmo il processo di rinnovamento in corso in Africa, in Asia e – sotto aspetti diversi – nell’America latina in rivolta contro la soffocante oppressione economica statunitense, non è soltanto per ragioni di strategia politica, ma anche di polemica teorica. A chi infatti può sfuggire che la rivolta delle popolazioni più arretrate della Terra contro gli Stati delle nazioni più sviluppate ma sfruttatrici conferma la giustezza della dottrina marxista del materialismo storico e vibra un colpo formidabile all’idealismo borghese e ai suoi sottoprodotti? Argomento fondamentale dei nemici del marxismo è che la “ignoranza” del proletariato impedisce, e impedirà sempre, l’organizzazione di un Partito rivoluzionario capace non solo di rivoltarsi alla dominazione delle classi “colte”, ma di prendere la direzione del corpo sociale. Secondo il filisteo borghese, la direzione della società spetta alle classi “depositarie” della cultura – in effetti, in regime capitalista, il ceto intellettuale è soltanto il servitore dorato della classe capitalista – per cui le classi lavoratrici, che dalla cultura sono escluse, non potrebbero giammai sperare di scalzare il potere di classe che le sovrasta. Orbene, quanto sta avvenendo nelle ex colonie prova appunto la falsità di questi ragionamenti.

Non dalla cultura si passa al potere, ma viceversa. Popoli che, pur con un passato notevole o addirittura glorioso di civiltà, restavano confinati in una arretratezza paurosa, ecco che, scacciati gli oppressori colonialisti, si avviano a passi da gigante verso i vantati traguardi della cultura e della tecnica moderna. Popoli fino a ieri ancora inchiodati a forme arcaiche di convivenza si ergono orgogliosamente in piedi, e non v’ha dubbio che in breve si porranno all’altezza delle tracotanti nazioni “bianche”. Ciò sta a provare che anche la cultura è un fatto di forza sociale, cioè si conquista distruggendo gli ostacoli di classe che impediscono la diffusione delle conquiste del sapere e ne fanno il monopolio di gruppi sociali privilegiati. Nei Paesi “civili”, che cosa impedisce alla classe operaia di uscire dall’“arretratezza” culturale? La sua condizione di classe sfruttata. Il potere borghese, impossessandosi anche delle più piccole molecole di energia vitale dei salariati e sperperandole in un regime di produzione pazzesco, non permetterà mai alla classe operaia di “conquistare la cultura”.

Bisognerà spezzare gli ordinamenti sociali capitalistici, buttare nella fogna lo Stato nazionale, avviare la produzione con criteri rivoluzionari che sopprimano la schiavitù salariale ed aziendale, perché il proletariato cessi di essere un automa sociale incatenato giorno e notte alle macchine. Solo allora, liberatosi dalla condanna del lavoro forzato salariale, esso potrà “conquistare la cultura”, rompere il monopolio che la classe borghese ne detiene.

Tali considerazioni ci sono venute spontanee leggendo i resoconti del Congresso pan-africano tenutosi ad Accra, capitale della Repubblica di Ghana, dall’8 al 13 dicembre 1958. Mentre la “cultura” della decadente Europa imputridisce e le risorse degli “intellettuali” sono al servizio della più infame delle reazioni, fa impressione vedere come uomini sorti da popoli che, secondo lo sconcio razzismo bianco, mai avrebbero potuto sollevarsi da una condizione da bestie da soma, si alzino in piedi, pensino da uomini, dicano cose che mai uscirebbero dalle bocche degli intellettuali nostrani, usi a conquistarsi da vivere prostituendosi al capitalismo.

Più che la personalità di Kwame N’ Krumah, il vecchio combattente dell’anticolonialismo e primo ministro di Ghana, o di altri leaders del moto di indipendenza africano, è emersa dallo storico Convegno la figura di Tom Mboya, un giovane di 29 anni che dirige la Federazione del Lavoro del Kenya. Senza voler fare della retorica, l’assemblea ha sentito riecheggiare nelle fiere parole di costui lo spirito di rivolta e la brama di giustizia di un intero Continente che da oltre quattro secoli subisce la più infame delle oppressioni. Gli interventi di Mboya hanno, d’altra parte, confermato come nel movimento anticolonialista africano esistano diversità di correnti e di metodi, di cui già altra volta abbiamo informato i lettori, e come sia insopprimibile la corrente rivoluzionaria.

Già il fatto che l’assemblea lavorasse in una sala sulle cui pareti correvano striscioni parafrasanti passi immortali di testi marxisti, ispira simpatia e solidarietà per quei coraggiosi combattenti di una causa giusta. Una iscrizione diceva: “Popoli di tutta l’Africa, unitevi. Non abbiamo niente da perdere se non le nostre catene”. È la chiusa del Manifesto dei Comunisti adattata alla rivoluzione democratico-nazionale africana. Ora noi sappiamo bene che questa non ha né può avere per obiettivo immediato il socialismo. Ma sappiamo anche le sopravvissute isole di comunismo primitivo, riscontrabili nella proprietà collettiva della terra ancora largamente diffusa nel Continente, possono imprimerle un corso suscettibile di facilitare in futuro la saldatura tra la rivolta nazionale dei popoli africani, e la rivoluzione anticapitalistica del proletariato internazionale.

Il Congresso ha rappresentato una pietra miliare nella storia della nuova Africa. Mai avvenimento simile si era prodotto nella storia del Continente. A ragione Kwame N’Krumah poteva esclamare aprendo i lavori: «Il mio orgoglio di africano straripa nel vedere tanti compagni d’arme che si sono sempre battuti per un’Africa libera e unita, qui raccolti, in territorio africano libero, per la prima volta nella storia del nostro Continente nero».


Passato e presente

Già altre volte, il movimento indipendentista africano ha dato vita a importanti Conferenze. Ma nessuna aveva raggiunto il livello del Congresso di Accra, che ha veramente assunto una rappresentatività continentale, e – fatto di gran lunga più importante – ha chiaramente definite le posizioni politiche delle correnti in cui si differenzia il movimento. Vi partecipavano delegati di movimenti politici, associazioni sindacali e partiti di 25 Paesi nei territori del Continente, cosicché si può dire che l’assemblea aveva un carattere pan-africano. Già questo dato di fatto mostra come il movimento rivoluzionario africano abbia fatto in questi ultimi tempi enormi progressi e come nei popoli del Continente si faccia sempre più chiara la coscienza del grande trapasso storico in atto.

Quando Kwame N’Krumah, proseguendo nel suo discorso, esaltava lo spirito unitario dei “combattenti per la libertà” africana, non faceva certo della retorica. Solo i ciechi possono non vedere che il colonialismo è arrivato alla sua estrema agonia e che tra breve tutta l’Africa sarà libera. «L’unità deve essere la pietra angolare delle nostre azioni. Tutte le energie devono essere dedicate alla costituzione di un largo fronte nazionale di partiti politici aventi come base lo stesso scopo: la sollecita liberazione dei Paesi soggetti, la liquidazione del colonialismo, la liquidazione dell’imperialismo, la liquidazione del razzismo e delle lotte tra le tribù. Non permettiamo alle potenze coloniali di divederci, perché esse approfittino dei nostri dissensi; non dimentichiamo mai che il nostro Continente è stato conquistato perché i nostri popoli erano divisi. L’Africa deve diventare libera nello spazio di vita della nostra generazione. Questo decennio è il decennio dell’indipendenza dell’Africa».

Non da oggi ripetiamo che il più grande accadimento storico dopo la rivoluzione socialista del 1917 è lo sconvolgimento che, alla fine della seconda carneficina mondiale, ha messo in moto i popoli afro-asiatici. Il proletariato rivoluzionario non può non fare suo l’augurio che i prossimi dieci anni vedano la cacciata degli oppressori colonialisti dall’Africa, eredi non degeneri degli antichi mercanti di schiavi che un tempo salpavano dai porti atlantici dell’Europa. Ma nessuno, e gli stessi delegati al Congresso se ne rendevano perfettamente conto, può illudersi che la lotta intrapresa possa svolgersi altrimenti che in condizioni di estrema durezza, come dimostra il massacro permanente perpetrato dai francesi contro i popoli dell’Algeria e del Camerun, la feroce politica di discriminazione razziale che afrikaner e coloni inglesi svolgono nel Sud Africa, nella Rhodesia e nel Kenya, l’ultra-reazionaria politica coloniale dei fascisti portoghesi di Salazar nell’Angola e nel Mozambico. Ma il nemico peggiore è rappresentato, non tanto dalle tradizionali rivalità tra tribù che ritardano la formazione di grandi entità statali, quanto dalle correnti collaborazioniste che minano il movimento, accodandosi alla insidiosa politica di “riforme” sbandierata dai governi delle metropoli colonialiste: insomma, dagli strati sociali, per fortuna non determinanti, che esprimono interessi particolari legati ai monopoli colonialisti, e dai politicanti inseriti nella macchina burocratica della amministrazione coloniale.

Già ad un’altra importante Conferenza, il Congresso di Bamako, (20-25 settembre 1957), i partigiani di un’azione energica nei confronti del colonialismo erano riusciti ad affermare il principio federale contro l’ala tendenzialmente collaborazionista, che sosteneva il principio opposto dell’unionismo, cioè della unione dei vari territori, eretti in organismi statali autonomi, con la metropoli coloniale. Si teneva allora il Congresso del Rassemblement Démocratique Africain, una grande formazione politica che affilia vari partiti e movimenti dell’Africa Occidentale francese. Contro le speranze dei rappresentanti dell’ala moderata, capeggiata dal presidente del RDA Houphouët-Boigny, già ministro di Mollet e di De Gaulle, i delegati di tendenza radicale si alzavano a criticare la linea politica del movimento. Mentre Houphouët-Boigny si dichiarava soddisfatto della legge-quadro come di una grande conquista del movimento, i suoi collaboratori (d’Arboussier, Sékou Touré) controbattevano che la riforma istituzionale così promossa si giustificava solo se interpretata in senso federalistico. Infatti, nelle mani dei suoi autori, la famosa “loi-cadre”, vantata dalla socialdemocrazia francese come un toccasana delle contraddizioni provocate dal colonialismo, mirava, sobillando il particolarismo locale, a quella “balcanizzazione” dell’Africa Occidentale che Léopold Senghor, il leader della Convenzione africana del Senegal, per primo ha denunciato.

Tra le opposte tesi nasceva un conflitto che parve dovesse sfociare in una scissione, perché Houphouët-Boigny si ritirava dalla sala. È vero ch’egli poi acconsentiva a restare a capo del RDA; ma che si trattasse di una soluzione artificiosa lo si vide all’epoca del referendum gollista sulla Costituzione francese. L’RDA si schierava a favore della “comunità franco-africana” ma non poteva evitare fratture e, infine, la proclamazione dell’indipendenza della Guinea da parte di Sékou Touré.

Pochi mesi prima, il 18 febbraio 1958, i delegati dei tre maggiori partiti africani, cioè l’RDA, la Convenzione Africana di Léopold Senghor e il “Movimento Socialista Africano” di Lamine Guèye, firmavano a Parigi un documento che sanzionava la loro fusione in un grande partito unitario, poi chiamatosi “Partito del Raggruppamento Africano”. Programma minimo della nuova formazione, che esaudiva un voto espresso dal Congresso di Bamako, la revisione della legge-quadro e il riconoscimento di una maggiore autonomia ai governi dei territori dell’Africa Occidentale ed Equatoriale francese (AOF e AEF).

Si foggiava così uno strumento di lotta che soddisfaceva all’esigenza di unità e al bisogno di fronteggiare le manovre scissioniste delle autorità colonialiste tendenti a perpetuare le attuali divisioni amministrative dei territori; ma si ripiegava ancora su formule di compromesso. Prevaleva l’ala conservatrice del movimento, secondo cui non si deve arrivare alla rottura dei legami con la Francia, potendosi ottenere l’indipendenza nel quadro della “comunità franco-africana”.

Dal 25 al 28 luglio 1958, cioè a due mesi dalla salita al potere di De Gaulle, il fronte comune dei partiti nazionalisti teneva il suo primo Congresso a Cotonou, nel Dahomey. I 350 delegati vi approvavano all’unanimità una mozione che chiedeva alla Francia l’immediato riconoscimento dell’indipendenza dei popoli dell’Africa Nera, ma ribadiva la vecchia tesi della indissolubilità dei legami fra metropoli e possedimenti d’oltremare. Bisogna tener presenti questi dati di fatto, per comprendere come sia riuscito al regime gollista il colpo del referendum. È lecito pensare che la Francia non avrebbe arrischiato la carta della “consultazione” delle popolazioni africane se la direzione conservatrice e filo-francese del partito del Raggruppamento Africano non avesse dimostrato di poter influire sull’elettorato. Ma lo RDA appare in crisi, mentre si rafforzano altri partiti, come il PAI (Partito Africano dell’Indipendenza) che si oppongono alla politica di collaborazione.




Il Programma Comunista, N° 3, 1959

Il Congresso di Accra è coinciso con uno svolto importante nella storia del Continente. Il referendum gollista del 28 settembre non si è chiuso in maniera del tutto soddisfacente per la Francia: esso ha dato luogo a trasformazioni politiche che hanno mutato la carta politica del Continente, anche se almeno per ora non pongono in crisi la dominazione coloniale.

La clamorosa secessione della Guinea, che votava contro la conservazione dei vincoli con la Francia e sceglieva l’indipendenza, aveva il suo logico epilogo il 2 ottobre, data della proclamazione della Repubblica. Altri territori, pur restando nell’ambito della “comunità franco-africana”, optavano per la terza formula costituzionale prevista dal referendum (status quo, Dipartimento d’oltremare, Stato associato). In tal modo, venivano a formarsi i nuovi “Stati” del Sudan, del Senegal, del Gabon, della Mauritania, del Ciad e del Medio Congo che, dal 24 al 29 novembre, si proclamavano Repubbliche. Un po’ prima, il 14 ottobre, il Madagascar, che da 62 anni subiva una pesante dominazione coloniale, ritornava a essere indipendente, sia pure in maniera formale.

Certo, l’indipendenza dei nuovi “Stati associati” non ha nulla in comune con l’indipendenza effettiva ottenuta dalla Guinea e, prima di questa, dal Ghana. C’è di più. La frettolosa decisione dei dirigenti locali di dare a territori, le cui delimitazioni confinarie hanno servito finora agli interessi della potenza dominante, la forma sospetta di “Stati” indipendenti, minaccia di favorire il processo di “balcanizzazione” dell’Africa, cioè della divisione del Continente in una pleiade di staterelli deboli e inermi, divisi per di più dalle roventi questioni irredentistiche che senza dubbio verrebbero alla luce, se dovesse toccare a governi “nazionali” risolvere i problemi etnici creati deliberatamente dal colonialismo.

Si sa che, dall’epoca del Congresso di Berlino, artificiose barriere politiche sono state erette tra popolo e popolo, tra tribù e tribù, e nel seno stesso delle nazioni e delle varietà razziali. Evidentemente, solo un grande organismo statale a base federale sarebbe in grado, oltre che di avviare il non facile processo di industrializzazione, di assicurare la pacifica coesistenza dei popoli e delle lingue. Molto spesso, nel passato, gli stessi leaders che pretendono di restar fedeli alla Francia hanno discusso l’appassionante questione degli Stati Uniti d’Africa. Ma il primo passo verso questa grande meta doveva esser compiuto da coloro i quali hanno compreso che condizione indispensabile alla unificazione politica del Continente e della costituzione di grandi entità statali africane è la conquista della indipendenza completa.

L’annuncio dato il 23 novembre 1958 della proclamazione della federazione tra i giovani Stati di Ghana e di Guinea ha segnato veramente una tappa nella storia moderna del Continente. L’iniziativa giungeva a tempo. Bisognava affermare l’ideale pan-africano, mentre il colonialismo e i suoi accoliti minacciavano, come estremo atto di vendetta, di infliggere al Continente una piaga quale il frazionamento statale, che strangolerebbe ogni tentativo di trarre i popoli africani dalla arretratezza e dalla tremenda miseria che li tormenta.

I congressisti di Accra hanno evitato ogni eufemismo, hanno parlato con franchezza rivoluzionaria, respingendo i ricatti e gli adescamenti dei colonialisti. Consapevoli del fatto che l’indipendenza da sola sarebbe una conquista illusoria, se non fosse accompagnata dall’unificazione dei territori liberati entro formazioni statali federate, hanno mostrato così di intendere appieno le leggi di sviluppo dell’economia moderna, che tende a superare gli angusti confini nazionali; coerentemente hanno approvato una mozione nella quale si afferma che obiettivo finale delle nazioni africane è la creazione di una comunità di Stati indipendenti dell’Africa. Dunque, non “comunità” afro-europee, cioè perpetuazione della inferiorità coloniale africana dietro il paravento di false “unioni” con le metropoli imperialiste, ma Federazione africana di Stati indipendenti. Era tempo di denunciare una volta per tutte l’inganno unionista.

La mozione prevede la costituzione di cinque aggruppamenti federali. Una federazione dei Paesi costieri del Golfo di Guinea dal Senegal al Camerun (in realtà, si è finora costituita, sotto gli auspici di Senghor, una “Federazione del Mali” che comprende due soli Stati costieri dell’Africa Occidentale francese, cioè il Senegal e il Dahomey, e due situati all’interno e senza sbocco al mare, cioè l’Alto Volta e il Sudan ex-francese (di questo organismo, che riprende il nome dell’antichissimo e glorioso Impero Mali, tratteremo in successiva occasione). Una seconda comprendente la Mauritania, il Sudan, l’Alto Volta, il Niger e il Ciad. Una terza col Sudan Orientale, l’Etiopia e la Somalia. Una quarta col Kenya, l’Uganda e il Tanganika, a cui eventualmente unire il Nyassa. E una federazione costituita dall’Ubangi-Sciari e dal Medio-Congo. Dirà l’avvenire quanta parte di questo grandioso programma potrà essere realizzata. Non si può sottovalutare, difatti, la congiura di enormi potenze in atto contro l’indipendenza africana e il fatto che ancora influenti organismi politici seguono direttive che facilitano le manovre disgregatrici delle autorità colonialiste. Ma siamo certi che alla fine la potenza coloniale sarà completamente spiantata dalla terra africana e sulle sue rovine sorgerà l’Africa indipendente. Più che la decadenza obbiettiva della dominazione coloniale e le contraddizioni insolubili in cui essa è invischiata, tale certezza ci viene dalla dimostrazione di forza e di fermezza che il Congresso ha dato al mondo.

A un certo punto della dichiarazione finale è detto: «La Conferenza condanna e addita all’ignominia il sistema del colonialismo e dell’imperialismo nei territori coloniali britannici e francesi, che ha assunto le forme più estreme e selvagge in Algeria, nel Camerun, nell’Africa Centrale, nel Kenya, nel Sud Africa, nei territori portoghesi di Angola, di Mozambico, delle isole Principe e San Tomaso, dove la popolazione indigena vive sotto un regime di fascismo coloniale; denunzia la spoliazione dei diritti umani e democratici proclamati dalla Carta delle Nazioni Unite; denunzia la segregazione razziale, il sistema delle riserve e delle altre forme di discriminazione razziale e la barriera del colore; denunzia il lavoro schiavistico in territori come l’Angola, il Mozambico, il Congo Belga, l’Africa Meridionale e Sud-Occidentale; denuncia la politica perseguita in territori quali l’Africa Centrale e l’Unione Sud-africana, che basano sulla dottrina razziale della discriminazione la dominazione della minoranza sulla maggioranza; denuncia la confisca delle terre migliori degli africani a vantaggio dei colonialisti europei; denuncia la militarizzazione dell’Africa e l’uso del territorio africano per scopi militari, specialmente in Algeria e nel Kenya».

Parole simili non erano mai risuonate in un’assemblea africana; esse mostrano come i delegati di Accra siano riusciti a superare le esitazioni e i tentennamenti che altre riunioni interregionali avevano manifestato sul terreno della definizione dei principi e del programma del movimento indipendentista. Non per nulla N’Krumah dichiarava fieramente che per la prima volta lo stato maggiore pan-africano della “lunga guerra” per l’indipendenza e l’unità si riuniva per «elaborare insieme, per pianificare l’assalto finale all’imperialismo e al colonialismo e per realizzare i quattro grandi obiettivi pan-africani: la libertà e l’indipendenza di tutti i popoli, il consolidamento dei nuovi Stati, la unità e la comunità tra gli Stati africani liberi, la ricostruzione economica e morale del Continente».


Legalità o violenza?

Ma ancora più importante doveva farsi il lavoro della Conferenza, allorché si passava a discutere dei metodi di lotta. Lotta legale o lotta armata? Da questo dibattito è emersa la forte personalità di Mboya, il giovane sindacalista del Kenya che presiedeva il Congresso. Egli non esitava a contraddire lo stesso N’Krumah che, malgrado l’attaccamento alla causa dell’indipendenza africana e l’intenso lavoro politico da lui svolto per il suo trionfo, è contrario al principio della lotta violenta. Evidentemente su di lui agisce l’influenza della situazione particolare della ex-Costa d’Oro, divenuta Repubblica del Ghana a seguito di una lotta serrata punteggiata di scioperi e dimostrazioni, e sboccata in un lungo processo di negoziati con la potenza occupante. Ma è altrettanto chiaro che la dottrina della non-violenza non può essere accettata dagli africani che giacciono sotto regimi di aperta repressione militare, ed è toccato a Mboya rivendicare il diritto all’azione rivoluzionaria. Non a caso la tendenza rivoluzionaria del movimento era impersonata da un delegato di un Paese, il Kenya, che negli anni scorsi ha condotto una coraggiosa lotta contro il colonialismo britannico, ivi particolarmente esoso e spogliatore, lasciando sul terreno 24.000 morti, mentre altri 160.000 negri venivano gettati nei campi di concentramento e nelle prigioni.

Dispiace che non siano disponibili gli atti della Conferenza e che ci si debba accontentare dei resoconti giornalistici, ma quanto è riportato dal discorso di Mboya è sufficiente a dare un’idea chiara delle tendenze politiche dell’ala estrema del movimento pan-africano. Egli diceva, in polemica con N’Krumah: «I movimenti di liberazione non possono rinunciare alla lotta, anche armata, anche violenta, quando è alla violenza, alla repressione armata, che gli imperialisti ricorrono per frenare e distruggere la lotta dei popoli africani per l’indipendenza e l’unità».

Parlavamo all’inizio delle cause che determinano il progresso culturale. La prova indiretta che le vecchie classi dirigenti dell’Occidente borghese sono in pieno sfacelo è data dal fatto che occorre andare in Africa per sentire simili parole. Senza audacia e onestà intellettuale non v’è progresso culturale. Ma in quale Convegno europeo o americano i grandissimi cervelli della “civiltà bianca”, sovraccarichi di cultura, sono capaci di atti di coraggio intellettuale, come quelli compiuti da oscuri combattenti delle savane africane?

«La spada fiammeggiante e la parola avvelenata dei colonialisti che in passato ci soggiogarono – ha detto Mboya – sono oggi difficili da usare. La spada fiammeggiante si è smussata, la parola avvelenata si è rivelata falsa e gli africani hanno imparato a prendere l’antidoto della verità. Ma le potenze imperialiste non mollano la presa, e adottano una nuova tecnica. Le unioni rimpiazzano gli imperi e le sfere di influenza sono diventate parte integrante delle Madri Patrie, senza identità nazionale. La logica pervertita del colonialismo vuole che gli algerini siano francesi».

Il leader africano non poteva cogliere con maggior precisione il bersaglio. La logica pervertita del capitalismo imperialista! È sacrosantamente vero che la “civiltà bianca” è marcia proprio in quella parte di sé che costituiva il suo orgoglio: la capacità intellettuale. Il fermentare della rivoluzione borghese si è reso manifesto in Europa, nei secoli passati, per gli attacchi portati alle superstizioni e agli idoli della cultura dominante. Il fatto che i popoli di colore sono ora capaci di penetrare l’essenza dell’imperialismo, di alzarsi in piedi e di abbattere gli idoli ideologici delle borghesie occidentali, senza che queste possano reagire altrimenti che con la repressione bestiale e l’assassinio in massa, è un’altra prova che una grande rivoluzione è in atto in Continenti già sedi del colonialismo più sfrontato.

Non meno drastico l’intervento del delegato del Fronte di Liberazione algerino: «La scelta della forma di lotta contro i colonialisti non dipende dai popoli oppressi. La violenza risiede nella natura stessa del colonialismo e dell’imperialismo». A sua volta, il rappresentante della “Unione delle popolazioni del Camerun”, sostenendo la necessità di appoggiare la lotta degli insorti algerini, affermava: «I nostri compatrioti continueranno a lottare con le armi in pugno e sarebbe ridicolo per noi parlare di non violenza, in quanto lo stesso colonialismo si fonda sulla violenza e non c’è che un mezzo per liberarsene».

La ferma difesa del principio rivoluzionario nei confronti della corrente moderata, fautrice della “azione pacifica”, non riusciva vana. La Conferenza, mentre affermava nella risoluzione finale la tesi che l’indipendenza può essere conquistata con mezzi pacifici, accettava di inserire nel documento un caposaldo così concepito: «La Conferenza accorda ugualmente il suo appoggio a tutti coloro che sono costretti ad impiegare metodi violenti per far fronte ai metodi brutali coi quali sono tenuti in soggezione e sfruttati».

Allora si può concludere riaffermando che il Congresso di Accra, dando una misura probante della maturità intellettuale e politica delle popolazioni africane, dello equilibrio e insieme del grande coraggio di popoli considerati dal filisteismo imperante alla stregua di bestie, ha segnato una pietra miliare nel cammino del Continente. L’Africa era un gigante dalla forza immensa e dalle inesauribili ricchezze, che giaceva avvilito ed affamato. Ora si può dire con certezza che è un gigante in marcia.