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Onore ai negri di Léopoldville (Il Programma Comunista, n. 1 del 1959) |
Nella plumbea atmosfera mondiale di conformismo becero e di supina accettazione del fatto compiuto, l’esplosione negra di Léopoldville è giunta come una Diana di battaglia, come un fiero grido di sopravvivenza degli oppressi. Stipati nei luridi quartieri periferici della cittadella congolese dell’affarismo mondiale, pomposa nella sua esibizione di banche, empori e cristianissime chiese, i negri hanno urlato al mondo: “Ci siamo!” Sia onore ad essi.
Sulle loro fatiche poggiano la grassa opulenza della borghesia belga, la mediocrità soddisfatta degli uomini politici della metropoli, il torpore delle masse proletarie nei pur giganteschi aggregati industriali delle valli della Mosa e della Sombre: delle loro gocce di sudore e di sangue sono tempestate come di diamanti le corone dei defunti Vandervelde e dei viventi Spaak. Il Belgio e, attraverso i suoi forzieri, le banche mondiali dell’imperialismo, hanno dato loro Bibbie e alcool, ospedali e scuole, perché lavorassero a sfruttare per conto terzi le immense riserve di un territorio ricco sopra e sotto il suolo, nelle miniere di rame e di uranio del Katanga come nelle piantagioni di caffè e di cacao, negli alti forni come nelle centrali elettriche. E la leggenda borghese-democratico era che la popolazione di colore fosse grata della sua paterna assistenza al governo di Bruxelles, e che il solo Congo, nell’immenso Continente nero, fosse al riparo dei sussulti e delle rivolte, grazie alla democrazia e agli eterni principii…
La smentita è venuta, brusca e rapida come una folata di vento. I depositari
della cristianissima civiltà bianca hanno risposto a colpi di fucile. Possano i
minatori che escono, neri come i negri di Léopoldville, dai famigerati pozzi del
“felice” regno di Baldovino sentire che un vincolo di fratellanza, non nel
pianto ma nella lotta senza quartiere, li unisce ai morti e ai vivi di altra
pelle, contro un solo e identico nemico: il Capitale!
Bruxelles, gennaio
Il 27 dicembre, il più codino fra i giornali belgi, “Le Soir”, scriveva: «Non si pecca in ottimismo dicendo che la situazione del Congo non suscita, all’ora attuale, preoccupazioni gravi»; il 3 gennaio, proclamava soddisfatto che l’ordine e la pace vi regnavano. La stessa sera, la collera dei negri sfruttati e ingannati esplodeva.
Borghesi dalla coscienza tranquilla, piccoli e grossi bottegai dall’orizzonte non più vasto della cassaforte e dei ripiani di scatole di conserva, benpensanti del paradiso capitalistico di Bruxelles e di Anversa, preti untuosi nuotanti nell’acqua benedetta, “socialisti” invertebrati sguazzanti nell’umanitarismo, democratici tolleranti e caritatevoli, tutti si sono allora fregati gli occhi leggendo i giornali e ascoltando la radio.
Giacché, bene o male, i valletti di stampa della borghesia non potevano nascondere che una vera e propria tempesta si era rovesciata sulla “felice” e prospera colonia; che nelle città indigene la miseria è intollerabile; che nei rioni di fango e lamiera di Léopoldville i negri disoccupati sono 50 mila su un totale di 350 mila, dunque uno su due (tenendo conto della sola popolazione attiva), ma che nessun soccorso era previsto nell’arsenale di leggi e decreti sfornato dal cervello ingegnoso di ministri e burocrati. E poiché, subito dopo, bisognava giustificare l’esistenza di questi malanni dopo «più di mezzo secolo di azione civilizzatrice svolta dal Belgio sotto l’egida dei suoi Re» (“Le Soir” del 14 gennaio), ecco i pennivendoli cercare i capri espiatori nei soliti “agenti provocatori”, di volta in volta indicati nei dirigenti dell’organizzazione indipendentista “Abako” (il cui leader è stato tratto in arresto), in emissari del Ghana o di Nasser, in algerini piovuti dal cielo, o magari in… De Gaulle o Krusciov.
Bisognava, per salvare la faccia a Bruxelles, deplorare gli eccessi dei coloni, le intemperanze delle autorità locali che colgono al volo il pretesto dei disordini per armare i bianchi (o meglio, per annunziare il 10 gennaio una distribuzione di armi avvenuta molto tempo prima), il furor panico della polizia che mobilita i paracadutisti per “rastrellare” i quartieri negri e risolvere a colpi di mitra i problemi politici e sociali, le insufficienze di un piano economico tutto basato su uno sviluppo industriale rapido, e ignaro delle esigenze dei centri rurali, per poi annunziare, dopo frenetiche consultazioni interministeriali, che la montagna bruxellese era pronta a partorire il topolino e, per bocca del re, prometteva agli amati sudditi congolesi d’essere ben disposta a «renderli capaci di governare sé stessi» attraverso un adeguato purgatorio di elezioni comunali, collegi consultivi, scuole elementari e tecniche, «revisione del regime fondiario», fine della discriminazione razziale, «livello di vita decente (!!!) per i lavoratori».
Dopo di che tutto sarebbe rientrato nell’ordine, e quella che “Le Soir” definiva una semplice “fiammata” si sarebbe spenta nell’abbraccio. Ma la “fiammata” era così poco degna di questo nome, che gli incidenti di Léopoldville si riproducevano a distanza di 150 chilometri. A Thysville (oggi Mbanza-Ngungu), e nella stessa capitale la situazione è definita allarmante pur dopo il massacro che, fra morti e feriti, ha steso al suolo – secondo le statistiche ufficiali – oltre 300 uomini di colore, e la storia degli “agenti clandestini” cadeva di fronte alla solidarietà dei borgomastri più moderati per le vittime di un moto evidentemente popolare, che d’altronde aveva già trovato la sua pacifica consacrazione alla fine del 1957 quando le pur limitatissime consultazioni elettorali amministrative (previo adeguato ripulisti dei votanti, che a Léopoldville erano 48 mila su 350 mila!) diedero una schiacciante maggioranza appunto all’Abako.
Circa poi le promesse del governo di Bruxelles, perfino il cauto e pantofolaio “Economist” si vedeva costretto a definire uno strano “avvio all’autogoverno” quello che elimina dalla circolazione i rappresentanti qualificati dell’opinione pubblica (candore britannico!), e d’altra parte la storia dei “servizi” forniti dal capitale belga al Congo gronda troppo di sangue (basti ricordare i più recenti: nel 1942, all’Union Minière, un centinaio di negri uccisi per aver chiesto un aumento di salario di cinquanta centesimi; gli assassinati o impiccati di Lubutu e Masisi nel 1943; i fucilati di Maradi nel 1944), gli interessi finanziari troppo estesi in una terra ricchissima di minerali e fertile di prodotti d’esportazione, la posizione di forza dei coloni (108 mila su una popolazione complessiva di 2,5 milioni) troppo debole, l’importanza strategica della colonia dal punto di vista del capitale internazionale troppo evidente, perché, in un mondo africano in pieno risveglio, i negri, manodopera a buon mercato per una produzione generatrice di altissimi profitti, si ritengano paghi delle offerte avanzate all’ultima ora dalla roccaforte della loro oppressione e del ridicolo specchietto per le allodole recante la firma di re Baldovino.
Per più di tre giorni i negri di Léopoldville, i cui rappresentanti politici avevano, al Congresso pan-africano di Accra dell’8-13 dicembre, levato apertamente il grido dell’indipendenza, hanno espresso non soltanto a parole, ma con gli atti, l’odio implacabile per la santa alleanza di capitalisti, trafficanti, poliziotti e preti, il cui tallone pesa sul loro collo. È il primo indice dell’ingresso delle popolazioni del Congo nella lotta aperta. Noi, comunisti internazionalisti, lo salutiamo nell’assoluta certezza che nessun pompiere, coronato o meno, riuscirà a spegnere l’incendio. Non si tratta di “umanizzare” un regime coloniale la cui storia è fatta di ipocrisia e di violenza: o distruggerlo, o cadere sotto un’oppressione ancor più disumana. Non basta De Gaulle a placare l’Algeria: non basta la resipiscenza governativa bruxellese a far girare indietro la ruota del meccanismo capitalistico operante nel Congo.