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Un nuovo organismo statale africano è sorto La Federazione del Mali (Il Programma Comunista, n. 4 del 1959) |
Gli avvenimenti in Africa si susseguono con ritmo incalzante. Ogni mese che passa la grande marcia in avanti del movimento di rinascita del Continente nero conquista una nuova tappa. Mentre tutto imputridisce nelle metropoli capitaliste, i Continenti più arretrati si rinnovano da cima a fondo, e alla testa del movimento primeggiano i popoli più sviluppati dell’Africa, quelli che abitano la parte occidentale del Continente. I tetri campioni della reazione borghese non sanno darsi pace. Le squallide filosofie del “nulla cambia” sono costrette a denunciare un’altra bruciante smentita. È innegabile, difatti, che se “nulla cambia” per il momento nel mondo dell’imperialismo e le borghesie dominanti ricorrono impunemente all’arsenale delle ideologie fasciste pur di allontanare il giorno della resa dei conti, “tutto cambia” invece nei Continenti una volta soggiogati dal colonialismo. Il principio rivoluzionario riceve così un’ennesima conferma. Se nulla è eterno, se il colonialismo che durava da secoli e pareva non dovesse mai finire, per lo stato di demoralizzazione cui erano ridotte le popolazioni schiave, è pur esso alfine arrivato alle sue ultime ore; solo per illudere sé stessi i reazionari di Europa e di America possono proclamare l’eternità del capitalismo.
I fatti dimostrano come il colonialismo, l’orgogliosa creazione del capitalismo bianco, è costretto a cedere una posizione dopo l’altra. Il ritmo degli avvenimenti lascia piacevolmente sorpresi persino coloro, come noi, che, pur appoggiando il moto di liberazione dei popoli africani, pensavano che la lotta avrebbe tenuto impegnati molti anni ancora. A suggerire previsioni pessimistiche erano stati i risultati del referendum indetto in ottobre dal regime gollista. Si vide allora che solo la Guinea, fra tutti i possedimenti francesi dell’Africa, aveva osato cacciar via il colonialismo, scegliendo l’indipendenza. Altro motivo di preoccupazione era l’insidiosa campagna unionista, che tendeva a combattere il federalismo preconizzato dalle forze più avanzate dell’indipendentismo africano, e difendeva un programma che, se attuato, avrebbe risolto l’impero africano francese in una miriade di staterelli nominalmente indipendenti, ma di fatto deboli e malsicuri. Si temeva, cioè, che la coalizione degli interessi degli strati indigeni sociali legati al colonialismo e gli intrighi di certo politicantismo “ascaro” portassero alla “balcanizzazione” o “sud-americanizzazione” – come si esprimono i fautori del federalismo – della futura Africa post-coloniale. Ebbene, i fatti nuovi verificatisi nell’Africa Occidentale sono venuti a dileguare tali preoccupazioni. Eccezion fatta per alcuni territori dell’Africa Occidentale, che non è detto debbano restare sempre soggetti alle attuali oligarchie “burghibiste”; il campo federalista ha guadagnato a sé la maggioranza del movimento anticoloniale e indipendentista. L’unionismo alla Houphouët-Boigny, ministro di Stato di De Gaulle, è dovunque alle corde.
Due grandi avvenimenti si sono prodotti nelle ultime settimane: la proclamazione della Federazione del Mali e l’unificazione del movimento sindacale degli operai africani. Non occorre essere dotati di spirito profetico, per affermare che questi accadimenti segnano una svolta nella storia africana. La nascita della Federazione riveste una importanza rivoluzionaria. Essa viene a coronare il movimento iniziato con la recente proclamazione di indipendenza dei territori francesi dell’Africa Occidentale ed Equatoriale – fatto che, restando senza seguito, minacciava di smembrare il Continente. Ma non meno importante è quanto hanno compiuto i salariati africani, che, unificando le proprie forze, hanno creato le premesse dell’inserimento del movimento operaio africano nella nuova realtà sociale seguita al declino del colonialismo.
La Federazione del Mali, come a suo tempo la Repubblica di Ghana, riporta nella storia viva il nome di un grande impero africano, detto appunto del Mali, che si formò nel Sudan Occidentale nel secolo XIII e divenne assai prospero nei secoli successivi, figurando nel novero delle grandi potenze dell’epoca. I promotori della nuova formazione statale non potevano scegliere per essa un titolo migliore. Infatti, sotto l’impero di Mali, in misura maggiore di quanto era riuscito a fare l’impero rivale del Ghana, le popolazioni africane riuscirono a superare le divisioni tribali e a darsi ordinamenti politici unitari. Ai colonialisti francesi, non degeneri discendenti degli oppressori che al Congresso di Berlino del 1895 sanzionarono la spartizione dell’Africa illudendosi di aver costruito una prigione indistruttibile in cui rinchiudere la rivolta africana, non resta che mordersi le mani e sognare impossibili massacri di vendetta. La proclamazione della Federazione infligge una pesante sconfitta ai collaborazionisti e “burghibisti” dell’Africa nera e sconvolge da cima a fondo i piani dei colonialisti di Parigi che si apprestavano a dormire sonni tranquilli dopo il successo indiscutibile riportato al referendum.
La secessione della Guinea, che diretta dal Partito Democratico di Sékou-Touré aveva respinto in modo massiccio il referendum gollista (1.136.324 no contro 58.901 sì), aveva inferto un duro colpo al colonialismo francese. Ma la perdita del controllo delle considerevoli ricchezze del territorio (oro, ferro, bauxite, caffè e banane) si poteva credere compensata dal successo che, grazie ai leaders moderati o addirittura collaborazionisti dell’RDA, le autorità colonialiste avevano conseguito negli undici territori dell’AOF e dell’AEF, che avevano votato a favore della Costituzione proposta da De Gaulle e accettato di entrare a fare parte della Comunità Franco-Africana. Si sa quali “concessioni” la costituzione gollista faceva all’indipendentismo africano. Alla “Comunità”, cioè all’organo preposto alla amministrazione del vantato connubio franco-africano spetta, come è stato ribadito recentemente a Parigi, la competenza su queste materie: politica estera, difesa, moneta, politica economica e finanziaria comune, politica delle materie prime, controllo della giustizia, insegnamento superiore, organizzazione generale dei trasporti esterni e delle telecomunicazioni. È chiaro che una “comunità” siffatta, che tiene i popoli africani fuori dall’effettivo governo dei territori e perpetua sotto altro nome il vecchio paternalismo colonialista, non era tale da preoccupare la borghesia francese. Stati appartenenti a tale tipo di “comunità” non potevano essere “sovrani” che di nome.
In tali condizioni l’erezione a Stati indipendenti degli undici territori non poteva nuocere agli interessi francesi. Era parso infatti a Parigi che l’“incidente” della secessione guineense dovesse restare senza seguito. Invece, la clamorosa rivolta della Guinea alle imposizioni colonialiste ha avuto sul vecchio e putrefatto edificio coloniale francese l’effetto di una mina. Soprattutto deve avere avuto un’influenza decisiva la proclamazione della unione statale tra Guinea e Ghana, avvenuta nel novembre. Una tale svolta politica segnava una netta vittoria del campo federalista in tutta l’Africa Occidentale e Equatoriale, oltre che nei confini dei due Stati. Che l’iniziativa non si limitasse, nella intenzione dei promotori, ai due Paesi, ma si inserisse nel generale movimento federalista africano, risultava da un passo della dichiarazione comune firmata dai primi ministri N’Krumah e Touré: «Coscienti che la aspirazione verso una unione più stretta e condivisa da tutti i popoli del nostro Continente, lanciamo un appello ai governi degli Stati indipendenti di Africa, come anche ai dirigenti e ai popoli dei Paesi ancora dominati dallo straniero, affinché si associno alla nostra azione. In questo stesso spirito, accoglieremo l’adesione a questa unione di altri Stati africani». In altra occasione, e cioè al termine dei colloqui fra delegazione del Ghana e i dirigenti guineensi a Conakry, il 7 dicembre, un comunicato ufficiale rendeva noto che il Ghana e la Guinea avevano deciso di istituire un comitato costituzionale incaricato di elaborare gli Stati Uniti dell’Africa Occidentale.
In quella occasione la stampa attribuì a N’Krumah e Touré l’ambizioso progetto di una grande Federazione negra comprendente anche territori ancora soggetti all’imperialismo, quali la Nigeria, la Sierra Leone, la Costa d’Avorio, il Dahomey, il Togo francese e la Guinea portoghese. Una Federazione africana di simili proporzioni comprenderebbe oltre 40 milioni di abitanti e disporrebbe di ampie risorse agricole e minerarie, tra le quali: oro, argento, platino, diamanti, ferro, carbone, bauxite, manganese, stagno e alcuni minerali rari, come il tantalio e l’uranio. Di certo v’è che alla Conferenza africana di Accra (8-13 dicembre) i delegati approvavano un piano prevedente la costituzione di cinque complessi territoriali, tra cui appunto una Federazione costiera dal Senegal al Camerun.
Alla Conferenza del RDA (Bamako, 29-30 dicembre scorso) apparve chiaro che il movimento federalista aveva guadagnato terreno sulle tesi “burghibiste” dell’ala rappresentata da Houphouët-Boigny. Si riprodusse l’antico contrasto fra costui e il leader senegalese Léopold Sédar Senghor, appoggiato dal gruppo di “Présence Africaine”, che dichiarò giunto il momento di portare il moto a una svolta anche a costo di rompere con la Francia e allinearsi con Sékou-Touré. La Conferenza si scioglieva senza che si riuscisse a trovare un terreno di intesa fra le correnti. Ma oggi sappiamo che il federalismo era in ascesa. Infatti a sciogliere il nodo dei contrasti veniva il 17 gennaio la proclamazione della Federazione del Mali.
Alla nuova Federazione partecipavano quattro territori: il Sudan, il Senegal, l’Alto Volta e il Dahomey. Un semplice sguardo alla carta geografica mostra quale importanza assumerà la Federazione quando si sarà liberata della residua dominazione francese. Forse allora potrà avere attuazione il progetto della Federazione negra dal Camerun al Senegal approvata alla Conferenza di Accra. Considerato quali forze prevalgono nell’Africa Occidentale, ciò appare possibile perché i territori della Federazione del Mali e la unione Ghana-Guinea sono contigui. Unica soluzione di continuità è rappresentata dalla Costa d’Avorio, che ha preferito isolarsi; per il resto non esistono difficoltà di ordine costituzionale, dato che la Federazione si è dichiarata, come già il Ghana e la Guinea al momento della proclamazione della loro unione statale, aperta a tutti i territori vicini.
Resta da spiegare l’atteggiamento negativo tenuto dalla Mauritania e dal Niger, insieme con la Costa d’Avorio. All’origine del rifiuto opposto da questi tre territori, sono cause diverse. Se il movente che ha spinto i dirigenti del Niger e soprattutto della Costa d’Avorio va ricercato nella struttura politica e sociale dei due territori, per la Mauritania il campo di indagine si allarga, perché questo nuovo Stato subisce le influenze dell’altro grande propulsore storico che agisce in Africa: il nazionalismo pan-arabo, arroccato nel Nord del Continente.
La Mauritania, che gli arabi chiamano Shanqit, è da qualche tempo oggetto di una tenace campagna irredentistica marocchina. Benché tra il Marocco e il territorio mauritano siano interposti la propaggine estremo-occidentale dell’Algeria e i possedimenti dell’Africa Occidentale spagnola, essa è rivendicata dal Governo di Rabat come territorio appartenente, per ragioni storiche e “popolari” al “grande Marocco”. I nazionalisti marocchini si riferiscono al fatto che, fin dall’epoca degli Almoravidi e degli Almohadi, e sotto i sultani saadiani del Marocco, la Mauritania fu il ponte di passaggio tra il mondo musulmano e l’Africa nera. Si ricordi che sotto il sultano Al Mansur, nel 1590, iniziò la conquista del Sudan, cioè l’espansione della potenza araba a danno dell’impero negro dei Songhai. La lotta che vide le maggiori potenze europee dell’epoca (Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra) appoggiare i conquistatori arabi, doveva durare fino al 1737, allorché gli ultimi resti dell’esercito marocchino furono scacciati da Timbuctu.
Nonostante il tempo trascorso, la Mauritania, abitata da oltre 600.000 persone, di cui quattro quinti Mauri musulmani (di razza berbera) e per il resto di Negri addensati nella parte meridionale, risente ancora gli effetti di avvenimenti così remoti. Infatti, se vi esiste una forte opposizione alle mire marocchine, è pur abbastanza considerevole il movimento filo-arabo, che rivendica l’unione dello “Shanqit” al grande Marocco. Anzi, non pochi tra emiri e sceicchi, e addirittura personalità politiche di primo piano, come i quattro ministri del governo territoriale che nel marzo 1958 fuggirono nel Marocco, fanno continui atti di sottomissione a Maometto V. Ciò comporta la divisione del Paese tra le forze propense alla unione con la Federazione del Mali, e quindi con l’Africa nera, e le forze miranti a inserirsi nell’ambizioso piano espansionista del Marocco, che tende a portare le proprie frontiere alle posizioni raggiunte dagli antichi conquistatori arabi.
Perché ci soffermiamo su queste questioni? Non fosse altro che per provare la malafede dei falsi marxisti i quali, mettendosi su posizioni di assurdo indifferentismo verso la rivoluzione anticoloniale, ci accusano di appoggio incondizionato e indiscriminato ai partiti nazionalisti afro-asiatici. La verità è che ci rendiamo conto in ogni momento che la rivoluzione anticoloniale agisce entro i limiti della Stato nazionale, e quindi comporta tutte le contraddizioni inerenti a tale stadio dell’evoluzione storica. Noi appoggiamo, sia pure col solo ausilio della stampa, i movimenti politici più idonei a sgombrare il terreno dagli ostacoli che si oppongono nelle ex colonie al sorgere di forme di produzione nuove, le quali non possono sorgere senza accrescere il peso del proletariato salariato nel mondo e gettare obiettivamente in aree arretrate le premesse industriali e sociali del socialismo. Perciò, ci rifiutiamo di assistere, guardandoci l’ombelico, a quanto accade nei continenti che stanno svegliandosi a nuova vita; e non temiamo di contaminarci, come non lo temettero Marx e Lenin, prendendo posizione a favore degli uni e contro gli altri. Solo degli ubriachi di settarismo possono recitare il falso teorema: anticolonialismo = capitalismo = reazione. Solo degli imbecilli possono pensare che il mondo “resta lo stesso” se in Africa è a comandare l’imperialismo colonialista oppure i movimenti nazional-democratici; o se, sconfitto il colonialismo, prendano il potere le forze locali della conservazione o i partiti del rinnovamento.