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Congo sotto chiave

(Il Programma Comunista, n.20 del 1959)

Chi si desse la pena di leggere gli articoli che questo giornale dedicò nei mesi scorsi alla “perla del dominio coloniale belga” (vedi soprattutto i numeri 16, 17 e 18 di quest’anno), non si stupirebbe né che il Congo sedicentemente pacificato dopo i torbidi del gennaio e le promesse elettorali della metropoli si riveli al contrario una polveriera sempre pronta ad esplodere, né che su questa realtà “scandalosa” regni, dovunque, una patetica congiura del silenzio. Era Léopoldville in gennaio, è Stanleyville adesso; si parlò dell’Abako allora, si parla dell’MNC al giorno d’oggi: chi avrà dunque la faccia di sostenere che i moti sono circoscritti all’area di una città in frenetico sviluppo, o scatenati da un solo partito indigeno nell’apatia generale delle masse?

Stanleyville non è più, come Léopoldville, al centro della zona vicina all’oceano direttamente controllata dagli amministratori belgi: è nell’alto corso del fiume Congo. Ciò significa che il moto dilaga in tutto il Paese. Il leader dell’MNC, il cui minacciato arresto provocò i disordini, aveva risposto al decreto belga sulle prossime elezioni municipali col boicottaggio delle stesse, la richiesta del “divorzio” della colonia dalla metropoli, e l’inizio di una campagna di disobbedienza civile. Ciò significa che il moto si estremizza.

Avevamo previsto che il moto si sarebbe non solo approfondito ma generalizzato: e così è avvenuto. Avevamo osservato come i programmi ufficiali dei partiti tendessero ad essere scavalcati dal radicalizzarsi delle masse: gli episodi recenti ne hanno fornito la riprova. Dalle città l’incendio si estende ora alle campagne, investe le tribù arretrate, avvicina i partiti già divisi da secolari contrasti. E il Belgio non ha né un De Gaulle, né – a sostegno di questi – un Krusciov. Ha dei poliziotti: non bastarono nella ben più controllabile Algeria, si può credere che basteranno nel Congo? Ha prigioni: ma le carceri algerine hanno un secolo di storia, e la lotta nel Maghreb non conosce tregua; può fare eccezione il gigantesco impero di Leopoldo II e Baldovino?

No certo. Sia onore ancora una volta ai morti di Stanleyville, soli con le loro zagaglie contro i fucili ultimo modello della civiltà capitalista!

N. B. – Avevamo appena scritto questa nota quando è giunta notizia dei sanguinosi “scontri fra tribù negre” avvenuti nel Ruanda Urundi, territorio in amministrazione fiduciaria belga, ad est del Congo. In realtà, si tratta di un episodio violento di rivolta delle tribù più decise a ottenere l’indipendenza contro le tribù asservite alla potenza europea che “amministra”, cioè sfrutta, la regione, ricca soprattutto di fertili terre e vasti pascoli. Ciò è tanto vero che il governo di Bruxelles, allarmatissimo, ha subito dichiarato che concederà l’autonomia al Ruanda Urundi, naturalmente in futuro e sotto un re gradito ai padroni metropolitani.

La coesistenza pacifica, evidentemente, piace a Krusciov non ai popoli sfruttati dall’imperialismo!





Zagaglie congolesi contro schede belghe

(Il Programma Comunista, N° 21 del 1959)


Bruxelles, novembre

I disordini sociali che scoppiano ormai a ripetizione nel Congo Belga dopo il colpo di tuono del 4 gennaio stanno culminando nella campagna di “disubbidienza civile” lanciata dai principali partiti indigeni in risposta alle elezioni a “suffragio universale” organizzate dalle autorità coloniali belghe sotto la pressione di avvenimenti ch’esse sono ormai impotenti a controllare.

In realtà, questa manovra, d’altronde già superata dai fatti, costituisce una nuova prova del disorientamento in cui le democrazie occidentali si trovano. Dopo di aver sollecitato il “dialogo con interlocutori validi” cercati fin nelle profondità misteriose dell’Africa Centrale, il governo di Bruxelles spinge ora il libertinaggio democratico fino al punto di convocare la popolazione congolese, già definita “inadatta a governare sé stessa”, all’esercizio del suffragio universale e di formarsi appena in tempo per non invitare alle urne anche le scimmie della foresta vergine. È il degno coronamento della politica di “decolonizzazione” adottata il 13 gennaio 1959 dai parlamentari metropolitani paurosamente stretti intorno alla dinastia, tra i quali figurano in buon posto il partito socialista, la sinistra social-trotzkista e l’agenzia di turismo per il “Paese del socialismo e suoi satelliti”, il partito cosiddetto comunista.

È appunto in margine a questa campagna elettorale, predisposta nei commissariati di polizia, nelle sacrestie delle Missioni e nelle capanne dai capitribù indigeni tremanti per la loro sorte, che sono scoppiati i sanguinosi moti di Stanleyville.

Sarà bene ricordare che, situata nella Provincia Orientale del Congo, di cui è il capoluogo, Stanleyville è un centro di grande importanza perché, se conta appena 5.000 europei su 66.000 indigeni, mantiene però rapporti molto stretti con la popolazione rurale attraverso gli scambi di prodotti alimentari provenienti dalle pescherie e dalle piantagioni sparse nelle zone vicine e lungo il fiume Congo che l’attraversa: e si tratta di popolazioni appartenenti alle tribù arabizzate che opposero una disperata resistenza ai pionieri della conquista coloniale. Come tutti i centri europei, dall’inizio dell’ultima recessione mondiale la città soffre di una stasi economica che si prolunga per effetto dei disordini a carattere sociale ai quali le autorità non riescono più a metter argine.

I moti scoppiarono in occasione del Congresso che vi teneva la frazione estremista del Mouvement National Congolais (recentemente separatasi dall’ala moderata) e che doveva discutere appunto della campagna elettorale in corso. I dibattiti, animati dalla presenza del leader Lumumba, erano seguiti con passione non solo dagli indigeni abitanti a Stanleyville, ma da quelli che vi erano temporaneamente affluiti dalla boscaglia equatoriale, dove l’ala estremista dell’MNC si irradia. Fra gli agitatori anticolonialisti congolesi Lumumba è certo il più travolgente, e alla sua popolarità giova il fatto ch’egli non sia stato invitato a trascorrere un “periodo di studio” in Belgio né durante i fasti dell’Expo, né dopo gli avvenimenti di Léopoldville, che abbia rappresentato il Congo alle Conferenze pan-africane di Accra e Conakry, e che sia oggi il bersaglio di una campagna lanciata dalle organizzazioni di destra a Bruxelles, intesa a ricordare i suoi precedenti di “condannato per truffa”.

Ora, quando il Congresso diede notizia della risposta negativa del governo belga alla richiesta dell’MNC di posticipare le elezioni (il governo belga ha ora tutto l’interesse ad affrettare il voto perché riesca il più possibile addomesticato) rinviandole a dopo la formazione di un governo provvisorio congolese investito della loro organizzazione fuori dal controllo europeo, Lumumba dichiarò che i ponti fra il suo partito e il Belgio erano ormai definitivamente rotti, e l’assemblea decise la organizzazione di un grande comizio per dare nuovo slancio alla campagna di boicottaggio delle urne.

In quest’atmosfera surriscaldata, l’accesa eloquenza di Lumumba diede fuoco alle polveri: le prime violenze di una folla che, questa volta, non era armata di pagelle scolastiche, di schede elettorali o di certificati di battesimo, ma di lance e zagaglie, si trasformarono ben presto in rivolta, e questa in saccheggio dei negozi e magazzini europei. La polizia indigena spedita d’urgenza sul posto aprì un fuoco infernale non appena il commissario europeo cadde trafitto da una lancia, e in pochi minuti alcune dozzine di negri furono falciati. Inoltre, l’eco della rivolta essendo stato trasmesso per tam-tam fra gli indigeni della foresta vergine, questi risposero assediando le piantagioni europee e un oleificio, che furono abbandonati dai proprietari in attesa che l’ordine – nei limiti in cui, nel Congo Belga, di ordine si può parlare – fosse ristabilito. Lumumba, com’è noto, fu arrestato.

Questi avvenimenti dimostrano che l’epidemia rivoltosa nel Congo non è affatto “fittizia e artificiale” come pretendono le “élites” della metropoli, ma guadagna come una macchia d’olio le popolazioni finora rimaste più in disparte dalle lotte anticolonialiste divampanti nell’Africa negra. L’apporto di queste masse – lo vogliano o no gli intellettuali indigeni dei centri urbani – non essendo per nulla democratico, tende a radicalizzare e purificare il moto di indipendenza congolese dagli influssi sterilizzanti dei missionari cattolici e dei democratici neo-colonialisti europei. Anche le lotte tribali scoppiate alcune settimane fa a Luluabourg (oggi Kananga), nella provincia di Kasai, e quelle tuttora in corso nel vicino Ruanda Urundi, escono ormai dal quadro tradizionale degli scontri fra gruppi etnici diversi e s’inquadrano sempre più nel processo di risveglio politico e sociale del continente negro.

Si osservi che, nel Ruanda Urundi (territorio in “amministrazione fiduciaria” belga ai confini orientali del Congo), l’amministrazione coloniale ripete il gioco di presentare i fatti di sangue recenti come una pura e semplice vampata di odi fra tribù e di rispondere ad essi con la promessa di una precipitosa consultazione elettorale: ma la prima tesi è smentita dal fatto che gli “odi ancestrali” si sovrappongono a un conflitto d’ordine sociale ben preciso, essendo i Watussi – come scrive l’ “Economist”, non certo sospetto di tendenze rivoluzionarie – “per tradizione i signori feudali supremi dei contadini Bahutu”, come sempre alleati del grosso capitale bianco, e avendo essi “rivolto le loro zagaglie contro l’organizzazione popolare e riformatrice” di questi ultimi, e il programma elettorale è studiato apposta come valvola di scappamento al preoccupante malumore delle popolazioni più “arretrate”.

Sullo sfondo del crollo progressivo degli ultimi bastioni del tradizionale colonialismo europeo, il paternalismo dell’amministrazione belga cede il posto a massacri che ricordano quelli che accompagnarono la formazione dello Stato capitalista nella metropoli, dove il trionfo del dominio di classe borghese si celebrò nel fuoco e nel sangue in Vallonia come nelle Fiandre. Ma, per infami che siano, i mercenari del colonialismo belga vivono pur sempre gli ultimi sussulti di un’agonia la cui fine non può tardare a lungo.

Il disastro, nel caso del Belgio, non potrà accompagnarsi a una resistenza del tipo francese in Algeria, perché nella colonia, come nella metropoli, la borghesia non può contare che su esemplari scelti della “coesistenza pacifica”. Venuta meno la “solidarietà militare” degli alleati, venuta meno anche quella dei lacchè socialisti all’interno (pronti per ragioni di bottega a lavarsene le mani e a trincerarsi dietro una… opposizione costruttiva), priva di forze militari adeguate, essa dovrà cedere di fronte all’aggressività dei “figli adottivi” negri, arcistufi della sua tutela e per nulla riconoscenti delle Bibbie legate in pelle e delle bottiglie di rhum ch’essa si era affannata a distribuire nei tempi d’oro di un possesso incontrastato.

Si venderanno, i leaders nazionalisti, a un altro padrone, magari a Stelle e Strisce, ora che i dirigenti del Cremlino buttano a mare la zavorra di una simpatia di comodo? È ben possibile, ma volenti o nolenti, essi avranno provocato, come strumenti più o meno volontari della storia, un incendio di cui difficilmente potranno divenire i pompieri. A Bruxelles, comunque, le trombe dell’Esposizione Universale hanno ceduto il posto alla campana a morto. Il che, per i proletari di tutto il mondo, non è poco.