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La nuova ora dell’Africa

(Il Programma Comunista, N° 17 del 1963)



Non a caso noi, che abbiamo sempre seguito con enorme interesse e con partecipazione appassionata i moti anticoloniali in Africa, da qualche mese omettiamo di parlare delle vicissitudini politiche del grande Continente. Si era praticamente chiusa la fase armata e cruenta delle lotte di indipendenza nazionale sia nell’Africa negra che nel Maghreb; al massimo, le faceva seguito la malinconica vicenda delle indipendenze concesse “bonariamente” per via diplomatica: non si era aperta, e come stentava ad aprirsi!, la nuova fase in cui l’umanità dei giorni di lotta anticoloniale si sarebbe spezzata secondo determinanti sociali di classe.

Nella prospettiva marxista, la ripresa della lotta rivoluzionaria e, in ogni caso, classista nelle metropoli europee avrebbe impedito che una fase, la prima, si chiudesse senza che, immediatamente, si saltasse nell’altra, come nella visione di Marx-Engels 1851-2 della “rivoluzione in permanenza”. Spezzato dalla controrivoluzione il ferreo anello che avrebbe dovuto congiungere i moti nazionali delle plebi ex-coloniali a quelli rivoluzionari e classisti del proletariato metropolitano e dei Paesi avanzati in genere, anche la continuità delle rivoluzioni “decolonizzatrici” doveva necessariamente infrangersi e, raggiunto il traguardo dell’indipendenza, i pur giganteschi moti battere il passo sotto la falsa bandiera dell’unità delle classi, degli interessi economici, e dei partiti, nel segno della novella Patria.

Ma la pressione delle forze materiali della società borghese non poteva, malgrado l’assenza di una strategia rivoluzionaria mondiale del proletariato “progredito”, non riaprire un processo che alla borghesia rimpannucciata dei nuovi Stati africani avrebbe fatto tanto comodo chiudere per sempre. Dicemmo: Raggiunta la pace degli Stati, avrà inizio la guerra delle classi! Lentamente, la buona vecchia talpa della rivoluzione ha lavorato, e lavorerà ancor più domani, in questo senso; sarà la nuova ora dell’Africa.

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I buoni “democratici” europei ed algerini hanno levato al cielo rauche strida alla notizia che la Costituzione varata da Ben Bella nella seconda metà di agosto istituiva un regime di tipo autoritario, centrato sulla concessione del monopolio dei poteri esecutivo e anche legislativo al “partito della rivoluzione” l’F.L.N.

Non discutiamo ora, fino a che punto questo partito esista in realtà, e fino a quale il regime unipartitico sia in realtà un regime presidenziale unipersonale sul tipo di quello (guarda caso) dell’ex avversario De Gaulle.

Se il regime di Ben Bella avesse finalità sociali rivoluzionarie, noi non solo non deprecheremmo la sua formula del governo in mano al partito unico, bensì la saluteremmo come un’applicazione della classica teoria marxista. Ma ai proletari coscienti non è probabilmente sfuggito che il premier algerino ha lanciato la sua formula costituzionale, tanto sgradita ai destrissimi tipo Ferhat Abbas, nell’atto stesso in cui, dopo di aver messo in prigione il più radicale Boudiaf, prendeva di petto con le armi gli estremisti della Cabilia, di cui “La Stampa” del 15 agosto scriveva con orrore che miravano ad «istituire in Algeria strutture politiche e sociali schiettamente comuniste» (lasciamo stare l’evidente iperbole di questa formula) secondo l’ispirazione di Abderrazak Abdelkader, mentre “Le Monde” del 30 agosto annunciava lo scioglimento da parte del governo di quel “partito della rivoluzione socialista”, che sembra ispirarsi alle idee di Mohamed Boudiaf e che, in ogni caso, si autoproclama «partito di classe ansioso di intensificare la lotta politico-economica per costruire una società in cui regni la giustizia sociale e la fratellanza» e contrario ai «metodi empirici», ed all’opportunismo e alla sfiducia nella «possibilità di successo della rivoluzione socialista», del governo benbelliano.

Non ci azzarderemo a trinciare giudizi su questi raggruppamenti di estrema sinistra radicale. Ma una cosa è certa: in essi, sia pur vagamente, si esprime il malessere e l’insofferenza di un proletariato e semi-proletariato immiserito e di un contadiname ultrapovero, al quale la “rivoluzione nazionale” non ha nemmeno dato uno straccetto di riforma agraria – a meno di voler considerare tali… le forniture (dietro pagamento) di trattori e sementi ai contadini, e quello specchietto per le allodole che si chiamano i “Comitati di gestione per le imprese agricole vacanti”, cioè abbandonate dai proprietari algerini o francesi e prese a carico dai suddetti Comitati di contadini poveri per gestirle nel modo più produttivo possibile “per conto e durante l’assenza del proprietario”!

Spezzata secondo le linee naturali di classe, l’unanimità nazionale ha partorito un’opposizione ultraborghese di destra e una confusa opposizione popolare di sinistra: in mezzo siede, come arbitro (cioè come amministratore del passaggio senza scosse a un regime “saggiamente” borghese, capace di far della demagogia per illudere i proletari e, nello stesso tempo, trescare allegramente con De Gaulle) il nominato Ben Bella. I borghesi meno fessi l’hanno capito: «Sarebbe un’illusione – scrive “La Stampa” del 15 agosto – credere che la democrazia come la concepiamo in Occidente possa svilupparsi in Paesi sottosviluppati; credere che la libertà in quei Paesi non finirebbe per diventare anarchia [cioè, ritorno in scena dei contrasti di classe]. In questo senso, bisogna forse riconoscere che uomini come Ben Bella, restringendo le libertà pubbliche e sopprimendo le lotte politiche, dimostrano una concezione più realistica delle necessità del loro Paese». Se già, per i “democratici”, i popoli “arretrati” devono essere tenuti sotto tutela – contro l’“anarchia”, evviva Ben Bella e Nasser!

È anche significativo che il referendum dell’8 settembre abbia dato un alto numero di astensioni proprio nella Cabilia, dove l’affluenza alle urne è stata praticamente nulla e – secondo il “Corriere della Sera”, ovviamente preoccupato – «pare si sia costituito un nucleo di ribelli alla macchia» mentre «gruppi estremisti continuano a perpetrare di tanto in tanto attentati contro i pochi coloni francesi rimasti sul suolo del Nord Africa». È chiaro che una parte almeno delle plebi algerine non crede alla pretesa di Ben Bella di “portare avanti” un “socialismo” identificato con “l’autogestione”!

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Considerazioni analoghe, sebbene i fatti siano diversi, suggerisce la situazione del Congo ex-francese.

Che l’abate Fulbert Youlou fosse un esimio forcaiolo, come si conveniva alla sua sottana da un lato e ai suoi galloni di filo-francese per la pelle dall’altro, lo si sapeva; e noi non siamo tanto ingenui da credere che il governo ora sostituitogli dalla volontà di una parte dell’esercito si dimostrerà meno aguzzino (significativamente, De Gaulle ha lasciato fare, e i nuovi governanti si sono affrettati non solo a mandargli un telegramma di ringraziamento, ma a ribadire la loro vocazione atlantica, nel che, secondo “Le Monde”, è la dimostrazione «che un trasferimento di autorità non è necessariamente, sul Continente nero, la porta aperta all’anarchia», guardate come parlano lo stesso linguaggio di là e di qua dalle Alpi!).

Ma quello che ci entusiasma, perché ci fa prevedere ed auspicare l’inizio di una “nuova ora” basata sul riaccendersi dei conflitti di classe, è il fatto che, come ha dovuto perfino riconoscere il “Corriere della Sera” del 18 agosto, il colpo di scena del Congo ex francese è il primo caso di un regime post-coloniale rovesciato dal popolo, particolarmente «dalle masse affamate di due dei quartieri più miserabili della città [Brazzaville] e dagli operai dei sindacati» scesi in sciopero. Il nuovo governo può essere di buoni borghesi in guanti gialli graditi all’esercito: ma sotto di loro fermenta e ribolle la collera plebea. Essa potrà tardare a riesplodere: nulla potrà evitarla a lunga scadenza; e allora sentirete che pianti sull’“anarchia” alle porte, e sulla democratica necessità di governi autoritari!

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Qualcosa di analogo (e appunto questa analogia e semi-contemporaneità sono significative) è avvenuto nella Costa d’Avorio proprio in questi giorni, dove quell’altro arnese del conservatorismo filo-francese, Houphouët-Boigny, si è trovato di fronte alla rivolta non tanto di suoi ministri, quanto del sindacato nazionale unico, l’Union générale des travailleurs de Côte d’Ivoire. Abidjan e Brazzaville saranno due focolai di conflitti di classe nel prossimo avvenire? Tutto lo lascia credere – e sperare.

Riapriamo dunque il “dossier” rivoluzionario dell’Africa, e teniamo gli occhi aperti sui sintomi di “qualcosa che – come dicono lor signori – non va come dovrebbe”.