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La questione rhodesiana in un vicolo cieco

(Il Programma Comunista, N° 4 del 1967)


In un nostro precedente articolo dedicato all’Inghilterra facevamo la facile profezia che Smith, il primo ministro della Rhodesia, non si sarebbe piegato all’ultimatum che Wilson gli aveva spedito a conclusione della Conferenza dei Paesi del Commonwealth tenuta a Londra nel settembre 1966. Quell’ultimatum conteneva la minaccia di sanzioni economiche che Londra avrebbe chiesto a tutti i Paesi membri dell’ONU di applicare alla Rhodesia se il governo di Salisbury non avesse restituito il potere al governatore britannico al quale a suo tempo era stato strappato con la nota dichiarazione unilaterale di indipendenza.

Si sa che la rottura con la ex colonia fu rimandata ancora per qualche mese nella vana speranza che, con qualche compromesso, si potesse dare una soluzione pacifica al problema nato dal ribelle atto di forza dei coloni bianchi, padroni delle ricchezze economiche del Paese e decisi a incrementarle proprio attraverso l’uso di quel potere politico che si voleva sottrarre al loro esclusivo monopolio. Il fallimento dell’incontro tra Wilson e Smith, avvenuto a Gibilterra nel dicembre scorso, ha segnato una nuova solenne sconfitta della Gran Bretagna e del suo governo laburista il quale per salvare il Commonwealth ha messo le cose nelle impotenti mani dell’ONU.

Ora le cosiddette Nazioni Unite dovrebbero riuscire là dove Gran Bretagna e Commonwealth hanno fatto cilecca. Ma, se questi ultimi non hanno potuto e voluto intervenire con le armi al momento giusto, tanto meno lo potrà e lo verrà fare l’ONU: e ciò per le stesse ragioni di classe.

Solo un rapido e massiccio intervento armato inglese avrebbe potuto aver ragione dei fratelli-ribelli al momento della loro rivolta. Una simile operazione, se fosse stata compiuta con esito favorevole, avrebbe rialzato il prestigio inglese fra i Paesi del Commonwealth e quelli africani: sarebbe stata inoltre una “prova” che il professato antirazzismo dei laburisti e del loro leader non è una parola vuota. Ma l’intervento non è avvenuto, perché le possibilità materiali di realizzarlo mancavano proprio quando non sarebbe stato un’impresa folle, come sarebbe ora.

E la ragione è questa: esso comporta il grave rischio di sconvolgere l’Africa meridionale, se non addirittura l’interno Continente africano. Non si può mettere in dubbio, infatti, che le dimensioni del conflitto si allargherebbero: il Sud Africa sarebbe automaticamente costretto a sposare la causa rhodesiana, che è la sua stessa causa. E, cosa più importante, quello che nessun governo bianco, europeo o americano, si sogna di fare è di mettere in moto le popolazioni negre per sopraffare con la violenza le minoranze bianche detentrici delle ricchezze e del potere. Una grande vittoria di questo genere farebbe rialzare la testa a tutti i popoli di colore e metterebbe in pericolo non solo l’imperialismo mondiale bianco ma lo stesso sfruttamento dei padroni di colore.

Queste sono le ragioni di classe che non hanno permesso alla Gran Bretagna di assecondare le richieste dei Paesi africani e asiatici del Commonwealth di intervenire militarmente e in periodi assai posteriori alla rivolta, in cui l’agitato problema di battere un razzismo bianco può aver rischiarato la coscienza delle popolazioni negre, agitandole fino al punto che una spinta esterna le avrebbe facilmente fatte insorgere e le avrebbe condotte assai più in là degli obiettivi messi loro davanti. Dunque, militarmente nessuna soluzione è stata ed è possibile al “problema” rhodesiano.

E sarebbe sciocco pensare che l’altra forma di violenza – quella delle sanzioni economiche – possa riuscire allo scopo. La storia ha dato esempi notevoli dell’impotenza a far saltare i governi con questo mezzo di pressione esterna; basterebbe ricordare il fallimento delle sanzioni applicate all’Italia fascista da parte della Società delle Nazioni durante la guerra etiopica. Solo quando si combinano certe condizioni questo mezzo può essere formidabile, e anche più di quello militare: queste condizioni sono per esempio il monopolio della offerta di un prodotto fondamentale per la vita di un Paese e quello della domanda di un altro.

Un esempio di queste condizioni è stato offerto dalla lotta condotta dalla borghesia persiana contro il cartello delle “sette sorelle” per una più “equa” ripartizione del profitto dell’estrazione del petrolio. Come si sa, chi deteneva il monopolio del trasporto petrolifero ebbe la meglio sul ribelle Mossadeq, il cui governo, che aveva costretto lo scià di Persia all’esilio, fu a sua volta rovesciato. Non fu possibile invece agli americani piegare la rivoluzione nazionalista di Castro ponendo il blocco a Cuba, pur essendo lo zucchero – il prodotto vitale dell’economia di quell’isola – consumato quasi tutto in America. Le rivalità imperialistiche hanno fatto trovare a Cuba un altro cliente (la Russia) che, sia pure non meno strozzino di quello americano, ha potuto consentirle di “vivere”, e perfino, a sentire Castro, di “edificare” nell’isola caraibica un “socialismo nazionale”. Si sa poi che anche alleati degli USA hanno cercato subito dopo di rompere il blocco economico americano: la Francia, l’Italia, ecc.. Nei primi giorni di quest’anno, gli Stati Uniti hanno protestato contro l’Inghilterra che avrebbe concluso un accordo economico per la costruzione a Cuba di impianti per la produzione di concimi chimici.

Come possono dunque sperare l’Inghilterra e soprattutto i Paesi del Commonwealth di vedere gli Stati Uniti applicare le sanzioni alla Rhodesia? E, a parte il fatto che esiste un Paese che non è membro dell’ONU e che è la seconda potenza commerciale del mondo, cioè la Germania Occidentale, e che il Portogallo e il Sud Africa sono a fianco della Rhodesia, la stessa Gran Bretagna avrebbe tutto da perdere e nulla da guadagnare da sanzioni che fossero realmente applicate (il Sud Africa è il quarto cliente commerciale dell’Inghilterra).

Come si vede, le nazioni che sulla carta sono “unite” sono in realtà “sparpagliate”. La vittoria sul razzismo bianco rhodesiano si dimostra quindi una illusione piccolo-borghese di tutta la genia di “antirazzisti” conservatori. In cima al pensiero di costoro non v’è che il pio desiderio di perpetuare la “fiducia” dei popoli soggetti agli sfruttatori in genere e a quelli di Occidente in specie. «È difatti opinione di tutti gli esperti conoscitori della situazione africana che il caso della Rhodesia è il grande banco di prova sul quale si misureranno le possibilità degli Occidentali di conservare, a medio e lungo termine, qualche influenza sull’Africa». Dalla rivista “Il Tempo”, a firma di V. Gorresio).

Per noi marxisti, il problema non può essere posto come lo pongono anche quelli che si qualificano di “sinistra”, cioè sul piano della pura democrazia politica borghese, che vorrebbe risolverlo dando un voto uguale a ciascuno dei duecentomila bianchi e dei quattro milioni di negri della Rhodesia. Pretendere di rinchiudere questo problema nel misero contesto nazionale e farne restare assenti il protagonista della storia moderna, il proletariato, e la sua strategia rivoluzionaria mondiale, è infine un’assurdità completa. È pura demagogia la pretesa dei laburisti inglesi o dei falsi comunisti di battere con le forze statali il razzismo bianco della Rhodesia, del Sud Africa o dell’America del Nord. Ed è puro riformismo immaginarsi una società borghese insieme multirazziale e pacifica, in cui cioè borghesi di pelle bianca o colorata sfruttino proletari bianchi e di colore senza urti clamorosi e senza lotte cruente.

Per ora, i fatti si sono preoccupati di smentire tutti gli impostori insieme ad altri problemi che fanno perdere il sonno a tutti i pacifisti (il Vietnam!), la borghesia ha avuto l’abilità di crearne un altro, quello della Rhodesia, le cui contraddizioni non saranno risolte che dalla violenza rivoluzionaria del proletariato e dalla rivoluzione comunista mondiale.