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Qualche lezione dagli avvenimenti del Sudan (Il Prartito Comunista, n.19 del 1971) |
Sono due mesi circa che il Sudan è stato scosso da un ennesimo colpo di Stato,
sanguinosamente represso da Nimeiry grazie all’aiuto libico-egiziano. Ciò che
emerge una volta di più dagli avvenimenti sudanesi è che:
1) Un paese sottosviluppato, per quanti sforzi faccia, non può da solo accedere
all’indipendenza economica e quindi politica dall’imperialismo, dal quale anzi
viene ancor più a dipendere;
2) Le borghesie nazionali dei paesi coloniali ed ex coloniali hanno dimostrato
di non essere neppure in grado di compiere la loro rivoluzione e perciò di
subire di volta in volta l’influenza o il dominio di questo o quel paese
capitalisticamente progredito;
3) Presi nel vortice della guerra di conquista dei mercati mondiali, anche i
tentativi di sottrarsi al dominio imperialistico mediante federazioni
multinazionali sono votati al fallimento;
4) Il proletariato urbano e rurale, là dove esiste ed è organizzato, non può
attendere dalla propria borghesia alcun sensibile miglioramento delle
proprie condizioni di vita, alcun sollievo dallo stato di miseria e di
umiliazione in cui versa;
5) Solo il collegamento col movimento operaio internazionale, soprattutto dei
Paesi capitalisticamente evoluti, riuscirà a strapparlo dal super sfruttamento
cui è sottoposto, nel quadro della lotta rivoluzionaria per l’abbattimento del
regime capitalistico in tutto il pianeta.
Il massacro dei comunisti sudanesi, come già di quelli dell’Iraq, dell’Indonesia, della Siria e dell’Egitto, è il tragico risultato della tattica della collaborazione di classe che i partiti filorussi hanno sempre seguito, soprattutto nel cosiddetto “terzo mondo”, e che noi soli denunciammo fin dal 1926-27, che vide la disintegrazione del partito comunista cinese nel Kuomintang di Chiang Kai-shek e i massacri di Shangai e Canton. Non è un episodio fortuito, o un “incidente”, ma il punto di approdo necessario di una visione distorta degli obiettivi e dei compiti della classe operaia nelle rivoluzioni nazionali e coloniali.
lndipendenza instabile
Un breve scorcio storico ci offrirà una più esatta inquadratura della situazione non solo del Sudan, ma di molti paesi giunti all’indipendenza in seguito allo sfacelo dell’immenso impero coloniale britannico.
Nel dicembre del 1955, il Sudan si scrollava di dosso il condominio anglo-egiziano costituendosi in Stato indipendente; morivano cosi le ambizioni egiziane a un’unione politica per creare un grande Stato nell’area mediorientale africana, e con esso controllare il Canale di Suez e gran parte del Golfo Persico.
Se da un lato il Sudan si sottraeva al giogo coloniale britannico, dall’ altro all’Inghilterra interessava di più conservare la propria influenza su una giovane Repubblica che vedersene irrimediabilmente sfuggire il territorio. La più vecchia potenza colonialista del mondo appoggiava – può sembrare un paradosso – l’indipendenza dei paesi già sottoposti al suo controllo politico e militare, nella convinzione di poterne cosi mantenere e forse rafforzare i legami di dipendenza economica e finanziaria. Del resto, è noto che, nella fase imperialistica, il colonialismo storico diviene un controsenso: il dominio mondiale degli USA poggia su ben altro che sul possesso di colonie nel senso tradizionale della parola!
La Repubblica Sudanese eredita dal passato un groviglio di problemi destinati a sconvolgerne periodicamente la vita, primo fra tutti quello delle provincie meridionali. Il Sudan, infatti, è diviso in due grandi aree etniche: il Nord, abitato da popolazioni arabe e nilotiche con tradizioni e civiltà islamiche; il Sud, abitato da popolazioni di razza nera con civiltà molto arretrata e praticanti un misto di cristianesimo e di animismo. Il Nord è più sviluppato dal punto di vista industriale e commerciale e gode di uno sbocco al mare (Port Sudan); il Sud vive in genere su vaste piantagioni di cotone i cui grossi proprietari sfruttano, nel quadro di rapporti in parte precapitalistici, una massa di contadini in condizioni di miseria estrema.
Già in un articolo apparso nel nr. 1 del 1956 e intitolato Dietro l’indipendenza del Sudan, notavamo come non fosse «la prima volta che popolazioni soggette alla dominazione britannica si rivelano, nel momento in cui si apprestano ad emanciparsi dalle antiche padronie ad avviarsi verso l’indipendenza politicamente divise» (Il caso del Pakistan, diviso in due tronconi separati dall’immenso spazio dell’India continentale è più che eloquente). L’imperialismo colonialista costretto a ritirarsi dai suoi ex-territori, «lo fa lasciando sui posti abbandonati pericolose mine politiche destinate ad indebolire o rendere precarie le nuove istituzioni statali».
La diagnosi ha ora trovato l’ennesima conferma. Da allora, una serie di colpi di Stato ha “cambiato la guardia” al vertice del potere, ma non ha risolto nessun problema, meno che mai quello delle tre province meridionali. Il partito Umma, rappresentante degli interessi dei proprietari terrieri del Sud, e il partito Unionista, esponente degli interessi della borghesia del Nord, si sono alternati al governo, servendo a loro volta gli interessi di potenze imperialistiche ben presto ridottesi a tre: Stati Uniti, Germania e URSS.
Nel maggio del 1969, con l’ascesa al potere di Nimeiry e Awdallah, sembrava che la bilancia dovesse pendere definitivamente a favore dell’URSS; la rottura delle relazioni con gli Stati Uniti e la Germania, accusati di istigare il separatismo sudista, l’avvicinamento alla RAU di Nasser, i rapporti diplomatici e commerciali instaurati con i paesi dell’area moscovita e con la Cina, parevano confermare questa inversione di rotta. Lo stesso partito comunista sudanese di Abdel Mahjub appoggiava Nimeiry, anche se “criticamente”, e l’orgia diplomatica faceva dire al presidente della nuova Repubblica, Awdallah, che «il nostro socialismo è specificatamente sudanese ed è sulla base delle nostre proprie tradizioni che edificheremo il nuovo Sudan», mentre Nimeiry si professava «un socialista moderato che crede al nazionalismo arabo» (“Jeune Afrique”, nr. 440/1969).
Presto, tuttavia, l’inconsistenza non solo dell’ennesima “via nazionale al socialismo” ma della stessa “via” allo sviluppo economico e sociale del Paese si rivelava in tutta la sua crudezza, con l’incapacità politica della borghesia sudanese e col fallimento della politica estera moscovita. Le famose “mine” esplodevano a ripetizione.
Ancora una volta, erano gli eterni problemi delle minoranze razziali del Sud a provocare convulsioni sociali e politiche. La guerra “di guerriglia” nelle provincie meridionali, tesa ad ottenere l’autonomia dal potere centrale di Khartum, dura ormai quasi ininterrottamente dal 1963. A nulla sono valse le dichiarazioni secondo le quali “il nostro arabismo” non si oppone al “nostro africanismo”. Il Sudan, benché geograficamente lontano dall’area del Medio Oriente gravita per forza di cose a nord, verso i più ricchi paesi confinanti arabi, Egitto e Libia. Il ciclo di sviluppo del Paese non può che avvenire nelle regioni del Nord, dove esistono strade, ferrovie e centrali idroelettriche, distaccandosi sempre più dall’arretrato sud agricolo. È nostra vecchissima e ultra-dimostrata tesi che il capitale, per quanto piccolo, tende sempre ad investirsi là dove può più rapidamente riprodursi. Ciò vale tanto per i paesi capitalisticamente evoluti quanto per i paesi sottosviluppati – anzi, a maggior ragione per questi ultimi, che dipendono essenzialmente da investimenti e prestiti esteri.
La tragedia del proletariato sudanese
Queste tensioni sono caratteristiche di tutti i paesi ex-coloniali, e sono una delle ragioni per cui, resisi “indipendenti”, le gracili borghesie indigene hanno affidato e affidano non solo il mantenimento dell’ordine, ma lo stesso esercizio del potere, alle forze armate (istruite e rifornite da questa o quella potenza imperialistica) e tali forze assumono dimensioni apparentemente sproporzionate alle risorse economiche interne: la repressione nel sangue è all’ordine del giorno, soprattutto se, a complicare la faccenda, esiste – come appunto esisteva nel Sudan – un proletariato numericamente piccolo, ma combattivo e organizzato.
Qui infatti, come in Egitto, avevano una storia relativamente lunga forti associazioni operaie che, mentre testimoniavano la presenza organizzata di un numero considerevole di proletari, non potevano non essere in diretto e permanente contrasto con lo Stato per le indegne condizioni di vita e per l’atroce sfruttamento cui era ed è sottoposta la manodopera negra nel Sud.
Non a caso le borghesie ferocemente anticomuniste dell’Egitto e della Libia si sono affrettate a intervenire contro l’autore del colpo di Stato di “sinistra” del19 luglio scorso; non a caso lo stesso El Atta e il dirigente comunista filo-moscovita (che però sembra non godesse più, per il suo “estremismo”, tutto il favore del Cremlino) Mahjub, sono stati massacrati seduta stante; non a caso, subito dopo, è stato passato per le armi il leader sindacale El Sceikh.
E forse che, di fronte alla distruzione fisica del movimento operaio organizzato e del partito comunista, Mosca e Pechino hanno mosso un dito? La prima è stata zitta durante il brusco “contraccolpo “; poi si è limitata a chiedere... grazia per Mahjub; infine, ma molto debolmente, ha elevato proteste diplomatiche, preoccupandosi però essenzialmente di sapere che cosa il vittorioso Nimeiry intendesse fare delle proprietà sovietiche e come vedesse il futuro dei rapporti commerciali. «Pur ribadendo – dichiarava la Tass – i principi della non ingerenza negli affari interni, si sono registrati alcuni atti che colpiscono i buoni rapporti URSS-Sudan, e danni alle proprietà sovietiche nel Sudan. Si chiede se i dirigenti sudanesi siano intenzionati a mantenere i rapporti di amicizia» [cari, questi!]. Un comunicato simile non era certo atto a placare la furia della reazione antioperaia, che anzi è continuata per giorni e giorni. Se Mosca belava, Pechino a sua volta si congratulava con Nimeiry, registrando «positivamente il [suo] ritorno al potere», come già aveva fatto per il Bengala e per Ceylon. Evidentemente, l’uranio, l’oro e il ferro di cui è ricca la parte meridionale del Sudan è un bottino troppo ghiotto per uno Stato tutto impegnato nell’accumulazione di capitale e nella politica di grande potenza: altro che fornire “aiuti” ai popoli del “terzo mondo” per la lotta contro l’imperialismo!
Si è continuato per anni a vantare il ruolo delle masse dei paesi sottosviluppati, che, secondo le teorie maoiste e marcusiane, avrebbero dovuto sostituire nella lotta antimperialista il proletariato dei paesi industriali, ormai “imborghesito”, nell’atto stesso in cui, avendo distrutto l’Internazionale Comunista e messo i partiti comunisti al servizio delle rispettive borghesie nazionali, si combinavano affari tra i meandri della diplomazia.
Ed ecco che il fulmine a ciel sereno dell’avvicinamento cino-americano ha riportato allo scoperto i reali interessi al fondo nelle vicende del Sudan come di quelle del Vietnam. Il partito comunista sudanese, che aveva sempre appoggiato le forze borghesi e militari interne confidando nella loro promessa di instaurare una repubblica democratica e di stringere buone relazioni coi paesi socialisti, ha subìto la tragica sorte dei rivoltosi. Che cosa è valso predicare per anni un “fronte democratico” con tutte le forze del Paese, dai “militari democratici” al “capitalismo-nazionale”, se non la defezione di una parte dello stesso partito, fusasi col partito Unionista, e l’incapacità di presentarsi alle masse contadine diseredate e al proletariato urbano come il rappresentante dei loro veri interessi generali contro tutte le altre classi? Al momento decisivo, il proletariato sudanese si è trovato solo, disarmato nella teoria come nella pratica, e ha dovuto subire una repressione tanto più bestiale quanto più tentava di resistere.
E quale solidarietà è stata data ai fratelli sudanesi dai “comunisti” degli altri paesi? Solo un impotente piagnisteo sui metodi adottati da Nimeiry, un servile appello all’opinione pubblica perché salvasse la democrazia colpita a morte sulle sponde del Nilo; e neppure un minuto di sciopero dei proletari organizzati all’insegna di tutte le Botteghe Oscure del mondo! Ma di questa “solidarietà” i proletari sudanesi, come i proletari di qualunque altro paese, non sanno che farsene. Con la storia delle “vie nazionali al socialismo” si è in realtà strappato dal cuore del proletariato il senso vivo della solidarietà di classe, si è distrutto il concetto stesso di socialismo sostituendolo con una orribile miscela di democrazia e nazione, coi miti osceni della “propria” economia e della “propria patria”. I corpi martoriati dei proletari e militanti sudanesi ne sono la testimonianza tragica!
Dopo più di cinquant’anni di controrivoluzione e d’imbonimento democratico, la ripresa di classe tarda ancora; ma è altrettanto vero che la crisi del modo di produzione capitalistico, già in atto e destinata ad acuirsi sempre più, non potrà essere affrontata che con un generale moto di classe. Il proletariato dei paesi ex coloniali non ha da contare che sul collegamento col proletariato delle metropoli imperialistiche, anche solo per il primo traguardo della emancipazione nazionale: da esso gli verrà la lezione della necessità di una lotta generale contro gli imperi borghesi. Lotta che presuppone un’unica guida, quella del Partito Comunista Mondiale come organo della conquista rivoluzionaria del potere e dell’esercizio della dittatura proletaria. Fuori da questa prospettiva, c’è solo sconfitta e morte.