Partito Comunista Internazionale Indice studi africani


La grande menzogna della decolonizzazione africana

(Il Programma Comunista, N° 3, 4, 6 del 1972)


Secondo le finzioni dell’ideologia borghese, la decolonizzazione dell’Africa nera avrebbe portato con sé la formazione di Stati nazionali indipendenti. Questi Stati non dispongono forse di tutti gli attributi delle vecchie democrazie? Il suffragio universale non vi consacra forse l’eguaglianza di tutti i cittadini? Le loro Costituzioni ricalcate su quelle delle metropoli non attribuiscono forse allo Stato il compito della difesa della “integrità del territorio nazionale”? Non è forse sull’altare dell’unità nazionale che vengono offerti grandi sacrifici, ieri nel Camerun, oggi nel Ciad? (1). Infine i nuovi Stati non concludono forse degli accordi “su un piano di eguaglianza” coi loro vecchi padroni sotto la protezione dell’ONU, che prodiga la stessa sollecitudine a tutti i suoi figli, alla Costa d’Avorio come alla Francia?

Tutto questo basta all’ideologia borghese, che ha sempre confuso la realtà sociale e storica con le finzioni del diritto.

Quando le nebbie della controrivoluzione si saranno dissipate, la “decolonizzazione” dell’Africa nera apparirà come una delle più grandi mistificazioni del secondo dopoguerra. Nell’attesa, se le illusioni ingenue sull’indipendenza sono quasi completamente cadute al giorno d’oggi fra le coraggiose masse africane che, negli anni ‘50-’60, hanno fatto i loro primi passi sulla scena politica mondiale, bisogna ben riconoscere che il mito della decolonizzazione resta quasi completamente intatto nella coscienza delle masse operaie della metropoli e che anche la ignobile guerra del Ciad non ha ancora potuto vibrarle alcun serio colpo.

È un dato di fatto che lo sfruttamento accresciuto dell’Africa nera in tempo di guerra, con il suo corollario di esazioni fiscali, di requisizioni di prodotti tropicali e di uomini per il lavoro obbligatorio e per il servizio militare originò, a guerra finita, delle reazioni massicce alle quali la decadenza dei vecchi imperialismi francese e inglese aprì una larga breccia. Spinti dall’ONU – questa nuova “caverna di briganti”, dominata dalle grandi potenze vincitrici, l’americano e il russo – queste vecchie potenze moribonde dovettero rassegnarsi a “incamminare le loro colonie verso l’indipendenza”.

Ed è altrettanto illusoria la pretesa che quest’ultime siano diventate dei veri Stati borghesi nazionali. In realtà, la famosa indipendenza dell’Africa nera non è che uno dei numerosi miti democratici destinati ad addormentare il proletariato accreditando la leggenda secondo cui la seconda guerra imperialista mondiale sarebbe stata una… crociata per la libertà.

La Francia ebbe quindici anni per preparare il personale fidato adatto al nuovo ordine di cose. Questo personale nacque in modo del tutto naturale dallo sviluppo embrionale del mercantilismo nella società africana e dal rafforzamento dell’amministrazione coloniale. Gli si fece fare il suo addestramento politico e passare i suoi esami di buona condotta, dapprima con l’Union Française (un organismo che riuniva tutte le gemme della corona coloniale francese, una sorta di Commonwealth francese). Poi con la legge quadro di Defferre, proposta nel 1957 dall’allora ministro delle Colonie e fatta approvare dal Governo di Fronte Repubblicano di Guy Mollet, sostenuto dalla simpatia del PCF, che inquadrò e fissò i limiti territoriali dei futuri Stati indipendenti, dotandoli d’una amministrazione e di funzionari da lungo tempo addestrati, cosa che la dice lunga sul carattere della “indipendenza” delle ex colonie francesi!. Infine con la Comunità del Generale-Presidente.

La famosa decolonizzazione consistette nel mettere alla testa dell’amministrazione coloniale di ogni territorio il personale addestrato nel modo che abbiamo visto. Fatto che non si verificò senza alcuni scontri notevoli. Il personale francese non sparì, ma cambiò nome: gli amministratori coloniali divennero consiglieri tecnici. All’infuori delle cariche onorifiche, i posti chiave dell’amministrazione, dell’esercito, della polizia e della giustizia, sono tenuti da questi “consiglieri e assistenti tecnici” nell’attesa che la formazione di sostituti devoti, gli “omologhi” (ironia della parola!) sia conclusa nel quadro dell’“africanizzazione”.

Si legga, ad esempio, nello “Studente del Camerun” del gennaio del 1970 il seguente brano: «Il capo incontestato e incontestabile dell’esercito camerunese è un colonnello francese, così come i suoi immediati subalterni. I comandanti delle guarnigioni principali sono francesi, salvo per le guarnigioni del Camerun ex-britannico, ove sono… inglesi. Le forze armate sono completamente in mano ai franco-britannici e più particolarmente ai francesi. Sono loro infatti che determinano gli effettivi, la strategia, l’armamento, ecc.».

I vecchi ordini dei Governatori delle Colonie sono stati sostituiti da trattati di cooperazione economica, finanziaria e militare il cui rispetto è controllato dalle Missioni francesi. La Banca Centrale degli Stati di nuova nascita altro non è che la Banca di Francia.

In queste condizioni non ci si può stupire dell’osservazione della rivista Entreprise del 30 gennaio 1971: «La maggior parte dei Paesi dell’Africa nera francofona, ad eccezione della Guinea, del Mali e del Congo Brazzaville, hanno spesso seguito le posizioni francesi alle Nazioni Unite e nei grandi Congressi internazionali. Benché indipendenti questi Stati continuano tuttavia a vivere “all’ora di Parigi” e a rifarsi ai suggerimenti del generale De Gaulle e di qualcuna delle organizzazioni alle sue dipendenze».

Questi pochi fatti bastano a dimostrare che la decolonizzazione dell’Africa nera è una pura lustra. Il fatto è che “l’indipendenza” dell’Africa nera si è compiuta in un’epoca in cui lo sviluppo sociale non aveva ancora comportato la formazione di vere classi sociali aventi degli interessi storici propri ed esclusivi. Lo Stato “indipendente” non è che uno strumento del mercato mondiale e continua il compito dell’amministrazione coloniale che consiste nel fornire, sulla base della monocoltura obbligatoria là dove il mercantilismo non ha ancora penetrato le campagne, e in ogni modo sulla base dell’imposta, le merci necessarie alle metropoli.

Basti ricordare che appunto “per non pagare mai più imposte” i ribelli del Ciad sono caduti sotto i colpi dell’esercito francese, e che proprio le esazioni fiscali ancora quest’anno hanno sollevato un vento di fronda nel Sud del Madagascar. Così nell’insieme è più corretto dire che lo Stato non tanto si appoggia su settori interessati allo sviluppo del mercantilismo e del capitalismo, quanto li riunisce attorno a sé.

Lo Stato è semplicemente una succursale dell’imperialismo, anche se gli si riconosce formalmente la personalità giuridica.

Così l’imperialismo francese tiene ancora sotto il suo diretto dominio nell’Africa nera e nel Madagascar, senza parlare delle Antille, di Réunion e di altri brandelli di colonie, una popolazione di 50 milioni d’abitanti, l’equivalente di quella metropolitana. Se una parte della borghesia francese si è decisa all’“indipendenza” dell’Africa nera solo con molte reticenze e al prezzo di qualche sacrificio economico, sotto la pressione delle grandi potenze americana e russa, il vantaggio politico che ne ha ricavato la borghesia nel suo insieme è immenso, perché il mito della decolonizzazione dell’Africa nera ha potuto ridare una verginità “democratica” al capitalismo francese e così rafforzare il suo dominio politico sulla classe operaia

In realtà questo mito permette alla borghesia e al suo Stato di lavarsi le mani del sangue versato dai popoli dell’Africa nera. Il passato è cancellato e la borghesia trova addirittura nelle parole alate dei capi di Stato africani la remissione di tutti i suoi peccati. È con queste parole che Houphouët-Boigny (Presidente della Costa d’Avorio) ricevette il capo di Stato francese nel febbraio del 1971: «Noi siamo una vecchia coppia d’amici fedeli e senza drammi e la nostra storia è bella perché essa si è nutrita di comprensione e stima reciproche» (Le Monde del 10 febbraio 1971).

Questo mito permette egualmente di far passare senza danni gli interventi militari, l’altro ieri nel Camerun, ieri nel Gabon, oggi nel Ciad, poiché si tratta di un aiuto generosamente concesso in virtù degli accordi di cooperazione militare, conclusi su “un piano di eguaglianza”. In tal modo Tombalbaye, capo dello Stato del Ciad, può chiudere il becco ai politici che protestano contro l’intervento militare, pur difendendo il mito della decolonizzazione: «Noi neghiamo categoricamente al deputato della Nièvre (si tratta di Mitterand, interlocutore scelto per il PCF, spinto da un impeto di solidarietà internazionalista a porre una… interrogazione parlamentare) il diritto di chiedere al governo francese di fornirgli spiegazioni sulla situazione interna di un Paese straniero e sovrano» (Le Monde del 4 novembre 1969).

Questo mito è diffuso da tutti i difensori dell’imperialismo francese, non soltanto dal liberalismo della grande borghesia, al governo o all’opposizione, ma anche dalla democrazia piccolo-borghese e dalla sua variante “operaia”. L’opportunismo ufficiale denuncia a parole il neocolonialismo, ma in nome dei “veri interessi della Francia”, il che significa che l’accetta nei fatti. Un esempio ne è dato da l’Humanité del 13 settembre del 1970 che si domanda ipocritamente se non si tratti nel Ciad di una “riconquista coloniale”, diffondendo così la menzogna borghese secondo la quale la conquista e il dominio coloniali sarebbero finiti.

Il proletariato deve sapere che le masse africane non potranno anche in futuro non sollevarsi contro l’oppressione coloniale e non vibrare duri colpi allo Stato francese, questo nemico il cui abbattimento è il compito storico del proletariato della metropoli. È perciò che la denuncia del mito della decolonizzazione dell’Africa nera è indispensabile per preparare il terreno politico della lotta della classe operaia contro l’oppressione coloniale perpetrata dal suo proprio Stato. Questa lotta è una delle condizioni per l’emancipazione del proletariato dal giogo del capitale (Marx diceva che “un popolo che ne opprime un altro non può essere libero”), così com’è una delle condizioni per l’unificazione internazionale della forza di classe dei proletari di pelle bianca e nera sul programma del comunismo. Essa è infine la condizione sine qua non del convergere della lotta del proletariato comunista con quella delle masse lavoratrici dei Paesi oppressi, convergenza che sola può fare della lotta delle masse colonizzate una leva per la distruzione del capitale.



Il Programma comunista n. 4 del 1972

Frase “rivoluzionaria” e sordida realtà dello Stato coloniale

Abbiamo visto nell’articolo precedente che la decolonizzazione dell’Africa Nera non è neppure incominciata, che lo Stato vi svolge sempre la stessa funzione, quella dell’amministrazione coloniale, e che questo Stato è sempre nelle mani dell’imperialismo francese. La nostra affermazione sulla natura degli Stati dell’Africa Nera dovrebbe essere dimostrata, ben inteso, con lo studio dell’evoluzione del modo di produzione in Africa Nera. Per ora, proponendoci noi semplicemente di mostrare il ruolo dell’imperialismo francese nell’Africa Nera, possiamo accontentarci di trovare delle prove di questa affermazione nel comportamento di quegli Stati e nelle dichiarazioni dei nostri avversari.

Il dominio dell’imperialismo francese sugli Stati che si pretendono indipendenti è confermato non soltanto dallo spirito gregario dei loro governi nei confronti della politica francese, ma soprattutto dalle velleità sedicentemente rivoluzionarie di alcuni governi come quello del Congo-Brazzaville o del Mali.

Secondo il Figaro del 19-20 settembre 1970, «la Repubblica popolare del Congo… è minata da sorde rivalità fra militari e civili e ancor più fra maoisti e filosovietici. L’epoca in cui esisteva un corpo di polizia cubano è passata, ma l’incorporazione nell’esercito delle milizie giovanili ha introdotto un elemento di instabilità cronica». Vi sono, secondo il Figaro, motivi seri per preoccuparsi? Niente affatto! «Questa politicizzazione ad oltranza non ha fino ad ora influito sulle relazioni con la Francia, la quale continua a fornire un aiuto importante».

Una prova della sottomissione completa del governo di Brazzaville all’imperialismo francese, malgrado le sue frasi ruggenti e “marxista-leniniste” o le dichiarazioni “rivoluzionarie” e “antimperialiste”, è il recente arresto dei rifugiati politici camerunesi (militanti dell’Unione Popolare Camerunese, l’organizzazione che ha diretto la lotta armata contro l’imperialismo francese) per consegnarli al governo tramite l’organizzazione dell’unità africana. Sia detto di passaggio, il Partito Socialista Unitario – omologo grosso modo dell’evanescente PSIUP italiano, che si pone in Francia “a sinistra” del PCF perseguendo una politica che tende a convergere con le forze della sinistra non ufficiale e a farle rientrare nella politica ufficiale – rivela la sua vera natura di lacchè dell’imperialismo, quando vanta “l’antimperialismo” del governo di Brazzaville.

Ci si ricordi anche del Mali che ricevette dalla canaglia opportunista una patente di “socialismo”, allorché Modibo Keïta dovette uscire dalla zona del Franco per sostituire il piccolo commercio con un commercio di Stato. Quando la giunta dei tredici tenenti prese il potere, essa si affrettò a chiedere il ritorno nella zona del Franco e ad autorizzare l’apertura del piccolo commercio, mantenendo aperti, fra negozi di Stato, solo quelli non passivi. L’imperialismo francese non ebbe bisogno di intervenire. Le misure di Modibo Keïta urtavano contro il debolissimo sviluppo del mercantilismo nel Paese e contro i limiti artificiali del Mali. Era una evasione solitaria che doveva concludersi inevitabilmente e senza lunga attesa con il ritorno all’ovile.

Per comprendere meglio la persistenza integrale del dominio politico dell’imperialismo francese sugli Stati di nuova creazione bisogna rifarsi alla realtà sociale. Il fatto che questi Stati sono dei veri e propri strumenti del mercato mondiale più che degli Stati che si appoggiano su ceti e classi autoctone; anche se possono trascinarseli dietro, postula il dominio diretto di un dato imperialismo. È per questo che, spingendo i franco-inglesi a decolonizzare, gli altri imperialismi non potevano non affermare il loro diritto all’intervento; non potevano non rompere il monopolio economico delle metropoli europee tradizionali, rottura utile (soprattutto per l’avvenire) nella misura in cui gli Stati nati dalla “decolonizzazione” erano come sono gli agenti diretti dello sviluppo del mercantilismo.

D’altra parte, quegli imperialismi, non potevano, nell’immediato, colpire il monopolio politico degli anglo-francesi senza mettere in pericolo gli interessi generali del capitale, distruggendo l’illusione dell’“indipendenza” stessa. Ecco all’incirca il catechismo che borbottano i grandi preti dell’indipendenza africana, l’America e la Russia, nella cattedrale che si sono costruiti all’ONU. «La Francia e l’Inghilterra facciano la loro bisogna; esse lavorano per noi! Continuino a estorcere i prodotti tropicali, se è il caso con la coltura obbligatoria, e soprattutto con la imposta; continuino a sviluppare il mercantilismo! Noi ridivideremo l’Africa, come abbiamo fatto per l’America Latina o per l’Asia, quando le condizioni saranno mature! Già una volta siamo stati i liberatori; con un po’ di fortuna, potremo apparire tali una seconda volta!».

Per limitarsi a un solo esempio, il no tonante di Sékou Touré alla Comunità del generale De Gaulle ha provocato dietro le quinte proprio il movimento che abbiamo descritto più sopra. Il rifiuto aveva comportato il ritiro immediato di tutto il personale francese dalla Guinea; nella breccia così aperta si infilarono i russi, ma a partire dal 1962 le speranze che essi avevano destato svanirono. Che cosa potevano essi fare di diverso dai colonizzatori francesi di uno Stato al servizio del mercato mondiale? Ma dopo di allora, malgrado una presenza discreta dei russi e anche dei cinesi, sono gli americani che hanno la loro lunga mano in Guinea. Come scrive il Figaro del 9 dicembre 1970: «Vi è una spiegazione semplice di questo zelo degli USA in favore dell’attuale potere guineano, che essi sostengono discretamente, a fuoco leggero, senza essere sicuri di poterlo salvare, a causa di una situazione economica che peggiora senza tregua e di una opposizione interna ed estera che si rinforza» Questa spiegazione è stata data da un uomo d’affari americano molto tranquillo e gentilmente cinico: “Con il disordine che impera in Guinea, malgrado il sistema o per colpa sua, noi facciamo quasi tutto ciò che vogliamo: non saremmo forse altrettanto liberi di sfruttare il Paese, voglio dire di metterlo in funzione, sotto un regime più conseguente”».

Se mettiamo da parte i rancori del giornale Le Figaro per il fatto che la preda guineana e le sue bauxiti sono sfuggite al monopolio francese, insieme alle più false grida isteriche e “socialiste” dello Stato guineano di Sékou Touré, rimane il fatto che esso svolge esattamente la stessa funzione dei suoi vicini e che le sue difficoltà attuali sono sicuramente dovute al fatto ch’esso non è sostenuto se non “a fuoco leggero” dall’imperialismo invece di essergli legato mani e piedi come il Ciad o altri Stati. In fin dei conti l’emancipazione della Guinea dall’imperialismo francese è stato il prezzo che quest’ultimo ha dovuto pagare per dimostrare all’insieme dei governi africani da esso insediati la necessità della loro sottomissione formale alla Francia; senza perdere d’altronde nessuna occasione per tentar di mettere di nuovo le grinfie sulla Guinea.

Per ritornare all’insieme dei Paesi sotto dominazione francese diretta, i filistei sono rassicurati dall’atteggiamento esteriormente “indifferente” dello Stato francese di fronte alla serie di colpi di Stato e ai diversi e frequenti cambiamenti politici che si producono negli Stati dell’Africa nera qualificati dalla borghesia come francofoni, ed essi trovano in ciò una ragione di più per diffondere la menzogna della loro indipendenza. È il caso del giornale Le Monde in un articolo del 3 febbraio 1971: «Se il governo francese ha consentito due eccezioni, l’una nel febbraio 1964 in favore del Gabon, l’altra due anni dopo in favore del Ciad (Le Monde dimentica di citare l’intervento militare nel Camerun nel 1960-62 che fu il più massiccio e il più sanguinoso) esso ha rifiutato in generale le richieste di intervento da parte di regimi che, legati alla Francia da trattati di difesa, facevano appello al suo aiuto per trionfare sulle minacce di sovversione interna». Nondimeno l’articolo in questione ha cura d’aggiungere: «Certo, si lascia intendere che il governo francese ha tentato di influire discretamente sull’evoluzione di questo o quel regime piuttosto che provocare, per esempio, un cambiamento brutale, ma le ingerenze restano le eccezioni, non la regola».

A questa constatazione ipocrita si potrebbe rispondere con una domanda alla quale non occorre risposta, anche per il piccolo borghese che non comprende mai nulla nei misteri del capitale e nei colpi ch’egli ne riceve: una società ha forse bisogno di “ingerirsi” apertamente negli affari di un’altra società, quando ne detiene il capitale e si è assicurata il potere nel suo consiglio d’amministrazione? In realtà, l’imperialismo francese può lasciare un certo “margine” politico ai governi africani, dal momento che gli Stati ch’essi dirigono non sono che filiali dello Stato imperialista. La frase, i programmi dei governi non cambiano e non possono cambiare nulla al programma reale degli Stati che funzionano come strumenti del mercato mondiale: sfruttamento forsennato sulla base del modo di produzione esistente per fornire prodotti tropicali e materie prime indispensabili alle metropoli imperialiste, e, in modo derivato ma necessario, sviluppo del mercantilismo e creazione delle condizioni per il capitalismo, tutto ciò coi mezzi dell’imposta, dell’usura di Stato, e se necessario della coltura obbligatoria e della corvée nascosta sotto la graziosa definizione, brevetto cinese, di “investimento umano”.

Chiusi in questa sordida realtà coloniale, i governi africani tentano periodicamente di sfuggirne con la fraseologia “rivoluzionaria” e “antimperialista”, senza poter impedire che agli occhi delle masse colonizzate, i miti dell’indipendenza affondino uno dopo l’altro, da quelli del Mali e del Congo-Brazzaville fino a quello della Guinea


Verso la fine del monopolio coloniale 

In effetti se la fine della seconda carneficina mondiale ha condotto a una nuova divisione del mondo, se l’Europa è stata divisa e occupata militarmente a partire dal 1945, se la nuova divisione dell’Asia con l’indipendenza dell’India, la guerra di Corea e quella d’Indocina, la suddivisione del Medio Oriente a partire dal 1956 si sono realizzati a spese dei vecchi imperialismi europei, il carattere ancora relativamente recente della dominazione capitalistica sull’Africa nera non ne ha reso possibile una nuova spartizione malgrado gli sforzi evidenti del gigante americano.

L’imperialismo americano (non parliamo del russo perché la sua presenza in Africa nera, nonostante qualche giochetto senza successo nella Guinea, nel Mali e nel Congo Brazzaville, è praticamente nulla) se non ha distrutto la dominazione politica dei vecchi rapaci europei sul Continente nero, ha tuttavia acquisito un “diritto” alla penetrazione nel Continente. Avendo abbandonato ai franco-inglesi il compito della introduzione delle condizioni capitalistiche di produzione, esso ha acquisito il diritto di beneficiare delle conseguenze di tale compito, riservando il suo intervento diretto ai casi di maggiore importanza: ad esempio, per sostenere il suo piccolo lacchè belga nel Congo o per assicurarsi una posizione strategica importante, come in Etiopia.

Inoltre l’imperialismo francese, per celebrare il suo matrimonio di interesse con la Germania Federale, ha dovuto portare in dote le sue colonie africane e concedere un diritto di intervento commerciale e finanziario nella sua antica “riserva di caccia” alla Germania diseredata. In questo consiste la famosa “associazione” di 18 Paesi africani al Mercato Comune, che unisce le colonie francesi meno la Guinea, e alle quali si aggiungono il Congo-Kinshasa, il Ruanda, il Burundi e la Somalia.

In presenza di tali condizioni, lo sviluppo embrionale di un mercato interno nei Paesi neri va di pari passo con la concorrenza più o meno vivace, più o meno importante, degli altri pescicani imperialisti ed essa, nella misura in cui si sviluppa, genera scontri sempre più aspri nell’antico monopolio coloniale.

Secondo il settimanale L’Usine nouvelle dell’11 febbraio 1971, «se la Francia resta il primo fornitore e il primo cliente dei Paesi africani francofoni, la sua parte nel totale dei loro scambi esterni non cessa di diminuire: essa è passata dal 62% nel 1960 al 43% nel 1969. Nello stesso modo la parte dei 14 Paesi (le ex-colonie francesi meno la Guinea) nel commercio estero francese diminuisce: 4,2% del totale delle vendite estere nel 1969 (contro il 5,5% nel 1965) e il 3,5% del totale degli acquisti (contro il 4,5% nel 1965)”.

Questa «diminuzione relativa degli scambi commerciali della Francia con i Paesi africani francofoni (…) è dovuta innanzitutto alla “normalizzazione” progressiva del regime preferenziale di cui beneficiava la Francia, il che tende a mettere sullo stesso piano la Francia rispetto agli altri Paesi, in particolare rispetto a quelli della CEE. Inoltre ogni Paese africano, per una preoccupazione di indipendenza, si sforza di diversificare i suoi scambi esteri, aprendosi alla concorrenza internazionale».

Se il primo motivo avanzato da L’Usine nouvelle è effettivamente fondato, il secondo costituisce una mistificazione completa. L’argomento che consiste nel trovare una prova dell’indipendenza dei Paesi africani nella diversificazione dei loro scambi esteri è lo stesso di tutti i governi fantocci dell’Africa Nera; lo è in particolare l’argomento della diversificazione delle esportazioni, per cui ad esempio quelle verso la Francia sono passate in dieci anni dal 62% al 37%. In realtà l’imperialismo francese stesso ha interesse ad aumentare le sue vendite fuori dalla zona del franco, perché così si procura divise estere. La prova ne è fornita dal rapporto del Consiglio Economico e Sociale del 15 aprile 1970, le cui osservazioni si applicano non soltanto all’Africa Nera, ma anche all’Africa del Nord: «La bilancia degli Stati africani e malgascio verso i Paesi stranieri è globalmente attiva. Questo è un risultato notevole». E ancora: «Questa felice evoluzione è dovuta soprattutto allo sviluppo delle esportazioni di prodotti minerali: ferro, fosfati, petrolio, manganese, caffè, cacao e legni tropicali». Ed infine: «Il vantaggio per la Francia è chiaro: lungi dal costarle l’esborso di divise, gli Stati africani e malgascio ne apportano sempre più».

Si osservi il seguente prospetto che abbiamo redatto in base alle informazioni del rapporto già menzionato:

(in miliardi di Nuovi Franchi) 1964 1965 1966 1967 1968
Apporto in divise dei Paesi africani 1,1 1,2 1,2 1,3 1,5
Guadagni annuali totali in divise della zona del Franco 3,7 4,6 1,2 - -

Non occorre essere specialisti per notare come, a partire dal 1968 le esportazioni africane al di fuori della zona del Franco abbiano funzionato da “volano”. Così la diminuzione relativamente importante dagli acquisti metropolitani francesi dai Paesi d’Africa Nera non è tanto una prova di“ indipendenza” (tanto più che la commercializzazione di questi prodotti per i mercati di esportazione è monopolizzata da società francesi) quanto il risultato della politica finanziaria dell’imperialismo francese, che “diversifica” nel suo proprio interesse i mercati di esportazione.

Un’altra prova è data dal fatto che, se le esportazioni dei Paesi dell’Africa Nera sotto dominazione francese verso la loro metropoli sono passate dal 62% al 37% nel periodo dal 1959 al 1969, le importazioni dalla Francia nello stesso periodo sono soltanto diminuite dal 62% al 51%. Gli scambi commerciali si saldano dunque regolarmente con una eccedenza dell’ordine di 100 milioni di Nuovi Franchi in favore della Francia, senza tener conto dell’eccedenza ben superiore dovuta ai noli e alle assicurazioni, che sono ovviamente in mano alla Francia. Dal punto di vista commerciale, dunque, l’imperialismo francese resta vincente.

Il solo punto nero sull’orizzonte degli interessi imperialistici francesi resta la diminuzione relativa delle vendite verso i Paesi africani. Naturalmente, il mercato interno dei Paesi Neri è ancora debole, ma, come segnala un articolo del giornale Entreprise del 30 gennaio 1971 «rappresentando più di 50 milioni di abitanti, l’Africa Nera francofona costituisce un mercato non trascurabile per gli industriali e gli esportatori francesi, anche se il reddito annuale pro-capite è spesso inferiore ai 160 dollari». Ora, come afferma l’articolo, la diminuzione relativa delle vendite francesi è dovuta al maggior «dinamismo dei nostri concorrenti», e particolarmente dei tedeschi.

Sul piano del movimento dei capitali si può leggere nello stesso giornale che «gli investimenti francesi hanno tratto beneficio durante un lungo periodo di tempo da un regime di favore rispetto ai loro concorrenti europei, americani e giapponesi. Le potenzialità economiche enormi di questo Continente hanno reso molto redditizia la cooperazione… Il generale De Gaulle non aveva certo torto di affermare che l’aiuto ai Paesi africani “è il miglior investimento a medio e lungo termine”».

La generosa cooperazione nascondeva evidentemente sordidi interessi finanziari.

Ma altri capitali oltre ai francesi si investono ora in Africa: ad esempio, a nome dell’aiuto pubblico multilaterale europeo, il Fondo Europeo di Sviluppo ha inviato in Africa Nera 581 milioni di dollari, in applicazione del Trattato di Roma (200 come contributo della Francia, 200 della Germania Federale, ecc.) e deve inviare ancora 730 milioni di dollari secondo la convenzione di Jaudé (il contributo francese sarà ancora eguale al tedesco, cioè 246 milioni di dollari). Bisogna aggiungere l’aiuto bilaterale e soprattutto i capitali privati, per i quali la Germania Federale, come la stessa Italia, non rimangono certo fermi. Occorrerebbero dati più numerosi per poter redigere un prospetto degli investimenti nell’Africa Nera sotto dominazione francese; ma un fatto è certo, ed è che sul piano dei capitali la concorrenza si fa sentire nel modo più vivace.

L’articolo già citato di Entreprise osserva a proposito della Costa di Avorio: «Gl’ivoriensi tendono oggi ad indirizzarsi prevalentemente verso gli industriali americani, tedeschi, italiani, israeliani, addirittura giapponesi, più che verso i francesi».

È evidente che l’allargamento del mercato interno dei Paesi africani deve attirare capitali più numerosi, tanto più che in Africa Nera il tasso di profitto è più elevato. Ma l’accentuazione della concorrenza non può avvenire che a spese dell’imperialismo francese, la cui debolezza industriale congenita, malgrado i soprassalti degli anni ’60, è ben nota. E questa concorrenza, che diverrà sempre più aspra in avvenire, non può, a lungo termine, non vibrare i suoi primi colpi al dominio politico ancora incontrastato dell’imperialismo francese sull’Africa Nera, battezzata pudicamente e ipocritamente “francofona”.



Il Programma comunista n. 6 del 1972

Decolonizzazione dell’Africa francese e interessi del proletariato

Pubblichiamo in questo numero il quarto e ultimo articolo sulla serie “L’imperialismo francese e le sue colonie dell’Africa Nera” tradotto dal nostro organo in lingua francese “Le Prolétaire”. Benché limitato all’analisi delle misure adottate dalla Francia per difendere il proprio dominio nelle colonie e delle posizioni socialscioviniste dell’opportunismo “francese” (univoche e convergenti con quelle dell’opportunismo tout court), l’articolo interessa i nostri lettori anzitutto in quanto apre uno spiraglio sulla violenta concorrenza apertasi in seguito alla II guerra mondiale, con la crisi dei “tradizionali” imperialismi di Francia e Gran Bretagna, nei territori delle ex colonie, concorrenza che vede tutte le grandi potenze intente a ritagliarsi, in lotta l’una con l’altra, sfere d’influenza e di smercio dei loro prodotti nella prospettiva della crisi avanzante; in secondo luogo perché, nell’acuirsi di tale lotta, ribadisce la classica posizione marxista dell’intransigenza del proletariato nei confronti delle avventure coloniali soprattutto del “proprio” capitalismo, nella prospettiva dell’alleanza della classe operaia dei Paesi avanzati con le masse diseredate delle colonie per la dittatura internazionale del proletariato.

* * *

La rottura del monopolio coloniale francese, introducendo la concorrenza nel seno stesso dell’Africa Nera sotto dominazione francese, comincia a far pesare sull’avvenire degli interessi imperialistici della Francia l’ombra minacciosa di una nuova suddivisione delle zone di influenza. Di fronte a tale minaccia i rappresentanti delle diverse classi e degli strati sociali che traggono benefici dalla dominazione francese dell’Africa Nera non lesinano gli sforzi per proporre soluzioni adatte a preservare “l’avvenire africano della Francia”.

Circa tre anni fa il quotidiano “Le Monde” pubblicava un articolo di G. Comte dal titolo “La Francia e l’Africa” in cui ci si lamentava del “monopolio perduto” e dell’incapacità degli “specialisti” francesi stabiliti in Africa in confronto alle qualità degli specialisti inviati dagli altri Paesi imperialistici. L’articolo si concludeva con questa valutazione: “All’istante i nostri concorrenti si astengono dal giocare tutte le loro carte. Il loro riserbo ispira a Parigi una pericolosa sensazione di sicurezza; al riparo di questa ingannevole tranquillità i nostri compatrioti stabilitisi oltremare non si pongono quasi alcun problema.

“Come nei periodi peggiori del loro dominio essi si preoccupano solo di far quattrini al più presto, senza pensare troppo al domani. Dopo aver sopravvalutato nel 1960 i pericoli della decolonizzazione e aver sottovalutato i mezzi di influenza ch’essa abbandonava dappertutto, la Francia commette oggi l’errore simmetricamente inverso, quello di sopravvalutare i suoi mezzi e di sottovalutare quelli dei suoi concorrenti in un’Africa divenuta, dopo dieci anni di delusioni, più esigente per sé stessa e per gli altri.

“Non consentendo gli investimenti indispensabili per la formazione di specialisti noi rischiamo di accumulare, entro breve tempo, un ritardo irrecuperabile. L’ardore casuale messo in opera da qualche parlamentare gollista in appoggio al Biafra, può nascondere questo problema; ma esso rimane il nodo del nostro avvenire africano”.

Non si tratta però evidentemente solo degli investimenti in personale tecnico specializzato, ma della questione degli investimenti di capitale in generale. Investimenti francesi troppo deboli in confronto a quelli degli altri squali imperialistici mettono in pericolo il dominio politico francese. Ed è proprio per reagire a queste preoccupazioni che il governo francese ha dato vita, all’inizio dell’anno scorso, ad un sistema di garanzie per gli investimenti privati nei Paesi africani e nel Madagascar, ed è per affermare di fronte agli altri rapaci imperialisti la solida realtà del dominio francese che Pompidou ha fatto, all’inizio del 1971, il suo viaggio in Africa Nera. Sentiamo come “L’Usine nouvelle” dell’11-02-1971 ha commentato il viaggio: “(Malgrado la concorrenza straniera) i francesi conservano un certo numero di “atouts”, e fra questi una forte infrastruttura commerciale. Inoltre, il nuovo regime di garanzia degli investimenti commerciali e industriali messo in funzione dal 1° gennaio scorso dal governo di Parigi, è tale da incoraggiare l’attività delle aziende francesi in questi Paesi, pur favorendone l’industrializzazione. La Francia ha dunque delle valide carte da giocare; non deve però dimenticare mai che le nazioni nere visitate dal suo presidente hanno tutte in comune il fatto di essere sollecitate, a diversi livelli, in modo sempre più pressante da alcuni Paesi stranieri. L’esempio più caratteristico è quello della Costa d’Avorio, dove assistiamo ad un ripiegamento delle posizioni francesi a vantaggio degli interessi americani, tedeschi, inglesi, giapponesi, italiani, israeliani …”

Questo non è però il parere di “Le Monde” che intitola un suo articolo del 22-12-1970: “Le nuove garanzie accordate agli investimenti francesi in Africa sono insufficienti” e che, il 22-01-1971 in un articolo intitolato “La cooperazione francese minacciata da sclerosi”, pronuncia una vera e propria requisitoria contro il governo lamentandosi “dell’assenza di una politica africana” e proponendo di sottrarre le questioni africane alla “competenza esclusiva” del capo dello Stato per assegnarle al ministero degli esteri. Tutto questo esprime la paura dei piccoli e medi capitali investiti in Africa Nera, di fronte al fatto che la concorrenza internazionale apre un “avvenire africano” al grande capitale, ma non al piccolo ed al medio, abituati ad essere ben protetti dal privilegio coloniale.

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Ancor più teme l’avvenire l’opportunismo operaio che si nutre, come diceva Lenin, delle briciole cadute dalla tavola dei festini imperialistici. La posizione del PCF è definita dall’ “Humanité” del 16-02-1971. “La Francia ha degli obblighi verso i popoli dei Paesi già sottomessi alla sua dominazione coloniale. Ma la cooperazione attuale tende innanzitutto a difendere gli interessi delle grandi società capitalistiche a detrimento degli interessi nazionali dei popoli africani e del popolo francese”. In conseguenza di ciò, Georges Marchais dichiara in ITC n° 17 (settembre 1971): “A proposito dei giovani Stati indipendenti, e in particolare di quelli dell’Africa e del Madagascar, noi preconizziamo la revisione degli accordi di cooperazione e la conclusione di nuovi accordi liberati da ogni carattere neocolonialista, da ogni condizione che faccia del necessario aiuto un mezzo di pressione sui Paesi interessati e tenda a influire sulle loro scelte economiche e politiche”.

Si potrebbe evidentemente scherzare su tutte le illusioni piccolo borghesi implicite nei brani citati sull’eguale diritto dei Paesi in regime borghese, sulla loro eguaglianza economica, menzogne e mistificazioni reazionarie propagate già da Proudhon.

Da un punto di vista più serio si possono accusare l’opportunismo ufficiale di rivelarsi il sostegno dell’imperialismo francese diffondendo il mito della indipendenza dei Paesi Neri, mito la cui falsità abbiamo dimostrato negli articoli precedenti. Ma vediamo, con maggiore esattezza, che cosa nascondono queste illusioni reazionarie sfogliando la rivista “Démocratie Nouvelle”. Nel numero 5 del 1947 possiamo leggere: “Bisogna proprio, per evitare il peggio in una situazione così confusa … che l’attaccamento di queste popolazioni alla Francia sia grande.

“Si capisce perché certuni evitano qualsiasi iniziativa atta a migliorare le condizioni di queste popolazioni lasciate nell’abbandono, nella speranza forse ch’esse ne accusino la Francia”.

Nel numero 4 del 1958, in cui la legge quadro di Defferre è lodata come un passo avanti seppure insufficiente (si veda l’articolo pubblicato sul n° 3/1972 del nostro giornale) si trova questo passo: “Noi non ci stancheremo di ripeterlo: il problema non è più di sapere se i popoli coloniali arriveranno all’indipendenza; ma è di sapere se vi arriveranno con l’aiuto della Francia o contro di lei”. Sfogliando il n° 5 del 1965 leggiamo le frasi seguenti in un articolo intitolato “Il Camerun o la falsa indipendenza”: “È chiaro che la difesa di alcuni grandi interessi privati nel Camerun non ha nulla a che vedere con la difesa dei veri interessi nazionali del popolo francese …Certo, altri grandi Stati imperialisti sono attirati dalle ricchezze agricole e minerarie del Camerun. L’Inghilterra, gli U.S.A., la Germania Federale, vi hanno già acquisito da tempo posizioni non trascurabili. I loro governi non sono per nulla arrabbiati che si possa sviluppare una reazione xenofoba nei soli riguardi di coloro che assicurano il controllo neocoloniale coi quadri del loro esercito e dei loro magistrati”.

Se siamo risaliti così addietro non è per scrupolo storiografico, ma per dimostrare che il PCF non ha cambiato posizione dopo la guerra. Queste confessioni provano la collusione totale dell’opportunismo con lo Stato francese. Ne risulta con perfetta evidenza che “i veri interessi nazionali” non sono null’altro che l’interesse dell’imperialismo francese. E questo interesse è che la rottura del monopolio coloniale non avvenga a favore della presa di controllo da parte di un altro imperialismo sulle colonie dell’Africa Nera. È d’altra parte più sui metodi che sul fondo della questione che il PCF è in disaccordo con i governi ufficiali. Lo sfruttamento incontrollato da parte dei monopoli, le rapine e le repressioni dell’imperialismo francese, sono condannati come provocazioni contrarie ai “veri” interessi nazionali; l’imperialismo essendo una politica fra le tante del capitale, bisogna usare metodi più dolci, più discreti, più ipocriti, che non rischino di sollevare le masse coloniali contro lo Stato francese e di provocare il loro il tentativo di appoggiarsi ad altri imperialismi, cosa che sarebbe catastrofica per gli interessi della Francia. Ed è per nascondere questa sordida posizione che bisogna circondarla dei miti piccolo-borghesi sugli “obblighi della Francia” e sull’“amicizia eterna fra i popoli della Africa Nera e il popolo francese”.

Così i “comunisti” ufficiali sono andati ben più innanzi nella sottomissione aperta agli interessi del capitale che i socialdemocratici del 1914, aspramente fustigati da Lenin. La socialdemocrazia di ieri partiva dal principio che primo compito degli internazionalisti fosse di instillare negli operai la indifferenza nei confronti delle distinzioni nazionali, per dedurne la loro indifferenza nei confronti delle rivendicazioni dei popoli oppressi. L’opportunismo di oggi parte invece dall’amicizia fra i popoli e dalla difesa dei “veri” interessi nazionali per dedurne il sostegno aperto al proprio Stato contro gli altri imperialismi nella suddivisione delle ex colonie. È per questo motivo, ad esempio, che il PCF sostiene (almeno verbalmente) il regime di Sékou Touré malgrado il disgusto che possono provare i suoi elettori democratici per la terribile repressione perpetrata nella Guinea: esso spera che questa, infine, rientri nel campo “degli amici della Francia”.

Il compito dei comunisti rivoluzionari è ben diverso: esso consiste nello sviluppare nel proletariato delle metropoli la propaganda contro lo sciovinismo, per la lotta contro l’oppressione coloniale del proprio Stato, e “l’indifferenza” alla questione di sapere se la rottura di una colonia con la metropoli la renda “indipendente” o la consegni alle grinfie di un altro imperialismo. La posizione contraria equivarrebbe a sostenere il proprio Stato contro gli altri, e quindi a rinforzare il suo dominio sul proletariato. Riprendendo Lenin si potrebbe dire: “L’importante non è di sapere se sarà un cinquantesimo od un centesimo delle piccole nazioni a liberarsi prima della rivoluzione socialista. Ciò che conta è che nell’epoca dell’imperialismo, e per cause obiettive, il proletariato si è diviso in due campi internazionali, uno dei quali è corrotto dalle briciole che cadono dal tavolo delle borghesie delle grandi potenze – a causa appunto del doppio o triplo sfruttamento delle piccole nazioni – mentre l’altro non può liberare sé stesso senza liberare le piccole nazioni, senza educare le masse in uno spirito antisciovinista, cioè anti-annessionista, cioè favorevole alla autodeterminazione”.

Ed è in questo spirito che lavorano i comunisti rivoluzionari per la unificazione internazionale del proletariato, senza distinzioni di nazionalità e di colore, in vista dell’emancipazione dell’umanità al giogo del capitale e dal suo corteo di oppressioni di ogni genere.



(1) È forse il caso di ricordare che questi episodi di lotte veementi e sanguinose repressioni sono ai lettori italiani quasi sconosciuti? La grande stampa di … informazione stende su essi come su altri vergognosi misfatti dell’imperialismo un pudibondo silenzio. La repressione francese contro il movimento di liberazione camerunese fu violentissima, scatenò una vera campagna che durò dal 1956 al 1962 e le vittime locali si contano in centinaia di migliaia: si veda “Il Programma Comunista” nn. 20 e 21 del 1958. Nel Ciad… indipendente, un corpo di spedizione francese interviene dal 1966 al 1971 per reprimere una rivolta di alcune province del vasto Paese, ribellatesi contro l’esosità del governo centrale vassallo di Parigi. Anche qui le atrocità dei paracadutisti francesi possono concorrere con quelle americane nel Viet-Nam.