Partito Comunista Internazionale Indice studi africani


Fame e rivolte nell’Africa Nera

(Il Programma Comunista, n. 14 del 1973)


150 anni dopo l’India, dove d’altronde lo Stato del Maharashtra è attualmente in preda a una terribile fame, l’Africa Nera entra nel ciclo infernale delle carestie moderne. È ormai certo che, se la giovinezza del capitalismo ebbe per condizione la devastazione delle campagne indiane, “bianche delle ossa dei tessitori”, la lunga e insopportabile vecchiaia della società borghese avrà per accompagnamento le urla dei ventri disperatamente vuoti dell’Africa Nera.

Il lungo martirio dei popoli dell’Africa Nera, di cui secoli interi di “commercio dell’ebano” sono stati il fosco prologo, ebbe il suo vero inizio negli ultimi anni del secolo scorso con un furore tanto più rovinoso in quanto il capitalismo aveva già dissolto le vecchie società in Europa, aveva già ridotto all’obbedienza quelle d’Asia, e, di più, le vecchie civiltà africane che poggiavano sulla base di forze produttive molto più deboli che in altri continenti. Non si trattava tanto, come in Asia, di sviluppare le imposte o le corvées per le esigenze delle metropoli imperialistiche, quanto di introdurle, come nel ‘500 era avvenuto per l’America indiana. E non stupisce certo che le colonne di avventurieri al soldo degli Stati europei e benedetti dalle Chiese si siano mostrate del tutto degne degli eserciti dei conquistadores spagnoli. D’altronde, è da quell’epoca (1914) che data la più terribile carestia a memoria di africano.

Sulla via che conduce al capitalismo, aperta in Europa dalla decomposizione della società feudale e battuta successivamente dagli altri continenti a marce forzate sotto i colpi di frusta dell’imperialismo, le tappe portano dovunque lo stesso nome: distruzione dei vecchi modi di lavoro più o meno collettivi sotto i colpi congiunti del mercantilismo e della VIOLENZA statale; liquidazione delle ancestrali garanzie comunitarie; quindi fame, espropriazione in blocco, insicurezza permanente, e infine proletarizzazione delle grandi masse.

Nell’Africa Nera, ieri con l’amministrazione coloniale, oggi coi due mezzi convergenti degli Stati africani ridotti a semplici succursali dei vecchi imperialismi francese e inglese, e della “cooperazione tecnica”, l’imperialismo svolge instancabilmente la sola politica che gli sia propria: l’incorporazione delle masse africane nel mercato mondiale. E lo fa col solo metodo autorizzato dai rapporti fra il capitalismo – la forma più evoluta del mercantilismo – e una società in cui il mercantilismo è assente o limitato alla superficie della produzione: la partecipazione forzosa al mercato nella misura in cui l’addomesticamento del vecchio corpo sociale non ha condotto allo sviluppo “spontaneo” della produzione per la vendita in vaste proporzioni.


La fame, prodotto necessario dell’imperialismo

Per prendere degli esempi nelle regioni oggi devastate dalla carestia, nel Senegal la coltura dell’arachide è obbligatoria e il contadino è costretto ad acquistare fertilizzanti, insetticidi e aratri, sotto il vigile occhio della polizia e dell’esercito; nel Ciad – ma altrettanto vale, sfumature a parte, per il Nord Camerun, il Mali, l’Alto Volta, la Nigeria ecc. – in ogni tribù che Allah abbia avuto la cattiva idea di stabilire in una zona decretata favorevole alla coltura del cotone dagli agronomi francesi, ogni uomo deve circolare con un certificato attestante che ha proceduto a piantare il cotone, pena l’arresto. Al tempo della semina, della sarchiatura o del raccolto, fissati molto in anticipo dall’amministrazione, poliziotti ed ex combattenti sono sui campi a vegliare affinché il lavoro si svolga appuntino.

Inutile dire che, in una tale società in cui la dominazione imperialistica non ha potuto ancora modificare in modo decisivo i metodi tradizionali di lavoro, le colture commerciali forzate avvengono a danno delle colture alimentari. Secondo le statistiche della FAO la produzione alimentare per abitante nel complessivo del Terzo Mondo è aumentata del 2% fra l’anteguerra e il 1965-66, ma è diminuita del 4% per l’Africa globalmente considerata (dunque, comprese l’Africa del Nord e l’Africa del Sud nettamente più impegnate nello sviluppo capitalistico!). Ciò ha avuto per effetto, oltre alla rottura degli equilibri ecologici, l’abbandono della manutenzione dei pozzi e delle sorgenti – in Mauritania, lo Stato stesso ha cessato di curarsene dal 1960! – la scomparsa delle riserve familiari e collettive (un raccolto medio non permette neppure più, in molte località, di nutrirsi in modo normale), e l’impossibilità parziale o totale di approvvigionare le città. In queste condizioni, la minima siccità provoca inevitabilmente una vera catastrofe sociale.

La “grande fame” di oggi, che secondo gli stessi borghesi, minaccia la vita di almeno 6 milioni di uomini, è quindi un risultato necessario dell’imperialismo e di quella sua forma gesuitica che si chiama “cooperazione tecnica”. Più ancora, è un acceleratore della dissoluzione delle comunità contadine, rese sempre più impotenti, sotto il giogo dell’imperialismo, ad assolvere le loro tradizionali funzioni di garanzia e sicurezza. Poiché le terre coltivabili, come pure le terre di transito del bestiame, sono considerate in diritto imperialistico come proprietà statale su cui alle comunità si riconoscono puri e semplici “diritti d’uso”, gli esodi in massa e le migrazioni interminabili provocate dalla fame spingono sedentari e allevatori non solo a disfarsi per un pugno di riso o di miglio dei loro utensili o del loro bestiame, ma soprattutto ad abdicare ai loro diritti sulla terra. Una parte di essi va quindi ad ingrossare l’esercito di riserva mondiale del capitalismo. Non potendo più vivere che della vendita della propria forza lavoro, essi possono venderla solo quando e dove il capitale ne abbisogna; e i settantamila proletari dell’Africa Nera che oggi lavorano in Francia non sono se non le staffette dei battaglioni che dovranno arrivare domani sull’esempio degli irlandesi, ieri, in Inghilterra e in America.


La rivolta nera

Non si potrà dire che le masse africane si siano rassegnate alla fame come ad una “catastrofe naturale”, d’altronde non giunta tutta d’un colpo. La rivolta del Ciad a partire dal 1969 si è accompagnata al rifiuto di pagare l’imposta e di raccogliere o consegnare il cotone. Nel Senegal, la carestia del 1969 ha scatenato rivolte un po' dovunque. Qua e là, malgrado una terribile repressione, gli abitanti dei villaggi hanno rifiutato i fertilizzanti e gli insetticidi, hanno strappato le piante di arachidi, hanno sospeso il pagamento dell’imposta: da 1 milione e 20 mila tonnellate nel 1968-69, il raccolto delle arachidi è caduto a 595 mila nel 1969-70. Nelle città, particolarmente nel Senegal, nella Mauritania e nel Mali (per non parlare che delle Regioni colpite dalla carestia), ondate su ondate di agitazioni e scioperi si sono succedute a partire dal 1968.

L’Africa Nera fa oggi soltanto i primi passi sul cammino storico che porta dalla distruzione della società tradizionale al capitalismo passando attraverso la rivoluzione democratica e la costituzione di Stati nazionali – cammino che potrebbe spingersi ben oltre questo traguardo se il proletariato mondiale abbattesse definitivamente il mostro della produzione capitalistica, e in primo luogo i grandi Stati imperialistici – come conferma la esperienza storica incisa a lettere di fuoco nelle Tesi del Congresso dei Popoli d’Oriente a Bakù nel 1920. Questa lunga via non sarà solo lastricata di sofferenze e miserie sempre più insopportabili. Sarà anche punteggiata di rivolte, sommosse ed esplosioni sociali sempre più vaste, di cui le lotte passate e presenti sono il pegno sicuro: lotte dei contadini che resistono alla penetrazione del capitale, ma anche lotte dei primi nuclei proletari che resistono al moderno sfruttamento capitalistico, venendo così ad accrescere il potenziale esplosivo di quelle regioni (e si ricorderà che l’urto con l’imperialismo nel Camerun come nel Congo fu tanto più violento in quanto per breve ora si realizza la saldatura fra movimento urbano da una parte e movimento rurale dall’altra).


Imperialismo e opportunismo di fronte alle sofferenze e alle lotte dei popoli di colore

Di fronte alla carestia attuale, che solleva tutte le grandi questioni della lotta contro il capitalismo, tutte le forze sociali e tutti i partiti si rivelano per quel che sono in realtà.

L’imperialismo francese ha reagito alla lotta contro l’imposta, alle agitazioni urbane e agli scioperi nel modo più spietato che si possa immaginare. L’ha fatto tramite gli Stati locali o con la repressione armata o con altri mezzi. (Nel Senegal, informa Le Monde del 5 aprile, l’imposta continua ad essere estorta nelle zone dichiarate sinistrate!). L’ha fatto direttamente nella guerra del Ciad o, per esempio, nel Senegal, dove, nel giugno 1968, le truppe di Marcel Bigeard uccisero 55 persone di cui 50 operai. Ancora una volta, è la sua unica politica perché la baionetta è il presupposto della penetrazione del mercantilismo imposta dai bisogni economici e militari delle metropoli imperialistiche.

Oggi, con il concorso dell’ONU, della CEE e delle chiese, l’imperialismo di ogni colore organizza il sinistro carnevale dei “soccorsi”, che, fra l’altro, giungeranno al massimo (se ci arriveranno) in poche grandi città, e non saranno che una goccia nel mare. Evidentemente, la borghesia si preoccupa delle conseguenze sociali del suo modo di produzione: vuole l’espropriazione nelle campagne, ma senza i disordini che necessariamente provoca soprattutto nelle città. I “soccorsi” hanno per duplice scopo di arginare queste rivolte e di nascondere, laggiù come in casa nostra, il terrorismo imperialistico sotto la maschera dell’umanitarismo pontificio e della filantropia statunitense e, in genere, occidentale.

Gli altri imperialismi, in particolare la Russia e la Cina, gareggiano in “aiuti” e frasi tanto più mielate, in quanto essi sono concorrenti soprattutto dell’imperialismo francese. Che cos’altro potrebbero fare, questi pretesi campioni della liberazione nazionale, quando vantano lo spirito di indipendenza e di lotta antimperialistica di governi borghesi africani al soldo degli Stati francese e britannico e pronti a reprimere ogni movimento sociale, attenti all’ordine costituito: la democrazia piccolo borghese recita a sua volta con ipocrisia senza limiti la miserabile parte assegnatale.

Come per prevenire in anticipo i risultati materiali catastrofici dei “soccorsi”, ne rende già responsabili gli Stati locali. In un’intervista a Le Monde del 16 maggio, R. Dumond ha dichiarato: «Nel settembre scorso, i governi dell’Africa Nera sapevano che i raccolti erano deficitari. È a questo punto che avrebbero dovuto mettere sull’avviso l’opinione mondiale circa il disastro imminente». Tutte queste canaglie fingono di dimenticare che lo Stato francese sapeva che la carestia e la fame maturavano già da anni, e vi ha reagito alla sua tipica maniera. Per questi pretesi “amici del Terzo Mondo”, la sola cosa da fare è… discolpare l’imperialismo!

Di fronte al capitalismo e alle forze borghesi concentrate nei potenti Stati imperialistici, il marxismo, dal 1848 al nostro piccolo partito di oggi passando per l’Internazionale Comunista e il Congresso di Bakù, ha sempre difeso il suo programma mondiale: centralizzazione della lotta rivoluzionaria del proletariato (non solo il proletariato delle metropoli, ma anche i nuclei proletari nascenti nelle colonie) in Partito mondiale unico; saldatura fra il movimento comunista e i moti dei popoli di colore insorti contro l’imperialismo, affinché questi ultimi servano di leva alla rivoluzione comunista mondiale, che solo può abbreviare o addirittura “saltare” le tappe dolenti dell’accumulazione capitalistica; dittatura proletaria, e piano unico mondiale antimercantile!

Contro questa prospettiva grandiosa si schiera l’intero ventaglio dell’opportunismo operaio che pretende di sostituire la riforma alla rivoluzione. Per i suoi esponenti di tutte le sfumature, si tratta di chiedere democraticamente all’imperialismo di condurre una politica diversa da quella che necessariamente è la sua; di chiedergli, in altre parole, di non essere… imperialista. Si tratta d’altra parte di introdurre nell’Africa Nera i doni paradisiaci della democrazia, di cui la costituzione dello Stato nazionale concepita come estremo limite della “rivoluzione antimperialista” dei popoli del “Terzo Mondo” sarebbe il più splendido gioiello. Si tratta, nello stesso tempo, di “allargare lo spazio” della democrazia nelle metropoli imperialistiche. Così, in tutti i casi, l’opportunismo funge da guardiano dell’ordine costituito, delle sue istituzioni, dei suoi cosiddetti valori. Sulla via che lo spinge necessariamente a passare alla difesa aperta dello Stato imperialista, la prima ed essenziale tappa è la minimizzazione delle responsabilità del capitalismo in veste imperialista e socialimperialista nell’Africa Nera e, dialetticamente, della responsabilità storica del proletariato metropolitano.

Con tutti gli “aiuti” (o le preci) della borghesia, del socialimperialismo e dell’opportunismo nascosto dietro un velo di “sinistra”, le masse africane in lotta contro l’imperialismo sono dunque completamente sole. Ma le loro lotte non possono non suscitare l’entusiasmo dei marxisti rivoluzionari che si battono per la ricostituzione dell’esercito mondiale del proletariato e per la saldatura del movimento comunista coi moti insurrezionali dei popoli di colore. Questa via tracciata dal marxismo può sembrare poco “concreta” e troppo, troppo lunga. Ma è la sola che conduca alla morte del capitalismo: l’ultimo cinquantennio ha confermato, una volta di più, che tutte le altre vie sono quelle della conservazione sociale. Questa via luminosa è la stessa che hanno già imboccato, senza poterla seguire fino in fondo, le forze sociali gigantesche degli “anni rossi” del primo dopoguerra. I comunisti non hanno cessato e non cesseranno di combattere perché le stesse forze, che non potranno non rinascere dagli stessi antagonismi provocati dallo stesso capitalismo, prendano un giorno la stessa via e la seguano fino alla vittoria.