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L’epilogo borghese della rivoluzione cinese si legge nel suo passato Appunti sulla storia della Repubblica Popolare Cinese (Il Partito Comunista, nn.74/1980‑124/1984) |
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Indice: - Ultimi avvenimenti cinesi - 1. Il periodo della conquista del potere - 2. Costituzione della Federazione Pancinese del Lavoro - 3. Politica “operaia” del nuovo Governo Popolare - 4. Situazione sociale nelle campagne - 5. Politica agraria del PCC: le leggi degli anni 1928-31 - 6. La Lunga Marcia e la Conferenza di Zunyi - 7. La politica di riduzione degli affitti durante il Fronte Unito antigiapponese - 8. L’inizio della guerra civile tra PCC e Guo-Min-Dang - 9. La Direttiva del 4 maggio 1946 e ritorno alla confisca delle terre - 10. La Legge Agraria dell’ottobre 1947 e la rivolta contadina - 11. Gli Appelli all’ordine nel 1948 - 12. Verso la “riforma agraria”, giugno 1950 - 13. Nuovo Stato, nuova Legge Agraria - 14. Effetti sociali ed economici della Riforma Agraria - 15. Inizio della polemica tra Mao e Liu Shaoqi - 16. Verso la collettivizzazione. Primi dati economici - 17. Dalle Squadre di mutuo aiuto alle Cooperative - 18. Motivi reali della collettivizzazione - 19. Contraddizioni nel processo di collettivizzazione - 20. L’VIII Congresso del PCC - 21. La sosta e il riaggiustamento del 1957 - 22. La situazione economica al 1949 - 23. Repubblica Popolare Cinese e borghesia nazionale - 24. Rafforzare lo Stato e statalizzare le imprese - 25. Lo Stato surroga la classe borghese - 26. Risultati economici del triennio 1950-1952 - 27. Politica sociale negli anni 1949-1952 - 28. Faticosa stesura del primo Piano Quinquennale - 29. Tutto per l’industrializzazione! - 30. Alcuni risultati del Primo Piano - 31. Il difficile rapporto tra industria ed agricoltura - 32. Raffronti internazionali per il quadriennio 1953-57 - 33. Vista d’insieme dell’economia cinese - 34. La situazione nelle città - 35. Il difficile nodo della industrializzazione all’VIII Congresso del PCC - 36. Pianificazione uguale centralizzazione politica ed economica - 37. II mondo rurale non si lascia pianificare - 38. Piani o prezzi? - 39. 1957, verso il Balzo in Avanti - 40. Mobilitazione e migrazioni verso le campagne - 41. Riunioni preparatorie - 42. Mistica di giovane Stato borghese - 43. Il “lavoro razionale” nelle cooperative agricole - 44. Nuova potente scossa all’inerte mondo contadino - 45. La militarizzazione dei contadini - 46. La costituzione delle Comuni - 47. La struttura della Comune Popolare - 48. Collettivizzazione della proprietà privata e teoria marxista - 49. Mobilitazione contadina e accumulazione capitalistica - 50. Vita “collettiva” e autarchia delle Comuni - 51. Inizio della ritirata: il Plenum di Wuchang - 52. Dalla Comune alla Brigata - 53. La critica situazione alimentare del biennio 1960-61 - 54. La rettifica al IX Plenum - 55. La Comune riformata - 56. Considerazioni finali sul movimento delle Comuni - 57. Il Grande Balzo in Avanti - 58. Massimo decentramento e fine della pianificazione - 59. I “progressi” nella produzione di acciaio e carbone - 60. La natura non si lascia dominare dai forsennati sforzi umani, condanna di un modo di produzione 61. L’andamento dell’economia nel triennio 1958-60 - 62. Scambi mercantili ed accumulazione capitalistica - 63. Prime conclusioni sull’economia e le lotte politiche in Cina - 64. La Conferenza del gennaio 1962 ed il “san-zi-yi-bao” - 65. Formazione di capitale e forme di proprietà della terra - 66. Dal corteggiamento dei contadini a quello delle classi medie urbane - 67. “Economicismo” e cottimi soppiantano la mobilitazione ideologica - 68. Trasferire plusvalore dall’agricoltura all’industria - 69. Il Movimento di Educazione Socialista - 70. Le correzioni di Peng Zhen - 71. Le purghe fra i quadri rurali - 72. Mao frena Liu Shaoqi - 73. Il contadino cinese esaurisce il suo giovanile vigore borghese - 74. Risultati economici del periodo 1961-65 - 75. Gli schieramenti politici - 76. Inizio discreto della Rivoluzione Culturale - 77. La caduta di Peng Zhen e il pronunciamento dell’esercito - 78. Intellettuali e Rivoluzione Culturale - 79. Folcloristico inizio - 80. Prime vittorie dei maoisti - 81. Il programma della Rivoluzione Culturale - 82. Prima parata delle Guardie Rosse - 83. Le grandi giornate della Rivoluzione Culturale - 84. La Rivoluzione Culturale segna il passo - 85. La grande migrazione delle Guardie Rosse - 86. “Bombardare il Quartier Generale” - 87. L’epurazione si estende - 88. I disordini nelle province - 89. Dal novembre 1966 a gennaio 1967 - 90. Gli attacchi contro Liu, Deng ed i loro partigiani - 91. Entra in scena la classe operaia - 92. L’economicismo, ecco il nemico! - 93. Gli avvenimenti di Shanghai e l’intervento dell’esercito - 94. Sciopero generale a Shanghai - 95. I maoisti sconfiggono lo sciopero - 96. Cruenti scontri nelle province e intervento dell’esercito - 97. I primi Comitati Rivoluzionari - 98. “Controcorrente di Febbraio” - 99. La situazione nelle campagne - 100. Una Rivoluzione col fiato corto - 101. Il regime allo sbando - 102. Estremisti e militari si fronteggiano - 103. L’insurrezione di Wuhan - 104. La Rivoluzione Culturale ad un bivio - 105. Battaglie campali a Canton - 106. Fine delle Guardie Rosse - 107. La repressione del “Corpo d’Armata 16 Maggio” - 108. Ritorno all’ordine - 109. Il predomino dell’esercito - 110. Mano tesa alla burocrazia - 111. Repressione e militarizzazione - 112. Disperata resistenza delle Guardie Rosse - 113. “La classe operaia deve dirigere tutto” - 114. Verso il IX Congresso del PCC - 115. I risultati del Congresso - 116. Il rapporto di Lin Biao - 117. L’economia nel periodo 1966-69 - 118. L’agricoltura - 119. La ricostruzione del Partito - 120. La caduta di Chen Boda e Lin Biao - 121. Il riavvicinamento con gli Usa - 122. Il X Congresso - 123. Ritorno alla pianificazione - 124. La situazione economica dell’agricoltura - 125. Rinsaldare il potere centrale - 126. “Contro Confucio” - 127. L’ascesa di Deng Xiaoping - 128. La IV Assemblea Nazionale - 129. Si delineano i futuri decisivi scontri - 130. Ultime campagne della sinistra - 131. I documenti di Deng Xiaoping - 132. L’interregno - 133. La morte di Mao Zedong - 134. Tentativi di politica agraria - 135. Il riaggiustamento nel settore industriale - 136. “Ordine !” - 137. Storia minima del commercio estero cinese - 138. Ultimi dati agricoli ed industriali - 139. Raffronto internazionale - 140. Bilancio di una rivoluzione borghese. |
Questo lavoro è un primo riordino degli studi del Partito svolti nell’arco di un intero ventennio sulla “questione cinese”; il materiale, quindi, non è derivato da apporti diversi, ma da una vera e propria opera collettiva ed anonima che rifugge la moda dei nomi ad effetto.
L’ultima sessione dell’Assemblea nazionale cinese ha visto la nomina di Zhao Ziyang al posto di Hua Guofeng come primo ministro. Non è stato un semplice cambio di uomini, ma l’avvenimento è l’ultima vittoria dell’ala cosiddetta “pragmatica e moderata” sulla fazione “maoista” all’interno del PCC e della struttura statale cinese.
Ha fatto da corollario alla nomina di Zhao, la decisione dell’Assemblea Nazionale di sopprimere parte dell’articolo della Costituzione riguardante le “libertà”; il dàzibào, simbolo della Rivoluzione Culturale e che trovò una codificazione anche nella raccolta di norme fondamentali della Repubblica Popolare, è proibito, la misura amministrativa segue la messa in cantina di tutte quelle gigantografie di Mao e compagni che costituirono per molti imbecilli di sinistra d’Occidente il simbolo vivente del socialismo cinese.
In campo economico invece il fatto più rilevante è stata la decisione di aumentare l’estensione degli appezzamenti “privati” dei contadini: essi potranno raggiungere la rata del 10% delle terre coltivabili della squadra.
Tale misura segue quelle, su cui già ci siamo soffermati, di “riaggiustamento” della conduzione tecnica delle imprese industriali con il varo di un sistema di conduzione simile all’autogestione jugoslava e, in campo agrario, di tolleranza dei mercati rurali dove i contadini vendono le eccedenze dei loro appezzamenti privati.
Al partito di classe spetta spiegare non solo queste misure di amministrazione economica contingente, ma anche l’intero scontro fra la linea radicale e quella moderata, tenendo ben fermo che nessuna corrisponde alla difesa dell’integrale programma marxista, ma alle esigenze di edificazione economica capitalista di un paese arretrato che è tradimento presentare come socialista, anche se l’impiantarsi del modo produttivo capitalistico in Cina è formidabile passo in avanti della storia.
Il 1° ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica Popolare Cinese. La proclamazione fu opera di una Conferenza politica consuntiva, riunita da varie settimane nella capitale e che comprendeva ad un tempo i rappresentanti del Partito Comunista Cinese e quelli di partiti schiettamente borghesi che nel periodo della guerra civile si erano però staccati da Jiang Jieshi (Chiang Kai-Shek) con il volgere della guerra civile a favore delle truppe maoiste.
La Conferenza Politica Consuntiva adottò un Programma comune che, a distanza di 25 anni, riprese il programma che fu quello di partenza del Guo-min-dang e di Sun Yat-sen, per una Cina borghese di sinistra che ha rinunciato al passaggio ad una rivoluzione socialista e che spaccia, come nella Russia staliniana, per socialismo un capitalismo di Stato che non solo si limita alla struttura industriale, e inizialmente solo al 50%, lasciando al privato borghese il resto: alla borghesia, la quarta classe del blocco nazionale.
«Art. 26 - Il principio fondamentale della costruzione economica della Repubblica Popolare Cinese è l’applicazione di una politica che curi tanto gli interessi privati che gli interessi pubblici, che avvantaggi tanto i padroni che i lavoratori, che incoraggi il mutuo aiuto fra la città e la campagna, e lo scambio di merci fra il nostro paese e i paesi stranieri, in vista del fine di far sviluppare la produzione e far fiorire l’economia. Lo Stato deve coordinare e regolamentare l’economia di Stato, l’economia delle cooperative, l’economia individuale dei contadini e degli operai manuali, l’economia del capitalismo privato e l’economia del capitalismo di Stato (...) in modo che tutte le componenti economiche-sociali possano avere il loro ruolo particolare, compiere la loro funzione, e cooperare fra loro sotto la direzione dell’economia di Stato per lo sviluppo dell’economia sociale nel loro complesso».
Non si stropiccino gli occhi coloro che orfani del Grande Timoniere vedono in Deng lo stregone che ha evocato le malefiche forze del capitalismo nella socialista Cina; la Repubblica Popolare Cinese nasce con un chiaro programma di sviluppo nazional-borghese, non è Deng che ha tradito il socialismo proprio in quanto lo stesso Mao è stato semplice campione di una Cina grande, forte, industriale, borghese.
L’articolo 1 del Programma Comune definisce lo Stato Cinese come una nuova democrazia, una democrazia popolare «diretta, dalla classe operaia, fondata sull’alleanza degli operai e dei contadini, e che unisce le diverse classi democratiche (piccola borghesia e capitalisti nazionali) e le diverse minoranze nazionali del Paese».
Ma la democrazia popolare non era diretta dagli operai.
L’avvicinarsi degli eserciti contadini alle città se fu un formidabile acceleratore per il “fronte unito” mille volte voluto da Mao fra il PCC e i “veri democratici” del Guo-min-dang, fu nel contempo atteso con indifferenza ed apatia dagli operai dei grandi agglomerati costieri di Shanghai, Hankuo, Canton, certo memori della grande disfatta del 1927 alla quale aveva dato il suo contributo anche la oscillante direzione staliniana dell’Internazionale e del PCC. Mao e l’intero PCC sanno bene che una sollevazione autonoma del proletariato urbano infrangerebbe di un colpo “fronte unito” e Cina borghese, Guo-min-dang e PCC.
Si legge nel “Telegramma al Comando del Fronte di Luoyang dopo la riconquista della città” (Mao, Opere scelte, IV, pag. 253-4):
«Per quanto riguarda la politica nelle città,
bisogna fare
attenzione ai seguenti punti:
«1) Essere molto prudenti nella liquidazione degli organismi del
regime del Guo-min-dang, arrestare solo i principali reazionari e non
coinvolgere troppe persone.
«2) Precisare la definizione del capitale burocratico; non tutte
le
imprese industriali e commerciali dei membri del Guo-min-dang vanno
classificate come capitale burocratico e perciò confiscate (...)
È
rigorosamente proibito colpire qualsiasi impresa condotta dalla
borghesia nazionale.
«3) Impedire alle organizzazioni contadine di entrare in
città per
arrestare i proprietari fondiari e regolare i conti con essi (...)
«4) Entrando in città non lanciare con leggerezza parole
d’ordine
di aumento dei salari e di riduzione delle ore di lavoro. In tempo di
guerra è già molto se la produzione può
continuare, e se le ore di
lavoro e il livello dei salari possono rimanere invariati. La
possibilità in futuro di una equa riduzione delle ore di lavoro,
di un
equo aumento dei salari dipende dalle condizioni economiche, vale a
dire dallo sviluppo delle imprese».
Ugualmente il 3 maggio 1949 il Comando militare dell’Armata di Liberazione, poco prima del suo ingresso a Shanghai, Hankou e Canton, pubblicò un proclama:
«Si domanda agli operai e agli impiegati di tutte le categorie, che la vita del Paese prosegua nella normalità. I funzionari del Guo-min-dang e di tutti gli altri corpi politici e amministrativi, come la polizia, devono occupare il proprio posto, obbedire agli ordini dell’Armata Popolare di Liberazione, e del Governo Popolare».
Agli operai che dovevano costituire, secondo il “Programma Comune” la direzione della “democrazia nuova” il PCC sapeva dire solamente «continuare il lavoro come abitudine», nello stesso giorno in cui la pretesa rivoluzione socialista prendeva il potere, nello stesso giorno in cui ai gendarmi, alla burocrazia, alla magistratura si ordinava di rimanere al loro posto, di «assumersi la responsabilità della custodia di tutti i beni e degli archivi dei loro uffici» !
Rivoluzione, anche quella borghese s’intende, è prima di tutto la rottura del vecchio apparato governativo, statale, amministrativo poliziesco e giudiziario. Nel 1949 il PCC non solo annunciava alle masse operaie che la loro rivoluzione aveva da venire, ma che anche da un punto di vista borghese altro non si faceva che riprendere il programma del Guo-min-dang del 1924 il cui programma era stato tradito da Jiang Jieshi, Il PCC sarebbe rimasto in questi confini borghesi !
Contemporaneamente alla costituzione del “fronte unito” fra PCC e gli elementi dissidenti del Guo-min-dang, che portò alla Conferenza Politica Consultiva riunita a Pechino dal settembre 1949, Mao realizzò al Congresso di Harbin (agosto 1949) la riunificazione sindacale indispensabile per salvaguardare la futura collaborazione fra capitale e lavoro. Si fusero la “Confederazione dei Sindacati delle regioni libere” legata al PCC e l’ “Associazione cinese del lavoro” diretta da elementi dissidenti del Guo-min-dang. Ricostruita la “Federazione pancinese del lavoro”, il Congresso di Harbin raccomandava, nelle regioni sotto la dominazione del Guo-min-dang, «di fare distinzione fra i trust del capitale burocratico e i capitalisti nazionali». Infine, e soprattutto, per le regioni liberate, il Congresso dichiarava:
«Le contraddizioni fra i lavoratori e i padroni esistono tuttora nelle imprese private, ma, poiché i primi occupano i posti di direzione dal punto di vista politico, i lavoratori sono garantiti da una oppressione e uno sfruttamento eccessivi. Di più, l’esistenza e lo sviluppo di imprese private produttive costituiscono un vantaggio per la classe operaia. In ragione di queste nuove condizioni, il movimento sindacale, nelle regioni liberate, dovrà essere guidato da una politica e da dei principi completamente nuovi (...) In quanto membri della classe politica dirigente, i lavoratori devono prendere le loro responsabilità per sviluppare l’industria e per eseguire e anche migliorare i loro obbiettivi produttivi. Nell’industria privata, i lavoratori hanno egualmente il compito di eseguire il programma di produzione elaborato dal padrone, di rispettare gli accordi conclusi fra loro e il padrone e di rispettare la politica governativa che ha per scopo di proteggere l’industria e il commercio privato».
Tale politica di “nuovi principi” portò subito dopo l’avvento del nuovo governo ad una diminuzione dei salari e la detrazione di alcune assistenze sociali nelle imprese nazionalizzate. Gli scioperi che seguirono immediatamente portarono ad un blocco quasi totale della produzione, e verso la fine della primavera del 1950 la situazione economica divenne disastrosa.
Nel giugno 1950, quando il Governo Popolare Centrale emana la “Legge Sindacale”, inizia una vera e propria campagna per conquistare ai Sindacati la disciplina dei lavoratori:
«Il Partito si è reso conto della propria inefficienza in quanto cinghia di trasmissione, o della deplorevole mancanza di comunicazione fra i Sindacati e gli operai». (“Quotidiano Operaio”, editoriale del 6 agosto 1950).
Di fronte alle difficoltà della situazione economica (inflazione, disorganizzazione del mercato, chiusura delle officine), il Governo prese una serie di misure destinate a ridare fiducia ai “capitalisti nazionali” imbrigliati e stemperare le rivendicazioni immediate dei lavoratori.
Del resto sia il Programma comune, augurante «la prosperità e la potenza della Cina», sia la Legge Sindacale in cui si auspicava «la politica di sviluppare la produzione e di incrementare sia il lavoro sia il capitale, ed opporsi (...) ad ogni atto nocivo alla produzione», erano ambedue decreti che mirabilmente rappresentavano le aspirazioni nazionali borghesi della Democrazia Popolare di Pechino, che, linea nera o rossa che si voglia, già allora inchiodò il proletariato cinese alla accumulazione originaria del Capitale.
Furono create delle imprese commerciali di Stato per approvvigionare le officine di materie prime e nello stesso tempo per lenire gli effetti dell’inflazione nelle città. Nello stesso tempo però, il Governo permise l’aumento dei prezzi al dettaglio in modo che il piccolo commercio non fosse rovinato.
Leggiamo nel Rapporto di P’an Han-nien, vicesindaco di Shanghai, fin dal 1950:
«Le imprese commerciali di Stato riducono il numero dei negozi di vendita al dettaglio, limitano i tipi di prodotti destinati alla vendita al dettaglio e aumentano la differenza fra i prezzi all’ingrosso e i prezzi al dettaglio (questa differenza è portata dal 2 al 5% per il riso, dal 2,5 al 6,5% per l’olio di arachide, dal 2 al 6% per il sale e dal 12 al 15% per lo zucchero), in modo da permettere ai dettaglianti dei profitti sufficienti. Questo dimostra – aggiunge il vice di Ch’en Yi – che combattendo la speculazione e l’accaparramento, le imprese di Stato desiderano ugualmente assicurare i profitti necessari alle imprese private, per permettere loro di lavorare in tutta tranquillità e onestà» (3° Congresso Popolare di Shanghai).
Dallo stesso rapporto si traggono precise indicazioni sulla “politica operaia” del nuovo Governo. A Shanghai, l’Ufficio del lavoro riesce ad imporre agli operai l’abbassamento dei salari, i licenziamenti senza indennità, il lavoro per una giornata, quando un’impresa poteva dimostrare la necessità di queste misure.
«Dopo la liberazione di Shanghai fino alla fine del maggio 1950, l’Ufficio del lavoro si è interessato di 9.027 casi di “conflitti” fra lavoro e capitale, 4.436 di questi casi si sono registrati nel corso degli ultimi sette mesi del 1949, e il resto i primi cinque mesi di quest’anno. Il problema era di difficile soluzione. Ma dopo la pubblicazione delle decisioni della Confederazione dei Direttori degli uffici del lavoro, convocata dal Governo centrale popolare, i rapporti fra lavoro e capitale sono sensibilmente migliorati».
Ed ecco come:
«Gli operai hanno ridotto le spese delle industrie nei loro confronti con l’adozione dei seguenti metodi: riduzione dei loro salari e delle spese per i loro alimenti, messa in opera di un piano di austerità, licenziamento temporaneo o parziale del personale, applicazione di un sistema di lavoro fondato sull’avvicendamento. Essi si ingegnano nello stesso tempo di accrescere la produzione e di diminuire i prezzi di costo dei prodotti, prolungando l’orario di lavoro, aumentando l’intensità del lavoro ed economizzando le materie prime».
Per finire il capitoletto, un balzo in avanti, 23 ottobre 1966, autocritica di Liu Shaoqi: «Nella primavera del 1949 parlai delle molte cose avvenute durante il periodo di lavoro urbano dei quadri direttivi di Tientsin. Proposi che certi metodi eccessivamente violenti contro le industrie borghesi e il commercio borghese dovevano essere posti sotto controllo, e così anche l’eliminazione dei dirigenti feudali urbani. Ciò nondimeno in un certo numero di discorsi commisi degli errori di spontaneismo di sinistra».
Chi vede nell’attuale politica di Pechino di conciliazione con la borghesia nazionale ed internazionale, la svolta dei destri Denghisti è servito: non solo niente di nuovo rispetto a trenta anni fa, ma di più, tale politica ha come vate Mao e 17 anni dopo Liu Shao deve discolparsi di essere stato a suo tempo sinistro, spontaneista e barricadero !
Le questioni poste dai sussulti imperiosi delle forze sociali risvegliatesi prepotentemente in quello che fu l’impero di Mezzo, non si rivelano nella loro crudezza ed anche complessità con l’uso di sciocche e infeconde formule idealistiche. Solo la lettura dialettica marxista della lotta di classe spiega i sommovimenti sociali e politici, in Cina come ovunque.
Gli avvenimenti sociali succedutisi nelle campagne cinesi dalla Liberazione del 1949 alla proclamazione delle Comuni Agricole nel 1958, e la portata reale della Rivoluzione Cinese in campo agrario dimostrano non solo il ruolo che il maoismo si diede, in un decennio almeno, di “guida” del terzo mondo, ma anche smentiscono la pretesa che nel campo della tattica del Partito Comunista rispetto ai contadini, il Partito Comunista Cinese abbia innovato ed arricchito la teoria marxista, splendidamente confermata in tutti i suoi postulati e teoremi dall’Ottobre bolscevico.
Nelle “Tesi sulla rivoluzione Cinese” pubblicate nel gennaio 1965 sul Programma, ribadivamo: «Nella questione agraria, il partito di Mao non ha fatto nulla per combattere le tendenze piccolo borghesi ansiose di sottolineare la rottura con i vecchi rapporti sociali con una consacrazione giuridica di sacri principi della proprietà contadina. E tutte le riforme annunziate a gran voce dopo la creazione della Repubblica Popolare non hanno contemplato una maggiore concentrazione dell’agricoltura che sulla base dello sviluppo della produzione particellare, degli “interessi” del contadino particellare e dell’aiuto statale ad esso. Quando volle superare questi limiti, che sono quelli dei rapporti di produzione borghesi, la catastrofe sociale che ne derivò non fu meno grave di quella seguita alla falsa collettivizzazione staliniana in Russia. Riassumendo, la famosa ‘rivoluzione agraria” si riduce a una difficile accumulazione del capitale nelle campagne cinesi secondo le due fasi classiche di sviluppo dell’agricoltura capitalistica»: prima l’instaurazione della proprietà contadina, poi un lento processo di espropriazione e concentrazione sotto la spinta delle forze produttive borghesi e di una giganteggiante economia di mercato.
Per questo la critica marxista del partito rivoluzionario pur riconoscendo che la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese sotto l’egida delle armate maoiste rappresentava un innegabile passo in avanti rispetto alla Cina di Jiang Jieshi («La rivoluzione francese e la rivoluzione cinese sono serie di fatti positivi che esprimono la stessa sequenza di leggi storiche della lotta di classe, e sono quelle scoperte e scolpite in modo insuperabile nei classici di Marx» – scrivemmo nel 1958), subito dovette mostrare come tale avanzamento aveva avuto come prezzo una terribile sconfitta proletaria la cui responsabilità ricadeva sull’intero indirizzo tattico dell’Internazionale staliniana.
Tale sconfitta si rispecchiava nella politica agraria del Partito Comunista Cinese che, nel cercare il compromesso con il contadino ricco e medio difendendone, nei limiti del possibile, gli interessi a danno dei contadini senza terra, si precludeva anche la possibilità di spingere fino in fondo la rivoluzione agraria.
La caratteristica fondamentale dell’agricoltura cinese prima della costituzione della Repubblica Popolare, caratteristica tuttora presente e anche grandeggiante, era l’estrema parcellizzazione della conduzione agricola, con appezzamenti piccoli ed intensamente sfruttati, situazione questa che, in special modo dal 1400 in poi, con la popolazione che è aumentata del doppio rispetto alla superficie coltivata, è andata sempre più a rivelarsi in tutta la sua crudezza.
Tale caratteristica era il risultato, oltre che dello sfavorevole rapporto fra terra coltivata e popolazione allocata, anche dell’antichissima rottura del tradizionale sistema comunitario di regolamentazione dei campi per cui si ha che nello Stato dei Chin, fin dal IV secolo avanti Cristo, la terra può essere comprata e venduta liberamente ed appare conseguentemente la figura del produttore nella veste di contadino libero proprietario od affittuario della terra che coltiva.
Verso il 1930 la terra di proprietà privata ammontava al 93,3% della totale disponibilità, mentre la terra assegnata ai nobili manciù e alla corona arrivava solo al 3,3%, con la terra di Stato (per scuole e culto) che era leggermente superiore, il 3,4% del totale.
Le terre di proprietà privata (le cifre si riferiscono solo ad alcune provincie, sono però significative perché nelle altre non ci si discostava di molto) erano così suddivise: le aziende da 1 a 30 mu (1 mu = 1/15 di ha) ammontavano al 68% del totale delle aziende e dovevano provvedere al sostentamento del 32% della popolazione agricola con una estensione del 19% del territorio; sono gli appezzamenti della fame e dell’indebitamento continuo. Le aziende da 30 a 50 mu rappresentano il 16% delle aziende, con il 7% della popolazione e ben il 17% del territorio. Ci sono poi le grandi aziende da 50 mu in su che appartengono al 7% della popolazione e rappresentano il 64% delle terre coltivate. Il 55% della popolazione agricola fa parte quindi della grande massa dei contadini senza terra.
Se si considera che, per vivere discretamente e sfruttare lavoro bracciantile bisognava possedere circa 50 mu di terra (e come già detto gli appezzamenti da 1 a 10 mu sono del tutto insufficienti al sostentamento di una famiglia contadina) e che la generale polverizzazione delle unità produttive era ancora più accentuata nelle regioni meridionali produttrici di riso, si comprendono subito le misere condizioni del contadino cinese.
Trotski, delle condizioni di vita del mugik delle terre nere russe, descriveva che nemmeno le cimici albergavano nella isba di paglia e di legno tanto basso era il livello termico del tugurio e quello alimentare del mugik: tali condizioni di indigenza erano generalizzate nelle campagne cinesi !
Sempre con riferimento agli anni Trenta l’assetto della proprietà nelle campagne era basato principalmente sulla piccola proprietà contadina che, secondo stime dell’epoca, interessava circa il 46% della conduzione, il 23% comprendeva proprietari parzialmente affittuari (allo scopo di creare un’unità produttiva minimamente vitale) ed infine il 31% era costituito da affittuari.
Gran parte della popolazione agricola gemeva schiacciata sotto il peso delle imposte e soprattutto dell’usura derivante, nel caso dei contadini poveri affittuari, dalla necessità di corrispondere al proprietario terriero il canone d’affitto dell’appezzamento coltivato (canone che non sempre era sotto forma di percentuale sul prodotto totale e che in questo caso variava dal 40 al 90%) e per tutta la popolazione agricola, fosse affittuaria, proprietaria o bracciante poco importa, dal generale divario tra le capacità produttive degli appezzamenti e le necessità minime di sussistenza per la famiglia.
Mercanti, proprietari terrieri, contadini ricchi, bottegai, mandarini, erano le figure che detenevano la chiave dell’usura con tassi superiori al 2% al mese (!) nelle aree produttrici di riso e al 3% in quelle a grano, cioè più rischiose dal punto di vista del raccolto.
Il cumulo degli interessi inchiodava poi la maggioranza della popolazione contadina ad una miseria talmente estesa e profonda che il confine dal servaggio era minimo, ma ciò – lo ripetiamo – non derivava da una pretesa organizzazione di privilegi feudali: la rendita in natura, in denaro e in lavoro, che opprimeva il contadino e spiegava lo spaventoso indebitamento del piccolo produttore, con la sua fame di terra, e capitali e con la galera della proprietà particellare, derivava da una affittanza ed una usura, non feudali e semifeudali, ma facenti parte del modo di produzione capitalistico e della sua barbarie.
Il proprietario fondiario, l’usuraio rappresentavano il capitale commerciale, il mercante, il funzionario che collocano i loro denari in prestiti accordati alle campagne proprio per il semplice fatto che uno sviluppo industriale ritardato non permette loro di investire il capitale nell’industria. Ciò farà scrivere a Trotski:
«La proprietà fondiaria grande e media (come esiste in Cina) è legata nel modo più stretto al capitale cittadino, compreso il capitale straniero. Non esiste in Cina una casta di signori feudali opposta alla borghesia. Il tipo di sfruttatore più diffuso, più comune e più odiato nelle campagne è il kulak usuraio, agente del capitalismo finanziario cittadino. Per conseguenza la rivoluzione agraria ha un carattere sia antifeudale sia antiborghese. Non ci sarà in Cina – o non ci sarà quasi per niente – una fase paragonabile alla prima fase della nostra rivoluzione, durante la quale il kulak marciava con i contadini medi, poveri, spesso alla loro testa, contro il proprietario fondiario (...) La “dekulakizzazione” sarà il primo e non il secondo passo dell’Ottobre in Cina» (”La Terza Internazionale dopo Lenin”).
La citazione di Trotski è potente: la rivoluzione agraria dovendo fare i conti con l’usuraio e il contadino ricco, oltre che con i rimasugli di nobili e mandarini, sarà costretta a fare i conti con la “borghesia nazionale” ed industriale delle città, uscita dai ranghi della gentry – i funzionari proprietari – della vecchia Cina, cioè con la quarta classe del fronte unito realizzato nella Repubblica Popolare e fin dal 1926 auspicato da Stalin, il quale, vedendo in Cina insistenti strutture produttive feudali, ne deduceva che borghesi e proletari, indistintamente uniti, dovevano abbattere il potere dei signori della guerra in un “terzo stato” liberatore, in un blocco di Quattro classi.
La tesi di Trotski significa anche che maggiore sarà il compromesso con la borghesia nazionale, maggiore sarà quello con il contadino ricco, maggiore sarà il cedimento alle illusioni proprietarie dei contadini, minore sarà l’incedere della rivoluzione agraria.
Scrivemmo nel settembre 1970 in Programma Comunista che il PCC, dopo la sconfitta del 1927 culminata con il soffocamento feroce della Comune di Canton, espulso dai centri urbani, riorganizzò le sue forze nell’immenso retroterra agrario divenendo il vero Guo-min-dang, il vero rappresentante della rivoluzione nazionale borghese:
«Subordinò la sua vita e le sue possibilità di vittoria alla capacità di barcamenarsi fra gli interessi contrastanti dei diversi strati sociali che si muovevano nelle campagne, e questo imperativo di “unità nazionale” e di “blocco delle classi”, che in definitiva significava sacrificare gli interessi dei contadini poveri e del proletariato alle necessità di uno Stato nazionale indipendente, è la caratteristica che contraddistingue tutto il corso della sua politica fino alla presa del potere nel 1949».
Come abbiamo già indicato nel capitolo che precede, in Cina la proprietà terriera statale, per i culti dei guerrieri e nobili manciù, era nell’anno 1929, notevolmente ridotta per ammontare solamente al 6,7% dell’intera superficie coltivata, con il 93,3% rimanente in proprietà privata.
Altri dati: nel 1946 il Ministero dell’agricoltura cinese dava per l’intera Cina la seguente situazione: 94 milioni di ettari coltivati da 329 milioni di contadini ripartiti in 63,2 milioni di aziende, cioè in media 0,28 ettari a testa e 1,48 ettari per azienda.
Ciò determinava che per l’assenza di un latifondo feudale da cui attingere, per l’importanza ed estensione delle terre in affitto, per lo sbriciolamento della proprietà, la misura della partizione egualitaria delle terre, o peggio l’abbassamento dei canoni d’affitto degli appezzamenti, era la tipica misura riformista piccolo borghese per eccellenza e, di converso, la nazionalizzazione (il trasferimento della rendita fondiaria allo Stato) la sola via rivoluzionaria che si imponeva date quelle condizioni economiche-sociali, la sola capace di far uscire l’agricoltura cinese dalle secche delle crisi agrarie, della piccola proprietà con famiglie di 5 persone ristrette su 1,48 ettari !
Nazionalizzazione della terra significa quindi far marciare la rivoluzione agraria, rivendicazione che, ancora al suo V Congresso del maggio 1927, il PCC, traballante ma non ancora del tutto docile di fronte allo stalinismo, manteneva.
Ma sostenere questa rivendicazione avrebbe significato scatenare la lotta di classe nelle campagne, appoggiarsi direttamente sulla maggioranza dei contadini senza terra e dei piccolissimi fittavoli (il 55% i primi, il 32% i secondi) contro non solo i proprietari fondiari ma anche i contadini ricchi e medi.
Tale rivendicazione non poteva pertanto essere affermata da un Partito che dopo gli aggiustamenti maoisti, non aveva come obbiettivo una radicale riforma agraria ma vedeva nelle rivolte contadine e nell’armamento delle campagne solo un mezzo per condurre a buon fine il compito dell’unificazione ed indipendenza della Cina.
Il PCC dovette quindi rinnegare il suo programma agrario, non meno del Guo-min-dang, e invece di tendere a scatenare la lotta di classe nelle campagne tese invece a reprimerla, a incanalarla barcamenandosi tra le illusioni dei contadini sulla ripartizione egualitaria e la necessità di limitare gli “eccessi» dei contadini poveri. Tale politica di compromesso e conciliazione ebbe come padrino riconosciuto il Timoniere Mao che come tutti gli eroi entrò dalla porta di servizio !
Legge agraria del Jinngangshan (dicembre 1928): 1° tutta la terra viene confiscata e trasferita in proprietà del governo; 2° i contadini hanno solo il diritto all’uso della terra che coltivano che non può essere né comprata né venduta; 3° la distribuzione delle terre dovrà essere egualitaria.
Nel suo rapporto al C.C. del PCC sulla “Lotta sui monti Chingkang”, sempre nel 1928, Mao che nel novembre 1927 era stato estromesso dall’Ufficio politico, velatamente critica tutti e tre i punti sostenendo che soltanto le terre dei grandi proprietari dovevano essere distribuite, per non urtare i “ceti medi”, il cui appoggio alla rivoluzione va salvaguardato.
Ne concludeva che la terra da confiscare doveva limitarsi a quella demaniale e a quella dei proprietari fondiari, e che invece di una distribuzione egualitaria delle terre, si sarebbe dovuto adottare il principio di una distribuzione secondo la “capacità produttiva” (forza lavoro, attrezzi agricoli, ecc.); nel contempo si doleva per «l’eccessiva gravità dei colpi che la rivoluzione infligge» alle classi intermedie.
Nel 1941 in Inchiesta nelle campagne (aprile-maggio), ormai trionfante nella leadership del PCC, Mao può tranquillamente parlare dei “gravi errori” della legge del 1928 e della sua lotta contro la linea opportunista di “sinistra": noi rileviamo soltanto che fin dall’inizio il “programma agrario” di Mao si distingue per l’obbiettivo di soddisfare i contadini medi, per creare un potere “stabile”, un esercito “nazionale”, un “regime borghese”, una strada che irrimediabilmente si divaricava dalla preparazione della rivoluzione proletaria.
La legge agraria dell’aprile 1929 promulgata a Xing’guo: si differenzia dalla legge del 1928 solamente per la rilevante sostituzione della proposizione «confisca di tutta la terra» con quella di «confisca delle terre demaniali e di quelle appartenenti ai proprietari fondiari». Il cambiamento significa un atteggiamento completamente diverso da parte del Governo Sovietico nei confronti degli strati intermedi, dei contadini ricchi ed anche dei piccoli proprietari fondiari. Inutile dire che fu lodato da Mao sempre nello scritto Inchiesta sulle campagne di 12 anni dopo.
Legge del 1930: la legge, composta di 4 capitoli e 31 articoli è estremamente rigorosa, la “più radicale” adottata dal Partito Comunista Cinese, tenendo conto che le leggi del 1928-29 furono pochissimo applicate sia per il carattere precario dell’occupazione sovietica delle basi rosse di quegli anni, sia per la loro limitata estensione.
L’articolo 1 confisca e trasferisce in proprietà al governo sovietico le terre, i boschi, gli stagni e le case dei proprietari fondiari, dei notabili, dei contadini ricchi. Terre, case, boschi e stagni vengono distribuiti «ai contadini che non posseggono o posseggono poca terra o ad altri poveri che ne hanno bisogno».
L’articolo 2 concede adeguati lotti di terra ai familiari dei proprietari fondiari e notabili che non hanno altri mezzi di sussistenza. La distribuzione delle terre del Governo Sovietico è assolutamente egualitaria.
Inoltre l’articolo 10 afferma che per «distruggere il potere feudale e assestare un colpo ai contadini ricchi, la distribuzione della terra sarà effettuata secondo i principi “togliere al ricco per dare al povero” e “togliere al grasso per dare al magro”».
L’articolo 11 proclama che tutti i titoli di proprietà verranno pubblicamente bruciati.
Si ritorna in genere alle proclamazioni della legge 1928 che tanto aveva scandalizzato Mao.
Legge agraria del I Congresso pancinese dei soviet. Il Congresso che si tiene a Juichin nella provincia del Jiangxi approva una legge definitiva, valida per le zone sovietiche e per quelle che lo saranno, composta di 14 articoli, senz’altro ben più moderata delle precedenti le quali avevano alienato le simpatie dei contadini medi nei confronti del Governo Sovietico in quanto il divieto di acquisto e vendita delle terre impediva loro di accrescere le loro terre e migliorare la loro situazione economica.
Gli articoli più importanti della legge erano:
Art. 1: confisca di tutte le terre dei proprietari fondiari, dei
notabili e dei funzionari le quali verranno distribuite ai contadini
poveri e medi, non rammentati nemmeno nelle precedenti leggi.
Art. 3: confisca delle terre dei contadini ricchi che potranno
ottenere lotti di terra di qualità inferiore a condizione che la
lavorino personalmente;
Art. 5: era un capolavoro di diplomazia: riconosceva che la
distribuzione egualitaria delle terre confiscate è il metodo
più
radicale per distruggere rapporti agrari servili e feudali ed eliminare
la proprietà privata dei proprietari fondiari, ma aggiungeva che
si
poteva procedere solo con l’accordo e l’appoggio delle grandi masse
contadine e che il contadino medio – vero ago della bilancia
– poteva
non partecipare a questa partizione egualitaria.
L’articolo 7, proclamato che la richiesta dei contadini agiati di distribuire la terra secondo «gli strumenti di produzione» è da respingere, lascia a ciascun Soviet la cura di valutare, in funzione delle caratteristiche locali, il miglior modo di ripartire le terre con l’unica condizione di avvantaggiare i contadini poveri e medi rispetto agli altri.
L’articolo 12 riconosceva che «la nazionalizzazione delle terre e delle opere idrauliche sotto il regime sovietico è un passo necessario verso la distruzione definitiva di tutti i rapporti feudali nei circondari rurali, e di fatto verso il conseguimento di uno sviluppo sostenuto e rapido dell’economia rurale», comunque, spiegati i benefici della nazionalizzazione, «l’affitto della terra o l’acquisto e la vendita della terra non saranno per il momento vietati», preposizione che rappresentava una vittoria politica degli interessi dei contadini medi e ricchi.
La legge del 1931 fu applicata fino alla Lunga Marcia dell’ottobre 1934, e, anche se in misura minore delle precedenti leggi, fu un mezzo fiasco: la precarietà del potere sovietico faceva sì che in molte zone il potere e la proprietà dei fondiari e dei contadini ricchi non venissero intaccati, e per la loro influenza economica (usura, traffici, ecc.) ed anche istruzione riuscivano ad introdursi nelle nuove amministrazioni sovietiche, come già era successo nel passato, questo nonostante che improvvise rivolte di poveri e senza terra applicassero armi alla mano partizione di terra e di case di ricchi e fondiari, incuranti di prudenze e consigli di guardarsi dagli eccessi che venivano dal Partito Comunista Cinese e dal Governo Sovietico. Rivolte che allora costituivano in tutta la Cina la normalità.
Ma ciò che costituiva la vera “svolta” era la questione della nazionalizzazione; lasciata a metà del guado – del resto non fu proclamata nemmeno a Liberazione avvenuta nel 1949 quando vi era la possibilità di applicarla per tutta la Cina – rappresentò la manifestazione statutaria legislativa degli sforzi del Partito Comunista Cinese per farsi amici contadini medi e ricchi.
La storiografia ufficiale del Partito Comunista Cinese attribuisce il rimanente “radicalismo” della Legge del 1931 alla “terza deviazione di sinistra” di Wang Ming, ed a Mao il realismo e la moderazione necessari per l’applicazione della legge agraria e perché nel contempo il contadino medio e ricco non sabotassero la produzione; realismo e moderazione che negli anni a venire, come vedremo nei capitoli seguenti, avrebbe prodotto una politica agraria di semplice riduzione dei canoni di affitto delle terre, misura che lo stesso Guo-min-dang applicava nei territori che controllava.
Certo è che già con il Decreto “Decisioni relative ad alcuni problemi sorti nella lotta nelle campagne” del 10 ottobre 1933 non solo si distingue fra contadini medi e medi agiati i cui interessi «sotto il regime sovietico devono ricevere la stessa protezione dei contadini medi normali», ma la stessa protezione veniva estesa ai contadini ricchi, gli stessi che secondo l’articolo 1 della legge 1931 avrebbero dovuto vedere confiscate tutte le loro terre: «la terra e la proprietà di quegli elementi la cui origine di contadini ricchi e le cui serie attività controrivoluzionarie sono state accertate, saranno confiscate. La terra e le proprietà, degli altri contadini ricchi che, nonostante abbiano partecipato ad attività controrivoluzionarie, non hanno giocato un ruolo importante o di primo piano (sic !) in queste ultime, non saranno confiscate».
Ed ancora, «Dobbiamo distinguere chiaramente tra proprietari terrieri e contadini ricchi, e nel corso della nostra lotta spietata per annientare i residui dei proprietari terrieri non deve essere permesso nessun tentativo di annientare i contadini ricchi» (da “Primo bilancio della campagna per il controllo della distribuzione della terra” 29 agosto 1933).
Tale politica significava che, invece di far appello all’iniziativa rivoluzionaria delle forze sociali che scaturivano dallo sviluppo delle forze produttive, si cercava di vivacchiare consolidando, con qualche ripulitura, i vecchi rapporti di produzione, politica che divergeva irreversibilmente dalla rivoluzione socialista e proletaria
Nel II Congresso dei Soviet, gennaio 1934, Mao tiene il rapporto sulle questioni economiche delle zone “rosse” i punti riguardanti la politica agraria così suonano:
«Compiti fondamentali della nostra edificazione economica sono lo sviluppo dell’agricoltura, lo sviluppo dell’industria, lo sviluppo del commercio con l’estero e lo sviluppo delle cooperative (...) Nei primi due anni dopo la creazione di una regione rossa si è spesso riscontrato un certo declino della produzione agricola. Ma dopo la ripartizione della terra, quando i diritti di proprietà sono ben definiti e noi prendiamo le misure per incoraggiare la produzione, le masse contadine lavorano con più entusiasmo, la produzione comincia a riprendersi (...) Naturalmente, non è ancora il momento di sollevare la questione della creazione di imprese collettive e statali, tuttavia, per affrettare lo sviluppo dell’agricoltura, è assolutamente necessario organizzare, nelle varie località, piccole aziende sperimentali, scuole agrarie e mostre agricole». (“La nostra politica economica”, del 23 gennaio 1934).
Il linguaggio è diplomatico, ma la sostanza della questione
è
chiara: il movimento contadino va canalizzato verso soluzioni graduali
(ecco il richiamo a ben definire i diritti di proprietà) che
diano
sicurezza alla produzione e di converso alle illusioni proprietarie dei
contadini. Gradualismo e sicurezza sono indispensabili per ben
separare, in senso storico, le due fasi classiche e successive della
accumulazione di Capitale nelle campagne:
1) Consacrazione della proprietà piccolo-borghese;
2) Suo successivo smantellamento con l’espropriazione capitalistica
o, che è la stessa cosa, con la cooperazione.
Ma la seconda fase, che vuol dire un lungo processo di concentrazione e espropriazione dei contadini di fronte alla più larga applicazione della tecnica del Capitale nell’agricoltura, può essere più o meno accelerata dall’ampiezza più o meno grande degli sconvolgimenti provocati dal moto rivoluzionario nelle strutture agrarie precapitaliste.
Mao, lo vedremo nel prosieguo del lavoro, non solo separava le due fasi, dialetticamente legate, ma lo poteva fare solo «reprimendo gli eccessi dei contadini poveri», assicurando ai ceti intermedi sicurezza e traffici, con la pretesa piccolo borghese che «ognuno lavori il suo campo», il che significava in ultima analisi che la stessa prima fase di distruzione dei vecchi rapporti di proprietà e l’instaurazione di quelli borghesi, doveva subire ritardi ed indecisioni.
Nell’ottobre 1934 sotto l’incedere delle offensive del Guo-min-dang, le armate del PCC sono costrette ad abbandonare la regione meridionale del Jiangxi e dopo una marcia durata un anno si trasferiscono nella regione del nord del Shaanxi dove vengono formati nuovi “territori rossi» con capitale Yan’an.
Durante la lunga marcia dei dodici giorni (dal 6 al 18 gennaio 1935) in cui una parte dell’armata rossa occupa la città di Zunyi, avviene la vera e propria investitura come capo riconosciuto del PCC del militare Mao e la decisiva sconfitta di quelli che saranno poi etichettati spregiativamente come gli esponenti della “terza deviazione di sinistra».
Niente è attualmente venuto alla luce di quella “storica” conferenza i cui segreti sono nel capace archivio riservato del Partito Comunista Cinese, come è del resto per le svariate “epurazioni” che caratterizzarono il periodo dell’occupazione rossa del Jiangxi e della scalata di Mao in quegli anni ai vertici del PCC, epurazioni cruente e misere tanto che lo studioso Guillermaz autore di una Storia del PCC che ha il merito di essere onesta anche se non risolutiva, deve commentare che i fini personali di quelle epurazioni ridimensionano davanti alla storia il personaggio Mao.
Certo è che alla vigilia del VII Congresso del PCC nel 1945, nello scritto “Decisioni su certe questioni della storia del nostro partito”, si giudica quella conferenza la vera levatrice dell’ideologia maoista che da lì si dispiegò con tutta la “creatività” propria della controrivoluzione.
Non è solo perché le sue decisioni glorificano Mao come «l’incarnazione della simbiosi fra attività teorica e pratica» e come l’uomo della provvidenza capace di correggere errori e di operare svolte di «grande portata storica», ma perché tra gli incensi nel testo maoista si legge che «avendo la rivoluzione cinese nella fase attuale un carattere di rivoluzione antimperialista ed antifeudale diretta dal proletariato e che ha gli operai e i contadini come forza fondamentale, con la partecipazione degli altri larghi strati della società (...) rimane una differenza tra la borghesia liberale e la borghesia dei compradores (...) e che pertanto, occorre trovare un atteggiamento giusto verso i vari strati intermedi, adoperandosi in ogni modo per allearsi con essi o per neutralizzarli».
Ne conseguiva che in campo agrario «occorre trovare un atteggiamento giusto verso i contadini medi e i contadini ricchi (“prendere da chi ha molto per dare a chi ha poco”, prendere “dal grasso per dare al magro”), ma in pari tempo seguire decisamente la linea dell’alleanza con i contadini medi, salvaguardare gli interessi dei contadini medi agiati, concedere determinate possibilità economiche ai contadini ricchi, mettere anche il comune proprietario fondiario in condizioni di vivere».
Il “giusto atteggiamento” nei confronti dei contadini medi agiati e ricchi si sarebbe visto più tardi, bollata nella storica conferenza come “chiusura settaria” la politica agraria fin allora seguita e che aveva prodotto le Leggi degli anni 1928-31, politica che, leggiamo sempre nelle “Decisioni”, «identificando la lotta contro la borghesia con la lotta antimperialista e antifeudale negava l’esistenza di una terza forza, in particolare sottolineando la lotta contro i contadini ricchi (...) con una politica di liquidazione dell’economia dei contadini ricchi».
Se la valutazione sul carattere rivoluzionario della borghesia cinese, in quanto facente parte di un paese dominato e lacerato dalle potenze imperialiste, non brillava come novità in quanto già Stalin e Bucharin negli infuocati dibattiti sulla questione cinese nel Comintern negli anni 1926-27 avevano sostenuto tale tesi contro la sinistra trotskista, la codificazione di una tattica morbida nei confronti dei contadini medi, agiati e ricchi fu effettivamente la svolta del PCC che fino ad allora in campo agrario, in special modo dopo le sanguinose sconfitte proletarie di Shanghai e Canton, aveva mantenuto pose ed atteggiamenti rivoluzionari.
La conferenza di Zunyi, con Mao e gli altri capi militari che gli facevano ala trionfatori, segna pertanto l’inizio della politica di “fronte unito democratico e patriottico” che da allora, esclusa la breve parentesi della “rivoluzione culturale”, caratterizzò l’intera politica del PCC.
Aneddoti e nomi della Conferenza di Zunyi possono servire per schematizzare. Liu Shaoqi, futuro traditore e rinnegato, financo da sempre agente del Guo-min-dang secondo le accuse delle Guardie Rosse durante la “rivoluzione culturale”, oggi del tutto riabilitato, secondo le “Decisioni” fu decisamente dalla parte di Mao, tanto che si merita un intero capoverso per il suo prudente lavoro nelle “zone bianche”.
Zhou En-lai faceva parte dei “28 bolscevichi” legati strettamente al Comintern e considerava Mao come espressione dei contadini ricchi, come manifestazione del campanilismo e del conservatorismo proprio della coscienza contadina.
Mosca e il Komintern erano lontani: le diatribe all’interno del PCC in quel frangente non potevano, e la situazione si ripresenterà anche nella “rivoluzione culturale”, che premiare chi meglio sapeva maneggiare il potere militare al quale doveva inchinarsi qualsiasi Comitato Centrale di un Partito che ormai era solamente un esercito in fuga attraverso la Cina, evento questo conosciutissimo nella storia di quel paese ricco di rivolte e guerre contadine. Mao nel maneggio della struttura militare era senz’altro il migliore, ma, come già avemmo occasione di dire per la riabilitazione di Liu Shaoqi nel marzo di quest’anno, il partito di classe non ha da incensare né condannare nessuno dei pretesi attori della lotta di classe in Cina, essendo vinti e vincitori comunemente compresi in ciò che fu la controrivoluzione staliniana.
In campo agrario possiamo distinguere come certe misure e provvedimenti del potere statale accelerano lo sviluppo delle fasi 1° e 2°, ma rimane il fatto che non abbiamo da scegliere, per definire i sostenitori del programma marxista rivoluzionario, fra i difensori del kulak-contadino ricco (Mao e compagni) e quelli che invece, secondo le tesi che portarono alla collettivizzazione forzata in Russia negli anni Trenta, ne volevano lo sterminio, atteggiamento questo che senz’altro corrispondeva alle esigenze proprie dei contadini poveri e senza terra cinesi.
Ambedue gli schieramenti difettavano sulla prospettiva internazionale la quale nella visione marxista, lega i destini delle rivoluzioni nazionali dell’Oriente a quelle schiettamente operaie dell’Occidente; altrimenti qualunque sia la politica intrapresa in campo agrario, knut o carota per il kulak poco importa, l’unico risultato al quale si approda è di aver lavorato per il libero svolgersi dell’accumulazione di Capitale, compito certo grandioso per buona parte dell’Asia di allora, ma che è altra cosa dalla “rivoluzione in permanenza» per la quale scrissero e lottarono Marx e Lenin.
Gli sforzi del primo per la Germania del 1848, del secondo per la Russia del 1916 andavano nel senso di accorciare ed anche saltare la tappa di una accumulazione nazionale di Capitale, compito invece al quale si erano venduti i due schieramenti compresi nel PCC, anno 1935, quello di Mao e quello dei “28 bolscevichi».
Dopo la conferenza di Zunyi del gennaio, la Lunga Marcia da poco conclusasi, si ha nel dicembre 1935 la riunione di Wayaopao dell’Ufficio politico del CC del PCC, seguito da una riunione di attivisti presieduta da Mao il quale vi svolge un rapporto titolato “Sulla tattica contro l’imperialismo giapponese”.
La conferenza di Zunyi aveva sconfessato la vecchia politica di “sinistra”; la riunione di Wayaopao segna invece la prima manifestazione della nuova politica “giusta e corretta” nei confronti dei contadini, del popolo, per riprendere la terminologia maoista.
Il rapporto, con l’invasione giapponese che rischia di trasformare la Cina in colonia, rivitalizza oggettivamente la borghesia nazionale il cui atteggiamento è passibile di mutamenti; puntando su tale mutamento il PCC propone di «creare un largo fronte rivoluzionario unito», ed infine di cambiare il nome delle zone rosse Repubblica degli operai e dei contadini in Repubblica popolare.
«Il nostro governo non rappresenta soltanto gli operai e i contadini ma tutta la Nazione», ribadisce il rapporto che più in là afferma: «Nella fase della rivoluzione democratica, la lotta fra il lavoro e il capitale ha dei limiti. Le leggi sul lavoro della repubblica popolare salvaguarderanno gli interessi degli operai, ma non saranno dirette contro l’arricchimento della borghesia nazionale e lo sviluppo dell’industria e del commercio nazionale, poiché tale sviluppo nuoce agli interessi dell’imperialismo ed è a vantaggio degli interessi del popolo cinese».
E del popolo cinese facevano parte a pieno titolo oltre ai contadini medi, agiati e ricchi, anche tutti coloro che si opponevano al Giappone, qualunque fosse la loro appartenenza di classe, porta aperta non solo per la borghesia nazionale membro del popolo maoista ma anche per i proprietari fondiari patriottici !
Anche il Guo-min-dang, anche Jiang Jieshi potevano far parte del popolo cinese, nonostante un decennio prima fossero stati i carnefici del proletariato di Shanghai e Canton; bastava che riprendessero i principi di Sun-Yat-sen. Ed è sulla base dei tre principi dell’ingenuo dottore, indipendenza, democrazia e benessere del popolo, che dal 22 settembre 1937 riprende la collaborazione fra il PCC ed il Guo-min-dang. Sull’altare di questa collaborazione vengono, non poteva essere altrimenti, sacrificate le passate proclamazioni di rivoluzione agraria.
Leggiamo da Mao: «Per mettere fine ai conflitti armati all’interno del paese, il Partito comunista è disposto a cessare la politica di confisca con la forza delle terre dei proprietari fondiari, ed è pronto a risolvere nel corso dell’edificazione della nuova repubblica democratica il problema agrario per via legislativa o con altri mezzi appropriati. Il primo problema da risolvere è di sapere a chi appartiene la terra cinese, se ai giapponesi o ai cinesi. Poiché la soluzione del problema agrario dei contadini è subordinata alla difesa della Cina, è assolutamente necessario passare dalla confisca con la forza a nuovi metodi appropriati» (da “I compiti del Partito Comunista Cinese”, 3 maggio 1937).
E ancora: «La rivoluzione agraria basata sul principio “la terra a chi la lavora” è esattamente la politica proposta dal dott. Sun Yat-sen; oggi, noi cessiamo di applicare questa politica perché vogliamo unire il maggior numero di persone nella lotta contro l’imperialismo giapponese, e non perché la Cina non abbia bisogno di risolvere il problema della terra» (da “Compiti urgenti dopo la realizzazione della cooperazione”, 29 settembre 1937).
I nuovi metodi e la grande unità auspicati dovevano significare solamente l’abbandono delle misure di confisca della terra (sia con la forza che con il bollo tondo della legislazione del Guo-min-dang) e l’inizio della politica di semplice ribasso dei canoni di affitto.
«La decisione del CC del PCC sulla politica della terra nelle aree di base antigiapponese» del 28 gennaio 1942 ricorda e riassume tutta la politica agraria seguita nel decennio 1937-47, politica che essenzialmente si basava su: 1) riduzione dei canoni di affitto del 25% rispetto all’anteguerra, canoni che possono raggiungere al massimo il 37,5% del prodotto; 2) limitazione dei tassi di interessi per prestiti all’1,5% il mese.
Nello stesso tempo la “Decisione” ribadiva che «la garanzia della riscossione degli affitti e degli interessi sono il secondo aspetto della politica agraria del PCC». 3) «Garanzia dei diritti politici oltre che economici dei latifondisti, dei contadini ricchi e dei borghesi che concorrono nel fronte unito anti-giapponese. 4) «Le ragionevoli richieste di latifondisti e contadini debbono essere soddisfatte, ma le parti devono sottomettersi ai supremi interessi della resistenza nazionale».
Certo la risoluzione del 28 gennaio 1942 non fu applicata alla lettera dappertutto; le difficoltà di comunicazione generale e la totale situazione di scontri e guerriglia locale fece sì che i “vecchi quadri» in molte regioni continuassero con le vecchie pratiche, oramai battezzate “deviazioni di sinistra” e contro le quali Mao da Yan’an tuonava.
Un esempio, non l’unico, è nello scritto “Sulla politica” del 25 dicembre 1940, in cui Mao deve rimbrottare non solo le “deviazioni di sinistra” in campo agrario ma anche rispetto alle condizioni dei lavoratori.
Citiamo: «Gli aumenti salariali e le riduzioni delle ore di lavoro non devono essere eccessive (...) è ancora difficile introdurre dappertutto la giornata lavorativa di 8 ore, e in alcuni settori della produzione bisogna ancora permettere che si mantenga la giornata lavorativa di 10 ore. In alcuni settori la giornata lavorativa deve essere fissata tenendo conto delle circostanze (...) gli operai devono osservare la disciplina del lavoro e devono permettere ai capitalisti di realizzare un certo profitto (...) Il peso fiscale non deve essere fatto gravare esclusivamente sui proprietari fondiari e sui capitalisti».
Rimane quindi evidente che, se nemmeno lo stesso PCC riuscì del tutto ad incanalare proletariato delle città e contadini poveri, lo sforzo dell’intera leadership del PCC andava in tal senso e in questo non faceva che riprendere il testimonio dal Guo-min-dang diventando lui stesso il vero Guo-min-dang cioè il Partito nazionale di una Cina borghese !
Non per niente le misure di riduzione dei fitti e degli interessi il PCC le aveva trovate nelle Regioni sotto il suo controllo, nel Codice Penale del Governo nazionalista di Jiang Jieshi; il 30 gennaio 1930 infatti il Guo-min-dang aveva promulgato una legge agraria che proibiva di esigere un affitto superiore al 37,5% del prodotto coltivato, legge che allora il PCC denunciò con violenza come un pannicello caldo, ma che 7 anni dopo riprendeva garantendone l’applicazione cosa a cui mai era riuscito lo screditato ed anche debolmente centralizzato Guo-min-dang.
L’unico risultato della politica della riduzione degli affitti fu il rafforzamento dei contadini medi e ricchi. In mancanza di dati globali citeremo delle cifre relative a 35 villaggi della zona delle regioni del Shanxi-Hebei, che sono di per sé rivelatori di una situazione ammessa, del resto, dai dirigenti cinesi:
Situazione che ci fece così commentare nel n. 1, anno 1963 del Programma Comunista:
«Vediamo il PCC sdrucciolare sempre più al di sotto del radicalismo borghese: dalla “nazionalizzazione” strappata in Russia, alla “divisione nera” (la spartizione egualitaria delle terre) che Lenin riuscì ad evitare; dalla “divisione nera” all’ “arricchitevi” staliniano – a una riforma alla Stolypin, in cui il proprietario fondiario non ha che da passare la mano al kulak».
Tale risultato era il logico approdo di una politica di “unità nazionale” e di “blocco delle classi” che doveva sacrificare gli interessi economici e politici dei contadini poveri e senza terra come del proletariato delle città alla formazione dello Stato nazionale, alla parola d’ordine: “tutto per il fronte nazionale” !
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Infatti al VII Congresso del PCC, il 24 aprile 1945, poco prima della fine della guerra contro il Giappone, Mao tiene il famoso rapporto titolato “Sul governo di coalizione”; il tono talvolta aspro nei confronti della cricca che deteneva le redini del Guo-min-dang definita «ipocrita, traditrice e fascista, espressione reazionaria dei proprietari fondiari, dei grandi banchieri, dei grandi compradores» non può celare il programma “unitario e borghese” del PCC.
Così Mao: «Proponiamo di instaurare, dopo la completa sconfitta degli invasori giapponesi, un sistema statale che noi chiamiamo di nuovo democrazia, ossia un’alleanza democratica con le caratteristiche del fronte unito, fondato sulla stragrande maggioranza della popolazione e posta sotto la direzione della classe operaia (...) alcuni sospettano che i comunisti cinesi siano contrari allo sviluppo della iniziativa individuale, allo sviluppo del capitale privato e alla difesa della proprietà privata, ma si sbagliano (...bisogna) dare alle masse cinesi la possibilità di sviluppare liberamente l’iniziativa individuale nella società, di assicurare il libero sviluppo dell’economia capitalistica privata che, però, non deve “dominare la vita del popolo”, ma essere utile al popolo, e infine di assicurare la difesa della proprietà privata legittimamente acquisita (...) per un lungo periodo in Cina esisterà una forma particolare di Stato e di potere politico, assolutamente necessaria e razionale per noi, ossia uno Stato e un potere politico di nuova democrazia, fondati sull’alleanza delle varie classi democratiche».
Per il marxismo decifrare la proposta di Mao è semplice: il criterio borghese di una rivoluzione borghese è “libertà, uguaglianza, fraternità e... Benthan” che tradotti nel linguaggio maoista si mutano in “indipendenza nazionale, fronte unito, nuova democrazia e... sviluppo del Capitalismo”, raccogliendo «i tre principi del popolo di Sun Yat-sen che – sempre secondo il testo maoista – gettati a mare dai reazionari del Guo-min-dang, furono ripresi dal popolo, dal Partito Comunista e dagli elementi democratici».
Ma tale risultato ha un prezzo ! Si afferma non già il programma agrario radicale del trasferimento della rendita allo Stato con la nazionalizzazione della terra, ma le mezze misure della politica agraria del Guo-min-dang, situazione che sostanzialmente non cambierà con la riforma agraria del giugno 1950 e la divisione in piccoli lotti della terra, misura tanto inadatta a trasformare la Cina da “paese agrario” a “paese industriale” che appena realizzata iniziò il periodo della collettivizzazione, questione di cui ci occuperemo nel seguito.
Giudizio conclusivo del periodo preso in esame:come nella rivoluzione del 1924-27 il PCC sacrificò gli interessi politici del proletariato, così nel periodo di incubazione della “Repubblica popolare” a nuova democrazia, anni 1937-45, ad essere sacrificati toccò agli interessi sociali dei contadini poveri e senza terra.
Gli anni 1945-49 sono detti dalla storiografia “della guerra civile”, infatti dopo un primo periodo di negoziati di pace dal 15 agosto 1945 all’aprile 1947 fra i rappresentanti del Guo-min-dang e del PCC (con continui scontri locali dei rispettivi eserciti) si hanno le grandi operazioni militari che portarono in maniera rapida alla conquista da parte delle truppe maoiste dell’intera Cina ed alla fuga del Generalissimo Jiang Jieshi a Formosa.
Non è facile presentare in maniera sintetica ed esauriente la portata reale delle misure agrarie del PCC in quegli anni, proprio perché si intrecciano, e vanno quindi spiegate, con l’intero svolgersi degli avvenimenti siano questi diplomatici che militari.
Una critica alle misure agrarie in se stesse sortirebbe solamente l’effetto di minimizzare l’intero corso degli eventi, tanto che sortirebbe una estremista ed anche inconcludente condanna del PCC anche come campione di una rivoluzione borghese, come realizzatore di compiti borghesi. Come abbiamo mostrato nel corso precedente degli avvenimenti il PCC abdicò al suo programma comunista rivoluzionario per divenire il vero Guo- min-dang, ma è indubbio che tale ruolo saprà ben ricoprirlo nei determinanti anni 1945-49, quando prese decisamente in mano i destini della Cina borghese, gettando in mare non solo i consiglieri americani ma anche rigettando i “consigli” di Stalin che puntava su un compromesso russo-americano nell’intera area del Pacifico.
Che malgrado sé stesso il maoismo abbia partorito uno Stato borghese indipendente e “popolare”, se da un lato non induce il partito rivoluzionario ad attenuare di alcunché la critica feroce dello stalinismo e delle ideologie che da questo hanno tratto alimento, dall’altro rimane il fatto storico che tale costituzione di Stato nazionale fu formidabile passo in avanti della storia.
Seguiamo adesso la cronologia dei fatti.
L’8 agosto 1945 la Russia dichiara guerra al Giappone e sfonda sull’intero fronte della Manciuria che in 7 giorni viene totalmente occupata dalle truppe sovietiche che vi sarebbero rimaste fino all’aprile del 1946. In questi 8 mesi i russi saccheggiarono l’intera struttura produttiva industriale messa su dai giapponesi impossessandosi di un attrezzaggio industriale il cui valore sarà stimato dalla Missione Pauley in 2 miliardi di dollari americani dell’epoca. Tale saccheggio portò ad un crollo delle produzioni industriali della regione: il carbone estratto nel 1943 ammontava a 21,5 mil. di tonnellate, nel 45-46 arrivava appena a 5 milioni; ugualmente la produzione di energia elettrica cadde ad un quarto rispetto a quella che era sotto il regime del Mandchakao. Inoltre l’80% delle locomotive della Cina del Nord furono in parte distrutte e in parte trasportate in Russia.
Tali prelievi erano sufficienti a compromettere seriamente qualsiasi opera di “ricostruzione” della Cina, fosse questa compiuta da un governo di coalizione fra PCC e Guo-min-dang, od anche da uno solo di questi partiti.
È del 14 agosto 1945, un giorno prima della resa giapponese, il trattato di “amicizia e alleanza” cino-russo in cui Stalin, volgendo le spalle a Mao, riconosce il governo di Jiang Jieshi come unico governo nazionale della Cina; tale riconoscimento fu il logico sbocco degli accordi di Yalta dell’11 febbraio che, riguardo la Cina prevedevano l’internazionalizzazione del porto commerciale di Dairen, il più attrezzato dell’intera Manciuria, la cessione come base navale di Port Arthur alla Russia e società miste cino-russe, con maggioranza di questi ultimi, per la gestione delle ferrovie della Cina dell’Est e del Sud della Manciuria ! Solo con la morte di Baffone la Cina riaffermerà i suoi interi diritti sulla Manciuria.
In questo clima di collusione imperialista fra la Russia e l’America trionfanti alla scala mondiale, ripresero, il 28 agosto 1945, i negoziati per un governo comune fra il Generalissimo e il PCC, negoziati che furono presieduti dal generale Marshall che portarono ad un vago e fragile accordo il 10 ottobre, accordo che sembrava superato dallo stesso svolgersi quotidiano di scontri e scaramucce fra i due eserciti.
Comunque sotto la mediazione americana si ha il 10 gennaio 1946 una nuova Conferenza consuntiva fra i due partiti, un nuovo cessate il fuoco fino al 30 giugno, un nuovo accordo il 25 febbraio con relative ed ennesime promesse di unità patriottica, di ricostruzione comune.
Il rompersi dei negoziati e le continue riprese di questi furono da una parte determinati dall’intera politica fin lì seguita dal PCC, che ricercava nel Guo-min-dang i rappresentanti della tanto corteggiata “borghesia nazionale”, secondo tale visione contrapposta alla borghesia burocratica, rappresentata da Jiang e i suoi; e nello stesso tempo dell’intero schierarsi delle potenze imperialistiche che premevano da par loro per un compromesso, tentando ambedue di esorcizzare, non soltanto la lotta di classe del proletariato e delle plebi contadine contro le classi possidenti, ma anche il formarsi di Stati nazionali al di fuori del loro totale controllo economico e militare. In tali condizioni il PCC avrebbe giocato, in maniera risoluta, il ruolo di vero ed unico partito borghese della Cina solamente quando ogni altra strada gli fosse impedito percorrere, come fu e come vedremo.
Con l’accordo del 25 febbraio e il relativo cessate il fuoco le truppe nazionaliste cominciano a ritornare nella Cina del Nord e nella Manciuria che il 15 aprile 1946 era passata dalle mani dei russi a quelle delle truppe maoiste, ritorno che inizialmente dovette limitarsi alle coste ed alle principali città (Chin-chou, Mukden, Ch’ang-Ch’un).
Con il luglio 1946, data della scadenza della tregua del cessate il fuoco, iniziano gli scontri fra i due eserciti che inizialmente vedono delle vittorie militari degli eserciti nazionalisti mentre le truppe del PCC, battezzatesi Esercito Popolare di Liberazione Nazionale, sono costrette a ritornare ai metodi della guerriglia contadina abbandonando le città che controllavano. I tenui contatti fra PCC e Guo-min-dang finiscono di fatto il 5 marzo 1947 data del ritiro del distaccamento diplomatico americano da Yan’an che cadrà nelle mani nazionaliste il 19 marzo, mese che segna l’inizio delle grandi operazioni militari.
La politica agraria del PCC dalla fine della guerra anti-giapponese, risentì in maniera decisiva l’evolversi dei rapporti fra questi ed il Guo-min-dang. Come abbiamo già visto durante il fronte unito anti-giapponese tale politica si era limitata a sostenere la diminuzione dei fitti e dei tassi di interesse abbandonando del tutto quella della confisca delle terre e della loro distribuzione egualitaria ai contadini poveri e senza terra, confisca che originariamente interessava tutta la terra per poi limitarsi a quella dei proprietari fondiari e contadini ricchi, per finire solamente a quella di certi proprietari fondiari reazionari; adesso gradualmente le esigenze militari e di ordine sociale faranno sì che il PCC sia costretto a riadottare misure di confisca delle terre.
Tale “virata” fu effettuata dal PCC con tutte le precauzioni possibili, perché se da un lato gli era necessario mantenere uno stretto legame con il movimento contadino delle vecchie zone che controllava nella Cina del Nord, che mostrava di non accontentarsi delle tiepide misure di riduzione dei fitti dei tassi e che procedeva di sua iniziativa alle confische, dall’altro il PCC non voleva inquietare contadini ricchi e medi e borghesia “patriottica” delle zone in cui la situazione militare non era salda o che erano sotto controllo totale delle truppe nazionaliste.
La Direttiva del 7 novembre 1945: «Riduzione dei canoni di affitto e produzione, due fattori importanti per la difesa delle zone liberate», pur ricordando che «la politica attuale del nostro partito consiste ancora nel ridurre i canoni di affitto e non nel confiscare la terra», deve ammettere che «in questa lotta gli eccessi possono difficilmente essere evitati; ma fino a quando si tratta di una lotta realmente delle larghe masse, ogni eccesso può essere corretto in un secondo momento».
La Direttiva inconsuetamente conciliante con gli eccessi nella applicazione delle riduzioni dei fitti, eccessi che negli anni precedenti furono aspramente condannati, non fu altro che il campanello d’allarme di una situazione sociale che puntava nuovamente al riesplodere della lotta di classe nelle campagne, ormai sola dopo la decapitazione dell’avanguardia proletaria delle città avvenuta negli anni 1927-28.
Infatti il 4 maggio 1946, due mesi prima della scadenza del precario cessate il fuoco, il PCC passò ufficialmente alla confisca delle terre dei proprietari fondiari e di quelle pubbliche, almeno nelle regioni settentrionali da tempo liberate. L’attuazione della misura comunque doveva avvenire in modo graduale. La vita dei proprietari fondiari sarebbe stata rispettata nella misura del possibile, cioè nella misura in cui il PCC poteva salvaguardarla. I contadini ricchi non dovevano essere infastiditi. Infine la misura della riduzione dei fitti continuava ad essere applicata nelle regioni recentemente liberate.
Nonostante la Direttiva fosse infarcita di compromessi rappresentò una svolta nella politica del PCC che pure rimaneva nei sacri confini borghesi e nazionali; non solo rispondeva alle pressanti richieste dei contadini poveri e senza terra ma, come notarono osservatori e giornalisti, in certe zone i contadini poveri e senza terra passarono di testa loro alle spartizioni senza curarsi dei sottili distinguo fra proprietari fondiari e contadini ricchi, fra ricchi e medi agiati, fra proprietari patriottici e reazionari. Svolta quindi, ma delle forze sociali delle campagne cinesi che risvegliatesi minacciano con il loro moto di tutto e tutti travolgere.
In “Bilancio dei tre mesi” del 1 ottobre 1946 Mao Zedong deve rilevare che «i contadini hanno affiancato il nostro partito e il nostro esercito contro gli attacchi delle truppe di Jiang Jieshi in tutte le località dove è stata applicata con fermezza e rapidità la direttiva del C.C. emanata il 4 maggio, e dove è stato risolto in profondità e radicalmente il problema agrario», e che «contadini hanno assunto una posizione di attesa passiva... (dove)... la riforma agraria è stata trascurata con il pretesto delle preoccupazioni militari».
Ma il rilievo di Mao, capo in testa del PCC, non era altro che la confessione di un partito che non sta alla testa della rivolta contadina ma piuttosto al rimorchio e con un’unica preoccupazione: limitare i danni dell’onda d’urto contadina alla proprietà borghese, al futuro ordinamento nazionale dello Stato Cinese.
La partita ben si sarebbe svolta altrimenti se alle convulsioni di lotta sociale nelle campagne avesse risposto il giovane ma combattivo e concentrato proletariato urbano; ma ciò non poteva essere, e l’occasione per quel formidabile ricongiungimento, previsto ed atteso dalla teoria marxista, fu nuovamente perso per l’ennesima ultima volta !
La Direttiva del 4 maggio fu completata da una Legge nazionale che fu approvata nel settembre-ottobre 1946 da un congresso “nazionale di contadini” legge che costituì la base della “Riforma Agraria” che doveva essere proclamata dopo la costituzione della Repubblica Popolare; si decretava la confisca di tutte le terre di proprietà dei nobili e pubbliche, la confisca e la distribuzione di tutte le proprietà che superassero le dimensioni medie e si permetteva la libera compra-vendita delle terre distribuite.
Nonostante questi aggiustamenti il PCC non riuscì del tutto ad arginare e controllare secondo le sue esigenze la rivolta contadina che si estendeva: i ripetuti riferimenti dei leader agli “eccessi di sinistra” indicavano chiaramente che il PCC doveva sopportare le azioni indisciplinate dei villaggi. Il testo di Mao Zedong “Salutiamo il nuovo slancio della rivoluzione cinese” indirizzato al C.C. il 1 febbraio 1947 deve infatti riprendere una energica difesa non solo di certi proprietari e dei contadini ricchi ma anche di quelli medi, segno evidente che le Leggi e le Direttive del PCC stavano ben al di sotto della manifestazione reale della rivolta agraria:
«Nel processo di attuazione della politica sulla distribuzione della terra a chi lavora, dobbiamo stabilire saldi legami con i contadini medi [contadini medi agiati compresi), se i loro interessi sono stati lesi, i contadini medi hanno diritto a un indennizzo e alle scuse. Inoltre, durante e dopo la riforma agraria, occorre prestare, nella misura consentita dalle masse (sottolineato da noi), la dovuta attenzione al caso dei contadini ricchi e dei medi e dei medi e piccoli proprietari fondiari in generale, sulla base della Direttiva del 4 maggio».
Il 1947 è, come abbiamo già detto, l’anno delle grandi operazioni militari durante le quali l’esercito Popolare ottiene delle importanti vittorie militari che, complici anche defezioni e tradimenti nelle file del Guo-min-dang il cui regime non resse per debolezza interna alla prova della guerra civile, gli permisero di controllare buona parte della Cina settentrionale, Manciuria esclusa.
Il 1947 segna altresì un’ulteriore radicalizzazione delle misure agrarie del PCC, misure che dovettero rispondere all’esigenza, oltre a quella di mantenere il legame con il movimento spontaneo dei contadini, anche alle accresciute esigenze militari.
Sviluppo del movimento contadino e azione militare dell’Esercito Popolare dovevano procedere di pari passo, proprio in quanto tale esercito niente aveva alle spalle, nemmeno la Russia di Stalin, se non l’appoggio dei contadini; appoggio che l’Esercito Popolare di Mao poteva assicurarsi solo seguendo la confisca delle terre, unico modo anche per reclutare il contadiname nelle proprie file.
Il 10 ottobre 1947 una Conferenza Nazionale Agraria doveva stendere una definitiva Legge Agraria composta di 16 articoli e che riprendeva molti termini della Legge del 1931 non senza che Mao l’avesse spurgata delle affermazioni qualificate come estremiste del periodo precedente, ma che pur tuttavia costitutiva un altro passo in avanti di “radicalismo» rispetto alla “Direttiva del 4 maggio” e alla Legge dell’anno precedente.
Infatti con la Legge 1947, oltre a confermarsi la confisca delle terre dei proprietari fondiari e quelle pubbliche (da distribuire all’intera popolazione rurale, indipendentemente dall’età e dal sesso), prevedeva anche la requisizione di tutti gli animali da tiro, attrezzi agricoli, scorte di cereali e gli altri beni dei proprietari fondiari, e le eccedenze dello stesso attrezzaggio e degli stessi beni dei contadini ricchi; tali misure erano l’ennesima concessione del PCC alla pressione del movimento contadino !
E sarà il super destro Liu Shaoqi a dover rispondere, sotto le accuse e le offese delle guardie rosse durante la Rivoluzione Culturale, di tale cedimenti nei confronti della pressione del movimento contadino.
Leggiamo nella sua “autocritica”: «Nell’estate del 1947, presiedetti alle riunioni per la riforma agraria. Allora non fui capace di trovare una soluzione sistematica e globale al problema della divisione delle terre dei proprietari terrieri. La tendenza di sinistra allora scoperta, non fu prontamente rettificata. Ad esempio furono uccise troppe persone e furono violati gli interessi dei contadini medi».
Così Liu non fu capace di rettificare, come se le forze sociali si facessero comandare a bacchetta dagli individui ! Illusione degli idealisti a cui interessa pensare come vera la storia dell’Uomo baciato dal destino !
E secondo tali illusioni l’Uomo di tal fatta era Mao Zedong: ecco infatti che riesce ad imbrigliare la rivolta agraria. Stralciamo dal suo rapporto al CC del PCC del 25 dicembre 1947 titolato “La situazione attuale e i nostri compiti”, in cui l’eroe riepiloga la politica agraria del PCC che aggiusta la sua rotta secondo il muoversi spontaneo della rivolta agraria, cercando in tutti i modi di non perdere i contatti con i corteggiati strati medi delle campagne:
«Dopo la capitolazione del
Giappone, i
contadini insistevano
per avere la terra, e noi decidemmo tempestivamente di modificare la
nostra politica agraria passando dalla riduzione dei canoni di affitto
e degli interessi sui prestiti alla confisca e alla distribuzione delle
terre della classe dei proprietari fondiari. La direttiva emanata dal
CC il 4 maggio 1946 sancisce questo mutamento. Nel settembre 1947 il
nostro Partito convocò la Conferenza Nazionale agraria ed
elaborò il
progetto di legislazione agraria della Cina, che fu immediatamente
applicato in tutte le zone. Questo provvedimento non solo ribadì
la
politica enunciata l’anno scorso nella “Direttiva del 4
maggio” ma
corresse in maniera esplicita, quello che non era abbastanza radicale
in questa direttiva... Per applicare a fondo e con fermezza la riforma
agraria, fu necessario costituire nei villaggi, come organismi legali
per l’applicazione della riforma agraria non soltanto leghe contadine
con una base di massa la più larga possibile, alla quale
partecipino
braccianti, contadini poveri e contadini medi, ed i contadini eletti da
queste leghe, ma anche, e prima di tutto le associazioni dei contadini
poveri composte da contadini poveri e braccianti, e i comitati da esse
elette.
«Queste associazioni di contadini poveri
devono costituire la
spina dorsale di tutte le lotte nelle campagne... La terra e le
proprietà assegnate ai proprietari fondiari o ai contadini
ricchi non
debbono superare quelle delle masse contadine. D’altra parte, non
bisogna nemmeno ricadere negli errori dovuti alla politica estremista
di sinistra del 1931-34:
«”Niente terra ai proprietari fondiari,
terre
povere ai
contadini ricchi” (...) occorre osservare due principi
fondamentali:
primo, soddisfare le richieste dei contadini poveri e dei
braccianti: questo è il compito fondamentale della riforma
agraria.
Secondo, mantenere risolutamente l’unità con i contadini medi e
non
ledere i loro interessi... Il motivo per cui in base al principio di
una equa distribuzione, la terra eccedente e parte della
proprietà dei
contadini ricchi di vecchio tipo debbano essere distribuite, è
che in
Cina i contadini ricchi hanno generalmente e in altro grado le
caratteristiche di sfruttatori feudali e semifeudali; la maggior parte
di essi inoltre dà in affitto la terra, pratica l’usura ed
assume
manodopera a condizioni semifeudali.
«Inoltre poiché i contadini
ricchi posseggono
più terra e le terre
migliori, le richieste dei contadini poveri e braccianti non possono
essere soddisfatte senza la distribuzione di queste terre. Tuttavia
conformemente al Progetto di legislazione agraria, i contadini ricchi
devono essere, di regola, trattati diversamente dai proprietari
fondiari. Nella riforma agraria, i contadini medi approvano una equa
distribuzione perché non lede i loro interessi. Con una equa
distribuzione, le terre di una parte dei contadini medi non vengono
toccate, mentre quelle di un’altra parte vengono ad accrescersi;
soltanto la parte dei contadini medi agiati possiede un po’ di terra in
eccedenza, ma sono disposti a cederla perché l’imposta fondiaria
viene
alleggerita... Durante la confisca e la ripartizione delle terre e
delle proprietà della classe feudale, occorre prendere in
considerazione le necessità di un certo numero di contadini
medi. Nel
determinare l’appartenenza di classe, si deve fare attenzione ad
evitare l’errore di classificare i contadini medi fra i contadini ricchi».
Il testo di Mao è la chiusa del periodo ascendente della rivolta agraria nelle campagne, infatti l’anno 1948 con le offensive degli eserciti “popolari” in Manciuria e la disfatta decisiva di quelli nazionalisti a Mukden il 2 novembre, alla quale seguì lo sfondamento delle truppe maoiste fino al fiume Azzurro in poco più di due mesi, è nel contempo l’anno in cui il PCC inizia a ritirare le briglia al contadino povero ed al bracciante l’azione dei quali era controllata parzialmente, molto parzialmente, dai suoi quadri inferiori. È che essendo l’obbiettivo della conquista della Cina intera e della costituzione di uno Stato nazionale unitario fattosi più vicino occorreva ridare alla “produzione”, al “commercio” tutta la fiducia possibile, fiducia che nel momento non esisteva più in quanto distrutta dal procedere delle confische “arbitrarie”, dalle “uccisioni”.
Proprio mentre il testo di Mao esortava la costituzione di leghe di contadini poveri e braccianti, ugualmente scandiva che bisognava tener di conto delle opinioni e degli interessi dei contadini medi e ricchi per non ripetere gli errori del 1931-34; la quadratura del cerchio poteva riuscire solo se tali leghe di contadini poveri e braccianti si sarebbero costituite sì ma sotto lo stretto controllo del PCC, unico modo di mettere loro la museruola, di irreggimentare la loro azione in quella per la quale si era da tempo votato il Partito di Mao, una Cina forte e borghese ! Come vedremo in tal senso, nei mesi a venire, si sarebbe sviluppata l’intera politica di tale Partito.
All’inizio del 1948 sia Mao Zedong che Liu Shaoqi e gli altri dirigenti maggiori, in riunioni apposite, dovettero mettere in guardia i quadri minori contro gli eccessi nell’applicazione della Legge Agraria, eccessi che erano dovuti non certo alla leadership ma dal “basso”. Un esempio di tale azione di vera polizia fu la Direttiva interna del 7 gennaio 1948 “Sulla istituzione del sistema dei rapporti”, in cui il richiamo al “centralismo” dell’apparato di Partito e alla lotta per combattere le tendenze all’indisciplina e all’anarchia serviva solamente a limitare le spinte centrifughe di lotta di classe che si verificavano nei villaggi e che tendevano a scavalcare la stessa struttura organizzativa del PCC.
Il PCC stava per assaporare la vittoria e adesso la stessa esortazione di “Ordine!” rivolta agli operai delle città, lo abbiamo visto nel numero 74, cominciava a farla ronzare negli orecchi del contadiname, che pretendeva farsi giustizia da sé per una sottomissione millenaria.
“Ordine perdio! Basta con gli eccessi!”, tuonava il PCC, ed è lo stesso Mao il 18 gennaio 1948 a firmare l’ennesima Direttiva “Alcuni problemi importanti della politica attuale del Partito”, in cui il campione della lotta di classe, secondo l’iconografia occidentale che si sazia di esotico e di curiosità, deve sforzarsi per proteggere i proprietari fondiari e i contadini ricchi dalle ire del contadiname. Vi si legge:
«10. Conformemente al principio della equa distribuzione
della terra, occorre fare una distinzione fra i grandi, i medi e i
piccoli proprietari fondiari che sono tiranni locali e coloro che non
lo sono.
«11.Dopo che i tribunali avranno debitamente processato e
condannato i pochi criminali che si sono realmente macchiati dei
delitti più atroci, e dopo che le autorità competenti
avranno
ratificato le sentenze, sarà necessario fucilarli e annunciarne
l’esecuzione. La tutela dell’ordine rivoluzionario lo esige. Questo
è
un aspetto del problema. L’altro è che noi dobbiamo insistere
perché si
uccida meno e dobbiamo proibire severamente di uccidere senza
discriminazione (...) Il nostro compito consiste nell’abolire il
sistema
feudale, nel liquidare i proprietari fondiari come classe, non come
individui».
Che non si trattasse di un semplice appello alla “clemenza” contro uccisioni e spargimenti di sangue inutili, lo si sarebbe visto poco dopo, infatti il 3 febbraio 1948 nuove regole precisarono i metodi di applicazione della Legge Agraria del 10 ottobre. Furono fissate importanti distinzioni territoriali; le regioni anticamente liberate, quelle semi-anticamente liberate e quelle recentemente liberate si vedranno trattare differentemente.
Nelle prime «non si tratta di procedere a una nuova distribuzione della terra in base alla legge agraria, o di organizzare artificiosamente e arbitrariamente, associazioni di contadini poveri per dirigere le leghe contadine, ma di organizzare gruppi di contadini poveri all’interno delle leghe contadine». Nel contempo si deve avere cura dei contadini medi che costituiscono la maggioranza della popolazione rurale e i cui elementi attivi «devono partecipare al lavoro direttivo delle campagne».
Nelle zone semi-anticamente liberate, vale a dire liberate tra il settembre 1945 e l’agosto 1947 la legge agraria sarà applicata interamente: «I contadini medi rappresentano una minoranza e sono in una posizione di attesa; i contadini poveri sono in maggioranza e bruciano dal desiderio di ottenere la terra». Si, letteralmente, bruciavano !
Infine nelle regioni conquistate dopo l’agosto 1947 la Legge Agraria sarebbe stata applicata con gradualità: prima confisca dei beni mobili (cereali, denaro, vestiti ecc.) dei grandi proprietari fondiari poi distribuzione della terra dei grandi e medi proprietari fondiari, infine quella dei piccoli, tutto in due anni. Quindi confisca e distribuzione delle eccedenze dei contadini ricchi nel terzo anno !
Le direttive dell’11 e del 15 febbraio 1948, titolate “Correggere gli errori dovuti a deviazionismo di sinistra nella propaganda per la riforma agraria” e “Punti essenziali della riforma agraria nelle nuove zone liberate” sono ulteriori precisazioni su come graduare nel tempo l’applicazione della Legge agraria; ma i tre anni previsti per la sua realizzazione avrebbero portato alla sconfessione. Infatti, lo vedremo nel seguito, la Riforma agraria del giugno 1950 abbandonerà molte decisive affermazioni del 1947 ed il PCC riuscirà a consegnare al contadino medio, illuso dalla sua proprietà, i destini delle campagne, a tutto beneficio del commercio e dell’industria ma non della lotta di classe.
Le cateratte ormai erano aperte, e tutto il 1948 che vede l’affermazione militare delle sue truppe, è una sequela di Appelli e Direttive del PCC contro il deviazionismo di sinistra «che pone l’accento solo sugli interessi immediati dei lavoratori, che non distingue fra i vari tipi di proprietà fondiaria», che «respinge i signorotti illuminati e la borghesia nazionale», tutto in uno sforzo continuo di ridare fiato al normale svolgersi della produzione e dello sfruttamento capitalistico del lavoro salariato.
Il 27 febbraio 1948 Mao Zedong nel testo “Politica concernente l’industria e il commercio” deve spezzare l’ennesima lancia a favore del ristabilimento dell’ordine. Anticipando di qualche anno la cogestione di Tito, auspica «comitati misti per dirigere la produzione e fare il possibile per ridurre i costi, aumentare la produzione... (per)... tener di conto degli interessi sia pubblici che privati, tutelare sia il lavoro che il capitale».
Il 1 aprile durante una Conferenza di quadri della zona liberata del Shanxi-Suiyuan, Mao deve invece lagnarsi che l’organizzazione di partito non è riuscita ad impedire le uccisioni di proprietari fondiari e contadini ricchi; aggiunge che nel corso della riforma agraria non ci si può appoggiare solamente sui contadini poveri, perché «uno dei suoi compiti (...) è quello di soddisfare le rivendicazioni dei contadini medi» e che pertanto il PCC non doveva appoggiare una distribuzione egualitaria delle terre confiscate:
«Si riscontra attualmente nelle campagne un modo di pensare che è nocivo all’industria e al commercio e che sostiene l’egualitarismo assoluto nella distribuzione della terra. Un tal modo di pensare è, per sua natura, reazionario, arretrato e retrogrado, e noi dobbiamo criticarlo».
E la ricetta per arrivare non solo a criticare tale situazione, ma a procedere in tutt’altra direzione, cioè una ripartizione della terra e dei beni confiscati secondo le capacità produttive dei contadini – politica che premiava indubbiamente il contadino medio e il medio agiato, alias contadino ricco con pose rivoluzionarie – il capo Mao l’avrebbe sciorinata il 25 maggio 1948 in “Il lavoro di riforma agraria e di consolidamento del partito”: «I quadri del Partito devono essere abbastanza numerosi e qualificati per prendere in mano il lavoro per la riforma agraria e non devono abbandonarlo all’azione spontanea delle masse». Senza tale condizione niente riforma agraria !
Se lo schiaffo per i servitori delle masse è irrispettoso, non importa; rimane il problema che storicamente non è da dozzina; è davvero reazionario che in una rivoluzione borghese gli strati più oppressi del contadiname prendano in parola i democratici o i popolari, che è lo stesso, e reclamino non solo la libertà e l’uguaglianza giuridica, che si riconosce loro senza difficoltà, ma anche quella sociale ed economica ?
Il quesito storico è già stato risolto dalla dottrina marxista: nella Russia i bolscevichi non hanno mai respinto come “reazionaria” quella “divisione nera” di cui avevano tuttavia criticato (non dal punto di vista del “commercio” e dell’ “industria”, ma da quello socialista) il carattere utopistico e piccolo borghese. Per essi la “divisione nera” rappresentava l’ideale rivoluzionario dei contadini poveri e, in quanto tale, l’avrebbero accettata se ve ne fosse stata la necessità. E sulla “divisione nera” non prevalse la proprietà dei kulak, bensì la conseguenza logica delle aspirazioni rivoluzionarie del contadiname: la nazionalizzazione della terra !
Ma il Partito Comunista Cinese non era a tale altezza storica, e dalla spartizione nera uscì il kulak e il contadino medio, corollari di una agricoltura così parcellizzata che tale risultato si dimostrò subito una catena per lo stesso sviluppo industriale cinese.
Nell’anno 1949 si ha la totale sconfitta degli eserciti nazionalisti da parte di quelli dell’Armata Nazionale di Liberazione che, dopo le vittorie riportate nella Manciuria nel novembre 1948, erano oramai in stato di evidente superiorità sia per armamento sia per numero. Nel gennaio viene conquistata Pechino e nell’aprile le truppe maoiste sono già dislocate su tutto il fronte dello Yang-tze-Kiang (Fiume Azzurro), ultima linea difensiva degli eserciti di Jiang Jieshi; il 20-21 aprile avviene in più punti lo sfondamento di quest’ultima barriera e nell’ottobre, a Cina totalmente conquistata, proclamata la Repubblica Popolare Cinese.
Come abbiamo già visto, già nel 1948 il PCC aveva iniziato a tirare le briglia al movimento contadino e tutti i suoi sforzi tendevano ad incanalare la “riforma agraria” nella legalità in quanto il suo procedere impetuoso ed incontrollato minacciava non solo la produzione agricola ma anche l’intero ordinamento sociale nelle campagne e nelle città, dove, fra l’altro il PCC, era un pesce fuori dall’acqua, con flebili legami soltanto nell’ambiente studentesco e dell’intelligenza della borghesia democratica ed “illuminata”, e con le masse operaie immobili dopo le cruenti e feroci sconfitte della fine degli anni Venti che ne avevano decapitato le avanguardie.
Nel marzo 1949, la seconda riunione plenaria del CC del PCC ribadì che con il necessario spostarsi del centro di gravità dalle campagne alle città, veniva bandito ogni “terrore rivoluzionario” e tutto indirizzato all’apprendimento dei metodi migliori per accrescere la produzione ed il benessere della Cina.
«Fin dal primo giorno in cui occupiamo una città, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione alla riattivazione e allo sviluppo della sua produzione», ammoniva il rapporto di Mao Zedong, che continuava con panegirici elogiativi dello sviluppo capitalistico della Cina: «È necessario e utile che noi mettiamo in pratica il “controllo sul capitale”, la parola d’ordine lanciata da Sun Yat-sen. Tuttavia nell’interesse di tutta l’economia nazionale e nell’interesse presente e futuro della classe operaia e del popolo lavoratore, non dobbiamo limitare troppo o in maniera troppo rigida l’economia privata capitalistica, ma dobbiamo lasciarle la possibilità di esistere e di svilupparsi nel quadro della politica e della pianificazione economica della Repubblica Popolare».
E, nell’interesse dell’economia nazionale, il PCC conseguentemente porse il ramoscello d’olivo della concordia sociale fra le classi a tutti quei democratici che erano stati impauriti, bastonati ed uccisi negli eventi degli ultimi anni in cui dominava «uno stile di chiuso settarismo (...) riapparso nel 1947 durante l’alta marea della riforma agraria».
La nascente RPC necessitava di questa concordia fra le classi, ed il PCC, da vero Guo-min-dang, si apprestava a realizzare questo compito schiettamente nazionale, democratico.
Ma i destini di una Cina forte ed industriale erano legati indissolubilmente alla produzione agricola, al suo accrescimento, perché era ed è dallo sviluppo di questa (nel 1949 rappresentava il 70% dell’intera produzione cinese) che lo Stato centrale traeva le proprie risorse ed i propri mezzi; il nodo da sciogliere era lì perché sotto l’incedere della “riforma agraria”, armi alla mano da parte dei contadini, tale produzione era precipitata ad 1/4 rispetto ai migliori risultati dell’anteguerra.
Il nuovo Stato doveva arrestare il movimento contadino, pena la sua stessa dissoluzione, e varare senza indugi una nuova Legge Agraria che ridesse fiducia alla proprietà contadina e fiato alla produzione.
Alla fine del 1949 venne formulata la nuova legge approvata dal Governo Popolare il 28 giugno 1950 e che fu oggetto di un circostanziato rapporto di Liu Shaoqi il 14 giugno dello stesso anno alla Conferenza Consuntiva del Popolo cinese; da questo rapporto attingiamo le seguenti note.
La legge 1950 non aveva un effetto retroattivo, non veniva quindi ad interessare tutte quelle zone in cui era stata applicata la legge del 1947 la quale era nettamente più radicale, ma si riferiva soltanto a quelle zone nelle quali la riforma agraria non era stata ancora incominciata. Già questa divisione fa risaltare il carattere di polizia che aveva determinato la promulgazione della legge: le zone in cui la riforma agraria aveva da incominciare erano principalmente le regioni della Cina meridionale, risicole che, come abbiamo già visto, erano le regioni in cui la questione della terra era espressa nella maniera più drammatica per la grande polverizzazione delle aziende e la conseguente povertà dei contadini.
Liu dichiarò con vigore che anche nelle zone in cui gli stessi contadini avevano iniziato la “riforma agraria”, bisognava bloccarla. Nelle aree nelle quali la riforma era decisa per l’inverno di quell’anno (1950) bisognava concentrare gli sforzi prima di tutto nel completamento del raccolto e nella colletta del grano pubblico (cioè le tasse statali e le consegne di grano), solo poi passare alle confische. Liu avvertì che se la riforma doveva condurre a “tendenze” che avrebbero provocato confusione era necessario arrestarla immediatamente; gli errori degli anni precedenti andavano rettificati:
«Nel periodo intercorrente tra il luglio 1946 e l’ottobre 1947, le masse contadine e i nostri quadri rurali di molte zone della Cina settentrionale, Shantung e Manciuria, nella realizzazione della riforma agraria, non hanno sufficientemente osservato la Direttiva del Comitato Centrale del Partito del 4 maggio 1946, ma hanno agito per conto loro; e hanno immediatamente confiscato la terra e le proprietà dei contadini ricchi. Questo era comprensibile, perché era un periodo nel quale il popolo cinese era impegnato in una dura lotta contro il Guo-min-dang reazionario. Durante questo periodo è avvenuta la maggior parte delle deviazioni nella riforma agraria: gli interessi di una parte dei contadini medi furono violati, l’industria ed il commercio furono in parte distrutti nelle regioni rurali, ed in alcune aree vi furono fenomeni di bastonature ed assassini indiscriminati. Questi fatti si spiegano soprattutto per la tensione della situazione politica e militare del momento ed anche per la mancanza di esperienza dei nostri quadri rurali. Questi non avevano chiara la situazione delle classi nelle campagne e commisero l’errore di considerare i contadini medi come quelli ricchi».
Ne conseguiva che la riforma agraria doveva svolgersi in maniera graduale, poggiare sì, sui contadini poveri e sui braccianti, ma senza alienarsi le simpatie dei contadini medi e dei contadini ricchi neutrali. I consigli contadini sarebbero diventati «la forma organizzativa e gli organi esecutivi» della riforma agraria, ma il nucleo guida di questi consigli doveva essere il “quadro” inviato dal partito, senza l’autorizzazione del quale non si doveva procedere, norme di comportamento queste che erano già state enunciate da Mao Zedong nel 1948.
L’intento della legge 1950 era chiaro: il radicalismo agrario estremista aveva determinato gravi difficoltà di produzione perciò se si doveva continuare con la distribuzione della terra, questa non doveva interferire con la produzione.
Ancora dal rapporto di Liu: «Il problema della povertà delle masse contadine sarà definitivamente risolto solamente se la produzione sarà notevolmente aumentata, se la industrializzazione della Cina sarà portata a buon fine, se il livello di vita si eleverà in tutti gli angoli del territorio cinese e se la Cina si incamminerà finalmente nella via dello sviluppo socialista. L’applicazione della riforma agraria non può risolvere che una parte dei problemi della povertà dei contadini. La riforma agraria deve mirare essenzialmente e prima di tutto all’accrescimento della produzione».
L’appello riprendeva l’articolo 1 della Legge il quale scandiva: «si realizzerà il sistema della proprietà fondiaria contadina, per liberare le forze produttive delle regioni rurali e per sviluppare la produzione agricola, per aprire la via dell’industrializzazione della nuova Cina».
Nelle parti essenziali, la nuova Legge garantiva a ogni individuo che avesse compiuto i 16 anni un minimo da 2 a 3 mu di terra a seconda delle regioni. In pratica, una famiglia di cinque persone doveva quindi poter disporre di un ettaro circa. Le attribuzioni di terra, legalizzate da titoli di possesso, davano al nuovo proprietario non soltanto i diritti di libero sfruttamento, ma anche quelli di acquisto, di vendita e di affitto (art. 30).
La distribuzione della terra fu fatta innanzitutto a detrimento delle terre dei clan, dei templi e monasteri buddisti e taoisti, chiese cristiane e collettività diverse (art. 3); quindi a detrimento dei proprietari fondiari le cui terre, animali da tiro, materiale agricolo, eccedenze di grani e di costruzioni rurali vennero confiscate senza compenso (art. 2). I proprietari fondiari conservavano tuttavia il diritto di ricevere come tutti da 2 a 3 mu, di terra (art. 10).
Le imprese industriali e commerciali dei proprietari fondiari non vennero confiscate. Beni commerciali e industriali erano protetti ed era proibito danneggiarli (art. 4).
Salvo in casi eccezionali, precisati dalla Legge, le terre dei contadini ricchi, coltivate da loro stessi con l’aiuto di mano d’opera salariata, ed anche gli altri loro beni, erano protetti e non potevano essere toccati. Protetti anche tutti i piccoli lotti di terra dati in affitto dai contadini ricchi (art. 6). Le terre dei contadini medi compresi i più agiati di loro, erano inviolabili senza eccezione alcuna.
Al fine di perturbare al minimo la produzione in corso, le ridistribuzioni di terra erano fatte per ingrandimento e diminuzione a partire dai lotti esistenti.
Le differenze con la Legge 1947 erano essenzialmente tre:
1) la Legge 1947 confiscava oltre a tutte le
terre e tutti gli
animali da tiro anche tutte le scorte, l’attrezzaggio agricolo e tutti
gli altri beni industriali e commerciali dei proprietari fondiari; la
Legge 1950 riguardo alle scorte e alle costruzioni rurali ammetteva la
confisca per le sole eccedenze, mentre tutti gli altri beni industriali
e commerciali venivano protetti;
2) la Legge 1947 ammetteva la confisca delle
eccedenze dei contadini
ricchi; la Legge 1950 lo proibiva;
3) la Legge 1950 conteneva un articolo preciso
sulla distribuzione
delle terre confiscate ai proprietari fondiari; la Legge 1947 niente
diceva di specifico sull’argomento e c’è da credere che i
contadini
poco si curassero dei loro antichi oppressori.
Inoltre, da un punto di vista organizzativo-esecutivo, i Consigli di Contadini che dovevano adempiere alla confisca e ridistribuzione della terra siccome riguardavano dai 10 ai 50 villaggi furono subito organi pletorici ed improduttivi che lasciarono le loro funzioni in mano a comitati di “quadri” scelti e fedeli. Ne conseguì immediatamente che le vecchie “bande di contadini poveri”, p’innung-t’uan, vennero subitamente sciolte.
Le nuove direttive politiche introdotte alla fine del 1949 e nel 1950, se non arrestarono del tutto la “marea contadina”, che, come aveva confessato Mao, era stata la causa delle misure agrarie prese da un impaurito PCC, certo riuscirono ad attenuare i danni anche solo per le loro limitazioni nel tempo e nello spazio.
Limitazioni nel tempo, perché la riforma si sviluppò progressivamente a partire dal Nord-Est (1947-49), per propagarsi nel 1950 nella regione dello Hebei e dello Shanxi, nel 1951 nel Sud e finalmente nell’Ovest, Tibet escluso. Limitazioni nel tempo perché furono necessari 6 anni dal 1947 alla primavera 1953, perché lo Stato organizzasse “dall’alto”, con i suoi “quadri”, metodicamente, le operazioni di confisca e di redistribuzione le quali assunsero rapidamente l’aspetto di una misura amministrativa e di ordine sociale in cui si dovette reprimere la tendenza dei contadi poveri e senza terra alla distribuzione egualitaria, alla eliminazione dei contadini ricchi, ad opporsi ai contadini medi, per farli rientrare nei ranghi della “nuova democrazia», della democrazia popolare.
Con ciò il lettore non intenda che questa che andiamo descrivendo sia stata una passeggiata di educande linde e timorose. Secondo calcoli demografici di quel periodo la popolazione rurale era di circa 465-485 milioni di persone con la rata del 4-5%, i proprietari fondiari sarebbero stati dai 18 ai 20 milioni, cifra che gli studiosi più seri, cioè meno famosi, danno indicativamente come il bilancio del “terrore” che si dispiegò nelle campagne cinesi nei 6 anni che vanno dal 1947 al 1952 e che travolse, nonostante il PCC ed i suoi proclami contro gli “eccessi” (il 18 febbraio 1951 l’Ufficio Politico del PCC doveva «esortare i contadini a non ricorrere alle torture, spiegando che sono illegali e non vantaggiose»), la vecchia nobiltà, i proprietari fondiari, i contadini ricchi, le milizie padronali e le mille figure che giravano intorno ai loro interessi.
Questo sia detto non solo per verità storica, ma anche perché la critica all’avversario di classe va fatta senza misconoscere caratteri suoi propri, il che può portare anche a render loro l’onore che meritano, e certo Mao ed il PCC, pur facendo parte dell’uguale filone stalinista, sono di una spanna più alti ai Partiti sedicenti comunisti dell’Occidente ed ai loro capi, allora Togliatti e Thorez, oggi Berlinguer e Marchais.
Quali furono i risultati economici della confisca e redistribuzione delle terre ? Quasi la metà della superficie coltivata (47 milioni di ettari) fu ripartita fra 300 milioni di contadini, poco più di 15 are a testa, insieme a circa 3 milioni di animali da tiro su 50 milioni della Cina dell’anteguerra.
Ciò portò ad una ripartizione della terra (lo vediamo nella tabella ufficiale) dei contadini medi, che ugualmente però languivano per mancanza di terra e di mezzi di produzione, poveri e miseri ma su un loro orticello garantito dalla Legge e dalla Costituzione del 1954.
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Tale risultato di impasse economico era inevitabile perché, come abbiamo già detto, la ripartizione della terra non poteva costituire per la Cina la soluzione della questione agraria, dato il carattere particolare della conduzione già da secoli estremamente parcellizzata. Infatti la terra era sì posseduta da un esiguo numero di proprietari fondiari, ma questi la davano in affitto in piccoli lotti ai contadini. La terra era dunque già divisa ed una sua ulteriore massiccia ripartizione era tanto poco possibile che nel 1927 la rivendicazione del proletariato era stata quella della nazionalizzazione, che fra l’altro avrebbe facilitato la formazione di grandi aziende statali condotte da lavoratori salariati e con l’impiego di mezzi tecnici moderni. La parola d’ordine della ripartizione era però la tipica rivendicazione dei contadini medi, cioè di quei contadini che già coltivavano un piccolo lotto di terra ma che volevano liberarsi del pesante affitto dovuto al proprietario fondiario. L’affitto fu sostituito da una tassa statale che ammontava al 17-19% del valore del raccolto.
L’unico strato che beneficiò della ripartizione fu perciò appunto questo: non solo, i contadini poveri, cioè privi di terra o con un appezzamento insufficiente, continuarono a rappresentare una parte notevole della popolazione, ma rimasero anche i proprietari fondiari e i contadini ricchi, sebbene i loro lotti fossero ridotti in estensione.“Ogni contadino abbia il suo pezzo di terra”, era questa la formula piccolo borghese di Mao; ma ogni contadino non poteva, nella situazione della Cina, avere il “suo pezzo di terra” e la maggior parte dei contadini poveri rimase tale nonostante le promesse del Partito al Governo. Citiamo dai resoconti dell’VIII Congresso del PCC, tenuto nel 1956 (cioè tre anni dopo la fine della riforma agraria), per ben illustrare con il rapporto di Liu Shaoqi la situazione dei contadini: «La popolazione rurale della vecchia Cina contava dal 60 al 70% di contadini poveri e di operai agricoli (...) Dopo la riforma, la situazione economica delle grandi masse si è sensibilmente elevata e numerosi contadini poveri e operai agricoli si sono elevati (?) allo stato di contadini medi. Tuttavia vista la debole estensione delle terre arabili nelle nostre regioni rurali in rapporto ad una popolazione molto forte, i contadini nell’insieme del paese possiedono in media solo tre mu a testa od anche qualche decimo di mu. Così sussistono ancora nelle regioni rurali dei contadini poveri e degli strati inferiori di contadini medi che comprendono dal 60 al 70% della popolazione». Il rapporto quindi rimane lo stesso ! Tale risultato era inevitabile: se la “riforma agraria” aveva eliminato parte della classe dei proprietari terrieri, parte dei contadini ricchi, se aveva distribuito tutta la terra dei primi e parte della terra dei secondi, liberando così i contadini affittuari dalla necessità di pagare i canoni e tutti gli obblighi collegati al proletariato fondiario, tali innegabili vantaggi non potevano realizzare una benché minima modifica dei rapporti di produzione nelle campagne, anche proprio per l’estrema parcellizzazione della conduzione agricola e per l’estrema arretratezza della struttura tecnica e produttiva agraria che cozzava frontalmente con le esigenze di accumulazione di capitale. In tali condizioni la riforma non faceva altro che riprodurre le medesime condizioni della situazione esistente, e sarà la irrisoluta situazione sociale descritta da Liu la difficoltà principale che caratterizzerà la seconda fase delle misure agrarie: la collettivizzazione.
Ma anche per quello che concerne lo sviluppo produttivo, l’obiettivo primo del Partito e del Governo, la riforma condusse ad una situazione di stallo. Certamente le cifre assolute della produzione agricola dell’anteguerra furono raggiunte; ad esempio la migliore produzione cerealicola prima del 1949 era stata di 150 mil. di tonnellate, soia compresa, mentre dal 1949 al 1953 si raggiunse: 113,2; 129,8; 140,1; 163,9; 168,8 mil. di tonnellate. Ma tali risultati vennero giudicati dagli stessi dirigenti cinesi del tutto insufficienti ai bisogni del consumo e dell’edificazione industriale, tanto che Deng Zihui, responsabile dell’Agricoltura, sul “Quotidiano del Popolo” del 23 luglio 1953 stimava che una produzione annua da 275 a 300 mil. di tonnellate era indispensabile, d’altra parte realizzabile «dopo uno o due piani quinquennali o un po’ di più».
Ma l’ingenua speranza di Deng Zihui (più in là Mao per non essere da meno proclamerà che la Cina in 15 anni avrebbe raggiunto l’Inghilterra ed il Comunismo) era senza dubbio la chiave di volta dell’industrializzazione cinese, cioè la costituzione di un surplus agricolo per giungere di lì al traguardo di una efficace ripartizione degli investimenti industriali.
E invece nessun surplus dalle campagne ! Infatti la divisone delle terre, se portò ad un miglioramento immediato delle condizioni di vita dei contadini sempre ad un livello di sussistenza, non provocò per nulla, né non poteva provocare, un accrescimento delle forze produttive e quindi liberare eccedenze agricole.
Da una parte i contadini “liberati” si preoccuparono soprattutto di raggiungere un tenore di vita migliore e la conduzione dei piccoli fazzoletti di terra rimase ai metodi arretrati in uso da millenni; dall’altra la stessa limitata estensione della proprietà non permetteva il ricorso a tecniche più moderne anche se l’industria fosse stata in grado di fornire i mezzi per la meccanizzazione agricola. Possibilità che non esisteva del resto perché senza le eccedenze veniva a mancare all’origine il sostegno finanziario all’industrializzazione e precludeva anche l’alternativa di esportare prodotti agricoli in cambio di macchinari. Il nodo sarà sciolto con l’aiuto russo, ma la soluzione intrapresa, la collettivizzazione si arresterà ugualmente nelle secche dell’immenso mondo contadino.
Le città rimasero pertanto mal approvvigionate ed il proletariato urbano fece subito le spese della timida riforma agraria in regresso sui suoi programmi più cauti, sui suoi provvedimenti passati e sull’iniziativa delle masse contadine.
Alla vigilia della collettivizzazione, l’11 aprile 1953, il “Quotidiano del Popolo” doveva confessare: «In seguito alla riforma agraria, ed a causa della divisione delle aziende, modello di sviluppo conseguente di una economia di piccoli contadini autosufficienti, la quantità di derrate alimentari sul mercato può diminuire (ed infatti diminuì) e questo influirà sull’approvvigionamento delle città».
Le cifre auspicate da Deng Zihui e che dovevano promuovere l’industrializzazione e approvvigionamento delle città, saranno raggiunte negli anni 1978-80, anni nei quali la disponibilità pro-capite dei cereali raggiungerà i suoi record: nel 1978, 333 kg. di cereali pro-capite che, sebbene siano ben superiori ai 206 kg, del 1949, sono ancora insufficienti sia ad assicurare l’industrializzazione, sia a regolarizzare l’approvvigionamento delle città, le quali nell’ultimo anno hanno ritrovato sia il mercato nero a prezzi ben superiori a quelli statali, sia una minima ma significativa inflazione, fino a ieri considerata male tipicamente occidentale !
Gli anni trascorsi dall’auspicio ottimista di Deng Zihui sono stati quindi 25 equivalenti a 5 piani quinquennali ed a una rivoluzione culturale che vide l’incauto pianificatore sul banco degli accusati, per essere oggi pienamente riabilitato.
Questi i principali risultati economici della riforma agraria degli anni 1949-53 e la stratificazione sociale che ha prodotto nelle campagne, arrivando alla conclusione che l’estesa piccola produzione familiare contadina (autosufficiente per la maggior parte), era divenuta la palude nella quale stavano per affondare i progetti di rapida industrializzazione, per la bassa produttività della conduzione agricola parcellizzata incapace di assolvere pienamente al compito schiettamente borghese di formazione e sviluppo del mercato nazionale.
Questa la tesi che sinteticamente esponemmo e alla quale ci rifacciamo riprendendo il filo di una trattazione degli avvenimenti non facile per le molte lacune nel materiale documentario a noi disponibile, e dando i primi cenni delle polemiche fra Liu Shaoqi e Mao.
Durante la rivoluzione culturale Liu Shaoqi ed i dirigenti più o meno a lui vicino, furono accusati di essere da sempre i difensori dei contadini ricchi e dei contadini medi e per contro di disconoscere gli interessi dei contadini poveri e dei contadini medi inferiori. Accusa che, nel contempo, era anche una esplicita confessione che allora nel biennio 1966-67 le classi in Cina c’erano e come.
In un articolo apparso sia sul “Quotidiano del Popolo” sia sulla rivista teorica “Bandiera Rossa” intitolato “La lotta fra le due vie nelle campagne cinesi” e riportato su “Beijng Information” del 4 dicembre 1967 si cita il testo di Liu Shaoqi “Istruzioni date ad An Ziwen ed altri” del 23 gennaio 1950 come un esempio della via capitalistica di sviluppo delle campagne contrapposta a quella socialista di Mao.
An Ziwen sarà nel 1956 a capo del Dipartimento Organizzazione e pure lui subirà la polvere durante la rivoluzione culturale per essere poi pienamente riabilitato, questo sia detto aneddoticamente.
Dal testo di Liu: «In questo momento lo sfruttamento non fa altro che salvare persone; non permetterlo è un dogmatismo; in questo momento è indispensabile lo sfruttamento; bisogna riservare un trattamento favorevole allo sfruttamento (...) Si deve permettere (nell’agricoltura e nell’artigianato) l’impiego di mano d’opera salariata e all’attività individuale di svilupparsi di conseguenza (...) è positivo lasciar sviluppare un certo numero di contadini ricchi (...) non bisogna limitare l’impiego di mano d’opera salariata per la coltura della terra, che è legale e nel contempo ugualmente vantaggiosa per i poveri (...) fra qualche anno le famiglie contadine che possiedono 3 cavalli, un aratro, una carretta raggiungeranno la quota dell’80% (...) Solo con il 70% delle famiglie contadine con tre cavalli possiamo mettere in piedi delle fattorie collettive (...) non bisogna credere che tutti quelli che si oppongono alle attività individuali siano dei collettivisti».
Ed ancora Liu citato nello stesso articolo: «Dopo la riforma agraria, le tendenze spontanee dei contadini al capitalismo e le differenziazioni di classe cominciano a manifestarsi con lo sviluppo dell’economia rurale. Nel partito ci sono dei compagni che, di fronte all’apparizione di queste tendenze spontanee e questa differenziazione di classe, si impauriscono, e tentano di prevenire e di impedire lo sviluppo di questo fenomeno. Essi si immaginano di poter utilizzare per questo scopo le squadre di aiuto reciproco e le cooperative di approvvigionamento e di vendita. Alcuni hanno formulato l’opinione secondo la quale bisogna gradualmente scuotere, indebolire, annientare la proprietà privata e trasformare le squadre di aiuto reciproco, perché così appariranno forze nuove capaci di vincere i fattori che generano le tendenze spontanee dei contadini al capitalismo. Ecco un punto di vista erroneo, pericoloso ed utopistico concernente l’agricoltura» (Nota alla risoluzione del Comitato del PCC della provincia dello Shanxi: “Una nuova tappa per le squadre di aiuto reciproco della vecchia regione liberata”, 3 luglio 1951). «La politica di conservazione della economia dei contadini ricchi è una politica di lungo termine» (“Su certi problemi della riforma agraria”, 14 giugno 1950).
Aveva buon gioco l’estensore dell’articolo ad accusare Liu, 16 anni dopo, di difendere il capitalismo e l’azienda agraria del contadino ricco impiegante manodopera salariata, accuratamente distinto dallo speculatore ed unico ad apportare cereali sul mercato; azienda agraria che pure nelle campagne cinesi era ed è innegabile passo avanti di fronte a micro aziende familiari e quasi autosufficienti, tecnicamente arretrate e che sopravvivevano soltanto per la fatica e la miseria a cui si sottoponevano i conduttori.
Il fatto è, qui l’estensore dell’articolo prendeva un sonoro abbaglio, che lo stesso Mao in quegli anni fu difensore dell’economia dei contadini ricchi e niente faceva di diverso se non dispensare consigli di prudenza e duttilità nei loro confronti.
Il 12 marzo 1950 in una circolare inviata ai responsabili delle province in cui si stava effettuando la “riforma agraria” e titolata “Richiesta di opinione sulla tattica verso i contadini ricchi”, Mao Zedong deve ribadire che nella riforma che sarebbe iniziata nell’inverno a venire, dopo il raccolto per non precludere la buona riuscita «non solo non saranno toccati i contadini ricchi capitalisti, ma neanche quelli semifeudali e la questione di quest’ultimi sarà risolta un’altra volta tra alcuni anni», e che “non toccare per il momento i contadini ricchi è relativamente più opportuno al fine di rassicurare la borghesia nazionale»; citazione che fa il pari con la dichiarazione di Liu del giugno 1950 sulla conservazione dell’economia dei contadini ricchi.
Si rileva solo che Liu parlava di una politica di conservazione dei contadini ricchi “a lungo termine”, Mao di alcuni anni, previsione che del resto lui stesso cambiò a più riprese, ad esempio il 23 giugno 1950 a commento della riforma agraria si lasciò andare alla seguente dichiarazione: «Il passaggio dall’industria privata a quella statale e alla socializzazione dell’agricoltura sono ancora molto lontane», e nel 1953 arrivò a fissare in 15 anni il tempo occorrente per la socializzazione dell’agricoltura (riunione dell’Ufficio Politico del PCC il 15 giugno 1953).
Ma i 15 anni di Mao valevano bene gli anni che Liu concedeva alla famiglia-azienda di dotarsi di tre cavalli, un aratro e una carretta !
Ad ogni modo il dissidio rimaneva sulla determinazione della velocità di avvicinamento, non al socialismo sia chiaro, ma al pieno capitalismo sia in campo industriale che agrario.
Sullo stesso tono Mao si espresse alla terza riunione plenaria del CC del VII Congresso del PCC, il 6 giugno 1950, ulteriore conferma che la politica di appoggio ai contadini ricchi non era di Liu ma di tutto il Partito e di tutto il Governo, e non certo addebitabile al “più alto dirigente incamminatosi sulla strada del capitalismo», come ripeterà ossessivamente la rivoluzione culturale.
Nel rapporto di Mao si legge: «La nostra politica verso i contadini ricchi deve cambiare, dalla politica di requisizione delle loro terre e delle loro proprietà eccedenti bisogna passare a quella di preservare l’economia dei contadini ricchi, al fine di ristabilire rapidamente la produzione agricola, isolare i proprietari fondiari, proteggere i contadini medi e quelli che danno in affitto poca terra», affermazioni che seguivano la constatazione che i contadini poveri stavano ricevendo meno terra degli altri e, per le loro difficoltà, era necessario utilizzare il metodo dei prestiti statali i quali quindi dovevano surrogare alle funzioni dell’usuraio messo alla lanterna.
Nello stesso rapporto si ammetteva pure che «in gran parte delle campagne, dato che non si è ancora iniziata la riforma agraria e che si debbono riscuotere le imposte in cereali, i contadini hanno da ridire», fatto che conferma come il PCC intendesse la riforma agraria, Mao Zedong in testa, come una operazione di polizia amministrativa, socialmente inevitabile ma da circoscrivere.
È del 19 marzo 1953 quest’ultimo brano di Mao di una Direttiva interna del CC del PCC, in cui, ammesso che l’agricoltura cinese è una “piccola economia contadina dispersa” la quale utilizza mezzi rudimentali, si deduce che:
«nell’attuale fase di transizione, fatta eccezione per le aziende agricole statali, nella nostra agricoltura non è ancora possibile portare avanti una produzione unificata e pianificata, non possiamo esercitare troppe interferenze nelle attività dei contadini; per ora solo la politica dei prezzi (sottolineato da noi) e con il necessario e possibile lavoro economico e politico possiamo guidare la produzione agricola e inserirla nella economia pianificata di Stato».
Mao quindi propone una moderatissima politica dei prezzi che nuovamente vale Liu e la sua politica di ammettere l’impiego di mano d’opera salariata nelle campagne per non intralciare l’economia dei contadini ricchi e no !
Ma al di là dell’identità sostanziale fra questi due attori, il problema della concentrazione e modernizzazione tecnica delle “piccole proprietà contadine disperse” ed utilizzanti mezzi rudimentali, rimaneva e, negli anni dal 1953 al 1958 sarebbe apparso in tutta evidenza e lo stesso PCC avrebbe dovuto affrontare il problema anche con evidenti contrasti al suo interno, ed allora vedremo che la formazione dell’azienda familiare contadina nel quadro di un solidarismo imposto dalle oggettive condizioni ambientali sfavorevoli sarà contemporaneamente punto di forza e limite della rivoluzione borghese in Cina.
Punto di forza perché significò il risveglio di immense masse rurali che, negli anni a venire con la “collettivizzazione” e le Comuni sarebbero state irreggimentate in giganteschi lavori pubblici con una mobilitazione che prolungò in periodo di pace i modi e le forme associative di una nazione in guerra. Il suo limite, perché ha significato, e tuttora significa, una resistenza caparbia alla formazione della grande industria e della grande agricoltura moderna, la lentezza e contraddittorietà del processo di accumulazione capitalistica nelle campagne.
Processo che allo stato attuale, fatto fiasco l’accentramento e l’accumulazione attraverso le Comuni prima, le Brigate e le Squadre poi, sembra passare attraverso gli “appezzamenti privati», attraverso i mercati rurali con prezzi delle derrate liberalizzati, quindi con una conseguente formazione e accumulazione individuale di Capitale, la strada dell’economia dei contadini ricchi, quindi, difesa negli anni 1950-53 sia da Mao che da Liu, certo dal secondo con meno illusioni e più conseguentemente.
La collettivizzazione delle terre degli anni 1953-57, come anche la formazione delle Comuni rurali nel biennio 1958-59, sconvolgerà nuovamente le strutture produttive e sociali nelle campagne cinesi; infatti riguarderà direttamente poco meno del 90% della intera popolazione cinese, come tutta la struttura governativa e di partito, con immediate ripercussioni nelle città, e questo dopo che in un primo momento la riforma agraria del giugno 1950 sembrava assicurasse un relativo lungo periodo di pace sociale nelle campagne. L’intera politica del PCC negli anni 1949-53 dava adito a tale valutazione, con la sua insistenza sullo sviluppo della produzione e le sue continue rassicurazioni nei confronti della sorte dei contadini ricchi. Abbiamo visto come tale politica di stabilità fosse fermamente sostenuta dallo stesso Mao e, a scanso di equivoci, diamo l’ennesima citazione:
«Il compito generale del partito nel periodo di
transizione è di realizzare sostanzialmente, in tre piani
quinquennali,
l’industrializzazione socialista e la trasformazione socialista
dell’agricoltura, dell’artigianato e dell’industria e del commercio
capitalisti. Tre piani quinquennali sono quindici anni. Un anno un
piccolo passo, cinque anni un grosso passo, e con tre grandi passi
siamo quasi arrivati. Realizzare sostanzialmente non vuol dire
realizzare integralmente. Sostanzialmente è un modo prudente di
esprimersi: per le cose in questo mondo è meglio essere sempre
un po’
prudenti.
«L’agricoltura cinese oggi è in gran parte costituita
dall’economia individuale, bisogna portare avanti la trasformazione
socialista un passo dopo l’altro. Per sviluppare il movimento per il
mutuo aiuto e la cooperazione bisogna attenersi al principio del
consenso. Non svilupparlo sarebbe seguire la via capitalista, e si
cadrebbe nella deviazione di destra. Ma non va bene nemmeno procedere
con troppa irruenza, si cadrebbe nella deviazione di “sinistra”»
(“Nell’attività della Lega della Gioventù bisogna tener
conto delle
caratteristiche dei giovani”, 30 giugno 1953).
Tuttavia dal luglio 1955 – la riforma agraria era terminata nella primavera del 1953 e di poco dopo sono le prudenti affermazioni di Mao – partito e Stato si orienteranno verso una accelerata politica di collettivizzazione le cui ragioni reali vanno cercate nella struttura economica agraria ed industriale e rifuggendo il facile ed ingannevole terreno della disputa ideologica e dottrinaria, disputa dalla quale trarrà alimento la stessa rivoluzione culturale di un decennio posteriore.
La tabella che abbiamo preparato presenta nella sua prima parte (colonne dalla 1 alla 14) le grandezze proprie del settore agricolo e di quello industriale, grandezze che vengono confrontate fra loro; la seconda parte (colonne dalla 15 alla 24) intende invece confrontare l’andamento della produzione dei prodotti principali dell’agricoltura (cereali e cotone) con quello della popolazione, rurale ed urbana, e con le superfici di semina.
La prima parte della tabella mostra quindi il determinante contributo del settore agricolo all’economia cinese, che solo nel 1954 viene pareggiato da quello del settore industriale: la colonna 3 (% valore produzione agricola sulla totale), la 4 (% valore prodotti agricoli nelle esportazioni) danno i dati più significativi i quali, insieme alla percentuale della popolazione rurale sulla totale ed alla partecipazione del settore agricolo al gettito fiscale dello Stato cinese (il 30% nel 1950 contro il 14% nel 1958), misurano come gli sforzi dei pianificatori di Pechino fossero tutti rivolti ad accorciare le distanze fra agricoltura ed industria e come le possibilità di sviluppo, di quest’ultima dipendessero in gran parte dallo sviluppo della prima.
Anche gli incrementi medi annui della produzione industriale confrontati con quelli di popolazione e cereali, che abbiamo calcolato a parte, rivelano chiaramente tale tendenza, che è da sempre tipica del modo di produzione capitalistico nel quale mentre l’industria corre l’agricoltura segna il passo ed è già molto quando riesce ad assicurare le stesse quantità di derrate alla crescente popolazione.
Le colonne dal 9 al 14 riportano invece gli indici dei salari, dei redditi dei contadini, la percentuale dell’imposta agricola, l’indice dei prezzi al dettaglio di tutte le merci e dei prodotti industriali venduti nelle campagne, quindi i prezzi di acquisto dei prodotti agricoli.
Le colonne 12 e 13 sui prezzi al dettaglio si riallacciano a quello che già avevamo anticipato nel numero precedente sull’insufficiente approvvigionamento di derrate alimentari nelle città. L’indice generale dei prezzi al dettaglio aumenta infatti dal 1952 al 1957 di otto punti e mezzo mentre quello dei prodotti industriali venduti nelle campagne solo di 1 e mezzo, segno quindi che i prezzi delle derrate alimentari subirono un aumento ben superiore agli 8 punti e mezzo del totale. Infatti i cereali e l’olio combustibile vengono razionati nelle città nel 1953, per estendersi a tutta la Cina nel 1955, mentre dal 1954 tocca invece al razionamento dei tessuti di cotone.
Le colonne 10, 11 e 14 mostrano invece la difficoltà dello Stato cinese di operare una politica di “sfruttamento” dell’oceano rurale per finanziare l’industrializzazione. L’imposta agricola era relativamente bassa e negli anni tende a diminuire, oggi siamo al 4%, di contro il prezzo di acquisto dei prodotti agricoli da parte dello Stato aumenta di 22 punti e sta senz’altro qui una delle ragioni della collettivizzazione: lo Stato non riesce ad assicurarsi il surplus del mondo rurale necessario per i grandi progetti di investimenti industriali. Il contadino non ne vuol sapere di essere il tramite di uno sviluppo borghese delle città e delle campagne, infatti aumenta sì il suo reddito ma nel contempo diminuisce la sua partecipazione al gettito fiscale statale; ma soprattutto permane uno squilibrio fra la quantità dei prodotti agricoli venduti allo Stato e alla città e la quantità di mezzi di produzione venduti dallo Stato ai contadini, riportate ambedue nelle colonne 6 e 7: il denaro dalla città passa alla campagna, e lo Stato deve addirittura pagare per mantenere anche il ritmo normale e lento del capitalismo agrario, che si sarebbe incaricato, attraverso l’espropriazione economica, di lentamente “collettivizzare” l’agricoltura cinese.
Scrivemmo nel giugno 1966 sulla rivista Programme Communiste: «Mao Zedong, al pari di Stalin, non se la sarebbe presa con il “kulak” se i granai (e la cassa, aggiungiamo noi) dello Stato fossero stati pieni», giudizio che collima perfettamente anche con l’ulteriore precisazione statistica di quei primi anni della Repubblica Popolare Cinese.
Le colonne 6 ed 8 sono altresì importanti per valutare le possibilità proprie dell’agricoltura di meccanizzarsi. I mezzi di produzione acquistati dall’agricoltura per tutto il periodo 1949-57 saranno una piccola parte di quelli prodotti dall’industria nonostante la preponderanza del settore agricolo sull’intera economia cinese: il massimo si ha nel 1956 sia come valori assoluti sia percentualmente rispetto all’intera produzione industriale.
La situazione dal punto di vista dell’attrezzaggio agricolo era del tutto insufficiente e il numero dei trattori impiegati in agricoltura lo rilevava impietosamente. Negli anni dal 1949 al 1957 viene denunciato infatti 401; 1.286; 1.410; 2.006; 2.719; 5.061; 8.094; 19.367; 24.629 macchine standard da 15 HP, macchine che altresì erano quasi totalmente impiegate nelle fattorie statali e nelle zone di collettivizzazione del Nord-Est, del Nord-Ovest e del Sud-Ovest. Tanto che nel 1954 risultava che gli “agiati contadini ricchi”, con in media 4,6 mu di terra arabile, possedevano ben due animali da tiro e un carretto a famiglia ed una ruota idraulica ogni 3 famiglie !
Era molto rispetto ai contadini poveri che possedevano un animale da tiro ogni 2 famiglie, un carretto ogni 3 ed una ruota idraulica ogni 17, ma certo la formazione di una impresa agricola capitalistica pure impiegante mano d’opera salariata, in quelle condizioni, era un innegabile passo in avanti !
Liu Shaoqi propugnava la collettivizzazione. Ma quando il 70% delle famiglie contadine possedesse 3 cavalli, un aratro e un carretto, era certamente troppo prudente per i fiduciosi pianificatori di Pechino (nel numero passato abbiamo visto le incaute previsioni di Deng Zihui e abbiamo accennato anche a quelle di Mao), tanto più che la legge agraria promulgata dai Taiping cent’anni prima conteneva una previsione analoga: «Che ogni famiglia dell’Impero possieda cinque galline e due scrofe», ma rimane il fatto che la collettivizzazione fu intrapresa con una mancanza assoluta di mezzi di produzione ed il disastro che ne conseguì fu pari alla misera situazione che voleva sanare.
Un dato per tutti: in Russia alla fine del 1920 le importazioni annuali di trattori erano di circa 23 mila unità, senza contare i 9.000 della produzione nazionale.
La parte seconda della tabella riporta invece le produzioni di
cereali e cotone confrontate con le superfici di semina e la
popolazione urbana, rurale e totale.
Anni | Valore produzione agricola | Valore produzione Industriale e artigiana | Valore produzione agricola su totale | Prodotti agricoli nelle esportazioni | Vendite prodotti agricoli (miliardi di yuan) | Acquisto mezzi di produz. dall’agricoltura | Grado di commercializzazione prodotti agricoli | Grado di Influenza dell’agric. sulla espansione Industr. | Indice salari Impiegati operai | Indice reddito contadini | Imposta agricola sulla produzione lorda fisica | Indice prezzi al dettaglio |
|
miliardi di yuan | miliardi di yuan | % | % | miliardi di yuan | miliardi di yuan | 5:1 % |
6:2 % |
1952 = 100 |
1952 = 100 |
% |
1952 = 100 |
|
1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
1949 |
32,6 | 14,0 | 69,9 | - | ||||||||
1950 | 38,4 | 19,1 | 66,7 | 90,7 | 8,00 | 0,73 | 20,8 | 3,8 | - | - | - | - |
1951 | 42,0 | 26,3 | 61,4 | 86,0 | 10,50 | 1,03 | 25,0 | 3,9 | - | - | - | - |
1952 | 48,4 | 34,3 | 58,5 | 82,1 | 12,97 | 1,41 | 26,8 | 4.1 | 100,0 | 100,0 | 13,2 | 100,0 |
1953 | 49,9 | 44,7 | 52,8 | 81,6 | 15,32 | 1,92 | 30,7 | 4,2 | 111,2 | 106,9 | 11,9 | 103,2 |
1954 | 51,6 | 51,9 | 49,8 | 76,0 | 17,36 | 2,50 | 33,6 | 4,8 | 116,4 | 110,7 | 12,4 | 105,5 |
1955 | 55,5 | 54,8 | 50,3 | 74,5 | 17,80 | 2,80 | 32,1 | 5,1 | 119,7 | 120,7 | 11,6 | 106,3 |
1956 | 58,3 | 70,4 | 45,3 | 73,9 | 18,40 | 3,70 | 31,5 | 5,2 | 136,8 | 124,3 | 10,8 | 106,3 |
1957 | 60,3 | 78,4 | 43,5 | 71,6 | 20,28 | 3,26 | 33,6 | 4,1 | 142,8 | 127,9 | 11,5 | 108,6 |
Anni |
Indice dei prezzi | Popolazione
(milioni) |
Produzione | Disponibilità annua procapite cereali | Superficie coltivata | |||||||
dei prodotti Industriali venduti nelle aree rurali | di acquisto dei prodotti agricoli | Totale | Urbana | Rurale | % rurale sulla totale |
Cereali | Cotone | Uni- taria cereali |
Unitaria cotone | |||
1952= 100 |
1952= 100 |
mil. t | mil. t | q / ha | q / ha | Kg | mil.
ha |
|||||
13 | 14 | 15 | 16 | 17 | 18 | 19 | 20 | 21 | 22 | 23 | 24 | |
1949 | 541,7 | 57,7 | 484,0 | 89,3 | 113,2 | 0,445 | 1,11 | 1,65 | 209 | 97,9 | ||
1950 | - | - | 552,0 | 61,7 | 490.3 | 88,8 | 129,8 | 0,692 | 1,23 | 1,82 | 235 | 100,3 |
1951 | - | - | 563,0 | 66,3 | 496,7 | 88,1 | 140,1 | 1,030 | 1,32 | 1,88 | 249 | 103,6 |
1952 | 100,0 | 100,0 | 574,8 | 71,6 | 503,2 | 88,5 | 163,9 | 1,304 | 1,46 | 2,33 | 285 | 107,9 |
1953 | 98,5 | 110,1 | 588,0 | 77,7 | 510,3 | 86,8 | 166,8 | 1,304 | 1,46 | 2,25 | 283 | 108,5 |
1954 | 100,2 | 113,8 | 601,7 | 81,5 | 520,2 | 86,4 | 169,6 | 1,065 | 1,45 | 1,95 | 282 | 109,4 |
1955 | 101,4 | 113,2 | 614,6 | 82,8 | 531,8 | 86,5 | 183,9 | 1,518 | 1,55 | 2,63 | 299 | 110,2 |
1956 | 100,4 | 116,6 | 627,8 | 89,2 | 538,6 | 85,8 | 192,7 | 1,445 | 1,55 | 2,35 | 307 | 111,8 |
1957 | 101,6 | 122,4 | 646,5 | 92,0 | 554,5 | 85,8 | 195,0 | 1,640 | 1,61 | 2,85 | 302 | 1113 |
|
Incominciamo dalla popolazione: dal 1949 al 1957 la popolazione rurale è aumentata del 15% e quella cittadina del 60%; per contro i cereali essenziali (la serie è stata da noi ricalcolata rispetto alla precedente, altra volta esposta, includendo nel conto anche la soia, così come è stato fatto verso la metà degli anni Sessanta da Pechino) si attestano al 72% nell’intero periodo, ma come abbiamo calcolato nella tabella negli anni 1953-57 l’incremento della produzione cerealicola deve cedere nei confronti di quella della popolazione urbana: 3% contro il 5,1%. L’origine della non lieve lievitazione dei prezzi delle derrate alimentari, come anche del razionamento a cui abbiamo accennato, prende le mosse anche da tale situazione la quale, dopo le speranze andate deluse del Balzo in Avanti, costringerà molti inurbati a ritornare nelle campagne.
Superficie coltivata: su 9 milioni e 561 mila kmq. che rappresentano l’intera superficie della Cina la percentuale di superficie coltivata passò dal 10,2% del 1949 all’11,7% il che dava in quell’anno una densità di popolazione sulla terra coltivata altissima: ben 5,7 persone per ogni ettaro (dopo 24 anni le cose sono ulteriormente peggiorate), con meno del 7% delle terre coltivate del globo terrestre la Cina doveva alimentare un quinto circa della popolazione mondiale.
È questa estrema mancanza di terra il dato più significativo dell’agricoltura cinese, considerando che i territori delle regioni periferiche, che dispongono altresì di grandi ricchezze minerali, sono ben lungi dall’aver raggiunto la massima utilizzazione agricola. Gli esperti stimano che nelle regioni della Manciuria e del Xinjiang Uygur, potrebbero essere messi in coltura 30 milioni di ettari, ma tale operazione richiederebbe lavori grandiosi e dispendiosi, fuori dalla portata del Governo di Pechino che ha dovuto concentrare i suoi sforzi sulla superficie coltivata delle vecchie 18 Provincie cinesi, il cui miglioramento ed anche mantenimento di rendimento richiede del resto forti investimenti di capitale.
Le condizioni fisiche e geografiche del territorio e le condizioni pluviometriche fanno sì che grandi e continui lavori di regolamentazione delle acque sono necessari per rendere la condizione agricola sicura di anno in anno, non sottoposta alle irregolarità climatiche e alle periodiche inondazioni dei secoli e dei decenni passati.
L’aumento della produttività delle coltivazioni di cotone e cereali, mostrato nelle ultime due colonne, fu determinato infatti non solo dal ritorno a condizioni meno precarie del processo di produzione e di scambio dei prodotti agricoli, ma anche dal miglioramento del controllo del regime idrico, devastato da anni di guerra civile.
La squadra di mutuo aiuto era una forma di collaborazione a carattere temporaneo o stagionale che era già stata adottata nel passato dai contadini cinesi; 4 o 5 famiglie, pur rimanendo proprietari del proprio appezzamento e dei suoi prodotti, si scambiavano reciprocamente i pochi attrezzi, i pochi animali da tiro, il proprio lavoro, questo per supplire alla cronica mancanza di mezzi di produzione.
“Il povero aiuta il povero”. Così si traduceva nella Cina antica questo tipo di cooperazione di forma precapitalista (non socialista !) di solidarietà ed assicurazione sociale.
Nelle cooperative elementari, dette anche semisocialiste, invece, le famiglie contadine partecipanti (dalle 20 alle 30 in genere) avevano da una parte il diritto di conservare per la produzione individuale una porzione minima delle loro terre, e dall’altro affittavano alla cooperativa la terra rimanente, i mezzi di produzione principali e gli animali da tiro. La proprietà delle terre, dei mezzi di produzione e degli animali da tiro rimaneva alla famiglia contadina che poteva ritirarsi dalla cooperativa di sua volontà; il lavoro nella cooperativa veniva svolto con un unico piano di produzione di uomini e mezzi, ed i contadini venivano retribuiti secondo il lavoro effettuato oltre a ricevere una rendita per la terra messa a disposizione e una remunerazione a titolo di ammortamento e di interessi sui mezzi di produzione di loro proprietà (animali da lavoro, attrezzi agricoli, giunche, ecc.). In definitiva quindi si aveva che la piccola proprietà contadina veniva mantenuta nel quadro cooperativo.
Le cooperative avanzate o socialiste non ammettevano la proprietà privata di terre e di mezzi di produzione principali che venivano acquistati dalla cooperativa. Il processo di concentrazione del capitale passava quindi come per la collettivizzazione russa, attraverso la semplice alienazione commerciale, e l’unica differenza fra le cooperative cinesi e i kolchoz russi di Baffone era che i contadini ricchi avevano potuto vendere la loro terra anziché prendere il cammino verso la Siberia. Le cooperative avanzate in genere rispettavano le dimensioni dei villaggi e comprendevano pertanto, secondo le zone, dalle 100 alle 300 famiglie di contadini.
Ad ogni modo, sia le dimensioni delle cooperative che quelle degli appezzamenti privati, garantiti dalla legge, costituirono continuo oggetto di discussioni e scontri nel PCC, tanto che varieranno continuamente a seconda degli indirizzi di politica statale.
Tre le fonti di reddito dei contadini partecipanti: 1) Il ricavato dalla vendita delle terre e dei mezzi di produzione; 2) Il salario derivante dal lavoro prestato nella cooperativa; 3) Il ricavato dalle vendite dei prodotti degli appezzamenti.
Come nel kolchoz russo quindi, piccola produzione e cooperativismo sono uniti in un matrimonio indissolubile !
Vediamo la sequenza della collettivizzazione secondo le cifre ufficiali: le famiglie interessate nelle squadre di mutuo aiuto aumentano annualmente: sono il 10% del totale nel 1950, il 19% nel 1951, il 39% nel 1952-53, il 58% nel 1954, poi le percentuali calano per l’estendersi delle cooperative, sono il 50% nel 1955 e solo il 5% nel 1956.
Il 16 dicembre 1953, il Comitato Centrale del PCC adotta una risoluzione titolata “Decisioni sullo sviluppo delle cooperative di produzione”, che pur segnando il lancio ufficiale del movimento cooperativo, allora appena accennato, indica ancora la prudenza di Pechino verso l’estendersi di tale forma di organizzazione delle microscopiche aziende contadine: «Per un lungo periodo (...) la proprietà privata della terra deve essere protetta», dichiara esplicitamente la risoluzione.
Infatti anche riguardo al numero delle cooperative da formarsi l’obbiettivo è piuttosto prudente tanto che sarà ben al di sotto del procedere reale del movimento cooperativo. Secondo la risoluzione, le cooperative che erano allora 15.100, dovevano raggiungere, nell’autunno 1954 la cifra di 38.500; i dati ufficiali sono però ben al di sopra con 114.400 cooperative con il 2% delle famiglie contadine e con una media di 20 famiglie per cooperativa.
Nell’ottobre 1954, la riunione del CC fissa per la primavera 1955 un nuovo obbiettivo di 600 mila cooperative, cifra anch’essa superata. Secondo Mao si raggiunse 670 mila cooperative, di cui una parte fu sciolta tanto che nell’autunno dello stesso anno ne abbiamo 633.700 prima avvisaglia dei contrasti all’interno del PCC sul ritmo della collettivizzazione.
Infatti il Vice-primo Ministro Li Fuzhun alla II sezione dell’Assemblea Popolare Nazionale il 5 luglio 1955 nel Rapporto sul primo piano quinquennale rivede l’obbiettivo del 50% delle famiglie contadine da “collettivizzare” alla fine del 1957, e lo porta al 33%.
Che non fosse una mossa di Li Fuzhun ma che ciò derivasse da un accordo largo all’interno del Politburo del PCC, ostile alla rapida collettivizzazione, lo provò 12 anni dopo Liu Shaoqi nella sua “Autocritica“:
«Nel 1955 il compagno Deng Zihui propose di ridurre le dimensioni di 200 mila cooperative o di scioglierle. La riunione del Comitato Centrale da me presieduta, non fece nessuna obiezione a questa proposta e approvò praticamente il suo piano. Di conseguenza, alle successive riunioni per il lavoro agricolo del Comitato Centrale, Deng ridusse le dimensioni delle200 mila cooperative o le sciolse».
La grande accelerazione della “collettivizzazione” si ha nell’estate 1955, quando Mao, nel suo famoso discorso del 31 luglio “Sul problema della cooperazione agricola”, annuncia che nella primavera 1958 la metà dell’intera popolazione rurale sarà raggruppata nelle cooperative e che nel 1960 vi avrà aderito anche l’altra metà.
Il discorso-rapporto di Mao, era stato preparato dopo che il Timoniere aveva compiuto una lunga ispezione nelle Provincie, e non a caso venne letto a una riunione dei segretari di Partito provinciali, municipali e delle regioni autonome convocata dal Comitato Centrale; sia questo particolare sia molte parti del testo indicano chiaramente che la leadership di Mao era già allora in declino e che attraverso Liu Shaoqi, Li Fuzhun e Deng Zihui si facevano valere le esigenze proprie del nascente capitalismo cinese, con gli antagonismi sociali suoi propri, che erano impedite nel loro libero corso da quel misto di socialismo da caserma e di populismo tipici del maoismo prima maniera.
Vediamo il testo di Mao: «La situazione in Cina è la seguente: tenendo conto della sua enorme popolazione, la superficie coltivata è insufficiente (vi sono, nell’insieme del paese, tre mu di terra a testa e in non poche regioni delle provincie meridionali la media scende ad un mu a testa e anche meno); considerando la frequenza delle calamità naturali (ogni anno un gran numero di terreni coltivati sono colpiti in misura maggiore o minore da inondazioni, siccità, venti, gelo, grandine o insetti nocivi) e l’arretratezza dei metodi di coltivazione, benché il livello di vita delle grandi masse contadine sia migliorato e talora in modo considerevole dopo la riforma agraria, molti contadini versano ancora in condizioni difficili e di disagio; quelli che godono di un certo benessere sono relativamente poco numerosi. Per tutti questi motivi la maggior parte dei contadini desiderano ardentemente impegnarsi sulla via del socialismo (...) Resta ancora oggi nelle campagne la proprietà capitalistica dei contadini ricchi e la piccola proprietà contadina, estesa quanto un oceano. Come hanno rilevato tutti, la tendenza spontanea al capitalismo nelle campagne cresce giorno dopo giorno e si vedono apparire ovunque dei nuovi contadini ricchi. Molti contadini medi agiati cercano di trasformarsi in contadini ricchi. Molti contadini poveri, mancando di adeguati mezzi di produzione, non sono ancora riusciti a sottrarsi alla miseria: alcuni sono indebitati, altri sono costretti a vendere o ad affittare le loro terre. Se si permette che questa tendenza si sviluppi, la suddivisione della campagna in due poli estremi si verrà inevitabilmente aggravando».
Ma lo Stato cinese ha la sua base sociale nel contadiname e non può permettere l’esplodere della lotta di classe nelle campagne. Il blocco sociale su cui si regge deve rimanere intatto.
Evitare il rincrudirsi delle tensioni sociali e nello stesso tempo accrescere la produzione agricola con una più grande concentrazione di mezzi umani e materiali: questo fu l’obbiettivo della collettivizzazione cinese, come del resto già era stato per quella russa degli anni Trenta. Ma sia l’una che l’altra hanno un altro tratto in comune: non furono “pianificate” come vuole la leggenda, ma si imposero agli stessi pianificatori con tutta la forza degli antagonismi economici.
Infatti, come abbiamo già detto, lo scopo essenziale della riforma agraria, era di liberare forze produttive, e questo processo per differenti ragioni era stato lento e contraddittorio. La estrema parcellizzazione unita alla carenza assoluta di mezzi di produzione (ricordate ambedue da Mao), costituivano già un grave ostacolo. Ma si contava sull’ “entusiasmo” del contadino proprietario liberato dalla gravosa rendita in natura e in denaro che versava al proprietario fondiario, e dai debiti nei confronti dell’usuraio; certo tutto questo costituiva il più grande vantaggio tratto dal contadiname cinese con la riforma agraria.
Tuttavia questo beneficio si era rapidamente dissolto, per i contadini come per lo Stato: l’oceano della piccola produzione stava tutto inghiottendo !
Per esempio fu stimato in 30 milioni di tonnellate di cereali il beneficio in natura che i contadini cinesi realizzavano ogni anno in seguito all’abolizione dell’affittanza dei proprietari fondiari, ed il rebus era sapere se questi 30 milioni di tonnellate sarebbero state portate sul mercato, se potevano contribuire a legare le sorti industriali della città con il ritmo lento e normale del capitale nelle campagne.
Ma i dati economici che abbiamo visto nella puntata precedente indicavano invece che lo scambio di merci e denaro era sfavorevole al settore industriale, era favorevole al contadino, che mangiava i 30 milioni di tonnellate e forse qualcosa altro ancora. La conseguenza era che non solo rimaneva l’economia naturale, ma che il contadino, incapace di sussidiare i suoi bisogni con la coltivazione del suo misero appezzamento, ritrovava il suo ex-compagno di strada: l’usuraio del villaggio.
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Ecco quello che dovette ammettere Mao nel luglio ottobre 1955 !
La situazione era da tempo conosciuta: Chen Boda dichiarò alla XII sessione del Comitato Nazionale della Conferenza politica consuntiva che in 11 hsien (cantoni) della provincia dell’Hebei le transazioni erano passate da 43.830 nel 1949 a 54.494 nel 1950 e a 115.188 nel 1951, e costantemente la stampa cinese aveva denunciato episodi particolarmente rivoltanti, di contadini ricchi che pretendevano tassi di interesse annuo del 50% e anche del 100%, o di contadini costretti a vendere la terra assegnata loro qualche tempo prima.
Altri dati saranno resi pubblici alla III sessione dell’Assemblea Popolare cinese nel giugno 1956: sempre in 11 hsien dell’Hebei, i contadini poveri avevano venduto 7.199 ettari nel 1951, 5.714 nel 1952, 4.903 nel 1953, 2.265 nel 1954 e 518 nel 1955. Ma il costo che lo Stato sopportava per combattere l’usura e aiutare i contadini a entrare nelle cooperative era salato: il credito annuale dei prestiti statali rurali passa dai 302 milioni di yuan del 1951 ai 3.200 del 1956.
Altre considerazioni economiche concorsero alla decisione di Mao di
accelerare il ritmo della collettivizzazione: il raccolto del 1954 era
stato cattivo, come nell’anno precedente, la disponibilità annua
di
cereali era nuovamente diminuita e la cosa, oltre a ripercuotersi
sull’approvvigionamento alimentare delle città, minacciava la
rata
degli investimenti nell’industria.
Nel discorso tenuto nel luglio 1955, Mao avvertì del pericolo che ne derivava per la Cina forte ed industriale, da tutti auspicata: «Innanzitutto, come ognuno sa, il livello di produzione di cereali destinati al mercato e di materie prime industriali è attualmente assai basso in Cina, mentre la domanda di questi prodotti nel paese aumenta di anno in anno. Ci troviamo qui di fronte a una profonda contraddizione. Se nel giro di tre piani quinquennali circa non siamo in grado di risolvere in linea di massima il problema della cooperazione agricola, cioè di passare dalla piccola conduzione contadina basata su aratri a trazione animale alla grande conduzione meccanizzata (...) non saremo in grado di risolvere la contraddizione esistente tra l’aumento costante della domanda di cereali per il mercato, e di materie prime industriali e l’attuale produzione, generalmente poco elevata, dei principali prodotti agricoli. Se così fosse, la nostra industrializzazione socialista andrebbe incontro a enormi difficoltà e non saremmo in grado di attuarla».
Le affermazioni di Mao sono una confessione: con la spartizione della “riforma agraria” i dirigenti cinesi non pretendevano di poter risolvere la questione sociale nelle campagne, ma pensavano di accrescete sensibilmente la produzione agricola e di creare le basi dell’industrializzazione; ma l’intera politica fin lì seguita che puntava sul contadino medio e anche ricco, sulla commercializzazione delle sue eccedenze, sulle tasse sul prodotto e sulle consegne obbligate, aveva condotto a risultati diametralmente opposti a quelli attesi. Il surplus agricolo fu assorbito dai contadini, le tasse dovettero mantenersi morbide e il movimento di capitali si aveva dalla città alla campagna anziché all’inverso, sia sotto forma di prestiti, che per lo squilibrio già visto fra vendite dei prodotti agricoli e acquisto da parte delle campagne di mezzi di produzione. La medicina proposta da Mao riprendeva la collettivizzazione russa; infatti il testo continuava a scandire: «Lo stesso problema si era posto, nel corso della sua edificazione socialista, all’Unione Sovietica, che lo risolse dirigendo in modo pianificato e sviluppando la cooperazione agricola. Solo applicando lo stesso metodo possiamo anche noi risolvere questo problema (...) La rivoluzione che stiamo sviluppando non comporta solo – dal punto di vista del sistema sociale – il passaggio dalla proprietà privata a quella collettiva, ma anche – dal punto di vista della tecnica – il passaggio alla produzione su vasta scala grazie a una attrezzatura meccanica moderna».
E collettivizzazione fu, con lo scopo da una parte di eliminare lo squilibrio che si stava di nuovo determinando nelle campagne fra contadini ricchi e contadini poveri, e dall’altra per cercare di utilizzare tutti i mezzi possibili – in quella determinata situazione – per realizzare un aumento della produttività agricola, aumento messo a servizio delle esigenze di industrializzazione forzata.
Nel rapporto Mao prevedeva che, prima del raccolto dell’autunno 1956, si costituissero 1 milione e 300 mila cooperative elementari (ossia un aumento di più del 100% in 14 mesi), la trasformazione di una parte di queste in cooperative socialiste o avanzate, e prevedeva che l’intera popolazione rurale sarebbe stata organizzata nelle cooperative entro il 1960, affermazione che cozzava con la cautela espressa da Li Fuzhun solo 25 giorni prima.
L’appello di Mao era diretto esplicitamente alle masse, nei confronti delle quali «alcuni nostri compagni somigliano a quelle donne con i piedi bendati che saltellano di qua e di là e si lamentano continuamente perché gli altri camminano troppo in fretta», ai dirigenti periferici, ai quadri rurali, la cui capacità di “formare” cooperative diveniva la misura della fedeltà al carisma del Grande Timoniere Mao Zedong:
«Spero che i compagni responsabili delle diverse province e regioni, rientrando nelle loro sedi studino il problema, elaborino un piano adeguato conforme alle condizioni concrete e inviino, entro due mesi, un rapporto al Comitato Centrale, potremo allora ridiscutere l’intera questione e prendere una decisione definitiva (...) i quadri rurali locali devono costituire la forza principale sia della costituzione che nel lavoro di previsione delle cooperative; devono venire aiutati nel loro lavoro, ma devono anche assumere le loro responsabilità. I quadri inviati “dall’alto” serviranno come forza di appoggio; la loro funzione è quella di guidare e di aiutare, non già di prendere tutto nelle loro mani».
In questo modo Mao scavalcò di un botto il Comitato Centrale e il Politburo nei quali, come racconterà Liu Shaoqi, si era invece propensi a controllare e persino rallentare il processo di collettivizzazione delle campagne, e questo stato di cose l’aveva dovuto ammettere lo stesso Mao accennando, nel rapporto, a «compagni che vedono solo i contadini agiati», che «disapprovano la collettivizzazione», che «non vedono la interdipendenza fra industrializzazione e collettivizzazione», che «continuano a rimanere sulle posizioni della borghesia, dei contadini ricchi e dei contadini medi che spontaneamente tendono al capitalismo», compagni, responsabili di aver fatto sciogliere, nell’aprile 1955, 15.000 cooperative sulle 53.000 esistenti nella provincia di Zhejiang.
Pronunciato il 31 luglio il discorso di Mao fu pubblicato soltanto il 17 ottobre assieme alla risoluzione approvata dal VI Plenum del VII Congresso del PCC, tenutosi dal 4 all’11 ottobre. La risoluzione dal titolo “Sul sistema della cooperazione agricola” riprendeva gran parte del discorso del 31 luglio e segnava la sconfitta degli oppositori di Mao, espressa chiaramente in questi due periodi: «(gli oppositori) hanno lanciato la politica di destra di “severa riduzione” e in certi luoghi hanno sciolto un gran numero di cooperative con la forza e l’autoritarismo (...) l’obiettivo del movimento cooperativo è di portare 110 milioni di famiglie contadine dal modo di produzione individuale al modo di coltivazione collettivo e di procedere poi alla trasformazione tecnica dell’agricoltura».
Del resto dopo l’ottimo raccolto autunnale che aveva fatto toccare un livello record alla produzione di cereali e di cotone, con un aumento rispetto all’anno precedente rispettivamente dell’8,4% e del 42,5%, e le prime notizie di una rapidissima espansione delle cooperative (il “Quotidiano della Liberazione”, Shanghai, 21 ottobre 1955, annunciò che nella provincia del Shandong più di 78 mila cooperative erano state formate dopo il raccolto). L’entusiasmo e la fiducia avevano contagiato l’intero PCC e gli “oppositori” di Mao fecero la classica autocritica. Il Vice-Primo Ministro Li Xiannian riconobbe di aver commesso errori di “empirismo”, Bo Yi-bo Ministro delle Finanze ammise che Mao aveva visto giusto, Chen Yi abiurò le sue posizioni di “destra”, e, infine, le previsioni di collettivizzazione furono nuovamente cambiate con ulteriore accelerazione.
Nella Prefazione a “L’alta marea del socialismo nelle campagne cinesi”, del 27 dicembre 1955, Mao prevede che entro il 1956 le cooperative elementari riguarderanno la quasi totalità della popolazione contadina, e che entro il biennio 1959-60 «sarà possibile realizzare in linea di massima il passaggio delle cooperative elementari a quelle avanzate», e dopo l’applicazione di questo balsamo miracoloso, il 1967 – compimento del terzo piano quinquennale – avrebbe dovuto segnare una produzione cerealicola del 100-200% maggiore della massima anteguerra.
Previsione che fu l’ennesimo fiasco ! La produzione massima anteguerra di cereali è stata di 160 milioni di tonnellate; nel 1967 si avrà circa 230 milioni di ton., con un incremento quindi del 43%, ben distante dal 100-200% auspicato da Mao ! La produzione del 1980 sarà invece di 317 milioni di ton., poco meno della previsione minima di Mao per il 1967, il ritardo quindi sarà di ben 13 anni !
La previsione sarà invece rispettata per quanto riguarda la formazione di cooperative; alla fine del 1955, 70 milioni di famiglie contadine saranno riunite in 1.900.000 cooperative, la cifra passa a 93 milioni all’inizio del 1956, a 110 milioni a giugno, e alla fine dell’anno le 120 e più milioni di famiglie contadine sono collettivizzate ed incamminate sulla strada del socialismo, secondo l’espressione di Mao, strada che corrisponde invece all’epopea della accumulazione originaria di capitale nelle campagne cinesi, come continueremo a mostrare nei capitoli a venire, attestandoci intanto su questo primo decisivo risultato: il PCC distribuendo la terra in proprietà privata ai contadini compie la prima classica fase di sviluppo dell’agricoltura capitalistica.
Prima fase però che è solo preludio del processo di espropriazione e concentrazione di tale forma di proprietà, sotto la spinta delle forze produttive borghesi e della giganteggiante economia di mercato.
Le cooperative prima, le Comuni poi, andranno verso tale espropriazione e concentrazione, ma, contraddittoriamente, spostando gli interessi del contadino particellare e della sua economia alla cui sopravvivenza deve contribuire l’aiuto statale.
Queste le ragioni materiali che portarono alla collettivizzazione degli anni 1955-56; la collettivizzazione cinese, al pari di quella russa negli anni Trenta, rivelò in maniera esplicita non solo il carattere borghese di tali misure ma anche la natura di classe della Repubblica Popolare Cinese, dello Stato di Nuova Democrazia, dietro la cui maschera si cela lo Stato dell’anonimo Capitale.
A tale conclusione ci riallacciamo prima di riprendere la trattazione degli avvenimenti.
La riforma agraria non potendo risolvere la situazione economica e sociale dei contadini stava determinando una nuova accumulazione di terra e di capitale nelle mani dei contadini ricchi, quindi un processo di proletarizzazione nelle campagne che, esplicandosi in un paese in cui i contadini rappresentavano l’80% della popolazione e in cui l’industrializzazione era limitata e parziale, metteva in crisi la stessa base sociale sulla quale poggiava lo Stato, minacciando persino la ripresa dello scontro sociale nelle campagne che questa volta non poteva essere esorcizzato con il feticcio della Nuova Democrazia.
Questa necessità di impedire il deterioramento dei rapporti di classe nelle campagne («Dopo la riforma agraria fra i contadini è sorta una scissione – dirà Mao il 1 ottobre 1955 – Se non abbiamo nuove cose da dar loro, se non li aiutiamo a crescere le forze produttive, ad aumentare il loro reddito, ad avere una comune agiatezza, quelli che sono poveri non avranno fiducia in noi, potranno avere la sensazione che seguire il Partito comunista non ha senso; e se con la divisione della terra sono rimasti ancora poveri perché dovrebbero seguirci ?»), e quella di sostenere e soprattutto aumentare la produzione agricola spinsero lo Stato cinese verso la collettivizzazione, per ottenere crescenti forniture di prodotti agricoli dai contadini ai bassi prezzi imposti dallo Stato.
«Soltanto quando sarà attuata la cooperativizzazione, la vita di tutta la popolazione rurale migliorerà di anno in anno e si avrà più abbondanza di prodotti agricoli e di materie prime industriali», aveva esclamato con fiducia Mao al VI Plenum del CC del VII Congresso del PCC, quando fu ratificata la decisione di accelerare il ritmo della cooperativizzazione.
Se queste furono le ragioni reali che spinsero lo Stato Cinese alla collettivizzazione, ugualmente fu mostrato come, al contrario delle pretese della teologia maoista, tale processo non fosse stato per nulla né previsto né controllato nel suo verificarsi dalla stessa struttura statale e questo nonostante i “piani” e le “tappe” decine di volte esposte ed aggiornate; processo quindi che non solo dovette soggiacere a quelle che erano le caratteristiche dell’economia cinese, ma che significò il non superamento dei limiti dell’economia privata della terra e della conduzione particellare, con la conseguenza che la proletarizzazione della massa contadina e la formazione di moderne imprese agricole dovranno battere il passo !
Il VII Plenum del CC del PCC che doveva originariamente riunirsi nell’aprile 1956, proprio mentre nelle campagne aveva pieno corso la collettivizzazione – ricordiamo che da gennaio a giugno le famiglie contadine organizzate nelle cooperative passarono da 93 milioni a 110 milioni – non fu convocato ed al suo posto si riunì invece una conferenza allargata del Politburo che approvò la tradizionale ed immancabile “Direttiva”. Questa, ratificata e pubblicata in comune dal Comitato Centrale e dal Consiglio di Stato, costituì un nuovo aggiustamento, in quanto intendeva «correggere i progressi temerari nel lavoro dei quadri», ed accusava gli organi del partito e di governo, di tutti i livelli, di aver ecceduto nella collettivizzazione, negli investimenti, dando una importanza smisurata alla produzione e alla quantità, senza curarsi dei prezzi e dei costi di ogni eventuale progresso.
La direttiva denunciava pertanto la situazione caotica che regnava nelle campagne dove i quadri rurali, spinti dai loro superiori, «agivano inconsideratamente» irreggimentando i contadini nelle cooperative e confiscando i loro beni senza indennizzarli convenientemente, fatto che spingeva i contadini agiati e medi ad abbattere i loro animali da tiro e i loro maiali, a sabotare o distruggere i beni e le attrezzature delle cooperative.
Sono le prime resistenze del contadino medio, pilastro della Nuova Democrazia e della produzione agricola, alla collettivizzazione maoista !
La collettivizzazione era stata divisa in tappe – mutuo aiuto, cooperative elementari quindi cooperative avanzate – il regime aveva consigliato prudenza e cautela per non scatenare il malumore degli strati superiori del contadiname, le cui aziende erano anche le più produttive; lo stesso Mao aveva più volte insistito sul rispetto del «principio del libero consenso e dell’interesse reciproco», però in molti luoghi, nuovi e vecchi contadini medi divenuti oramai piccoli proprietari, vi contribuirono con assai poco fervore e poco disposti a superare la prima tappa, poco compromettente, come squadre di mutuo aiuto.
I rapporti locali sull’andamento della collettivizzazione indicarono chiaramente che, in molti casi, i contadini agiati rifiutarono di unirsi alle cooperative lasciando così i contadini poveri soli a formare un’associazione che nasceva con una quantità limitata di terra, di strumenti e di animali da tiro; in altri casi invece i contadini agiati si erano posti da loro stessi alla guida delle cooperative utilizzandole così per gli interessi particolaristici del villaggio, che erano i loro.
Ecco perché sia Mao sia Liu diranno, per tutto il 1956, che solo “in un secondo momento” i contadini agiati saranno organizzati nelle cooperative: la necessità diventa virtù !
Ed ancora: il bestiame a soccida, già poco numeroso, venne frequentemente abbattuto, le scorte che non era più possibile nascondere vennero consumate, ed a volte vennero pure assassinati quadri rurali particolarmente esigenti e ligi.
È il patrimonio zootecnico il miglior termometro della resistenza, in genere passiva, dei contadini alla collettivizzazione !
Per primo l’allevamento del maiale; praticato alla scala dell’individuale produzione familiare ed il cui relativo sviluppo dipende soprattutto dalla mancanza di terra da foraggio e dal fatto che è possibile ingrassarli con rifiuti agricoli ed alimentari, i suini costituiscono una importante risorsa alimentare per tutta la Cina. Il loro allevamento subì sensibili oscillazioni: nel 1949 si hanno 57,8 milioni di suini, sono 89,8 nel 1952 e 96,1 nel 1953 anno di fine “riforma agraria”; passano a 101,7 milioni nel 1954 per precipitare negli anni 1955 e 1956 a 87,9 e 84,0 milioni, anni quindi di minimo che coincidono con la accelerazione della collettivizzazione; infatti nel 1957, anno che come vedremo sarà della massiccia uscita dei contadini dalle cooperative, si risale a 145,9 milioni, con un aumento di ben il 73,7% rispetto all’anno precedente ! Potenza dell’individualismo familiare contadino e risultato delle concessioni all’economia piccolo borghese.
Dati ugualmente simili e significativi si hanno per bovini ed equini; i primi dopo aver segnato negli anni precedenti al 1955 un aumento annuo di circa il 60% nel 1955 rallentano con +3,7%, nel 1956 passavano ad un impercettibile +0,9%, per diminuire nel 1957 del 4,5%; per gli equini invece si ha il 1955 come un anno stazionario (+0,5% rispetto al precedente) mentre il 1956 e il 1957 segnano regressioni. Le cifre assolute: 1954, -21,3 milioni di equini, 1955, -21,4 milioni, 1956, -20,8 milioni, 1957, -19,9 milioni e 1959, -20,0 milioni, ancora lontani dalla cifra di 5 anni prima.
La situazione di mancanza di entusiasmo nelle campagne era stata per forza rilevata anche dallo stesso Mao che, nella sua relazione Sui Dieci Grandi Rapporti, nel capitolo riguardante le campagne, l’aveva così descritta: «I nostri rapporti con i contadini sono stati sempre buoni, ma sulla questione dei cereali abbiamo commesso un errore. Nel 1954, quando le inondazioni avevano provocato un calo della produzione in alcune regioni del paese, abbiamo aumentato i nostri acquisti di tre milioni e mezzo di tonnellate (...) I contadini si lamentavano e si sentivano molte critiche, dentro e fuori il partito. Certo non sono poche le persone che hanno esagerato deliberatamente e approfittato dell’occasione per attaccarci, ma non possiamo dire che non c’erano difetti (...) Nel 1955 abbiamo diminuito i nostri acquisti di cereali di tre milioni e mezzo di tonnellate e abbiamo preso una misura chiamata i “tre fissi”, cioè quote fisse per la produzione, gli acquisti e le vendite; per di più abbiamo ottenuto un buon raccolto. Grazie a questa riduzione degli acquisti alla quale si è aggiunto un aumento della produzione, le riserve di cereali sono aumentate di più di dieci milioni di tonnellate. E anche i contadini che si erano lamentati hanno dichiarato: “Il Partito Comunista è veramente buono”. È una lezione che tutto il partito deve tener presente».
E la lezione fu tenuta di conto, tanto che la “resistenza» crescente di una parte del ceto contadino fece sì che la proporzione del raccolto requisito dallo Stato, sotto forma di imposta in natura e di prelievi in moneta, passò dal 29,1% del raccolto nel biennio 1953-54 al 25,1% nel biennio della “collettivizzazione” 1956-57 quando il contadino cinese si incamminava nella strada “socialista” ma subito si faceva fare lo sconto dallo Stato, il che pesava immediatamente non solo sulle sorti dell’industrializzazione, ma anche sulle condizioni materiali del proletariato urbano.
La riunione del Politburo dell’aprile, fu il segno che il pendolo di Pechino, che aveva oscillato violentemente a sinistra nell’autunno 1955 e nell’inverno 1955-56, in cui la collettivizzazione era stata intensificata, adesso naturalmente ritornava verso la destra, proprio con l’avvicinarsi dell’estate, dei grandi lavori agricoli e dell’inizio dei primi raccolti. Non a caso fu messo nel dimenticatoio “Abbozzo per un programma nazionale di sviluppo agricolo”, 1956-67, presentato con clamore da Mao il 25 gennaio, appena passato, a “una riunione suprema dello Stato”, e che riprendeva pari pari le previsioni di raddoppio della produzione cerealicola del 1949 alla fine del piano quinquennale nel 1967, già contenuta nella Prefazione alla raccolta dei testi “L’alta marea del socialismo nelle campagne cinesi”, su cui ci soffermammo nel numero passato.
Così Liu Shaoqi, alla II sessione del l’VIII Congresso del PCC, descrisse la situazione dell’anno 1956, riguardo l’agricoltura e l’industria che portò all’abiura del programma di sviluppo agricolo:
«Ci furono difetti individuali di lavoro durante il balzo in avanti del 1956. Questi consistettero soprattutto in una certa difficoltà di rifornire il mercato, dovuta all’assunzione di un eccessivo numero di lavoratori nuovi e dirigenti e dell’eccessivo aumento di certe categorie di salariati. Questi difetti furono di poca importanza di fronte ai formidabili risultati ottenuti in quell’epoca e i problemi sorgenti da questi difetti furono risolti dopo alcuni mesi di sforzi del popolo in tutto il paese, in una campagna di economie. Comunque alcuni compagni a quell’epoca diedero gran risalto a questi difetti e sottovalutarono i grandi risultati ottenuti, ragion per cui consideravano il balzo in avanti del 1956 come una “avanzata avventata”. In una ventata di opposizione a questa cosiddetta “avanzata avventata” alcuni individui ebbero persino dei dubbi riguardo al principio di “ottenere risultati maggiori, più rapidi, migliori e più economici” e riguardo al Programma in 40 articoli per lo sviluppo agricolo. Ciò scoraggiò l’iniziativa delle masse e ostacolò il progresso sul fronte della produzione nel 1957, e in particolare sul fronte dell’agricoltura».
L’VIII Congresso del PCC che si tenne dal 15 al 27 settembre 1956, non modificherà le cautele dell’aprile; il rapporto politico, tenuto da Liu Shaoqi sarà l’ennesimo corteggiamento del contadino medio, mentre sia il rapporto di Deng Zihui, capo della Sezione Agricoltura del Comitato Centrale, che l’intervento dell’autorevole Chen Yun anche oggi uno dei massimi dirigenti di Pechino, spezzeranno più lance a favore dell’economia particellare ed individuale dei contadini.
Del Piano duodecennale di Mao non si ha nessun riferimento nella risoluzione finale, come anche negli interventi e nei rapporti principali, a parte un piccolo riferimento di Liu; del resto Mao stesso si limitò ad un breve discorso di apertura.
Ma vediamo una delle parti più interessanti del discorso di Liu Shaoqi:
«La politica di classe del partito nel corso del movimento
di
cooperazione agricola è quella di favorire in seno alle
cooperative il
predominio dei contadini poveri e degli strati inferiori dei contadini
medi sorti dal contadino povero dopo la riforma agraria e, nello stesso
tempo, di stringere solidamente intorno a sé i contadini medi.
Benché i
contadini medi agiati e relativamente agiati siano in minoranza nelle
nostre campagne, essi esercitano tuttavia una grande influenza sugli
strati inferiori dei contadini medi e anche sui contadini poveri.
Questi contadini medi agiati in generale danno il loro appoggio al
Partito Comunista e al Governo Popolare (...) È tuttavia
inevitabile
che essi siano inclini ad assumere un atteggiamento ambiguo quando si
tratta di prendere la via della cooperazione.
«In vista di consolidare l’alleanza con i contadini medi, il
fattore chiave consiste nella applicazione rigorosa nel movimento di
cooperazione della politica della libera adesione e del reciproco
vantaggio (...) Non solo il Partito proibisce ai contadini medi di
aderire alle cooperative, ma ha prescritto di ammettervi in primo luogo
i contadini poveri e gli strati inferiori dei contadini medi
relativamente agiati durante lo sviluppo iniziale del movimento di
cooperazione. Il Partito ha anche precisato che, prima e dopo l’entrata
dei contadini medi nelle cooperative, soprattutto per ciò che
riguarda
le disposizioni relative ai mezzi di produzione messi come apporto
nelle cooperative, non è permesso nuocere ai loro interessi o
non
tenerne conto».
Ed il “non nuocere” agli interessi dei contadini medi, costringendoli ad entrare nelle cooperative e confiscando di fatto (senza pagare) i loro attrezzi agricoli ed i loro animali da tiro, volle pure dire che le cooperative non dovevano insistere troppo sui propri interessi, sui propri lavori di coltivazione e di infrastrutture; le cooperative venivano parimenti chiamate socialiste ed avanzate, ma l’interesse individuale, la libertà individuale e la produzione domestica dei singoli membri delle cooperative, rimanevano il pilastro portante della collettivizzazione e soprattutto dello Stato cinese e dei suoi progetti di industrializzazione. Ieri come oggi, quindi, a scorno di una Rivoluzione Culturale e della Banda dei Quattro, tutti timorosi e alfine soccombenti di fronte all’oceano dell’immenso mondo contadino !
Deng Zihui e Chen Yun parleranno fuori dai denti e... dalle metafore, tanto care alla mitologia maoista, e senza tanti abbellimenti diranno delle “concessioni” che lo Stato cinese viene costretto a concedere al contadino, agiato o povero che fosse.
Il primo, dichiarando che negare gli interessi dei contadini (prezzi di acquisto remunerativi, attività individuale, ecc.) equivaleva di fatto a non interessarsi della vita delle masse, a sviluppare soggettivismo e burocratismo, frecciata forse diretta a Mao; ed il secondo auspicando, in determinate condizioni, l’aumento degli appezzamenti privati:
«Una parte della produzione sussidiaria deve essere svolta individualmente dai membri delle cooperative (...) È lasciando, in larga misura, i membri delle cooperative liberi di svolgere individualmente un gran numero di produzioni sussidiarie che si può aumentare la varietà di questi prodotti, al fine di soddisfare i bisogni del mercato e di accrescere i loro redditi. Là dove l’apporto delle terre dei membri delle cooperative ha in media un’estensione assai vasta, ed alla condizione tuttavia che questo non sia a discapito della produzione dei principali prodotti agricoli delle cooperative (comprati dallo Stato), si deve considerare la possibilità di riservare ai singoli contadini, una parte più grande di terra per la loro propria coltivazione, per permettere loro di coltivare piante foraggere utili all’allevamento del suino e per aumentare i prodotti sussidiari».
La virata a destra del PCC si confermerà con gli avvenimenti di Ungheria nel corso dei mesi di ottobre e novembre 1956, mesi che videro una campagna contro il “caporalismo” dei quadri di partito, prima avvisaglia della politica dei Cento fiori.
Anche riguardo l’acquisto delle derrate agricole ci furono significativi cambiamenti: lo Stato, negli anni precedenti, aveva manovrato sui prezzi di acquisto favorendo la coltivazione del riso e del grano, a spese delle produzioni secondarie anche più redditizie per molti contadini; aveva anche imposto la coltura di prodotti industriali come il cotone. Le difficoltà derivanti dalla resistenza passiva dei contadini, che accettavano sì la collettivizzazione, ma che intralciavano le periodiche operazioni di ammasso del personale amministrativo statale, fecero sì che dall’inverno 1955-56, mentre si spingeva il ritmo collettivista, si concedesse rispetto alle imposizioni passate, sia riguardo al tipo di colture, sia riguardo ai prezzi.
Vediamolo dal discorso di Mao al II Plenum del CC dell’ VIII Congresso del PCC, 15 novembre 1956:
«Dall’inverno dell’anno scorso ci si è concentrati sui cereali, trascurando le attività sussidiarie e le colture industriali. Poi questa deviazione è stata corretta, ci si è occupati delle attività sussidiarie e delle colture industriali; specialmente la fissazione di prezzi comparati delle venti categorie e delle trenta categorie di prodotti, prezzi comparati dei cereali rispetto al cotone, alle piante oleose, al maiale, al tabacco, e così via, in questa maniera i contadini trovavano molto allettanti le attività sussidiarie e le colture industriali, mentre i cereali non erano più convenienti. All’inizio abbiamo dato peso eccessivo ai cereali, dopo un peso eccessivo alle attività sussidiarie e alle colture industriali. Se i cereali sono deprezzati si danneggia l’agricoltura, se tenete i prezzi così bassi i contadini non piantano più cereali».
In effetti durante tutto l’anno 1956, i diversi avvenimenti avevano convergentemente contribuito ad indebolire il regime della Nuova Democrazia. La collettivizzazione con i suoi mediocri risultati economici aveva forse provocato, od anche solamente non aveva potuto impedire, scioperi di operai e studenti che erano scoppiati, a più riprese, in diverse parti della Cina,come avrebbe rivelato lo stesso Mao nel febbraio 1957, senza però specificare le località e l’estensione degli scioperi, e questo malcontento si univa a quello contadino, a quello dell’intellighenzia, anima della struttura statale.
Questa la ragione reale della campagna contro l’autoritarismo dei quadri di partito, dell’appello di Mao del maggio 1956, perché: «Cento fiori sboccino, cento scuole gareggino», sia quella che questo tendenti ad incanalare in un innocuo movimento di opinione l’urto fra le antagoniste forze sociali messe in moto dalle stesse necessità dello Stato cinese di procedere all’accumulazione e concentrazione del capitale.
In tale situazione, il problema dell’assicurare un regolare approvvigionamento delle città diveniva di capitale importanza: «Bisogna aumentare il tasso di commercializzazione dei prodotti agricoli, in specie dei cereali, sulla base di uno sviluppo della produzione agricola. Se c’è da mangiare per tutti, non dobbiamo aver paura, anche se delle minoranze creano disordini nelle scuole e nelle fabbriche (...) l’agricoltura ha un enorme incidenza sull’economia nazionale e le condizioni di vita del popolo. Fate attenzione, non prendere in pugno il problema dei cereali è molto pericoloso. Se ci disinteressiamo dei cereali prima o poi scoppieranno gravi disordini», dirà drammaticamente Mao, il 18 gennaio 1957, ad una conferenza di Segretari di Partito.
Il drammatico appello dell’inizio 1957, non fu buttato lì a caso, infatti, nella stessa riunione, Mao deve rilevare che oramai si poteva dire a buon punto l’organizzazione dei contadini nelle cooperative avanzate, ma che pure la sfiducia nelle campagne e nel Ministero della Agricoltura è grandeggiante «come se le cooperative oramai si avviassero verso il crollo e la scomparsa», del resto, continuava Mao «non si poteva dire che la nostra politica nelle campagne sia troppo di sinistra (...) Il governo, da parte sua, fa molto per aiutare i contadini, costruendo opere idrauliche, concedendo crediti all’agricoltura, ecc. Le nostre imposte agricole, comprese quelle sulle attività sussidiarie, costituiscono circa l’8% del valore globale della produzione contadina e diverse attività sussidiarie non sono soggette ad imposte (...) anche nello scambio tra prodotti industriali e prodotti agricoli, il profitto che lo Stato ottiene dai contadini è molto basso».
Ed il pendolo di Pechino continuò la sua corsa verso la “destra», cioè verso il corteggiamento dell’economia familiare ed individuale dei contadini.
Il 1957 è infatti un anno critico per la collettivizzazione, tanto che nonostante le cifre ufficiali diano in espansione la quota di famiglie organizzate in cooperative (118,9 milioni di famiglie nel 1957 contro i 111,7 milioni del 1956), pare che durante l’anno si determinasse di fatto una diserzione su vasta scala dei contadini dalle cooperative, che probabilmente furono subitamente riorganizzate.
Su tali eventi, mancanti del tutto di attendibile materiale statistico, i vari sinologhi concordano, anche se nessuno porta a sostegno di tali fatti dei dati significativi; certo gli appelli concitati di Mao e del PCC sono indirettamente una conferma. Guillermaz, studioso non di parte, nella sua “Storia del PCC” indica in circa 200 mila le cooperative (gestite male o costituite frettolosamente) sciolte durante l’anno 1957, e non a caso le tre direttive del 16 settembre di quell’anno si titolavano: Rettificare il lavoro nelle cooperative agricole. Migliorare l’amministrazione della produzione agricola. Rivedere il metodo di applicazione della politica di reciproco beneficio tra i membri delle cooperative.
La prima di queste riguardava soprattutto le dimensioni tipo della cooperativa che aveva il compito, secondo i dirigenti di Pechino, non solo di collettivizzare i principali mezzi di produzione, gli animali da tiro e le terre, ma anche di creare un’economia unificata di villaggio, politicamente e soprattutto economicamente responsabile di fronte allo Stato centrale (collettore raccoglitore di tasse), e verso il quale vigeva l’obbligo delle vendite, a prezzi fissati, delle principali produzioni agricole, dai cereali al cotone.
Si ritornava quindi ad una struttura politica ed economica ricalcante quella dell’antica Cina del modo di produzione asiatico: si aveva infatti, alla base, la popolazione inquadrata nei villaggi naturali, legata alla terra ed alla autosufficienza locale, poggiante sulla combinazione fra agricoltura minuta ed industria (ecco il richiamo prima visto alle attività sussidiarie e, durante il periodo delle Comuni, all’industrialismo agrario); al vertice invece lo Stato, raccoglitore sì di imposte, ma anche gestore delle grandi opere di pubblica utilità e nel contempo agente e pianificatore della produzione dei principali prodotti industriali.
La direttiva limitava ad un villaggio di circa 100 famiglie le dimensioni della cooperativa modello, ed a 20 famiglie circa quelle della “brigata di produzione”, equivalente della vecchia cooperativa elementare. Venivano previste anche le dimensioni della “squadra di produzione”, dalle 7 alle 8 famiglie, che si occupava principalmente di lavori sussidiari, non propriamente agricoli. Era la brigata la vera unità di base dell’organizzazione della produzione, come la detentrice dei mezzi di produzione e delle terre; ma le ridotte dimensioni di questa facevano si che la tradizionale influenza di famiglie e clan nella stessa stesura dei programmi produttivi della brigata fosse ancora forte e salda: nuova concessione e nuovo compromesso dello Stato cinese all’economia familiare contadina.
Per la creazione di una economia unificata di villaggio era indispensabile l’appoggio dei contadini ricchi, di quelli medi, persino – là dove ancora esistevano – dei proprietari fondiari, in quanto erano loro che possedevano ancora le terre migliori nei villaggi, oltre a possedere i principali mezzi di produzione e le bestie da tiro.
Il regolamento modello delle Cooperative, adottato nel giugno 1956, aveva del resto reso particolarmente facile per chiunque l’ingresso in queste. La paura poi di perdere tutto, unita al rassicurante articolo 13 del regolamento che prevedeva un regolare acquisto rateizzato annualmente delle terre, dei mezzi di produzione e degli animali, tutto concorse a rendere relativamente rapida la collettivizzazione, questo nonostante le resistenze contadine già viste, che furono niente di fronte al disastro economico che seguì alla collettivizzazione stalinista degli anni Trenta.
Scriverà Liu Shaoqi nel settembre 1959, in occasione del decimo anniversario della Repubblica Cinese, ricordando gli anni della collettivizzazione: «Un altro punto di vista era quello che la realizzazione della cooperazione agricola a quella velocità avrebbe indebolito l’unità dei contadini, o, in altre parole, che oltre i contadini ricchi, anche i contadini medi si sarebbero sentiti insoddisfatti di noi o ci avrebbero addirittura ostacolato, mentre solo i contadini che erano in condizioni peggiori ci avrebbero appoggiato. I fatti hanno fatto saltare anche questo punto di vista. Grazie alla nostra politica di unificazione con i contadini medi e la politica di pagamento compensativo in rate annuali ai contadini medi che si associavano a delle cooperative con le loro grandi attrezzature e animali da tiro, e grazie alla crescita della produzione delle cooperative di anno in anno, la stragrande maggioranza dei contadini medi fu soddisfatta in linea di massima della cooperazione agricola».
Altre attenzioni facilitarono la collettivizzazione.
La prima consisteva nel fatto che il “regolamento della cooperativa modello” prevedeva immancabilmente due distribuzioni annue di prodotti agricoli, dopo il raccolto primaverile e dopo quello estivo, più il pagamento sempre annuo di una esigua somma di denaro. Questa vera e propria “garanzia” interessava particolarmente i contadini poveri e, nel contempo, era un avvertimento ai dirigenti delle cooperative di non opprimere troppo i contadini per accelerare inconsideratamente l’accumulazione dei fondi.
La seconda era che, assegnata ad ogni contadino una quota nella produzione collettiva, questi era libero di impiegare il suo tempo come voleva. Al contadino era permesso allevare animali domestici, coltivare ortaggi e mantenere un piccolo orto per sé stesso; tutto questo costituiva la sua proprietà privata difesa dalla Legge.
I piccoli appezzamenti che generalmente rappresentavano inizialmente il 5% circa della superficie totale della cooperativa, si rivelarono subito una fonte importantissima di reddito supplementare per i contadini, tanto più importante per i contadini ricchi ed agiati. Secondo G. Etienne in “La lunga marcia dell’economia cinese”, l’importanza degli appezzamenti privati variava molto a secondo dell’ambiente fisico, del tipo di raccolto e dell’abilità dei contadini, ed il ricavo proveniente da questi variava dal 18,6% del reddito totale di una famiglia contadina del Nord Ovest al 33,6% di una famiglia del ricco Sud !
Da settembre 1956, anche per far fronte alla mediocrità dei raccolti ed anche alle uccisioni di maiali e pollame da parte dei contadini, vengono permessi ed aperti “mercati liberi» privati in cui i contadini vendevano maiali, pollame, verdura, testimonianza visiva, fino alla abolizione nel giugno 1957, della produzione agricola domestica.
Appezzamenti privati e mercati liberi, insieme all’acquisto di terre, animali e mezzi di produzione da parte delle cooperative, furono le garanzie che interessarono i contadini medi e ricchi. Questi, anche se la produzione cooperativa batteva il passo ed il reddito contadino non aumentava in misura apprezzabile (i “quadri” dovevano continuamente convincere i contadini sulla superiorità delle cooperative), potevano in qualche modo rifarsi vendendo nei mercati liberi i prodotti degli appezzamenti privati, a prezzi ben maggiori di quelli praticati da Stato e Cooperative.
Come il suo analogo sovietico il contadino cinese collettivizzato
cominciò a dedicare sempre maggiori energie alle sue terre
private e ai
suoi animali.
Nei numeri passati è stato descritto lo stato sociale nelle campagne cinesi, dagli anni Trenta fino al 1957, lo stato delle forze produttive, i rapporti di classe e di produzione ivi esistenti, infine la politica seguita dal Partito Comunista Cinese nell’arco di un trentennio, ripercorrendo le principali tappe militari e sociali che hanno visto un movimento imperioso di masse enormi di uomini che fa impallidire anche la pur gloriosa storia europea, ricca di rivoluzioni.
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Solo nel primo numero del lavoro, si diedero accenni alla politica del Partito Comunista Cinese rispetto alla classe operaia nelle città, liberate dagli Eserciti Popolari ed abbandonate da quelli Nazionalisti. La classe operaia cinese accolse freddamente l’instaurazione del nuovo regime di Nuova Democrazia, derivante senz’altro dalle cruenti e feroci sconfitte subite negli anni 1927-29, che l’avevano decapitata della sua parte di avanguardia, a causa della disastrosa politica seguita dal Comintern tutto e dal PCC; erano state poi le immediate misure del nuovo regime, tutte tese a ripristinare la normale vita economica e produttiva, anziché a migliorare le condizioni di esistenza della classe salariata, a confermare – come già visto – tale diffidenza e distacco.
Detto questo intendiamo indagare sulla politica industriale del Partito Comunista Cinese, confrontandola con la teoria e dottrina marxista, proprio per ben fissare la reale natura di classe di tale Partito e della Repubblica che guida, Partito e Stato non della classe lavoratrice, ma del Capitale e delle sue esigenze produttive ed organizzative.
La situazione economica che il nuovo regime ereditava era praticamente allo sfacelo; dal 1911, crollo della dinastia manciu ed inizio della rivoluzione nazionale democratica che con alterne vicende ed alterni uomini e partiti doveva concludersi ben 38 anni dopo, vaste zone della Cina erano state continuamente devastate da sollevazioni, guerra civile, invasioni straniere, e, per il degrado assoluto della struttura statale e civile, da inondazioni e carestie, con decine di milioni di morti.
Inevitabilmente si era arrivati ad una quasi totale paralisi della produzione industriale e del commercio in diversi centri urbani. La riattivazione della normale vita economica sarebbe stata poi ancora più difficile per il vero e proprio depredamento che i Russi avevano effettuato in Manciuria, regione guida in campo industriale della Cina per i grandi investimenti di capitale effettuati dai Giapponesi che l’avevano portata a produrre dal 40 al 60% dei principali prodotti industriali dell’intera Nazione.
I lunghi anni di guerra avevano poi dato un duro colpo alla rete irrigua ed al sistema di dighe, il cui perfetto funzionamento era indispensabile per sopperire alla tradizionale scarsità della rete di comunicazione stradale e ferroviaria, oltre a costituire condizione indispensabile per salvaguardare la produzione agricola dalle avversità meteorologiche.
Le linee ferroviarie avevano subìto colpi pesanti dal procedere delle operazioni militari, tagliate e minate dagli eserciti contendenti: l’immensa superficie della Repubblica Popolare Cinese contava, alla sua costituzione, circa 21.000 km. di ferrovie in efficienza, e la quasi totalità del materiale rotabile era stato requisito dall’esercito. Una miseria, non solo rispetto all’Occidente Europeo ma anche alla vicina India, un terzo di estensione territoriale ma con 55.000 km. di strade ferrate.
I trasporti veicolari civili erano in pratica inesistenti: da 20 a 30.000 veicoli per circa 81.000 km. di strade. Ancora peggio la situazione della flotta mercantile quasi tutta riparata a Taiwan.
Sono questi i primi significativi dati: con poche strade, con poche ferrovie, per giunta in cattivo stato. Lo stesso grande capitalismo è impedito nella sua corsa, altro che socialismo !
La guerra con i giapponesi e la guerra civile aveva poi determinato nelle città controllate dal Guo-min-dang una inflazione inarrestabile se non con misure di “salute pubblica”, impossibili da attuare per la corruzione del regime di Jiang Jieshi: a metà del 1948 i biglietti di banca in circolazione toccavano la cifra di 375 mila miliardi di dollari cinesi contro 2 miliardi circa del 1937, e l’indice dei prezzi al dettaglio di Shanghai era passato dal 100 del gennaio-giugno 1937 a 287.700.000 nel giugno 1948.
In tali condizioni le prime mosse del nuovo regime dovettero prima di tutto, oltre che sbarazzarsi della borghesia compradora, colpire speculatori ed accaparratori che controllavano le poche derrate e merci ancora in circolazione, nonostante la quasi paralisi produttiva.
Ecco perciò il 1 giugno 1949 la chiusura dello Stock Exchange di Shanghai (quel centro criminale collocato nel cuore della città), l’arresto a Pechino di tal Wang Chen-ting (“La tigre del grano”), speculatore ed accaparratore di grano, e poi le grandi misure di risanamento finanziario, dall’unificazione del sistema monetario con l’istituzione dello yuan renminbi (letteralmente: la moneta del popolo) e l’eliminazione di tutte le coniazioni e carte monete locali, incontrollabili ed inflazionate, alla unificazione del sistema fiscale nel marzo 1950.
Certo non sono provvedimenti socialisti, ma borghesi, tendenti a costituire uno Stato unitario, sia dal punto di vista territoriale sia economico, e che quindi devono centralizzare l’intera vita di una Nazione; centralizzazione che però costituisce un rivoluzionario passo in avanti e che ci fece esclamare in un articolo del 1953: «(la Cina) vissuta per millenni frammentata in unità economiche sociali e governative molteplici, ha preso lo slancio formidabile della costruzione del mercato interno capitalistico, ordinandosi in uno Stato unitario, e Mao sarebbe un grande simbolo anche se stesse all’altezza non di Bonaparte, ma di Luigi XIV».
Fedele a questa impostazione teorica la nascitura Repubblica si guardò bene dal procedere a nazionalizzazioni indiscriminate di industria e commercio. Tali nazionalizzazioni riguardano, nei primi tempi, solamente le grandi banche e le imprese legate agli interessi del “capitale burocratico”, cioè le imprese statalizzate dal Guo-min-dang e alla cui direzione vi erano i membri delle 4 grandi famiglie dei Chang, King, Soong e Chen, oltre a tutte le industrie che «interessano la vita nazionale del popolo», come scandiva l’art. 28 del “Programma Comune”.
E qui una prima sorpresa: nella dilaniata e vasta Cina l’industria straniera è al passo, ed il capitale cinese, burocratico o no, è maggioritario, ennesimo sberleffo alle diane antimperialiste !
In effetti, se inizialmente la scena industriale cinese è dominata da imprese a capitale straniero, dagli anni Venti – anni ricordiamolo di sanguinosi scontri sociali con il proletariato urbano in prima fila – la presenza di autonomo capitale cinese diviene più marcata tanto che nel 1936 la borghesia cinese, privata e statale, controlla il 71% della produzione di filati, il 34% di quella di carbone, il 45% di quella dell’elettricità.
Dopo il 1939 specialmente durante la seconda guerra mondiale, vi è invece, nel territorio controllato dai nazionalisti di Jiang Jieshi, una forte espansione dell’industria statale, tendenza che si accentua nel dopoguerra con la confisca delle imprese giapponesi, soprattutto in Manciuria, tanto che nel 1949, prima della proclamazione della Repubblica Popolare, la presenza straniera, in tutti i settori economici, è quasi nulla !
La politica di coesistenza fra “capitale nazionalizzato”, statale come proprietà e gestione, e capitale privato patriottico, era stata ben riassunta nel Programma Comune, testo programmatico della nuova repubblica.
L’articolo III ricorda che vennero confiscati i capitali burocratici e passati nelle mani dello Stato popolare che... proteggerà i beni privati degli operai, dei contadini, della piccola borghesia e della borghesia nazionale (le quattro classi del blocco), mentre il XXVI proclama a piena voce l’intento di applicare «una politica che curi tanto gli interessi privati, che gli interessi pubblici, che avvantaggi tanto i padroni che i lavoratori (...) in modo che tutte le componenti economiche-sociali possano avere il loro ruolo particolare, compiere la loro funzione, e cooperare fra loro sotto la direzione della economia di Stato, per lo sviluppo dell’economia sociale nel suo complesso».
Il che era la perfetta trascrizione giuridica della tesi esposta il 30 giugno 1949 da Mao nel testo «Sulla dittatura democratica popolare»: “Per fronteggiare l’oppressione imperialista e per portare la sua economia arretrata a un livello più alto, la Cina deve utilizzare tutti i fattori del capitalismo urbano e rurale che siano vantaggiosi e non nocivi dell’economia nazionale in una lotta comune. La nostra politica attuale è di porre dei limiti al capitalismo, non di distruggerlo».
Per gli ideologhi di Pechino pertanto, il capitale industriale e la borghesia industriale sono altamente progressivi ed utili all’interesse nazionale della “grande Cina”, a tale valutazione corrisponde la funzione borghese-rivoluzionaria del maoismo nella fase dell’industrializzazione capitalista che percorre, tuttora, la Cina.
Ed è chiaro che lo scandalo non consiste nel venire a patti con la classe che detiene i mezzi tecnici ed amministrativi per la conduzione delle aziende, compromesso inevitabile anche per uno Stato schiettamente proletario in date condizioni economiche e sociali, ma di spacciare tutto questo come “costruzione del socialismo”, quando invece si assolve a compiti tradizionali di una borghesia illuminata: favorire l’industria,sviluppare il commercio.
«Il Governo centrale del popolo, dopo alcuni mesi di inflazione, inevitabili durante il periodo di espansione della guerra di liberazione, decise, nel marzo scorso di affrontare tutti gli enormi sforzi necessari ad aumentare le entrate nazionali e a diminuire le spese, in modo che entrate ed uscite potessero bilanciarsi. Per assicurarsi il successo in questa impresa il Governo centrale del popolo realizzò la centralizzazione del controllo sulle finanze di tutto il paese, operazione, quest’ultima, mai realizzata prima (...) In questo modo il controllo dell’inflazione fu subito ripreso e, dal marzo dello scorso anno non c’è più stato bisogno di emettere nuova valuta per coprire il deficit finanziario (...) il Governo centrale del popolo ha sconfitto la dissolutezza degli speculatori ed ha risolto brillantemente i problemi di approvvigionamento delle città e delle zone devastate dalla guerra. Dal marzo scorso i prezzi delle merci hanno teso in genere a stabilizzarsi in tutto il paese».
Non erano certo questi puri risultati finanziari, erano risultati politici determinati non con manovre monetarie ma di irrobustimento dell’apparato statale, di imbrigliamento delle spinte centrifughe della “borghesia nazionale», delle sue aziende, per sottometterla non alle esigenze del mercato ma a quelle dello Stato, dell’industrializzazione nazionale che necessitava l’ordinamento di tutte le forze produttive, dai proletari alle stesse aziende private con il loro attrezzaggio tecnico e commerciale.
Da questa necessità si hanno tutti i provvedimenti cosiddetti socialisti che lo Stato cinese prese in rapida successione dalla sua costituzione, dalle misure di risanamento finanziario ed amministrativo dell’apparato statale, a quelle riguardanti il controllo amministrativo statale nei confronti delle imprese, alla progressiva statalizzazione del commercio all’ingrosso ed al dettaglio, risposta questa alla impossibilità di pianificare, controllare, limitare l’economia particellare e familiare dei contadini liberati.
Misure analoghe vengono prese riguardo al Commercio con l’estero. Già il 1° maggio 1950, in un discorso celebrativo, Liu Shaoqi aveva fieramente dichiarato:
«L’imperialismo è stato eliminato dalla Cina e i privilegi degli imperialisti sono stati colpiti. Le dogane e il commercio estero sono diventati efficaci mezzi di difesa per lo sviluppo della nostra industria nazionale. La Cina, cioè, tiene in tasca le chiavi di casa; questa chiave non è più, oramai, nella tasca degli imperialisti stranieri e dei loro servi, come in passato. l’industria cinese, d’ora in avanti, non sarà più danneggiata dalla concorrenza che prima le facevano le merci che ci venivano vendute ad un prezzo infimo. Le materie prime della Cina saranno destinate innanzitutto a soddisfare i bisogni dell’industria cinese. Verrà così abbattuto il principale ostacolo che si ergeva contro l’espansione industriale nel corso di quest’ultimi anni».
E la catena dei provvedimenti presi, tutti nel segno di riservare ogni risorsa all’industrializzazione e all’edificazione, giustificavano il tono nazionalista di Liu; infatti dopo l’embargo di beni strategici approvato dall’ONU il 6 luglio 1950, l’8 dicembre dello stesso anno il Consiglio dell’Amministrazione di Stato approva il Regolamento per la gestione del Commercio Estero, il 23 marzo del 1951 viene approvato dallo stesso Consiglio una nuova legge doganale, e, per finire il 7 agosto 1952 viene costituito il Ministero del Commercio estero, che, non toccato dalla riforma amministrativa del 1954, conserva tutt’oggi la stessa organizzazione.
Ed è questo l’ultimo atto con il quale si innalza una barriera di bambù, una cortina che necessariamente si aprirà ad Ovest, verso il Cremlino.
Anche i beni della stessa borghesia nazionale, originariamente protetti dalle proclamazioni del “Programma Comune» verranno rapidamente statalizzati ed assisteremo così alla trasformazione dei borghesi in semplici salariati e redditieri statali, espropriati delle loro tradizionali funzioni imprenditoriali.
La tabella riportata indica chiaramente la rapida “statalizzazione” delle imprese private che, attraverso varie forme di collaborazione con le imprese statali (esecuzione di appalti e commesse statali a partecipazione azionaria), furono via via trasformate da imprese private in imprese miste (in Italia si direbbe a Partecipazione statale). Dopo il 1955, le azioni in mano ai privati furono invece convertite in obbligazioni calcolate sul valore dei mezzi di produzione (ossia senza rischi rispetto alle fluttuazioni del mercato) e con un interesse fisso del 5%.
Come si può vedere le imprese private diminuiscono fortemente nell’anno 1950, nel 1951, nel 1952, ed infine dopo la pausa del 1953, nel 1954 e nel 1955.
I primi anni di statalizzazione corrispondono altresì ad anni in cui più forte era stata la tensione del PCC per mettere al passo la vecchia struttura amministrativa ereditata dal Guo-min-dang.
Zhou Enlai, nel discorso prima citato, ammonisce che «molti uffici giudiziari locali hanno male interpretato le direttive riguardanti la clemenza da esercitare nella soppressione di controrivoluzionari. Essi infatti hanno esercitato solo la clemenza senza mai sopprimere gli elementi controrivoluzionari, tanto che le masse li accusano di sconfinata clemenza» (...) gli elementi ostinatamente controrivoluzionari possono essere soppressi con decisione».
Sono invece di Mao una serie di “direttive” per la repressione dei controrivoluzionari, dal dicembre 1950 al settembre 1951, in cui si intima ai comitati di partito di non essere «cedevoli e indecisi, indulgenti e tolleranti», di «giustiziare coloro che il popolo vuole che siano giustiziati (...) allo scopo di placare l’odio delle masse e di giovare alla produzione».
Finita la campagna contro i “controrivoluzionari”, nel dicembre 1951, inizia quella dei “tre anti” (san fan) contro la corruzione, lo spreco, il burocratismo, ed il giovane e forte Stato si impegna a «far cessare il fenomeno estremamente pericoloso della corruzione esercitata dalla borghesia su molti membri del partito», di risolvere i casi più gravi di corruzione «addirittura con la fucilazione».
La campagna di epurazione nei confronti della struttura statale e di partito si conclude nell’aprile 1952, quando ne era già stata lanciata un’altra, soprannominata “cinque anti” (wu fan), contro la corruzione politica, la frode, l’evasione fiscale, la sottrazione dei beni dello Stato, il conseguimento illegale di segreti economici di Stato; campagna quindi diretta contro “i corruttori” mentre la prima si era diretta contro i “corrotti”.
Ma il risultato fu borghesemente ottimo ! Secondo il Ministro delle Finanze Bo Yi-bo furono controllate 450.000 industrie di cui il 76% compiva irregolarità più o meno gravi: si avranno multe e confische, con requisizioni di beni mobili ed immobili.
Le proprietà di stranieri finirono in gran parte nelle casse dello Stato e i casi di riscatto ed indennizzo non furono certo la regola per il giovane Stato il quale, con il suo intervento nella guerra di Corea, celebrava saturnali nazionalisti permettendosi occupazioni e requisizioni di Consolati ed installazioni militari di Usa, Francia ed Olanda (14 gennaio 1950), di requisire l’Asiatic Petroleum Co-Shell (30 luglio 1951), e di espellere il Nunzio Apostolico (7 settembre 1951).
La statalizzazione dell’economia ricevette un formidabile impulso tanto che alla fine del 1952, lo Stato possedeva – totalmente o in parte – il 75,9% della produzione industriale, ed il capitalismo privato nazionale era sceso in tre anni dal 55,8 al 17,1%, e conservava solamente nell’industria leggera un certo peso.
Lo Stato estendeva le sue redini anche alla totalità del sistema bancario, all’intera rete ferroviaria, al 96% della rete di trasporto merci eseguito in maniera meccanizzata, al 92% del commercio con l’estero, al 63% di quello all’ingrosso ed al 43% di quello al dettaglio !
Il che costituiva un’ottima base di partenza per il Piano Quinquennale che sarebbe stato varato di lì a poco.
Anche le cospicue somme confiscate o derivanti da multe saranno un buon contributo per la pianificazione futura: calcoli approssimativi di occidentali valutano intorno a 1,7 miliardi di dollari il frutto delle campagne dei tre e cinque “anti”, quasi quanto il valore degli impianti industriali portati via dai russi in Manciuria.
Anche il bilancio in vite umane è tutto cinese nelle proporzioni; abbiamo già detto che una “riforma agraria” pilotata nei limiti del consentito aveva voluto ben 20 milioni di morti, le campagne degli anni 1950-52 ebbero invece 2 milioni di esecuzioni secondo Bo Yi-bo e ben 5 per l’onesto Guillermaz.
E le pressioni verso la quarta classe del blocco – la borghesia nazionale – continuano negli anni a venire, in particolare negli anni 1954-56.
Il 9 dicembre 1953 viene infatti lanciato un prestito di 6.000 miliardi di yuan, redimibile al 4%, di cui oltre la metà viene destinato a essere sottoscritto dagli industriali e dai commercianti privati, primo atto dell’ultima tornata statalizzatrice che ha la propria investitura il 1-21 novembre 1955, quando si riunisce a Pechino il Comitato Esecutivo della Federazione Nazionale dell’industria e del Commercio per la campagna per la trasformazione socialista dell’industria e del commercio privato.
Pressioni e ingerenze continue di Stato e Partito convincono i restanti padroni a passare la mano allo Stato dal quale oramai dipendevano per il rifornimento di materie prime e per le vendite. Rimarranno nelle fabbriche in qualità di direttori e tecnici salariati, percependo per questo alti salari oltre naturalmente a detenere obbligazioni il cui interesse al 5% verrà pagato fino al 1962.
Ma in definitiva era la Banca del Popolo che teneva i cordoni della borsa della borghesia nazionale incamminata verso il socialismo; i proprietari indennizzati forzatamente
reinvestirono in buoni dello Stato le somme poste a loro credito ed infine, non diversamente dagli altri cinesi, non sfuggivano all’obbligo di giustificare qualsiasi ingente prelievo dal loro conto in banca.
* * *
Il percorso che abbiamo descritto ci ha portato all’affermarsi, in campo industriale, della conduzione statale, attraverso anche evidenti sistemi di imperio a cui fra l’altro fanno ricorso – in determinate svolte storiche – gli stessi stati capitalistici occidentali, con sistemi di controllo, obblighi di denunzie e consegne di merci, titoli e valuta, multe, requisizioni, confische e così via.
Conduzione economica statale in campo industriale che significa, in definitiva, ulteriore assoggettamento dello Stato al Capitale e alle sue esigenze di accumulazione. Capitalismo di Stato quindi, che non è né socialismo né semi-socialismo ma capitalismo vero e proprio, e che è anzi lo sbocco tendenziale di tale modo di produzione, con la sua concentrazione e centralizzazione, mille volte indagata dalla dottrina marxista.
Concentrazione e centralizzazione decisive per far precipitare, nel girone infernale del processo produttivo capitalistico, settori economici a conduzione ancora patriarcale e familiare, cioè precapitalistici e piccolo borghesi.
E sarà tale processo di capitalizzazione, la base reale delle lotte politiche succedutesi al vertice dello Stato e del Partito Comunista Cinese.
L’apparato produttivo industriale cinese era essenzialmente costituito da industrie leggere di trasformazione – soprattutto tessili ed alimentari – le quali predominavano rispetto all’industria pesante; dati resi noti successivamente da Pechino valuteranno che il settore dei “beni di consumo“ costituiva nel 1949, il 73,4% della produzione totale, ed il dato rivelava nettamente non certo il socialismo, ma la presenza di una debole struttura produttiva dipendente dall’estero per la propria accumulazione ed il proprio sviluppo. Certe branche industriali infatti, quali motori, macchine utensili, attrezzature di precisione, rame, prodotti petroliferi, erano inesistenti o quanto meno ai primissimi passi.
Tale situazione era poi aggravata dal profondo squilibrio geografico nella ripartizione dei centri industriali: sempre i dati ufficiali di Pechino rivelano che le 7 provincie costiere da nord a sud (Liaoning, Hebei, Shandong, Jiangsu, Zhejiang, Fujian. Guangdong) nel 1949 concorrevano alla produzione industriale totale con ben il 78%, e la sola municipalità di Shanghai arrivava al 33%.
Shanghai, polo industriale ma anche proletario negli anni Venti come oggi.
Considerando che buona parte del residuo settore industriale era dislocato nelle regioni della Manciuria, rimaneva l’enorme serbatoio delle rimanenti regioni interne, quasi totalmente agricole ed anche in questo campo totalmente arretrate.
Pochi dati dell’anno 1952: le 7 regioni costiere hanno una superficie pari a circa l’11% del territorio nazionale, ma contano il 33% della terra coltivabile ed il 39% della popolazione; vantano poi il 65,7% della produzione di energia elettrica, il 34,4% del carbone, il 75% del petrolio, l’84,6% dell’acciaio, il 72,4% del cemento ed l’81,6% della produzione dei tessuti di cotone.
E questa non è una cadenza di fredde cifre: la pretesa di Trotski e nostra che il proletariato cinese dovesse sgarrotare signori della guerra e bianchi, trascinandosi dietro l’immenso mondo contadino, si basava proprio su un’esatta valutazione di tale situazione economica dalla quale derivava che chi deteneva il potere sulla costa ed a Shanghai poteva dirigere l’interno, solo a questa condizione riserva di energie rivoluzionarie e non spegnitoio della controrivoluzione mondiale, non solo cinese.
Tale situazione determina un dualismo economico tutt’oggi pienamente esistente, con poche regioni con produzioni industriali ed agricole eccedenti il proprio consumo, e le rimanenti altre che si attestano su minimi livelli di autosufficienza e con i più modesti generi quotidiani – quali fiammiferi e sigarette – prodotti in quantità insufficienti e quindi importati dalle regioni vicine.
Era questo il primo terribile nodo che i pianificatori di Pechino dovevano affrontare: tale dualismo era stato perfettamente accettato dalle imprese straniere che nell’ottocento e nel primo novecento si erano piazzate lungo le coste, alle foci dei grandi fiumi, ma non poteva certo corrispondere ai fini generali di sviluppo borghese industriale della Repubblica Popolare.
Non che il capitalismo sia modo di produzione armonico, ma le stesse esigenze di industrializzazione pretendevano di limitare (anche se non sopprimere) lo sciupio di risorse che comportava il drenaggio di materie prime dalle province interne per lavorarle, trasformarle, nelle aree costiere per poi rimandarne una parte verso l’interno, sotto forma di prodotti finiti.
Una diversa distribuzione dell’apparato produttivo era poi assolutamente necessaria per la scarsità assoluta della rete di trasporto merci, che aveva fino allora impedito anche lo sfruttamento di conosciute risorse minerarie.
Ma tali giganteschi problemi non erano per il triennio; la Repubblica si costituiva su una fragilissima base, sulla sua arretratezza che permetteva alla Cina di sopravvivere essenzialmente grazie al carattere artigiano ed agricolo della sua economia, tanto era il baratro in cui era piombata la sua industria, ben riassunta dalla tabella che abbiamo preparato.
Se il 1949 fu il punto più basso toccato dalla economia cinese, il 1952 segna la fine della ricostruzione, il raggiungimento dei massimi traguardi dell’anteguerra, con un incremento medio annuo di tutto rispetto, ma derivante dal basso livello di partenza. Va infatti rilevato che gli incrementi maggiori di macchine utensili, acciaio, ghisa e concimi chimici si hanno per produzioni che erano del tutto crollate.
Altri dati significativi: la produzione artigianale ed artigiana si sarebbe elevata dal valore di 14.020 milioni di yuan a 34.330 milioni di yuan, tra il 1949 e il 1952, l’incremento è del 244,9%, il 34,8% l’anno, e la rata della produzione industriale ed artigiana sulla totale passa dal 30,1% al 41,5%. Sono i primi passi dell’industrializzazione.
Primi passi che si rivelano anche nel progresso del settore dell’industria moderna, questa dal 56,4% della produzione industriale ed artigiana nel 1949 passa al 64,2%.
Nell’altra tabella preparata abbiamo un confronto fra la Cina, l’India e la Russia; per le prime due abbiamo preso l’anno 1952, anno rispettivamente di fine ricostruzione e di inizio di piano quinquennale,mentre per la Russia il confronto è con il 1927, vigilia del primo piano quinquennale moscovita.
Le cifre assolute non suonano condanna per l’economia cinese, ma sono le produzioni pro capite che fanno vedere la chiara posizione di primato industriale della Russia 1927, e lo scarto – meno marcato – in favore dell’India.
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Abbiamo per l’acciaio la Russia con 20,4 kg. a testa, l’India
è con
4,4
kg., la Cina solo a 2,3 kg.; per l’energia elettrica la Russia sempre
in testa con 26,5 kwh pro capite, seconda l’India con 16,8 kwh, la
Cina è a 12,6 kwh; per il cemento prima l’India con 9,8 kg. pro
capite, segue la Russia con 9,5 kg., poi la Cina a 4,9 kg,; per la
ghisa stacca tutti la Russia con 20,4 kg. pro capite, l’India con 5,1
kg. e la Cina con 3,4 kg.; per il carbone la Russia si distanzia con
218,4 kg., poi Cina con 115,5 e India con 100,3 kg.; solo nei cereali
rivincita netta di Cina con l’India, segno evidente di cronica
debolezza dell’apparato industriale indiano, poggiante sull’estrema
povertà dei paria delle città e su quella dei
contadini: la
Cina è a
285 kg. pro capite, l’India solo a 154 kg., ambedue però lontane
dai
491,8 kg. della Russia. Dove netto è il ritardo cinese è
rispetto
l’estensione della rete ferroviaria: solo 24.518 km. contro i 21.989
del 1949 il che dà un aumento medio annuo del 3,7%, aumento
medio
inferiore non solo agli indici di sviluppo dell’industria e del reddito
nazionale, ma anche agli stessi sviluppi produttivi dell’agricoltura.
La
bassa estensione della rete ferroviaria è indice importantissimo
sul
quale dobbiamo soffermarci. La rete ferroviaria della Repubblica
Popolare, si sviluppa conseguentemente a tutto il sistema economico
cinese, cioè come un imbuto verso la costa, verso i porti, per il
drenaggio di ricchezze indigene verso l’esterno, verso il Giappone, la
lontana Inghilterra, Francia, Germania. Una rete ferroviaria quindi che
si sviluppava solamente verso la Cina orientale e costiera, quasi
inesistente nelle immense aree centrali ed occidentali, con vasti
territori, come la ricca provincia del Sichuan e dell’Yunnan
completamente isolati. Anche i ponti sono incredibilmente scarsi.
Nessun ponte sullo Yang Tze; uno solo per la ferrovia sul Fiume Giallo,
a nord di Chengchow, importante nodo ferroviario, ed il famoso ponte
stradale di Lanchow.
[ Quadro delle principali Produzioni 1949-77 ]
Le nuove linee ferroviarie, già avviate dal Guo-min-dang, cercheranno di rompere l’isolamento dell’Ovest, ma i progressi furono, e saranno lenti per l’alto costo e per la complessità delle opere necessarie.
I pochi dati esposti fanno risaltare nettamente due considerazioni che nel lavoro futuro riprenderemo continuamente; la prima è a tutto sfavore della propaganda di Pechino che, riprendendo la moda lanciata da Stalin, sfoggerà negli anni 1957-59 “favolosi” ritmi di incremento della produzione spacciandoli per ritmi socialisti, quando invece era il bassissimo livello di partenza, al di sotto della stessa India, la ragione del giovanile scatto del capitalismo dell’Impero di Mezzo; tale bassissimo livello di partenza è nel contempo, questa è la seconda considerazione, la migliore testimonianza dei ciclopici sforzi che il Capitale nazionale cinese ha dovuto sostenere per toccare gli immensi spazi che gli si aprivano davanti.
Abbiamo detto toccare, non ancora dominare completamente, ma l’opera rimane grandiosa e da tanto di cappello, non fosse altro perché tale incedere forma un immenso esercito di proletari il quale farà nel futuro risuonare il proprio grido di battaglia.
Il triennio della “ricostruzione“ aveva raggiunto risultati militari ed economici ottimi; all’unificazione era seguita la totale liquidazione delle residue truppe del Guo-min-dang in ogni angolo dell’immenso paese, e tale vittoria militare era subito seguita da significativi risultati economici, dalla sostituzione dell’apparato amministrativo – marcio ed inetto – del vecchio regime con una amministrazione incorruttibile di quadri, all’introduzione di un sistema unico fiscale e di una moneta stabile, alla relativamente veloce ricostruzione dell’apparato industriale e della malandata rete ferroviaria, sulle quali ci siamo soffermati nel capitalo precedente.
Tale “ricostruzione” poggiò simultaneamente sia sul proletariato industriale, sia sulla borghesia industriale delle città che fino alla campagna dei “cinque anti” (wu fan) verrà blandita e protetta dallo Stato centrale di Pechino.
Abbiamo già visto, precisamente nei cap. 2 e 3, come le immediate misure prese dalla Repubblica Popolare Cinese fossero nel senso di ridare fiato alle imprese, a tutto discapito delle condizioni materiali degli operai.
Diminuzioni dei salari, detrazioni di assistenze sociali, liberalizzazione di certi prezzi di generi alimentari portarono a scioperi nelle fabbriche dall’ottobre 1949 al maggio 1950, ma da allora sia il costante miglioramento della situazione produttiva, sia la rapida scomparsa di ogni tensione inflazionistica, fecero si che le condizioni di esistenza della classe lavoratrice subissero piccoli ma significativi miglioramenti, proprio in quanto si assicurava una distribuzione abbastanza equa del cibo, del vestiario, delle abitazioni, tutti generi disponibili in scarse quantità.
Mancano i dati relativi ai salari negli anni 1949-52, ma anche quelli relativi al numero di operai che usufruiscono delle assicurazioni sono significativi: sono 600 mila gli operai ed impiegati che nel 1949 beneficiano di assicurazioni sul lavoro (malattie, infortuni, spese funerarie, pensioni e maternità); nel 1952 si passa a 3 milioni e 300 mila.
Anche la crescita delle vendite al dettaglio (17.060 milioni di yuan nel 1950 e ben 27.680 milioni nel 1952) sono conferma del miglioramento delle condizioni di esistenza dei salariati, memori dei difficili lunghi anni di guerra.
Ciò innegabilmente portò, se non ad un entusiastico aderire della classe lavoratrice al nuovo regime, per lo meno ad una neutralità che sarà ben manovrata dal Partito comunista cinese.
Pechino infatti, con tutti i suoi esponenti da Mao a Liu a Gao Gang, che sarà “epurato” di lì a poco, ribadirà con insistenza che qualsiasi miglioramento nelle condizioni di vita poteva solo seguire agli incrementi produttivi. I sindacati, costituiti nel 1948, serviranno perfettamente allo scopo; questi infatti fin dall’inizio ebbero come obiettivo la produzione, “l’educazione” e non mai le questioni salariali prese a sé.
Il testo della risoluzione del CC del PCC del 18 febbraio 1951, riassumeva, per mano di Mao, tale politica:
«5) Sforzarsi di migliorare gradualmente le condizioni di vita degli operai sulla base di un incremento della produzione». Il punto 4) della stessa risoluzione ribadiva poi la totale subordinazione dei sindacati al PCC: «Nelle fabbriche, avendo come compito centrale la realizzazione del piano di produzione, il partito deve esercitare una direzione unificata sulle proprie organizzazioni, sulla amministrazione, sui sindacati e la Lega della gioventù».
La catena si chiudeva quindi: gli operai dovevano dare la propria fiducia ai Sindacati, questi la davano al PCC, che la dava a sua volta allo Stato, alle sue leggi e soprattutto alle direttive ed ai Piani elaborati dai vari ministeri; questi piani assumevano tutto e tutti gli individui, dal vertice del Ministero il legame arrivava in tutte le fabbriche e legava i responsabili tecnici individuali, gli imprenditori, gli operai, i manovali.
Tutto per la produzione !
Ed infatti sia Liu Shaoqi che Lai Rouyn al congresso sindacale del maggio 1953, interverranno duramente contro l’ugualitarismo di salari e trattamenti, ricordando come per il periodo precedente era impossibile concedere troppo agli operai “date le condizioni presenti”, direttive, due anni prima, di Mao !
Queste varie prese di posizione non erano estemporanee uscite dei vari leaders. L’articolo IX della Legge Sindacale del giugno 1950 era esplicito nel riassumere l’aperto appoggio dei nascituri Sindacati, al processo di accumulazione capitalistico.
«Art. IX - Per salvaguardare gli interessi fondamentali della classe lavoratrice i sindacati svolgeranno le seguenti attività, secondo le proprie rispettive costituzioni e decisioni: a) educare ed organizzare le masse dei lavoratori e degli impiegati per appoggiare le leggi e i regolamenti del Governo popolare, per mettere in atto la politica del Governo Popolare, e per consolidare la forza dello Stato popolare, diretto dalla classe lavoratrice; b) educare ed organizzare le masse dei lavoratori e degli impiegati perché adottino un nuovo atteggiamento verso il lavoro, rispettino la disciplina del lavoro, e organizzino campagne di emulazione nel lavoro ed altri movimenti di incremento della produzione in modo da assicurare la realizzazione dei piani di produzione; c) proteggere la proprietà pubblica ed opporsi alla corruzione, allo spreco e alla burocrazia, e combattere i sabotatori nelle imprese gestite dallo Stato o dalle cooperative e nelle scuole; d) promuovere nelle imprese a proprietà privata la politica di sviluppare la produzione e di incrementare sia il lavoro che il capitale, ed opporsi alla violazione delle leggi e ad ogni atto nocivo alla produzione».
Ma la Legge sindacale, con i suoi articoli, le sue raccomandazioni, i suoi consigli, l’inquadramento che ne venne fuori, con Sindacati epurati della stessa funzione di rivendicazione e contrattazione salariale delle maestranze – gli aumenti salariali vengono decisi da decreti governativi e fanno parte interamente delle misure di piano produttivo – travalicano, come questione, gli stessi confini, non ristretti, della Cina; viene riconfermata, in piena luce, che nell’epoca imperialistica le contraddizioni che i regimi borghesi sono chiamati a sciogliere sono di tale forza ed antagonismo, che qualsiasi modo che non sia quello totalitario di dirigere l’intera macchina statale è inefficace e del tutto inadatto alla bisogna.
Tale necessità totalitaria si impone a quegli stessi Stati, come la Cina, che riescono, rompendo la tutela imperialistica, a costituirsi in Stato nazionale; necessità totalitaria che si impone rispetto ad ogni organizzazione, ad ogni classe, ad ogni settore industriale.
In tali condizioni il ciclo che l’organizzazione sindacale compie è piuttosto un saltare tappe che nell’Europa sono durate decine di anni, per approdare subitamente a organismi sindacali educativi, produttivi, che hanno come solo scopo di ribadire la disciplina del lavoro, di assicurare campagne di emulazioni, di assicurare realizzazioni di piani, di realizzare cioè la collaborazione fra Capitale e Lavoro, ma mai di determinare, con la propria organizzazione, forza e lotta, il miglioramento delle condizioni di esistenza della classe lavoratrice, miglioramento coattivamente legato al buon andamento produttivo ed alla crescita borghese del regime, dello Stato.
Questa esigenza totalizzatrice, una volta rimessa in piedi la struttura produttiva, avrebbe dovuto fare i conti con gli stessi imprenditori privati i cui interessi particolari cozzavano con l’interesse generale del capitale sociale, infatti la “borghesia nazionale” nel triennio 1949-52 protetta e corteggiata, sarà successivamente – come già mostrato nel numero passato – “statalizzata”.
«Dopo il rovesciamento della classe dei proprietari fondiari e della borghesia burocratica, la contraddizione tra la classe operaia e la borghesia nazionale è diventata la contraddizione principale in Cina: per questo la borghesia nazionale non dovrà più essere definita come classe intermedia».
Annota Mao, il 6 giugno 1952, quando da qualche mese era stata fondata la campagna dei “cinque anti”, contro i corruttori, lanciata non a caso quando già si intravedeva il ristabilimento dell’apparato produttivo.
Liu Shaoqi, più francamente, il 14 settembre 1959, ricordando la politica del PCC di quel triennio, scriverà: «La nostra politica di trasformazione socialista dell’industria capitalista e del commercio ci ha reso possibile di ridurre l’opposizione alla trasformazione, e nel corso della trasformazione graduale, usare il capitalismo condizionatamente per servire il socialismo, in modo da facilitare il progresso dell’edificazione socialista».
Ora, sostituendo all’aggettivo “socialista” quello “capitalista’, il periodo di Liu non fa una piega, e le contraddizioni di Mao diventano quelle che sono, le contraddizioni cioè fra agricoltura ed industria, fra industria pesante e industria leggera, ecc. ecc., contraddizioni che un processo di accelerata industrializzazione portava al parossismo.
Il quesito diveniva quindi quello, non di usare capitalismo per edificare socialismo, come scrive Liu, ma di sapere se lo Stato centrale riuscirà ad incanalare tutte le forze “nazionali”, cioè borghesi, in questo sforzo non da dozzina.
Incanalamento che ovviamente non ha, per il Partito marxista, niente a che fare con il socialismo, ma invece con l’originaria accumulazione del Capitale, tanto che già nella Russia zarista come nell’Europa dei primordi industriali, lo Stato ha giocato un ruolo determinante per tale accumulazione primitiva.
I lavori di approntamento del piano quinquennale erano del resto già iniziati nel 1951 con i primi aiuti russi, ma solo nel 1955, febbraio, due anni dopo l’inizio ufficiale, il progetto fu messo a punto, ed approvato dall’Assemblea Nazionale il 30 luglio successivo, dopo una ampia relazione di Li Fuzhun.
Significativamente, la definitiva stesura del primo piano quinquennale seguì di qualche mese la visita di Krusciov, Bulganin, Mikojan e Svernik, nel settembre-ottobre 1954 a Pechino, ed è sempre dopo questa visita che il 12 ottobre fu annunciata una serie di accordi cino-sovietici che comprendevano, oltre alla cessione alla Cina delle partecipazioni russe a 4 società miste e la restituzione di Port Arthur, anche la concessione di un ulteriore credito (400 milioni di rubli) per la realizzazione di grandi progetti industriali.
Altro allineamento di fatti: il 1955, oltre ad essere l’anno del piano quinquennale, è anno di ottimo raccolto agricolo, di deciso inizio della “collettivizzazione” ed ultimo atto della statalizzazione dell’industria.
È l’affluire dei rubli pertanto che dà la cadenza ai fatti, ennesimo sberleffo alla pretesa creatività dell’Uomo e dell’Idea.
Mancanza di informazioni statistiche attendibili, valutazioni incomplete sulle risorse disponibili, inesperienza di capi militari per la prima volta di fronte a complessi problemi economici, tutto concorse al ritardo nella stesura del piano quinquennale; Li Fuzhun nella Prefazione al “Progetto” deve rilevare che: «La mancanza di esperienza e l’imperfezione delle nostre statistiche si farà risentire ovviamente sulla precisione dei nostri piani», per concludere che: «Faremo meno errori se studieremo coscientemente l’esperienza d’avanguardia dell’Unione Sovietica nell’edificazione del socialismo. L’aiuto che ci apporterà l’Unione Sovietica e i paesi della democrazia popolare è un fattore importante che contribuirà a favorire il successo della nostra edificazione economica pianificata».
Dichiarazioni che certo non lasciavano intravedere la futura rottura cino-russa, eppure Stalin, il “padre dei popoli” era già scomparso da due anni e già si stava affermando quel Krusciov che anni dopo sarebbe stato fatto oggetto dei peggiori epiteti.
Questo ricalcare la esperienza russa non era una sorpresa; già alla firma del primo accordo di cooperazione tra il governo popolare del Nordest (la vecchia Manciuria) e l’Unione Sovietica nel 1949, accordo firmato da Gao Gang, i primi passi “pianificatori” della giovane Repubblica sancivano l’assoluta priorità dell’industria pesante come fattore decisivo dell’industrializzazione della Cina e di meccanizzazione della struttura produttiva agricola.
Anche gli scritti teorici dei vari economisti concordavano pienamente su questo punto; è Li Chen in People’s China del 1° febbraio 1953 a rispondere in questi termini alla domanda: Come industrializzare ?
«L’esempio classico di rapido sviluppo dell’industria (come
la
Cina richiede oggi) è l’esperienza dell’Unione Sovietica nel
primo
piano quinquennale. Nel 1928, quando iniziò il piano,
l’industria rappresentava il 48% del prodotto nazionale
dell’URSS. Nel 1932, quando il piano fu completato, era il
70%».
«Il punto chiave dell’industrializzazione, la sua base, è lo sviluppo dell’industria pesante (energia, metallurgia) per poi sviluppare la produzione di mezzi di produzione».
E dunque: «D’accordo con questo principio la cui validità è testimoniata dal successo sovietico, il piano nazionale di edificazione economica su larga scala dà la priorità all’industria pesante rispetto all’industria leggera che produce beni di consumo». Perciò, soltanto «dopo che l’industria pesante avrà realizzato solide fondamenta, l’industria leggera, i trasporti e l’agricoltura potranno svilupparsi al tasso richiesto in una democrazia popolare».
Il che era perfettamente in linea con l’appello del 22 maggio 1953 dell’organo “Jenmin Jihpao”: «L’industria occupa nella nostra economia un posto più importante dell’agricoltura».
Lo stesso Mao è costretto – potenza dell’impersonalità del modo di produzione capitalistico e delle sue esigenze – a riprendere pari pari questo leit motiv, ed il 12 agosto 1953 spezza l’ennesima lancia a favore dell’industria pesante statalizzata, pupilla di Gao Gang: «al problema della ripresa e dello sviluppo produttivo è necessario stabilire con precisione che la produzione dell’industria a gestione statale va al primo posto, quella dell’industria a gestione privata al secondo, quella dell’artigianato al terzo. Il punto centrale è l’industria e il punto centrale dell’industria è l’industria pesante, che è a gestione statale. Tra le cinque componenti che formano oggi l’economia del nostro paese, l’economia a gestione statale è quella dirigente».
Ma ancora più significativo è il seguente brano tratto dal discorso di Mao alla XXIV sessione del Consiglio del Governo popolare centrale, discorso con accenni di polemica al rapporto di Chen Yun sulle finanze e sull’economia. Una breve parentesi: Mao Zedong è morto da un quinquennio e Chen Yun dopo la sua eclisse politica durante la Rivoluzione culturale è di nuovo massimo dirigente di Pechino; il disaccordo di allora, anno 1953, 12 settembre, ridivamperà con il Grande Balzo in avanti e negli anni successivi, ma è lo stesso Mao che inconsapevolmente fornisce la chiave per comprendere l’evolversi delle lotte politiche cinesi, cioè il contraddittorio sforzo del regime di Pechino di procedere all’accumulazione originaria (base per una Cina potente ed industrializzata e scopo di tutte le varie leadership, da Liu Shaoqi, alla “Banda dei Quattro” a Deng Xiaoping), ed il miglioramento delle condizioni di vita del popolo, perché solo con ciò si sviluppa un mercato interno, solo con ciò alle masse si possono chiedere sacrifici e ancora sacrifici.
Come un pendolo quindi la politica di Pechino deve oscillare fra l’ “economicismo”, cioè la concessione di premi materiali, ed il pathos romantico che parla alla morale, all’entusiasmo, al sacrificio collettivo di masse enormi di uomini che danno senza nulla chiedere allo Stato Centrale, come millenni prima era già accaduto, solo che il lavoro gratuito metterà in moto il Capitale e non servirà a tramandare il modo di produzione asiatico !
E questa oscillazione non sarà solo della politica di Pechino, ma dei suoi stessi uomini, ed il Mao del 1953 tutto teso verso l’industria pesante sarà lì a poco il partigiano di quella leggera, dell’agricoltura che marcia allo stesso passo dell’industria, contraddizione non dell’Uomo, di non trascurabile altezza storica, ma proprio del compito a cui si era votato volgendo la schiena alla rivoluzione internazionale e al socialismo:
«Ci sono due tipi di politica di benevolenza: una a favore degli interessi immediati del popolo, una a favore dei suoi interessi a lunga scadenza, ad esempio la resistenza all’aggressione americana e l’aiuto alla Corea, la costruzione dell’industria pesante. La prima è una politica di piccola benevolenza, la seconda è una politica di grande benevolenza (...) Su cosa va messo l’accento ? L’accento va messo sulla grande politica di benevolenza. Adesso l’accento della nostra politica di benevolenza va messo sulla costruzione dell’industria pesante. Per la costruzione ci vogliono fondi. Quindi, le condizioni di vita del popolo devono essere migliorate, ma per il momento non possono essere migliorate molto. In altre parole, non è possibile né trascurare il miglioramento delle condizioni di vita del popolo, né fare troppo in questo campo; né trascurare di prenderlo in considerazione, né prenderlo troppo in considerazione».
Si può leggere nella Prefazione del testo sul “I Piano Quinquennale”: «Lo scopo dell’adozione di una politica positiva di industrializzazione, cioè a dire una politica che accorda la priorità allo sviluppo dell’industria pesante, è di creare una base materiale per rafforzare la nostra difesa nazionale, soddisfare i bisogni del popolo e realizzare la trasformazione socialista della nostra economia nazionale. Per questo, nell’elaborazione del primo piano quinquennale, mettiamo l’accento sulle costruzioni di base dell’industria pesante e concentriamo i nostri sforzi sulla costruzione di 156 imprese al cui progetto ci aiuta l’Unione Sovietica; è su questa base primaria che noi continueremo a utilizzare, limitare e trasformare il settore capitalista dell’economia nazionale per assicurare il consolidamento e l’allargamento progressivo del settore socialista».
Ecco il nodo che si accingevano a sciogliere i pianificatori cinesi: l’impiantarsi di questa base primaria è necessario per «utilizzare, limitare, trasformare» il capitalismo nazionale privato in capitalismo nazionale statale, non dimentichiamo che il PCC stava assolvendo a compiti economici pienamente borghesi; e questo non era problema semplicemente cinese, ma possiamo ben dire che è problema arcireale di tutti i paesi in determinate condizioni di arretratezza economica.
Lo vediamo continuamente con tutti i paesi cosiddetti in via di sviluppo i quali cercano di superare il gap di una struttura industriale ai primi passi e di una arcaica ed arretrata conduzione agricola – sopravvivenze intollerabili di fronte alle condizioni del mercato mondiale a cui volenti o nolenti si devono affacciare, e alla cui pressione non possono sottrarsi – solo statalizzando l’industria sulla base di un suo sviluppo e potenziamento privilegiato rispetto agli altri settori industriali; pena da una parte l’indebitamento cronico con il capitale finanziario internazionale e, dall’altra, la monocoltura agricola ed una fragile struttura industriale.
A scanso di equivoci la “Prefazione al Piano” più in là scandiva: «Il compito fondamentale del primo piano quinquennale è stato stabilito sulla base del compito fondamentale dello Stato nel periodo di transizione. Questo può essere così riassunto: dirigere il nostro sforzo principale sulla costruzione industriale, consistente in 694 imprese sopra la norma (non si trattava soltanto di fabbriche, ma anche di grandi progetti di infrastrutture: la diga di Sanmen sul fiume Giallo e il ponte di Wuhan, ad es.) che hanno per base le 156 imprese al cui progetto ci ha aiutati l’Unione Sovietica al fine di gettare così le basi preliminari dell’industrializzazione socialista della Cina; sviluppare le cooperative agricole di produzione il cui sistema di proprietà è in parte collettivo ed anche le cooperative artigiane di produzione, al fine di gettare le basi preliminari della trasformazione socialista dell’agricoltura e dell’artigianato; per l’essenziale fare entrare l’industria e il commercio capitalistici nelle differenti forme del capitalismo di Stato, per gettare le basi delle trasformazioni socialiste dell’industria e del commercio».
Gli anni trascorsi da allora sono ben ventisei, e se lo sforzo imperioso è riuscito nei confronti di una industria oggi totalmente statale, un mezzo fallimento si è avuto in agricoltura dove il sistema in parte collettivo, dopo aver mostrato un’enorme inerzia storica già in Russia, è adesso scalfito nelle sue posizioni non dalla proprietà statale ma da quella privata, giusta la formula marxista che conta il godimento, la conduzione economica e non la proprietà giuridica.
Ma se in tal caso l’inanità piccolo borghese si rivela nei confronti delle prospettive maoiste in campo agricolo (più in là vedremo il grande arretramento produttivo che seguirà il “Balzo in avanti”), non possiamo misurare i piani quinquennali cinesi con metro socialista, nel socialismo non si avranno piani produttivi calcolati sulla base di valori, ma con un metro capitalista per cui la Cina di Mao e Liu è costretta ad impiegare tutte le sue risorse deboli, come capitali, ma immense da un punto di vista umano, per lo sviluppo della grande industria.
Tale compito non si deve etichettare semplicemente come modello “russo” ricordando i piani quinquennali stalinisti; più giustamente si deve dire che è modello borghese, che assolvendo a tali compiti getta le basi per un forte Stato nazionale, che altra cosa è il socialismo, compito internazionale. Questo non intese l’Opposizione Russa prima propugnatrice di industrializzazioni forzate, questo non intendono i critici ed i sinologi di oggi come di ieri.
Il primo piano quinquennale prevedeva: «Il valore della produzione industriale passerà da 27.010 milioni di yuan del 1952 ai 53.560 milioni di yuan del 1957»; l’aumento del quinquennio sarebbe stato del 98,3% con un incremento medio annuo del 14,67%. Fu raggiunto invece il traguardo di 65.000 milioni di yuan con un aumento totale del 140,7% ed un incremento medio annuo del 19,2%. Le previsioni del piano furono sorpassate del 21,3%.
Un’andatura senz’altro veloce che risaltava ancor più nei confronti con gli altri paesi: da quelli di vecchio capitalismo tipo l’Inghilterra – uscita vincitrice dal secondo macello – e che si attestava in quegli anni su un aumento annuo modesto di circa il 5%; a quelli di giovane capitalismo tipo Russia vincitrice con immense perdite umane e grande razziatrice di impianti in Europa ed in Manciuria – e Giappone – sconfitto ma con ben altre risorse di capitali ambedue in rapida ascesa con aumenti medi annui del 17-18%. Anche il raffronto con il primo cinquantennio del novecento è a tutto vantaggio del primo piano quinquennale: le imperfettissime statistiche danno un aumento medio annuo dal 1912 al 1949 del 5,5%, e del 9,2% nei tredici anni dal 1937 al 1949, dati ben inferiori al 19,2% ottenuto dal 1952 al 1957.
Nel settore agricolo si prevedeva invece di raggiungere la somma di 59.660 milioni di yuan con un aumento del 23,3% rispetto al 1952 anno di partenza (48.400 milioni di yuan); l’incremento medio annuo sarebbe stato del 4,3%, ben inferiore alla crescita industriale, ma pure il doppio dell’aumento della popolazione.
Fu raggiunto invece 60.300 milioni di yuan, aumento nel quinquennio del 24,58%, incremento medio annuo del 4,49%; il piano fu superato dell’1%.
In particolare, gli obbiettivi del piano furono raggiunti o superati per i cereali ed il cotone (prodotti principali), ma non raggiunti per le fave, le arachidi, la colza, la iuta, la canapa e, a parte i maiali, per l’intero patrimonio zootecnico il quale fece le spese della collettivizzazione.
Industria a grande carriera quindi, rincorsa da un’agricoltura a passo di lumaca, come fu notato nel capitoletto n.16 quando esponemmo dati economici già significativi.
Uguale il commento, che è bene ribadire: la stessa esotica
Cina deve
sottostare al dettame della civiltà mercantile borghese mille
volte
descritto dalla scuola marxista, cioè di dotare il genere umano
di molto
ferro e poco pane, fatto che di per sé è
esplicita confessione
di reo capitalismo.
Ripartizione delle Produzioni | |||||||||||||
|
Totale | Agricoltura | Industria | Artigianato | Industria | % sul Totale | % su Totale Industria | ||||||
Moderna | Beni di | Agricoltura | Industria | Artigianato | Industria moderna | Beni di consumo | Beni di produzione | ||||||
Consumo | Produzione | ||||||||||||
Miliardi di yuan | |||||||||||||
1949 |
46,6 | 32,6 | 14,02 | 3,2 | 7,91 | 3,73 | 10,29 | 69,9 | 30,1 | 22,8 | 56,4 | 73,4 | 26,6 |
1950 | 57,5 | 38,4 | 19,12 | 5,1 | 10,86 | 5,65 | 13,47 | 66,7 | 33,3 | 26,7 | 56,9 | 70,4 | 29,6 |
1951 | 68,4 | 42,5 | 26,35 | 6,1 | 15,91 | 8,50 | 17,85 | 61,4 | 38,6 | 23,1 | 60,4 | 67,8 | 32,2 |
1952 | 82,7 | 48,4 | 34,33 | 7,3 | 22,05 | 12,22 | 22,11 | 58,5 | 41,5 | 21,3 | 64,2 | 64,4 | 35,6 |
1953 | 94,6 | 49,9 | 44,70 | 9,1 | 28,81 | 16,68 | 28,02 | 52,8 | 47,2 | 20,3 | 64,5 | 62,7 | 37,2 |
1954 | 103,5 | 51,6 | 51,97 | 10,5 | 33,98 | 19,99 | 31,98 | 49,8 | 50,2 | 20,2 | 65,4 | 61,5 | 38,5 |
1955 | 110,4 | 55,5 | 54,87 | 10,1 | 37,08 | 22,89 | 31,98 | 50,3 | 49,7 | 18,4 | 67,6 | 58,3 | 41,7 |
1956 | 128,7 | 58,3 | 70,36 | 11,7 | 50,34 | 32,04 | 38,32 | 45,3 | 54,7 | 16,6 | 71,6 | 54,3 | 45,7 |
1957 | 138,7 | 60,3 | 78,39 | 13,4 | 55,63 | 37,94 | 40,45 | 43,5 | 56,5 | 17,1 | 70,9 | 51,6 | 48,4 |
La prima tabella che abbiamo preparato mostra nel dettaglio, anno per anno, il procedere della produzione nei vari settori, dalla produzione totale alle differenti produzioni industriali. Come si può osservare poi dalla lettura delle colonne dall’8 al 13 si ha una rapida industrializzazione ed ammodernamento del settore industriale – industria moderna e beni di produzione.
Pochi dati: la produzione industriale è sulla totale il 30,1% nel 1949, passa al 41,5% nel 1952 e si attesta al 56,5% nel 1957; la produzione dell’industria moderna, ossia dotata di macchine azionate da energia meccanica, progredisce tanto che è il 56,4% della produzione industriale nel 1949. il 64,2% nel 1952 ed il 70,9% nel 1957; sempre per i tre anni e sempre riguardo la produzione industriale abbiamo per la produzione dei beni di produzione: 26,6%, 35,6% e 48,4%.
Come si può vedere infatti dalla tabella che presenta gli aumenti percentuali medi annui nei periodi 1949-52 e 1952-57, la produzione agricola, la produzione artigiana, la produzione dei beni di consumo, presentano dei ritmi di incremento notevolmente più scarsi dalle altre produzioni.
Nella tabella si sono riportate anche le percentuali medie di crescita annua della popolazione, quella totale, quella urbana e rurale, ed infine la crescita dei salari di operai ed impiegati e del reddito dei contadini. Premettiamo che anche queste statistiche sono molto imprecise, se possibile più delle altre, ma a noi servono per dipanare le tendenze dell’economia cinese, cioè per determinare i caratteri di classe di una rivoluzione, di un partito, di un governo, unicamente affidandoci ai dati economici e sodali, al carattere del trapasso a cui si lavora, non alle opinioni, alle intenzioni e alle tendenze spirituali dei componenti il governo.
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Gli incrementi di salari e redditi contadini sono di gran lunga inferiori agli incrementi produttivi industriali, pure dei beni di consumo; ancora più inferiori i ritmi di aumento della popolazione; bassi pure i ritmi di aumento della produzione agricola tanto che questa non riesce a tenere il passo della popolazione urbana nel periodo 1952-57. Ma le cifre brute se ben collocate mostrano a chiare lettere la legge della riproduzione capitalistica, e secondo tale legge i piani debbono accrescere la produzione di beni strumentali di produzione, accrescere l’esercito proletario che li mette in moto e quindi li “consuma”, accrescere l’intensità del lavoro per riiniziare un nuovo ciclo di accumulazione e riproduzione progressiva del capitale a ritmo infernale, scandito dal procedere dei ritmi di incremento.
Per l’immensa Cina dalle sconfinate province questa esaltazione delle forze produttive è necessaria, rivoluzionaria, ma va etichettata giustamente come capitalismo, perché il socialismo si scorge quando il settore dei beni di consumo batterà quello della sezione dei beni di produzione, quando la produzione agricola pareggerà con quella industriale, quando la crescita dei salari potrà beneficiare interamente dell’aumento delle forze produttive proprio per la rottura dell’esosa riproduzione capitalistica !
Il quadro d’insieme che abbiamo quindi descritto è di un giovane capitalismo, il quale fiduciosamente spicca il volo e si attrezza alla bisogna; non è un caso che la stessa ultima risoluzione del Comitato Centrale del PCC su “Qualche questione della storia del PCC” considera gli otto anni dal 1949 al 1957, come il periodo dell’oro, di felici e metodici passi in avanti, unico periodo della Storia della Repubblica Popolare in cui non vengono mosse critiche all’operato del Grande Timoniere la cui stella raggiunse allora il culmine, proprio come la cadenza delle produzioni e dei record produttivi, stella e record che si offuscheranno di lì a poco.
E sarà la produzione agricola il problema che angoscerà i dirigenti cinesi, mettendo a repentaglio la loro reputazione. La produzione agricola, seppur in vantaggio sul piano riesce a malapena a mantenere un leggero vantaggio sulla espansione demografica, anche se già la popolazione urbana presenta un ritmo di crescita più alto.
Rimane il fatto che i raccolti hanno conosciuto, pure nel quinquennio, evidenti fluttuazioni in ragione delle condizioni atmosferiche, ed è qui il grosso nodo da sciogliere: l’aumento necessario della cadenza della produzione industriale esige manifestamente una produzione agricola accresciuta.
L’imperativo: Tutto per l’industrializzazione si dovette affermare nella stessa ripartizione degli investimenti occorrenti all’accrescimento del capitale fisso.
Li Fuzhun nel presentare il primo piano quinquennale indicherà che la cifra globale delle spese per lo sviluppo dell’economia, della cultura e dell’educazione sarebbe stata 76.640 milioni di yuan; di tale somma il 55,8%, cioè 42.740 milioni di yuan ripartiti fra i vari Dipartimenti economici, sarebbe servito per l’accrescimento del capitale fisso, mentre il rimanente comprendeva le normali spese di bilancio.
Rispetto all’intero reddito nazionale si trattava di somme notevoli, tanto che lo stesso Li Fuzhun dichiarerà che il 22,6% di questo avrebbe rappresentato la parte accumulata; recenti comunicazioni statistiche danno per il quinquennio 24,2% e confermano che la “quota consumi” ebbe una costante discesa durante tutto il primo piano.
L’industria riceverà dei 42.740 milioni di yuan ben 24.850 cioè il 58,2%. È indubbiamente il settore favorito, e favorito fra i favoriti è il settore dell’industria pesante: «Le industrie produttrici di mezzi di produzione riceveranno l’88,8% degli investimenti riservati all’industria, le industrie produttrici di beni di consumo ne riceveranno l’11,2%».
Tale forte differenza fra gli investimenti riservati all’industria pesante e all’industria leggera era determinata oltre che dalla preoccupazione costante dei pianificatori di Pechino di dotare la Repubblica di una struttura produttiva autonoma e nazionale, anche dal tentativo di spostare verso l’interno, ricco di materie prime, importanti strutture industriali tanto che fu allora iniziata la creazione di nuovi centri industriali e proletari non costieri, a Taiyuan, Lanzhou, Baotou, Luoyang e Xi’an.
Il primo piano quinquennale prescriveva: «(è necessaria una politica mirante ad) insediare convenientemente nuove industrie in diverse parti del paese, per far si che la produzione industriale sia vicina alle fonti di materie prime e di combustibile, così come ai mercati di consumo».
È qui che risalta nuovamente la funzione del CC come anonimo agente dell’accumulazione capitalistica e come questa sottometta partiti e governo.
Infatti questa ripartizione settoriale e geografica degli investimenti seppur funzionale al destino di una futura grande Cina, comportava iniziali costi negativi, proprio perché lo Stato si assumeva l’onere di grossi investimenti che solo dopo anni avrebbero riportato profitti nelle sue casse, per anni rimpinguate solamente dai traffici di Canton e dalle industrie di Shanghai e della Manciuria.
Era qui la quadratura del cerchio, infatti la creazione di nuove industrie poteva aversi solo se, contemporaneamente all’afflusso di “aiuti” russi, le industrie esistenti utilizzavano pienamente e in maniera razionale le proprie capacità produttive.
Le industrie esistenti erano in gran parte di industria leggera, i prodotti di questa alimentavano insieme alle materie prime e ai prodotti agricoli le esportazioni di merci; essendo in buona parte industrie tessili la loro capacità produttiva dipendeva in ultima analisi dallo sviluppo produttivo agricolo, ed erano qui le dolenti note.
Li Fuzhun, capo del piano, deve esclamare presentando la sua relazione all’Assemblea Nazionale: «Il nostro compito è di arrivare ad una corretta ripartizione degli investimenti tra le grandi, medie e piccole imprese nel corso della costruzione industriale, assicurando nel contempo il coordinamento ed il reciproco sostegno tra le diverse vie di costruzione, in modo da garantire non solo la realizzazione degli indispensabili progetti prioritari, ma anche la rapida remunerazione degli investimenti. Molte imprese piccole e medie si possono costituire in breve tempo, diventando presto remunerative e ampliando le nostre capacità produttive. Non solo esse esercitano un ruolo importante contribuendo ad aumentare le scorte dei prodotti industriali e a sostenere la produzione agricola, ma costituiscono anche un fattore indispensabile dell’incremento dell’accumulazione di fondi necessari per finanziare i grandi progetti prioritari».
La citazione di Li Fuzhun ci porta ad altre decisive riflessioni: Li non descrive il socialismo, come non lo potrà fare Mao stabilendo le armonie dei “dieci grandi rapporti”, ma neanche un completo capitalismo di Stato, ossia un’economia in cui, pur sussistendo una circolazione monetaria delle merci, ogni prodotto è a disposizione dello Stato centrale che può a sua volta fissare tutti i rapporti di equivalenza cioè i prezzi e i salari.
L’agricoltura – dice Li – deve essere sostenuta dalla produzione dell’industria leggera la quale deve assicurarle prodotti a buon mercato ed in quantità necessarie; ma tale è il modo in cui il regime borghese liberale ha sempre presentato la risoluzione della questione agraria, dell’industrializzazione e proletarizzazione, da sempre propugnatore di far bene lo scambio fra prodotti della terra e prodotti dell’industria, l’aumento della produzione dei quali sostiene lo scambio con i secondi.
Solo se il giro si conclude lo Stato può incassare le “remunerazioni” degli investimenti, ma questa conclusione anticipava il reale problema di una società che doveva prima di tutto risolvere il problema della costituzione di un surplus agricolo, per giungere da qui al traguardo di una “efficace ripartizione degli investimenti”. Surplus agricolo – rifornimento di derrate per la crescente popolazione – sostegno finanziario all’importazione dei mezzi di produzione.
Solo poi si poteva dotare di macchine e concimi l’agricoltura, e nel frattempo le strade erano due: o quella del gioco dei “prezzi” in modo che spontaneamente si realizzasse nelle campagne un processo di formazione di capitale e di proletarizzazione, o quella dell’imponente mobilitazione delle masse in funzione di un aumento delle produzioni e, pertanto, della rendita dello Stato, il quale, in tal modo avrebbe potuto procedere alla voluta, da tutti, industrializzazione.
Un’ultima rimessa in riga: è falso che solo Mao fosse per uno sviluppo equilibrato dell’economia, come si è poi propagandato negli sciocchi circoli filo-cinesi, tale preoccupazione era di Li Fuzhun come di Liu, questo per verità storica.
Il fatto era, ed è, che i piani quinquennali non si scontravano solamente con i ritmi di sviluppo dei vari settori produttivi: dietro le cifre stavano masse enormi di uomini; la meccanizzazione dell’agricoltura – di cui tutti sono partigiani – proletarizza col suo procedere masse sterminate che, nei limiti della economia capitalistica, sono inurbate e abbisognerebbero di una enorme crescita industriale, di un’incredibile struttura urbana.
Altrimenti si avrà l’inurbamento di disoccupati, nuova penuria alimentare, inedia, e già nel biennio 1956-57 nelle città cinesi ricominciarono ad apparire questi fenomeni.
Dopo quindi un breve periodo di “ricostruzione”, lo Stato cinese si scontra con questi formidabili problemi, e tenterà di dargli una “soluzione” nazionale-borghese, tanto che i vari leader, proponendo indirizzi diversi, si ispireranno tutti allo stesso identico principio: come accelerare l’industrializzazione del paese senza comprometterne l’indipendenza nazionale ?
Il mercato mondiale pure da un punto di vista borghese, è sbarrato, chiuso; il mercato dei “paesi socialisti”, è tutt’altro che un mercato fratello e generoso.
Rimessasi in piedi la Cina borghese dovrà, in mancanza di capitali e in mancanza di un mercato disposto a prestarglieli in condizioni non esose, rifare un nuovo appello al suo unico capitale di cui era fornitissima: il capitale-uomo !
Il balzo in avanti è lì a venire.
Abbiamo anticipato, presentando dati sul valore delle produzioni e delle esportazioni, le contraddizioni che lo sviluppo economico, imperioso in tutto il quinquennio 1953-57, stava maturando insieme agli antagonismi sociali che si manifestavano proprio alimentati dal procedere della macchina economica rimessasi in piedi.
Il ritornare a ridare nuovi dati sulla esecuzione del primo piano quinquennale, può quindi sembrare un arretramento nello svolgimento del tema, sintetizzato dal titolo della serie, e già cresciuto rispetto alle intenzioni iniziali.
Questo periodico “tornare indietro” della trattazione è indispensabile, perché solo fissando in maniera indiscutibile i dati fisici reali dell’ambiente e della stessa attività produttiva, la teoria marxista può spiegare e comprendere gli avvenimenti che si svolgono in maniera apparentemente caotica e casuale, rintracciando in questi il filo conduttore che li lega e li domina; che altrimenti rimane solo il ricorso alla mitologia, agli aneddoti, alla forza delle “idee e degli uomini” che pretendono così di piegare al loro volere gli avvenimenti, anziché essere solo risultato dei sommovimenti svolgentisi nell’ambito della struttura economica e sociale.
Sommovimenti che vedono masse enormi di uomini e classi e partiti lottanti fra loro, in condizioni materiali date risultato di tutto un procedere storico che rifugge le facili e fallaci ubbie dell’attualismo e dell’uomo di genio.
I due quadri preparati sono rispettivamente quello degli incrementi medi annui nei periodi 1949-52 e 1953-57 dei principali prodotti industriali ed agricoli (cereali e cotone), raffronto riguardante solo la Cina, quadro parzialmente esposto nel numero di novembre, e quello raffigurante un confronto fra la Cina ed altri sei Stati (i principali paesi capitalistici più Italia e India), quanto a disponibilità assoluta e pro-capite di buona parte dei prodotti industriali del primo quadro.
Dalla prima tabella risulta evidente come l’intera economia cinese rallenta nel periodo 1953-57, rispetto al triennio 1949-52 che vantava eccezionali incrementi medi annui, dipendenti però dal crollo economico avutosi negli anni di guerra civile precedenti la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese.
[ Quadro delle principali Produzioni 1949-77 ]
Un primo commento; uguale tendenza del ritmo incrementale annuo medio si ha pure per le economie occidentali, alle prese in quegli anni con la loro ricostruzione post-bellica, ricostruzione che batté ogni record in ogni angolo del mondo dichiaratamente borghese, esattamente come nella socialista Cina.
Dato quindi il 1952 come anno di partenza della macchina produttiva cinese che ritorna ad esercitare le sue massime capacità produttive, è il quinquennio a seguire che solo dà la misura dello sforzo produttivo dei proletari cinesi le cui braccia mettono in moto e dirigono mezzi produttivi che dominano il loro destino.
Altra considerazione, già altre volte esposta e commentata: si ribadisce che l’agricoltura, rappresentata in questo confronto dai suoi principali prodotti quali cereali e cotone, non regge la misurazione con l’industria, beneficiante della gran parte degli investimenti statali di capitale. Confesso capitalismo, abbiamo sentenziato nel numero precedente commentando dati statistici diversi ma di uguale lettura !
Riguardo agli incrementi medi annui abbiamo che l’acciaio si distacca da tutti gli altri prodotti con un ottimo 31,7% annuo, dato però ben inferiore al massimo del triennio precedente:104,4%; dati che rivelano lo sforzo innegabile di Pechino per attrezzare capitalisticamente l’immenso paese. L’acciaio è seguito dai fertilizzanti azotati, dal petrolio, dall’acido solforico, dalla ghisa e dall’energia elettrica tutti prodotti con un incremento medio annuo superiore al 20%. Un’eccezione per l’energia elettrica; l’incremento medio annuo del periodo 1953-57 è superiore a quello del periodo 1949-52, 21,6% contro il 19,0%, eccezione spiegabile dal fatto che questa produzione aveva risentito molto meno delle altre del procedere della guerra civile.
Proseguendo, poco distante si ha il 19,1% del cemento, poi le macchine utensili ed il carbone; ancora più indietro i filati di cotone con un mediocre 5,6% dipendente in gran parte dalle scarse forniture di materia prima, infatti la produzione di cotone grezzo è ferma al 4,2% l’anno. Ancora più indietro i cereali, ultimi con il 3,6% annuo.
Dati questi ultimi modesti, considerando il giovanile slancio del regime di Pechino ai suoi primi passi nell’agone capitalistico. Oggi, dopo un quarto di secolo, la putrescente struttura produttiva capitalistica mondiale ambirebbe ad un “quinquennio” con incrementi annui di quell’ordine, anziché con le inabissate e le impennate odierne. Il che più che lode per la Cina di ieri, è vergogna per l’oggi capitalistico, strozzato dalle sue crisi non di sottoproduzione, ma di sovrapproduzione di merci.
Il secondo quadro oltre a presentare un raffronto internazionale, “misura” lo slancio produttivo cinese ed il suo “tasso” di capitalismo attraverso le cifre della disponibilità pro-capite di kg. di acciaio e di altri prodotti, quantità e kg. usati in gran parte in verità per la riproduzione del capitale fisso e dei mezzi di produzione consumati ed accumulati nel processo produttivo, non certo per beni di consumo dal proletario Chang di Shanghai o dall’Ivan di Mosca, come di nessun altro lavoratore di una qualsiasi metropoli capitalistica.
Evidentemente, proprio perché la disponibilità pro-capite, dipende sia dalla produzione assoluta del prodotto, sia dalla popolazione, con tali dati risalta maggiormente il “ritardo” cinese rispetto ai cinque paesi capitalistici sviluppati presi come paragoni.
- ACCIAIO
La Cina è 16° produttore mondiale nel 1952, passa al 9° posto nel 1957, anno in cui è sopravanzata solo da USA, Russia, RFT, Inghilterra, Francia, Giappone, Italia e Belgio. Il miglioramento assoluto non è di poco conto, tanto che la crescita media annua del 31,7% dell’acciaio cinese è primato mondiale in quel quinquennio. Solo Italia e Giappone possono presentare (dei paesi presi in esame) un incremento superiore alla decina nell’intero quinquennio; vantano rispettivamente il 13,9% ed il 12,4% annuo, tassi ben superiori a quelli degli altri Stati. Gli USA sono solo al 3,8%, la Russia si attesta all’8,2%, poco avanti la RFT con l’8,4%, scarsa l’India con l’1,7%.
Dolenti note invece riguardo le disponibilità pro-capite, infatti la Cina con i suoi 8,3 kg. di acciaio a testa raggiunge e doppia solo la squinternata India, mentre tutti gli altri paesi si mantengono lontani mille anni luce, a partire dall’Italia avvicinata come produzione assoluta ma ancora 17 volte avanti quanto a disponibilità a testa.
- GHISA
La Cina è 11° produttore mondiale nel 1952, migliora di 4 posizioni e passa, nel 1957, al 7° posto.
Come per l’acciaio la Cina presenta un tasso di incremento annuo ben superiore a tutti gli altri Stati, il 25,2% l’anno; sono ancora solo il Giappone e l’Italia a superare la decina come tasso di incremento, il primo vantando il 14,75% annuo e la seconda il 12,9%. Gli USA si fermano al 5% annuo, la Russia è al 6,9%, la RFT al 7,8%, l’India segna il passo con un impercettibile 0,59%. Inghilterra e Francia nel 1957 rispettivamente 4° e 5° produttore mondiale con 14,5 e 12,1 mil. di tonnellate di ghisa non escono dall’anonimato e pure loro presentano un tasso annuo – del 5,8% e del 4,1% – in chiave con gli altri paesi capitalistici.
Quanto a disponibilità pro-capite, ancora nettissimo il ritardo cinese rispetto agli altri paesi, esclusi ancora una volta l’India. I 9,2 kg. dei cinesi superano la disponibilità indiana, persino in regresso rispetto a cinque anni prima, ma sono niente in confronto a quella degli altri Stati. Pure l’Italietta, con una produzione assoluta un terzo di quella cinese, può vantarsi di una rivincita netta riguardo la proporzione produzione-popolazione, e ai 9,2 kg. cinesi oppone i suoi 45,5 kg.
- CARBONE
Il carbone è tradizionale ricchezza cinese, infatti la Cina, 7° produttore nel 1952, passa al 5° posto nel 1957, sovravanzata solo dagli USA, dalla Russia, dall’Inghilterra e dalla RFT. Ma la Cina fa sfoggio di un incremento medio annuo del 14,4%, che fa impallidire l’8,8% della Russia, 1,3% della RFT e l’impercettibile 0,43% degli USA, mentre l’Inghilterra persino decresce dello 0,26% annuo. Il Giappone presenta un tasso medio del 3,59%, l’India del 3,68%, mentre l’Italietta sta dando sotto al carbone sardo la cui estrazione diminuisce dell’1,2% l’anno.
Naturalmente la popolazione fa valere il solito handicap: la disponibilità pro-capite di RFT, USA e Russia sono di gran lunga maggiori di quella cinese che pure passa dai 115,5 kg. del 1952 ai 201,1 kg. del 1957, ancora lontani dai 2.930 kg. della RFT, dai 2.728,7 kg. degli USA in ritirata rispetto a cinque anni prima, e dai 1.603,2 kg. della Russia. Pure il Giappone può vantare una disponibilità pro-capite maggiore di quella cinese con i suoi 567,1 kg.
- ENERGIA ELETTRICA
La produzione dell’energia elettrica, oltre ad essere essenziale per l’intera produzione industriale ed agricola, è ottima misurazione del livello raggiunto dalle forze produttive di un determinato Stato, infatti è qui che si rivelano in maniera cristallina le difficoltà della economia cinese.
La Cina è 22° produttore nel 1952 e 13° nel 1957 rimontando così 9 posti. Il suo incremento medio annuo è per l’ennesima volta record: il 21,6% l’anno contro il 17,3% dell’India, l’11,6% della Russia, il 10,18% della RFT, il 9,49% del Giappone, il 9,1% degli USA ed il 6,7% dell’Italia, ma come disponibilità pro-capite la Cina non riesce nemmeno a superare l’India, 29,9 kwh contro 35,05 kwh.
Quanto agli altri paesi la Russia vanta 1.008 kwh pro-capite, gli USA 4.180, l’RFT sono a 1.819, il Giappone a 894, l’Italia a 881.
Il ritardo cinese è nettissimo, di gran lunga maggiore anche rispetto agli altri prodotti, e peserà sull’intera economia.
La Cina ricca di materie prime come pochi al mondo, ricca di uomini come nessun altro, non ha né strade, né ferrovie. né energia elettrica, ma come meravigliarsi allora che, dopo il connubio Pechino-Mosca, l’immenso Stato asiatico si sia rifugiato nell’autarchia, nel “fate da voi le vostre macchine», come meravigliarsi se gran parte degli scontri politici all’interno del PCC si svolgevano sulla diatriba fra “centralismo” e “decentralismo”.
Altro che socialismo, riassunto da Lenin nella formula di propaganda come uguale ai Soviet più l’elettrificazione, siamo in presenza di un giovane capitalismo che tra mille impedimenti non getta che le basi del proprio modo di produzione !
- CEMENTO
Decimo produttore mondiale nel 1952, la Cina passa all’ottavo posto nel 1957. Pure questa volta l’incremento medio annuo della Cina è il maggiore: 19,1% l’anno, ma questa volta il Giappone (16,3%) e la Russia (15,7%) sono abbastanza vicine. L’Italia ha un discreto 11,59%, l’India cresce del 9,6% l’anno, la RFT presenta l’8,7%, mentre gli USA che guardano tutti dall’alto dei 52 mil. di tonnellate, si attestano al 4,39%.
Anche in questo caso la disponibilità pro-capite della Cina è inferiore a quella degli altri sei paesi fra i quali fa spicco il dato dell’Italia 246,5 kg. di cemento superati solo dai 372,3 kg. della RFT e dai 306,8 kg. degli USA. Miracoli della ricostruzione, evidentemente, a scorno di tutti i pelandroni che si lamentano dell’arretratezza dello Stato di Roma !
- ACIDO SOLFORICO
Prodotto base dell’industria chimica, l’acido solforico è poi essenziale per la produzione dei concimi chimici.
La Cina è 15° produttore mondiale nel 1952, passa al 12° nel 1957. La crescita di questa produzione è ottima per tutto il quinquennio, con la media di 27,2% l’anno. Solo l’India (15,2%) e la Russia (11,4%) superano la decina come percentuale di aumento annuo. Infatti gli USA si mantengono sul 4,3% l’anno, il Giappone e la RFT si attestano su un buon 9,4% l’anno e l’Italia presenta un discreto 6,5% annuo.
Come disponibilità pro-capite il quadro, per la Cina, è meno roseo: l’immenso paese per l’80% agricolo, non dispone nemmeno di un kg. pro-capite di acido solforico, dato che inchioda l’agricoltura cinese a reggersi, come millenni fa, sui concimi naturali, il letame. Condanna per un’agricoltura costretta, per il grande spezzettamento fondiario conseguenza di un eccesso di popolazione secondo la disponibilità di terre coltivabili, alla cultura intensiva, dato quest’ultimo che ci riporta al difficile rapporto fra i due settori: quello agricolo e quello industriale, sul quale già ci siamo soffermati e ci soffermeremo.
I dati precedentemente esposti, presentano una Cina in rapida ascesa come potenza industriale internazionale, ma, come abbiamo avvertito nel numero di aprile e di dicembre 1981, le dimensioni territoriali ed umane della giovane repubblica sono così immense che altri dati hanno un terribile peso.
Lo abbiamo già scritto: i ritmi di incremento si scontrano con masse enormi di uomini, con lo sconfinato ed inerte mondo contadino, che subisce negli anni 1949-57 continue e decise scosse e lacerazioni, con una conseguente ed ennesima ondata di inurbamento delle città industriali e di quelle costiere.
Per questo abbiamo oltre modo apprezzato e messo in risalto altri dati statistici: la disponibilità annua pro-capite di cereali, scarsa e soprattutto sottoposta ai voleri atmosferici (285 kg. pro-capite di cereali nel 1952, 283 kg. nel 1953, 282 kg. nel 1954, 299 kg. nel 1955, 307 kg. nel 1956 e 302 kg. nel 1957); e la differenza fra l’indice generale dei prezzi al dettaglio e quello dei prodotti industriali venduti nelle campagne, differenza spia della rarefazione dei prodotti alimentari causa la bassa produttività agricola e la crescita della popolazione urbana. Dati questi ultimi che ci presentano di botto la difficile questione sociale che i dirigenti di Pechino cercavano di ammaestrare.
Abbiamo quindi preparato una tabella che presenta, oltre ai dati delle produzioni industriali ed agricole e del commercio, anche quelli della popolazione rurale ed urbana e degli operai ed impiegati.
Come possiamo vedere, la colonna dei valori assoluti è accompagnata da quella dell’incremento rispetto all’anno precedente, e sarà su questi incrementi che ci soffermeremo.
Già Li Fuzhun dirà all’VIII Congresso del PCC nel settembre 1956: «La nostra industria non è ancora molto sviluppata, la base della nostra industria è fragile, e un buono o cattivo raccolto ha un’immediata ripercussione sullo sviluppo della nostra economia nazionale».
Vediamo infatti di allineare gli “incrementi” fra di loro e vedremo come il fattore endogeno – la bontà o meno di un raccolto – e quello esterno – l’affluire degli aiuti russi – determineranno gli altri incrementi.
Il 14 febbraio 1950, Mosca accorda un credito a lungo termine di 300 milioni di dollari a Pechino; i raccolti degli anni 1950, 1951 e 1952 sono ottimi nonostante sia ancora in piena attuazione la Riforma Agraria: la produzione agricola balza del 17,8%, del 9,5% e del 15,1%. Queste tre annate di buoni raccolti “finanziano” l’imperiosa crescita industriale fino all’anno 1953, con incrementi annui tutti superiori al 30%. Tale crescita ha naturalmente bisogno di braccia, ed infatti gli operai e gli impiegati crescono con un ritmo superiore al 20% l’anno, escluso il 1953 che pure presenta un ottimo 15,6%. Per quanto riguarda il commercio, nel 1951 cresce di ben il 43,2% rispetto all’anno precedente, mentre la flessione agricola del 1951 lo fa rallentare l’anno seguente: solo più 8,6%, con una immediata risalita l’anno seguente, ben +25,2% determinato in buona parte dal +15,1% della produzione agricola.
Produzione agricola | Produzione industriale | Commercio Export. +Import. |
Popolazione rurale | Popolazione urbana | Operai ed impiegati | |||||||
Mld yuan |
Incr. % annuo |
Mld yuan |
Incr. % annuo |
Mld yuan | Incr. % annuo |
mili- oni |
Incr. % annuo |
mili- oni |
Incr. % annuo |
mili- oni |
Incr. % annuo |
|
1949 | 32,6 | - | 14,02 | - | - | - | 484,0 | - | 57,7 | - | 8,00 | - |
1950 | 38,4 | 17,79 | 19,12 | 36,37 | 4,15 | - | 490,3 | 1,3 | 61,7 | 6,93 | 10,24 | 28,0 |
1951 | 42,0 | 9,50 | 26,35 | 37,81 | 5,95 | 43,2 | 496,7 | 1,3 | 66,3 | 7,45 | 12,81 | 25,9 |
1952 | 48,4 | 15,10 | 34,33 | 30,28 | 6,46 | 8,6 | 503,2 | 1,3 | 71,6 | 7,99 | 15,80 | 23,3 |
1953 | 49,4 | 2,06 | 44,70 | 30,20 | 8,09 | 25,2 | 510,3 | 1,41 | 77,7 | 8,51 | 18,26 | 15,6 |
1954 | 51,6 | 4,45 | 51,97 | 16,26 | 8,47 | 4,7 | 520,3 | 1,95 | 81,5 | 4,89 | 18,81 | 3,0 |
1955 | 55,5 | 7,55 | 54,87 | 5,58 | 10,98 | 29,6 | 531,8 | 2,21 | 82,8 | 1,59 | 19,08 | 1,4 |
1956 | 58,3 | 5,04 | 70,36 | 28,23 | 10,87 | -1,1 | 538,6 | 1,27 | 89,2 | 7,72 | 24,23 | 27,0 |
1957 | 60,3 | 3,43 | 78,39 | 11,36 | 10,45 | -3,8 | 554,5 | 2,95 | 92,0 | 3,13 | 24,51 | 1,1 |
Il 1953 ed il 1954 sono due annate di cattivi raccolti, determinate dalle intemperie atmosferiche e, come noterà successivamente Li Fuzhun, questo influirà immediatamente sul commercio, sull’industria e sul numero degli operai. Il 1954 vede infatti una contrazione evidente nella crescita del commercio che può vantare solo un +4,7% rallentamento che si ripercuote immediatamente sull’industria (commercio - macchinari moderni) già in difficoltà per il rifornimento di materie prime, specialmente agricole. Dal 30,2% del 1953, l’industria passa al 16,3% del 1954, proseguendo poi la frenata con il 5,6% del 1955. Uguale tendenza si manifesta nell’incremento degli operai ed impiegati, come si può leggere nell’ultima colonna.
Il 1955 è invece un anno di buon raccolto ed è quindi anno del lancio della cooperativizzazione; è anno del secondo grande aiuto russo e di definizione del primo piano quinquennale. Queste favorevoli concordanze determinano una subitanea crescita del commercio: +29,6% rispetto al 1954. Di conseguenza l’anno successivo si registra un vero e proprio piccolo “balzo in avanti» della produzione industriale (+28,2%), degli operai (+27%) e della popolazione urbana (+7,7%).
Ma il raccolto scarso del 1956 e quello cattivo del 1957 vanificano lo sforzo. Rispetto all’anno record del 1955, il commercio subisce una vera regressione sia nel 1956 che nel 1957, prima ma significativa apparizione di segni negativi. Il 1957 è anno infatti di netto rallentamento della produzione industriale, e se la spirale non si fosse interrotta, il procedere sarebbe stato ancora peggiore nell’anno seguente 1958 quando si sarebbero pienamente avvertite le conseguenze del cattivo raccolto di quell’anno decisivo.
Ora, questi dati esposti concordano perfettamente con le considerazioni via via svolte sulla drammatica partita che lo Stato cinese ha giocato nel biennio 1956-57, quando gli antagonismi sociali, suscitati ed alimentati dal procedere economico, minacciavano l’intero edificio statale che verrà scosso di lì a poco fino alle sue fondamenta. Anche se tuttora non ci è dato di fissare in maniera indiscutibile l’intensità di tali scosse, è certo che la crisi precedente e susseguente i “Cento fiori” sarà la tomba dello Stato di Nuova Democrazia con la sua pretesa di conciliare gli interessi di quattro classi, oggettivamente discordanti !
Tale scomparsa sarà accompagnata da un’altra: si rivelerà fallace la pretesa dei dirigenti di Pechino di dominare i fatti economici e le contraddizioni che da essi sorgono, finché vige l’ordinamento capitalistico.
Uscite dalla scena tali ubbie, rimane chiaramente in sella non uno Stato di 4 classi ma uno Stato dell’anonimo Capitale, deciso a sostenere e alimentare una difficile accumulazione originaria per la difesa della quale lo Stato ricorre ad ogni strumento totalitario rigettando quella maschera “democratica” che aveva accompagnato, verbalmente i suoi primi passi.
Ciò naturalmente non scandalizza la critica marxista la quale, dallo svolgersi dei fatti, trae nuove conferme sulla necessità della violenza e del terrore come i soli mezzi per schiudere l’orizzonte ad un nuovo ordinamento sociale.
L’aumento non è eccezionale, anzi è relativamente modesto considerando che si riferisce ad uno Stato che nel periodo celebra saturnali per l’industrializzazione forzata dell’immenso territorio.
Era che il Governo di Pechino educato dalle intransigenti misure assunte per debellare il processo inflattivo nel triennio 1949-52, fu deciso ad impedire il ritorno di quelle condizioni di disoccupazione ed accaparramento di alimenti che sono immancabili conseguenze di un inurbamento incontrollato.
Subito però questa questione si dimostrò irrisolvibile per i pianificatori cinesi, i quali dovettero assistere non solo all’accrescimento della densità rurale con le campagne che continuavano a riempirsi di uomini da sfamare e da vestire, fenomeno che manteneva bassa la produttività del lavoro agricolo, ma anche, circostanza aggravante, alle città che si riempivano troppo.
Questo naturalmente perché il regime non era in grado di assicurare ai nuovi immigrati urbani né abitazioni né beni di consumo – dal che una tensione inflattiva – né tanto meno posti di lavoro; conseguenza sottooccupazione e persino disoccupazione.
La stesura del primo piano quinquennale registrava questa impossibilità, ed il capitolo riguardante l’occupazione precedeva solamente la creazione di 5,36 mil. di posti di lavoro di cui 2,272 mil. nell’industria, 0,371 mil. nell’agricoltura, 0,774 mil. nell’edilizia e 0,953 nel commercio, quando nel frattempo si sarebbero presentate sul mercato del lavoro da 17 a 20 mil. di persone supplementari, dedotti i deceduti ed i pensionati. Una eccedenza quindi di ben 12-15 mil. di persone non previste dal piano.
E questa eccedenza chiarì immediatamente ai dirigenti di Pechino che, nonostante il ristabilimento della normale vita produttiva, nonostante l’enorme sforzo di industrializzazione di tipo moderno, le città ed i Capitali impiegati negli stabilimenti e nei porti attiravano più mano d’opera di quanto queste ne potevano alloggiare ed occupare, formando così un esercito industriale di riserva connaturale al modo di produzione capitalistico.
Se quindi nel periodo iniziale dal 1949 al 1952 i flussi migratori dalle campagne alle città non vennero praticamente controllati, nell’illusione che rapido sviluppo industriale ed urbanizzazione siano due elementi inseparabili di uno stesso processo, fin dai primi anni del primo piano quinquennale, Pechino cominciò ad esercitare i primi controlli sugli ingressi in città e sui caotici flussi migratori.
Il primo avvertimento di questo sforzo di controllo si ha il 17 aprile 1953, quando il Consiglio di Stato impartisce disposizioni per far cessare l’immigrazione dei contadini nelle città e contemporaneamente per favorire il ritorno nelle campagne.
Era l’apertura di una cateratta, infatti di lì a poco, il 28 febbraio 1954 il Consiglio dell’Amministrazione dello Stato, nel decretare il monopolio statale nell’ammasso e nel commercio dei cereali, stabiliva la fissazione dei prezzi e la distribuzione con tessera dei principali generi alimentari, misura che naturalmente avrebbe limitato l’inurbamento illegale dei contadini.
Un mese dopo, il 15 marzo, il “Jenmin Jihpao” lanciava un chiaro avvertimento: «Bisognerebbe far capire ai contadini che, poiché si comincia appena ora a costruire le città, il numero di uomini necessari all’esecuzione di questi lavori non può essere tanto grande, e gli operai edili sono già più che sufficienti. Se i contadini si precipitano ciecamente verso le città non fanno che perdere tempo e denaro a detrimento della produzione».
Quasi a riprendere l’avvertimento lanciato dal “Jenmin Jihpao” la Conferenza nazionale indetta dal Ministero del Lavoro conclusasi a Pechino il 27 aprile successivo, e riguardante l’assistenza degli operai disoccupati, terminava prendendo misure amministrative per la “limitazione” della disoccupazione e per ridurre l’assistenza ai soli casi realmente bisognosi.
Ed una misura per “limitare” la disoccupazione non era altro che il contrastare il naturale flusso migratorio che dalle campagne si dirigeva verso le città; il 10 agosto 1954 infatti il Ministero della Pubblica Sicurezza promulgava un regolamento relativo ai permessi di soggiorno e di viaggio per i non residenti, mentre il 19 giugno 1955 una direttiva del Consiglio di Stato stabiliva un sistema di anagrafe e l’istituzione di permessi per spostarsi al di fuori delle località di residenza, rinsaldando così un coattivo legame del contadino con il proprio podere.
Sta invece ad un giornale di Shanghai, il,“Chiehfang Jihpao”, il 31 luglio 1955, invitare esplicitamente gli inurbati a ritornare nelle campagne: «Il Consiglio permanente della città ha approvato una risoluzione intesa a persuadere i contadini immigrati in città a ritornare volontariamente nei loro villaggi».
I continui appelli non caddero nel vuoto, tanto che l’Agenzia Nuova Cina il 16 novembre 1955 poteva annunciare che 558.000 persone avevano lasciato la città di Pechino, dall’aprile all’ottobre di quell’anno, per ritornare in campagna, esplicita confessione che i dirigenti di Pechino si preoccupavano ben più della disoccupazione nelle città che della sotto occupazione nel mondo rurale, dove bene o male l’individuo riusciva a vivere ed in cui gli immensi spazi impedivano il concentrarsi di pericolose tensioni sociali.
Ma sarà l’introduzione nell’anno 1956 del sistema di razionamento generale nelle città per i cereali, l’olio ed il cotone, stabilita dal Consiglio di Stato il 25 agosto 1955, la migliore mossa di Pechino per contrastare l’esodo dalle campagne, proprio quando una situazione agricola non brillante faceva prevedere un’abnorme estensione del fenomeno.
I buoni valevano infatti solo in una determinata località, e qualsiasi cambiamento di residenza verso una città o da una città all’altra poteva così essere facilmente controllato dalle autorità.
L’anno 1956 tuttavia costituì una pausa per gli appelli delle autorità al “ritorno verso la campagna», infatti un’eccellente crescita della produzione industriale (+28,2% rispetto all’anno precedente) aveva determinato assunzioni massicce nelle fabbriche e negli stabilimenti, proprio quando la collettivizzazione nelle campagne non procedeva né con il ritmo, né con l’entusiasmo previsti dai capoccioni.
Era il 1956 che, come abbiamo già detto, vide scioperi in fabbriche e scuole, tanto che il PCC preoccupato della sua leadership si era deciso a lanciare la campagna dei “Cento fiori” per rinsaldare intorno al proprio potere centrale le classi medie e l’intellighenzia.
Sarà il 1957 a far riaffiorare prepotentemente tutte le contraddizioni.
Mao stesso il 27 febbraio 1957 si vide costretto, nel suo discorso “Sulle contraddizioni in seno al popolo”, a cucire un vero e proprio panegirico in favore dell’immensa popolazione cinese, considerata da Mao la vera ricchezza dello Stato centrale, se questo naturalmente è capace di mobilitarla.
«Quando stabiliamo i piani e regoliamo e studiamo i problemi, dobbiamo sempre partire dalla considerazione che la Cina ha seicento milioni di abitanti e questo non deve essere dimenticato. Che senso ha porre questa questione ? C’è forse ancora qualcuno che non sa che il nostro paese ha seicento milioni di abitanti ? Naturalmente lo sanno tutti, ma in pratica alcuni lo dimenticano e pensano che meno si è,meglio è, e che tanto più ristretta è la loro cerchia, tanto meglio è. Quelli che sostengono la “cerchietta ristretta” si oppongono all’idea di mobilitare tutti i fattori positivi, coalizzare tutte le persone che possono essere coalizzate e, nel limite del possibile, trasformare tutti i fattori negativi in positivi perché contribuiscano alla grande causa della costruzione della società socialista. Io spero che costoro amplieranno i loro orizzonti e si renderanno conto veramente che il nostro paese ha seicento milioni di abitanti, e che questo è un fatto obbiettivo ed è la nostra ricchezza».
Ora, se la questione della “mobilitazione” di tutte le forze nazionali umane per vincere l’arretratezza economica sarà la trave portante del Grande Balzo in avanti, di cui ci interesseremo più in qua, il discorso di Mao era chiaramente l’indice che di nuovo il crescere delle forze produttive si scontrava con i destini degli uomini, carne e sangue di tali forze.
Se Mao puntava sull’immensa popolazione per far decollare la Cina industrializzata facendo di necessità virtù, più modestamente il 7 marzo successivo, la signora Li Teh-chuan Ministro della Sanità, parlando al Congresso Nazionale deve dichiarare:
«Di fronte ad un simile tasso di incremento demografico, i progressi della nostra industria e della nostra agricoltura, per rapidi che siano, non riusciranno certamente a soddisfare in maniera adeguata i bisogni della popolazione».
E conseguentemente alle certezze della signora Li, fu varata una legge per autorizzare, con certe riserve, l’aborto e la sterilizzazione, incoraggiando nel contempo le pratiche contraccettive.
Di certo nei mesi successivi gli appelli e le imposizioni delle autorità per frenare le migrazioni dalle campagne raggiunsero il parossismo, si assiste anzi con il disastro della campagna dei “Cento fiori” ad un vero e proprio movimento migratorio di segno inverso, dalle città alle campagne.
Già il 12 marzo 1957 in un discorso ad una Conferenza di propaganda, Mao aveva spezzato una lancia perché gli stessi intellettuali e studenti prendessero la strada dei campi: «Quarto, problema dell’integrazione degli intellettuali con le masse operaie e contadine. Dato che gli intellettuali devono essere al servizio delle masse operaie e contadine, bisogna anzitutto che le capiscano, si familiarizzino con la loro vita, il loro lavoro e le loro idee. Proponiamo che gli intellettuali vadano tra le masse, nelle fabbriche e nelle campagne. Se in vita loro non incontrassero mai gli operai e i contadini, sarebbe un fatto molto negativo».
Fu così che contemporaneamente all’apparizione sulla stampa cinese di notizie di arresti di “controrivoluzionari” in varie province della Cina che avevano compiuto sabotaggi o assassinato ufficiali e quadri del partito, o istigato la popolazione contro il partito e il governo, nell’agosto 1957 inizia il movimento xianfang (“verso il basso”) per cui i quadri vengono invitati nelle fabbriche e soprattutto nelle campagne; movimento esteso poi agli intellettuali, studenti e popolazione urbana non occupata in genere.
Secondo un discorso dello stesso Mao nell’aprile 1958 lo xianfang avrebbe interessato circa 300.000 intellettuali, senza specificare quanti di questi fossero “giovani istruiti” impossibilitati a trovare un lavoro nell’industria statale.
Furono quindi le classi medie a fare le spese sia della repressione seguita al movimento dei “Cento fiori”, sia dello xianfang; il che conferma la nostra tesi che il regime di Pechino non si regge su queste classi pur saccheggiando dalle ideologie piccolo borghesi, pose ed atteggiamenti.
La Repubblica Popolare Cinese riprendendo la tradizione secolare del modo di produzione asiatico si regge su una collaudata burocrazia ed amministrazione e provato esercito, tenuto insieme dalla rete dei quadri di partito, ideali continuatori della rete dei mandarini funzionari imperiali..
Ma il paragone storico finisce: qualunque sia il leader carismatico di turno, non può essere come l’Imperatore Mandato dal cielo il custode di un modo di produzione che si autoalimenta e si autoriproduce, ma invece strumento dell’anonimo modo di produzione capitalistico che spinge necessariamente la Cina nell’arena del mercato mondiale !
Sta qui la possibilità che il proletariato giallo si incontri
con
quello occidentale, africano e americano.
Nelle ultime puntate della serie abbiamo esposto i dati economici del quinquennio 1953-57, arrivando alla conclusione che lo stesso procedere dello sviluppo economico della giovane Repubblica aveva determinato la fine del regime di Nuova Democrazia, proprio in quanto le contraddizioni sviluppatesi nel sottosuolo economico produttivo richiedevano imperiosamente la risoluzione del travagliato rapporto tra il settore agricolo ed industriale dell’immenso paese.
La soluzione che si affermerà, il “Balzo in avanti”, cioè l’appello alla volontà di sacrificio delle masse operaie e contadine cinesi, poggiava interamente sui dati produttivi e fisici esposti; va aggiunto, ad evitare errate interpretazioni che tale affermarsi non fu né piano né scontato ma invece frutto di una vera lotta politica all’interno del Partito Comunista Cinese, lotta che portò a lacerazioni che faranno sentire il loro peso ancora un ventennio dopo.
Sarà questa lotta fra “destra” e “sinistra” che mostreremo nelle puntate a venire, mettendo in evidenza come sia la “destra” che la “sinistra” poggiassero la loro piattaforma su precisi capisaldi borghesi.
Abbiamo già detto che il 1956 fu un anno particolarmente positivo per l’andamento della produzione industriale il che significò immediatamente una forte espansione della popolazione rurale e degli addetti.
Tale andamento positivo seguiva l’ottima annata agricola del 1955, anno decisivo per la cooperativizzazione, per gli aiuti russi e per il commercio estero.
Il congresso riunitosi nel settembre 1956 era in una certa misura ipnotizzato da tali successi economici e, stabilita la falsa equivalenza fra statalizzazione e socialismo (equivalenza da tutti accettata), pomposamente poteva affermare nella risoluzione finale che oramai si era giunti alla fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e che sparita la classe borghese era pure scomparsa la lotta fra classe proletaria e classe borghese detentrice dei mezzi di produzione.
Tale risoluzione non era altro che il riassunto del rapporto di Liu Shaoqi e sarà quindi apertamente sconfessata dalle Guardie Rosse della Rivoluzione Culturale che bollarono rapporto, risoluzione ed estensore come “borghese”, giudizio senz’altro giusto ma che non dà certo automaticamente diritto a chi lo formula di rappresentare gli interessi immediati e storici del proletariato.
«Questa trasformazione socialista ha già riportato una vittoria decisiva, ciò dimostra che, per l’essenziale, la contraddizione fra il proletariato e la borghesia è risolta in Cina, è finita la storia millenaria del sistema di sfruttamento di classe ed il regime socialista è già stato stabilito nel nostro paese (...) nelle condizioni del nostro regime socialista la vera natura delle contraddizioni è fra il regime socialista avanzato e le forze produttive della società».
Ma dopo una così decisa ed ottimistica affermazione, la risoluzione finale dell’VIII Congresso doveva rilevare le evidenti difficoltà contro cui si scontrava il processo di industrializzazione che nell’anno 1956 cominciò ad accusare i primi colpi, non tanto per il ritmo annuo di crescita della produzione industriale ma riguardo alla capacità dello Stato cinese di finanziare tale processo, sia prelevando surplus agricolo sia esportando prodotti agricoli.
La risoluzione infatti avvertiva sì che l’industria pesante ha la priorità nello sviluppo dell’intera economia, ma che «la tendenza ad insistere troppo sullo sviluppo dell’industria pesante a spese di quella leggera, ha come conseguenza l’indebolimento della stessa industria pesante».
La mancanza di fondi di finanziamento era poi ripresa nel punto 7 della stessa risoluzione: «7. Con il fine di alimentare lo sviluppo generale dell’economia nazionale alla scala di tutto il paese, è necessario dare una giusta soluzione al problema della ripartizione geografica delle industrie e delle altre imprese economiche. Per quel che concerne il rapporto fra le regioni interne e le regioni costiere, bisogna non solamente continuare a dislocare in maniera razionale le industrie chiave verso l’interno, a sviluppare l’edificazione economica nelle regioni interne, ma anche utilizzare al massimo e sviluppare come conviene l’edificazione economica nelle regioni costiere, soprattutto sfruttare pienamente le basi industriali costiere esistenti per alimentare il più rapidamente possibile le basi industriali nelle regioni interne del paese (...) Per quel che concerne il rapporto fra la grande, la media e la piccola industria, bisogna non solamente edificare le grandi imprese industriali che sono l’ossatura della nostra industria, ma anche costruire e ristrutturare in maniera sistematica le medie e piccole imprese che giocano il ruolo di ausiliarie e necessitano di uno sfruttamento minore per essere redditizie».
L’affermazione del punto 7 sulla mancanza di fondi per finanziare il processo di industrializzazione aveva costretto i pianificatori di Pechino a rivolgere per la prima volta in maniera preoccupata la propria attenzione alla vecchia industria leggera messa su dai vari imperialismi lungo le coste ed agli estuari dei fiumi.
Lo Stato investitore si vedeva costretto a battere cassa, ma lo stato di cose non poteva far sentire il suo terribile peso sull’intera struttura economica e sociale, non certo limitarsi a pretendere una maggiore redditività dell’industria leggera costiera.
Snodiamo il rosario: dietro la mancanza di fondi stava la necessità di esportare di più, cosa non possibile senza una agricoltura moderna capace di fornire un crescente surplus di prodotti, senza quindi meccanizzare il processo produttivo il che avrebbe significato meno addetti rurali ed un maggior inurbamento. Ma tutto questo richiedeva a sua volta un maggiore sviluppo industriale e, come ultima conseguenza, maggiori fondi.
La spirale era così innescata, preoccupando così i dirigenti di Pechino che già intravedevano e fìnanco toccavano con mano le prime difficoltà economiche, preludio di altro grave problema: lo Stato avrebbe retto ? Sarebbe riuscito a mantenere il suo controllo sugli operai e sui contadini chiamati a nuovi sforzi e sacrifici, sarebbe riuscito a mantenere fermo il suo compito di centralizzazione dell’immenso paese ? Problemi questi non economici, ma schiettamente politici.
Per queste ragioni gli interventi dei vari leader nell’arena congressuale toccarono, chi per un verso chi per l’altro, non solo il difficile rapporto fra agricoltura ed industria, ma anche le questioni cosiddette “burocratiche” (cioè i rapporti fra lo Stato, con le sue esigenze, e le classi, con le altrettanto proprie esigenze) e quelle riguardo il “soggettivismo” della conduzione economica delle aziende, questione questa che in verità non era altro che la punta affiorante dell’iceberg della centralizzazione delle varie regioni e di quella delle migliaia di aziende.
Tale “centralizzazione” è nella strada che conduce al socialismo ? Certo, come del resto i monopoli e le imprese multinazionali, i quali hanno soppiantato la libera concorrenza e le piccole aziende individuali, solo che il socialismo estenderà la sua assoluta centralizzazione alla scala dell’economia mondiale, primo passo per strappare ai prodotti il loro attuale contingente carattere di merci. La differenza non è di poco !
Per la Cina poi si stavano già delineando le prime chiare difficoltà in questa limitata centralizzazione, difficoltà che promettevano di far sentire il loro peso sui vari progetti di pianificazione.
Questo perché lo Stato centrale di Pechino poteva sì estendere il suo controllo sulla struttura industriale e commerciale, ma doveva limitarsi a semplicemente incoraggiare le attività economiche dello sterminato mondo contadino, le quali non potevano certo essere inquadrate con le imposte e con l’ammasso obbligatorio di una parte del raccolto dei cereali. Il mercato contadino, per di più un mercato alimentato dalla incontrollabile piccola conduzione, in definitiva dominava la struttura produttiva statale, vanificando per un verso la spinta centralizzatrice di Pechino. Da qui non solo la richiesta di prezzi “remunerativi” per i prodotti industriali ed agricoli, ma anche la richiesta di una certa autonomia delle singole aziende riguardo a cosa produrre, e come produrlo.
Soprattutto lo Stato non riusciva a “pianificare” la disponibilità di mano d’opera, troppo superiore alle effettive capacità di investimento di capitali nel processo produttivo.
Per queste convergenti ragioni fin dal 1953, dai vari Ministeri e dalle varie Regioni Amministrative provenivano evidenti spinte centrifughe subitamente annullate dal deciso potere centrale di Pechino, in questo all’altezza della borghesia rivoluzionaria europea.
L’esempio più clamoroso della funzione centralizzatrice di Pechino fu l’affare Gao Gang, potente leader Commissario politico della Regione del Nord ovest (Manciuria) e responsabile della Commissione di Pianificazione. La lotta contro la “cricca” di Gao Gang iniziata al IV Plenum del VII Congresso, febbraio 1954, terminò con l’annuncio di una sanguinosa purga al V Plenum nell’aprile 1955, che in campo economico significò diminuzione dei poteri dei vari Ministeri e delle varie Commissioni economiche a tutto vantaggio del potere centrale di Pechino e delle Commissioni di Partito, vero ente centralizzatore a cui non doveva opporsi nessun centro, nessuna autorità regionale o periferica.
La purga è significativa per altro verso: velatamente fu accusato Gao Gang di essere in procinto di costituire uno Stato indipendente in Manciuria rigidamente filo-russo anche per gli stretti legami di Gao con i dirigenti moscoviti. La lunga visita di Krusciov, Bulganin, Mikoyan e Svernik nel settembre 1954 a Pechino probabilmente quindi riguardò anche la purga in atto all’interno del PCC, ed il fatto che i russi concessero allora notevoli crediti, proprio quando un loro pupillo era in evidente disgrazia, depone a favore della forza ed autonomia di Pechino rispetto a Mosca, autonomia che si rimanifesterà clamorosamente con il balzo in avanti e la crisi politica ed economica susseguente.
Il nuovo sistema di conduzione economica, introdotto a seguito della purga contro Gao Gang ed i suoi seguaci, fu detto “sistema di combinazione della direzione collettiva e della responsabilità individuale”. Si basava sui “quadri” di Partito preposti al controllo della politica ed i manager direttori delle operazioni, divisione che, secondo Pechino, avrebbe impedito ad i vari Ministeri ed alle varie Regioni Amministrative di avvantaggiarsi gli uni nei confronti degli altri.
Ma se il nuovo sistema meglio impediva la decentralizzazione delle deboli risorse economiche, le esigenze di un mercato che si sviluppava spontaneamente premevano sui manager-direttori e sui quadri delle singole aziende.
Un anno dopo infatti nel settembre 1956, l’auditorio del congresso risuonò ossessivamente di appelli ad una maggiore libertà di movimento nella stesura dei piani produttivi, sia per le singole Regioni che per le Aziende.
Li Xue-feng, allora a capo della sezione Industria del Comitato Centrale, dopo aver rivelato che spesso i direttori delle fabbriche, le organizzazioni di Partito ed i Sindacati, usavano la coercizione per “convincere” gli operai ad attività extralavorative: «Il burocratismo e l’autoritarismo si sono fatti largo e lo spirito capitalistico di sfruttamento è rinato a sua volta. La presunzione e la sufficienza come gli atti arbitrari si susseguono di giorno in giorno»; richiede con decisione una revisione dei sistemi di compilazione ed esecuzione dei piani produttivi.
Se il primo rilievo di Li Xue-feng la dice lunga sul socialismo della gialla Repubblica, per niente diverso dallo schietto capitalismo occidentale, il secondo ci porta pari pari alle tesi aziendalistiche sostenute all’inizio degli anni Sessanta dall’economista Liberman, anticipato di un quinquennio circa.
Per Li infatti i “piani” non dovevano essere definiti una volta per tutte dagli uffici amministrativi regionali o ministeriali, ma, pur basandosi sugli obiettivi di massima fissati dal piano statale, ogni fabbrica doveva poterne modificare gli obiettivi, attraverso una specie di democrazia industriale in cui operai e tecnici avrebbero collaborato entusiasticamente.
Se polemicamente vale il riferimento che l’autogestione jugoslava, bollata con i peggiori epiteti dai caporioni di Pechino, non faceva che portare alle estreme conseguenze le considerazioni di Li Xue-feng, se materialisticamente vogliamo fissare gli avvenimenti politici alla base economica-produttiva, altra deve essere la considerazione: è facile centralizzare e coordinare un sistema di grandi fabbriche facendo perno sul monopolio del commercio e della mano d’opera in un ambiente già in alto grado proletarizzato; il difficile è quando la fabbrica, grande o piccola che sia, affonda in un vero e proprio oceano di piccola produzione familiare e particellare, dato quest’ultimo che non poteva essere certo esorcizzato con una cooperativizzazione la quale nulla mutava riguardo la conduzione tecnica aziendale.
Tale piccola produzione non solo genera spontaneamente “capitalismo”, passo in avanti per l’arretrata conduzione agricola cinese, ma di più, il mercato rappresentato da 500 milioni circa di “rurali” determina e regola i piani dell’industria statalizzata, siano questi piani formulati in un grigio ufficio statale o invece dalla collaborazione fra maestranze, direttori e quadri di partito !
«Linea di massa ! Un’amministrazione fortemente centralizzala su una base altamente democratica», esclama Li Xue-feng presentando il suo sistema di formulazione dal basso degli obbiettivi produttivi, continuando: «La direzione fa prima di tutto un’analisi e uno studio secondo le possibilità date, valuta il potenziale di produzione, ricerca i punti deboli della produzione, definisce gli obbiettivi economici e tecnici preliminari e formula le misure concrete necessarie, e ciò costituisce il progetto di piano; poi questo progetto è presentato alle masse degli operai e degli impiegati per essere discusso seriamente; il piano deve essere successivamente studiato dall’alto in basso, dal basso in alto, scala per scala, sintetizzato ed equilibrato per essere finalmente stabilito. Questo significa che il piano, pur essendo elaborato secondo le cifre di controllo avanzate dallo Stato, è determinato nello stesso tempo dalla pratica e dalle masse».
Se Li Xue-feng crede di poter quadrare il difficile problema della coesistenza fra il settore industriale-statale e quello agricolo-privato avanzando l’idea di una gestione aziendalistica della produzione – mille volte peggiore di un burocratico accentramento – sarà invece lo stesso Li Fuzhun, presidente della Commissione di Piano, a presentare una “pianificazione” regionalistica spezzando l’ennesima lancia contro il soggettivismo e il burocratismo di una Commissione di Piano che, ammissione dello stesso Li Fuzhun, manca di conoscenze profonde:
«Bisogna adottare dei metodi di direzione unificata, di divisione di lavoro congiunto alla cooperazione. L’organo centrale di pianificazione è responsabile dell’equilibrio generale e coordina il paese intero; mentre gli organi di pianificazione delle diverse regioni e delle diverse branche devono effettuare seri sforzi per migliorare il lavoro di equilibrio coordinato nella sezione di competenza, salvaguardare al meglio il quadro di insieme e perfezionare i metodi per stabilire un tale equilibrio (...) gli obiettivi inclusi nel piano di Stato possono essere divisi in 3 categorie: gli obbiettivi aventi un valore direttivo, gli obbiettivi suscettibili di riaggiustamento e gli obbiettivi che servono solo come riferimento. Le regioni o branche che intendono modificare gli obiettivi che hanno valore direttivo possono farlo solo con l’approvazione della Commissione degli Affari dello Stato. Gli obbiettivi suscettibili di riaggiustamento possono essere modificati nel quadro e nei limiti previsti dalla Commissione».
Li Fuzhun sintetizza il suo sistema con lo slogan «una pianificazione unitaria ed una direzione economica divisa», ma il difficile rapporto fra il settore agricolo ed industriale, dal quale aveva origine l’esposizione di Li, non poteva certo risolversi con frasi più o meno belle.
I piani dell’industria statalizzata, nonostante il “monopolio” commerciale governativo, avevano come giudici ultimi 500 milioni di rurali, sui guadagni e sulle spese dei quali lo Stato poteva solo minimamente influire, un reddito quindi non pianificabile, vera incognita e, soprattutto, forza politica centrifuga nei confronti del Governo centrale di Pechino.
Tale Governo centrale si era costituito attraverso il tradizionale sistema cinese della mobilitazione delle masse contadine e dal mondo contadino non si era ancora totalmente emancipato; lo Stato doveva venire a patti con la arretrata conduzione particellare familiare !
Più spregiudicatamente Chen Yun e Li Xiannian, anticipando nettamente futuri contrasti, rifuggiranno dall’attaccarsi a qualsivoglia formula. Partendo ambedue dalla considerazione che lo Stato non controlla le forze sociali agenti sul mercato – confessione esplicita che la “pianificata” e statalizzata industria cinese dipendeva dagli umori del contadino e dal suo bilancio di entrate ed uscite – imposteranno i loro discorsi sulla determinazione dei prezzi agricoli ed industriali, e sui sistemi di acquisto dei prodotti industriali da parte delle imprese commerciali.
Abbiamo già detto che in campo agricolo Chen Yun proponeva prezzi di acquisto remunerativi per i prodotti delle culture industriali avvantaggiandole rispetto alla sempre essenziale coltivazione dei cereali. Ora, tale proposta avrebbe conseguentemente determinato un allargamento delle attività private dei contadini e, secondo lo schema di Chen, accelerato il processo di meccanizzazione dell’agricoltura.
In campo industriale, anche qui anticipando di un quinquennio la “flessibilità” dell’economista russo Liberman, Chen propose che le imprese che producevano articoli di uso quotidiano fissassero l’entità della loro produzione secondo le richieste del mercato; Chen auspicava così un controllo centrale solo per determinate produzioni di interesse nazionale, mentre le altre non solo dovevano orientarsi seguendo le oscillazioni del mercato, ma le singole aziende sarebbero state anche pienamente responsabili dei propri guadagni e delle proprie perdite, postulato questo del classico capitalismo liberista con lo Stato decisiva forza economica ma non ancora Stato assistenziale.
«I dipartimenti commerciali hanno il diritto di acquistare prioritariamente le merci selezionate. Le merci che non sono oggetto di questi acquisti o che non sono state acquistate possono essere smerciate dagli stabilimenti stessi (...) Bisogna che la nostra politica dei prezzi sia favorevole alla produzione (...) Adesso, esiste nella nostra politica dei prezzi, un certo aspetto sfavorevole alla produzione, cioè a dire che nel campo dei prezzi di vendita, si considera in maniera semplicistica la stabilizzazione dei prezzi come “unificazione dei prezzi” o “blocco dei prezzi”. È per questo, che non c’è che un debole scarto di prezzo fra prodotti di qualità differente (...) Non bisogna allarmarci per gli aumenti limitati e temporanei dei prezzi».
E la questione dei prezzi sarà decisamente ripresa da Li Xiannian Ministro delle Finanze, il quale associandosi con Chen Yun fece ben intendere che solo “stimoli materiali” derivanti da prezzi remunerativi potevano aumentare la produzione agricola, come del resto quella industriale.
Una parentesi si impone prima di riprendere la trattazione dello snodarsi degli avvenimenti: il quesito “piani” o “prezzi” si risolve solo fissando indiscutibilmente i caratteri propri della struttura economica sulla quale uno Stato poggia, oltre alle sue caratteristiche politiche di classe. Uno Stato proletario poggiante su una struttura produttiva come quella cinese degli anni Cinquanta, o come su quella russa degli anni Venti, non ha da scegliere ipso facto fra “piani” e “prezzi”, in quanto lo Stato proletario determina il suo indirizzo economico secondo i dettami e le esigenze della politica comunista, che sono in primo luogo quelli della rivoluzione internazionale, dal che la potente espressione di Lenin economia-politica.
Su un piano totalmente diverso si svolgeva invece la contesa fra Chen e Li da una parte, e Li Fuzhun dall’altra: non la rivoluzione internazionale ma invece sviluppo borghese di una Cina capitalistica, sviluppo che logicamente abbisognava di entrambi gli aspetti dei termini in contrasto, di ambedue le politiche.
Posteriormente possiamo però affermare che la destra di Chen Yun e Li Xiannian intravedeva una strada più sicura e veloce di industrializzazione, proprio perché meno illusoria, più decisa a far precipitare l’immensa classe contadina nel girone infernale dell’accumulazione, usando per la bisogna il cavallo di Troia dei prezzi remunerativi.
Chen Yun e Li Xiannian in definitiva sostennero che uno Stato dotato di una salda Amministrazione e saldo Esercito, grandeggiante in campo industriale e commerciale, può dar corso al libero gioco delle forze economiche, attestandosi però in difesa di tale accumulazione originaria e senza abbassare la guardia di fronte agli inevitabili contrasti sociali.
Ecco un brano del discorso di Li Xiannian: «Bisogna sottolineare che essendo il commercio socialista divenuto poco a poco il commercio unico del nostro paese, la politica dei prezzi gioca un ruolo capitale nel commercio di Stato, la fissazione razionale o irrazionale dei prezzi influenza direttamente e largamente la produzione, il consumo del popolo e l’accumulazione di fondi da parte dello Stato. Nel corso degli anni passati non abbiamo fatto degli studi seri sui prezzi, né fatto il bilancio di queste esperienze; questo stato di cose non può durare».
Tant’è che Li Xiannian propone una serie di “stimoli” materiali per i contadini:
«Elevando i prezzi di acquisto dei prodotti agricoli, lo Stato conseguentemente metterà in circolazione una quantità maggiore di denaro. I redditi dei contadini aumenteranno e così il loro potere di acquisto. Pertanto, oltre all’approvvigionamento dei mezzi di produzione che deve essere assicurato ai contadini per permettergli di aumentare la loro produzione, occorre fornirgli una maggiore quantità di beni di consumo rispondenti agli accresciuti bisogni di consumo dei contadini. Siamo quindi obbligati ad accrescere di qualcosa la proporzione degli investimenti nell’industria leggera e a modificare in una certa misura la proporzione degli investimenti nell’industria pesante e negli altri settori».
La citazione mostra come la stessa “destra” non fosse abbagliata dalle sorti dell’industria pesante,e come pure fosse per uno sviluppo equilibrato dei tre settori produttivi, agricoltura, industria pesante e leggera.
Cadono quindi le tesi sostenute dalle Guardie Rosse durante la Rivoluzione Culturale quando la lotta politica all’interno del PCC evocò, come sarebbe poi successo con la lotta susseguita alla morte di Mao, le clamorose calunnie proprie dell’inquisizione europea.
Per verità storica va scritto che all’VIII Congresso tutti, esponenti della destra e della sinistra all’interno del PCC, sono per lo sviluppo simultaneo di agricoltura, industria pesante e leggera, rappresentato con lo slogan: sventolino i tre stendardi rossi. Perché tutti, dopo iniziali illusioni di industrializzazione accelerata, devono cedere di fronte all’inerzia storica del mondo contadino sprovvisto di qualsiasi ritrovato tecnico necessario ad una agricoltura moderna.
Il cedimento di Chen Yun e di Li Xiannian conduceva a manovrare i prezzi in favore del rurale, cedimento che non difetta di franchezza: il cedimento della Sinistra, rappresentata allora non solo da Mao ma in quel frangente anche da Deng Xiao-ping e per certi versi da Liu Shaoqi, avrebbe invece condotto alla mobilitazione sociale del Balzo in avanti che avrebbe consegnato in pompa magna l’etichetta di “socialista” a tutto quello che aveva un minimo riferimento con la campagna, nell’illusione che le forze materiali che sono i rapporti di proprietà e di produzione siano dominabili dalla Volontà umana.
Cedimento questo che avrebbe fatto fare un vero e proprio balzo all’indietro alle forze produttive ritardando così l’inevitabile processo di accumulazione e di proletarizzazione delle campagne cinesi.
L’ottimismo dell’VIII Congresso del settembre 1956 non resse alla prova del raccolto di autunno dello stesso anno. Il cattivo andamento della produzione agricola, proseguito nella primavera-estate 1957, dette gli ultimi colpi alle illusioni di crescita costante e sicura dell’intera economia.
Fattori fisico-climatici facevano valere il loro terribile peso, proprio perché ancora nel 1957 il regime di Pechino non aveva potuto neutralizzare, con grandi opere idrauliche tipiche degli inizi della storia della Cina, gli effetti di un clima di monsoni particolarmente brutale ed imprevedibile, i cui sbalzi, spesso considerevoli, colpivano direttamente la produzione agricola, che a sua volta influiva sull’intera produzione.
Tale difficile situazione fu ben sintetizzata da una dichiarazione emessa dal Governo di Pechino al tempo della visita di Mao a Mosca, novembre 1957:
«A causa dei buoni raccolti del 1952 e del 1955, lo sviluppo dell’economia è proceduto abbastanza rapidamente nel 1953 e nel 1956. Il valore lordo della produzione industriale (compresa l’industria artigianale) aumentò rispettivamente del 30% e del 28%. A causa dei cattivi raccolti nel 1954 e nel 1956, lo sviluppo dell’economia nazionale fu piuttosto lento nel 1955 e nel 1957. Il valore lordo della produzione aumentò rispettivamente del 5,6% e del 4%. Il motivo è che circa l’80% delle materie prime di cui ha bisogno la nostra industria leggera dipende dall’agricoltura, e l’industria leggera costituisce il 50% di tutta la nostra industria».
Secondo queste congetture il 1958 sarebbe stato un cattivo anno per la produzione industriale, a meno che in un modo o nell’altro fosse rotta questa antica dipendenza dalle sorti dell’industria rispetto a quelle dell’agricoltura, nodo che i dirigenti di Pechino cercarono definitivamente di sciogliere durante il dibattito al III Plenum del CC allargato del PCC.
Il III Plenum si svolse dal 20 settembre al 9 ottobre 1957 ed ebbe come rapporto principale, l’unico ad essere interamente pubblicato, una relazione di Deng Xiaoping sulla repressione del movimento dei “Cento fiori”. Gli altri due rapporti, tutt’oggi sconosciuti, furono di Chen Yun sulla proposta di mutare il sistema dell’amministrazione economica e sul problema di un maggior drenaggio di plusvalore dalle campagne, e di Zhou Enlai su “Salari e benessere”.
Questa non pubblicazione probabilmente indica che le decisioni prese dal Plenum non furono quelle prospettate dai relatori; questo ad ogni modo il breve comunicato che seguì la chiusura del Plenum:
«La riunione ha fondamentalmente approvato il programma 1956-67 (dodici anni) per lo sviluppo nazionale dell’agricoltura (abbozzo corretto). Tale abbozzo deve circolare nei villaggi del paese per essere discusso. Successivamente deve essere sottoposto a un Congresso nazionale di Partito per la ratifica, e successivamente presentato al Congresso nazionale del Popolo per la discussione e la ratifica. La riunione ha anche approvato sostanzialmente il miglioramento del sistema di direzione industriale (abbozzo), la regolamentazione per il miglioramento del sistema di direzione commerciale».
Secondo la ricostruzione dello studioso Franz Schurman, collimante con il materiale documentario prima e dopo Plenum, Chen Yun sostenne con vigore che unica possibilità di risolvere il problema dell’aumento della produttività agricola era di dar libero corso ad una politica di incentivi materiali (la questione dei “prezzi”, già svolta all’VIII Congresso), dando quindi alle unità di produzione – le cooperative agricole soprattutto, ma anche le singole aziende – la possibilità di produrre per il proprio guadagno attraverso una certa espansione del mercato, libero dai vincoli imposti dai prezzi statali.
Ma i maggiori guadagni delle cooperative avrebbero influito sulla produzione dell’industria leggera fornitrice di beni di consumo, spingendola ad aumentare la produzione per soddisfare la crescente richiesta di prodotti dalle campagne, sprovviste praticamente di tutto e con condizioni di vita miserrime. Anche l’industria leggera avrebbe beneficiato di una maggiore libertà di azione, sia in campo produttivo che commerciale, per cui le forze spontanee del mercato avrebbero premuto sui governi regionali da cui dipendeva quasi totalmente tale industria. Quella pesante sarebbe rimasta invece sotto il controllo diretto dei Ministeri, cioè di Pechino.
Altro fatto da allineare: nel 1957 Pechino aveva dovuto permettere l’apertura di liberi mercati dei prodotti agricoli dove i contadini vendevano le eccedenze non ammassate dallo Stato centrale attraverso imposte ed acquisti obbligati, e questa apertura dei mercati era stata accompagnata dall’aumento degli appezzamenti privati e dalla diminuzione delle dimensioni delle cooperative che pare fossero generalmente sotto il controllo dei contadini medi e benestanti, più istruiti e maggiori apportatori di terre e capitali, sui quali il PCC aveva in quegli anni poca presa.
Chen Yun pertanto, proponendo una politica di tolleranza nei confronti di questo stato di cose, si aspettava che il mercato desse il là alla formazione di capitale agrario, proletarizzando chi veniva sconfitto nell’oggettiva arena del mercato.
La sua tesi economicamente non faceva una grinza: essendo lo Stato centrale impossibilitato ad attuare, o solamente favorire, questo processo, non gli rimaneva altro che permetterlo alle singole aziende attraverso la concorrenza.
La risoluzione faceva invece riferimento esplicito al programma dodecennale, preposizione che non significava altro che una costante e totale mobilitazione sociale delle masse contadine ed urbane.
I sostenitori della politica di mobilitazione sociale ammettevano l’importanza dell’industria leggera come naturale legame fra l’agricoltura cooperativizzata ed arretrata, e la moderna e centralizzata industria pesante.
Destra e sinistra non potevano non riconoscere che la maggior parte delle materie prime agricole venivano lavorate dall’industria leggera, principale fonte dei capitali investiti nella nascitura industria pesante.
Uno sviluppo rapido dell’industria leggera era pertanto possibile solo con uno sviluppo altrettanto rapido della produzione agricola, pure unica possibilità dell’intensificazione del commercio cino-sovietico. In queste considerazioni le due politiche, quella degli incentivi materiali (prezzi remunerativi) e della mobilitazione sociale (piano dodecennale), presentavano significative concordanze.
La discordanza si manifestava prima di tutto sui ritmi di sviluppo delle diverse branche produttive, ritmi che avevano immediate ripercussioni sociali oltre che produttive.
Mao, nell’allocuzione finale del 9 Ottobre 1957, “Essere stimolo per la rivoluzione”, così presenta le tesi della “sinistra”:
«Parlando del rapporto tra industria e agricoltura, naturalmente consideriamo come fulcro l’industria pesante ed accordiamo ad essa uno sviluppo prioritario: su questo non c’è il minimo dubbio o la minima esitazione. Ma stabilita questa premessa, è necessario procedere ad uno sviluppo simultaneo dell’industria e dell’agricoltura edificando un’industria e un’agricoltura moderne (...) quinto punto, l’anno scorso sono state spazzate via alcune cose, una di queste è il principio di “quantità, rapidità, qualità, economia». Sono state abbandonate quantità e rapidità, e di passaggio, sono state spazzate via anche qualità ed economia. Queste due ultime, a mio parere, non trovano oppositori; quelle che non piacciono sono proprio la quantità e la rapidità, alcuni compagni le chiamano “avventurismo”».
Mao e la “sinistra” erano quindi per ritmi veloci nell’incremento delle varie produzioni, dall’agricoltura all’industria pesante, il che significava però una gravosa dipendenza dal commercio con lo Stato di Mosca, il temuto grande fratello, unico fornitore di macchine e beni di produzione attraverso il dilatarsi degli scambi commerciali.
Chen Yun e la “destra” pertanto, proponendo ritmi di sviluppo più lenti, più equilibrati, sarebbero stati in definitiva più autarchici di Mao e dei suoi seguaci, schierandosi così a difesa della indipendenza delle sorti economiche cinesi da fattori esterni, ennesimo scacco per chi intende l’indagine storica come un allineamento di slogan ad effetto, si avrà infatti che il grande sforzo produttivo delle sterminate masse cinesi nel biennio 1958-59, in cui troneggiava lo slogan: camminare sulle proprie gambe, vide crescere a livelli record il commercio della Repubblica Popolare Cinese con la Russia ed i suoi satelliti.
La politica di mobilitazione sociale aveva poi un’immediata ripercussione su come intendere il decentramento produttivo: Chen Yun lo proponeva come autonomia gestionale delle unità produttive per una loro ricerca di attività più retributive, posto in primo piano l’imperativo economico.
Mao ed i suoi, invece, intesero il decentramento produttivo come una completa libertà di azione dei comitati di partito e dei “quadri” la cui azione andava appoggiata, al di sopra di ogni considerazione economica, surrogate dall’entusiasmo rivoluzionario, dal sacrificio, dall’abnegazione.
Questo il significato reale dello slogan maoista “la politica al posto di comando”; i “quadri” potevano poi alimentare e dirigere tale mobilitazione sociale solo se l’influenza dei contadini ricchi e medi nelle cooperative agricole veniva meno, se i direttori ed i tecnici delle aziende venivano costretti a seguire qualunque direttiva giungesse loro dal quadro di partito, spesso a digiuno di elementari cognizioni tecniche.
Preludio del Balzo in Avanti e della sua catastrofe economica.
Il 20 settembre 1957 era iniziato, come già detto, il III Plenum del Comitato Centrale decisivo per l’affermarsi della politica della “mobilitazione sociale” sostenuta da Mao ed i suoi.
Già però il 24 settembre dello stesso anno, il Consiglio di Stato annunciò un nuovo movimento per la costruzione ed il miglioramento degli impianti idrici, il che era un chiaro segnale sul riaffermarsi di una maggioranza favorevole alla “mobilitazione”.
Un programma di irrigazione su vasta scala e di grandi lavori idrici era stato realizzato con successo nell’inverno 1955 e nella primavera 1956, dopo quindi l’ottimo raccolto del 1955, nei mesi invernali morti per i lavori agricoli.
Stavolta, per lo stesso periodo “morto”, il programma era più ambizioso ed i complessi lavori vennero affidati direttamente alle cooperative, cosa che rappresentava la vera novità.
A fine anno, dopo cioè i risultati del III Plenum, il movimento era divenuto una “marea”, con «sei milioni di persone che si lanciarono nella campagna per la costruzione degli impianti idrici».
Siccome i lavori vennero affidati alle cooperative, i progetti furono elaborati su scala relativamente ridotta, poiché «lo Stato spendeva poco e si affidava soprattutto alle masse», come ebbe a dire Tan Zhelin, direttore della Sezione Agricoltura e Foreste del Consiglio di Stato.
Fu questa la prima mobilitazione dei contadini momentaneamente disoccupati, insieme a molte centinaia di migliaia di “urbani” da rieducare o semplicemente da rimandare nello sconfinato retroterra contadino.
La “mobilitazione” fu quindi accompagnata da una nuova ondata migratoria, voluta fortemente dalle autorità centrali e periferiche.
Se il vice sindaco di Wuhan dichiara alla fine del 1957 che la popolazione “fluttuante e temporanea” della città supera i 2,2 milioni, a Tientsin si parla invece dell’arrivo di 205 mila contadini fra il 1956 ed il 1957; sta così al “Jenmin Jihpao” del 16 dicembre, denunciare come le migrazioni verso le città non sono controllate, con imprese che reclutano contadini «senza autorizzazione» e con gli organi amministrativi incaricati del controllo degli abitanti urbani che “lasciano correre”». E due giorni dopo la denuncia, il 16 dicembre 1957, il Consiglio di Stato ed il CC lanciano una direttiva congiunta per l’ennesimo appello per la cessazione dell’esodo dalle campagne alle città.
La mobilitazione per i lavori idrici, con i disoccupati delle città e con le persone poco occupate impiegate nei cantieri rurali che in quei mesi si moltiplicavano, fu quindi un ottimo espediente per frenare il rigonfiamento delle città, ma fu soprattutto una prova di capacità di mobilitazione dell’apparato di Partito e di governo.
I progetti infatti trattavano essenzialmente di bacini di raccolta delle acque per ovviare alle ricorrenti siccità e inondazioni, e dovevano essere terminati velocemente perché con l’arrivo della primavera occorreva ritornare ai necessari ed indispensabili lavori agricoli, senza contare che le piogge primaverili avrebbero intralciato e disturbato l’andamento dei lavori.
L’apparato dei quadri di partito ebbe una parte fondamentale nell’esecuzione dei progetti, e costituì la vera spina dorsale della mobilitazione dello sterminato esercito di mano d’opera, necessariamente perché, per la stessa distribuzione delle acque, certe costruzioni dovevano coordinare il lavoro di più cooperative, e travalicavano gli stessi ristretti confini locali. Ma questa mobilitazione controllata dai quadri di partito ci mostra altresì un aspetto fra i più importanti della politica agricola perseguita con il Grande Balzo in Avanti, pochi mesi dopo: accrescere la produzione agricola associando all’uso massiccio di forza lavoro non specializzata per costruire le infrastrutture necessarie allo sviluppo della produttività agricola, un maggiore controllo della struttura di partito sulla popolazione e controllo necessario per sfruttare la grande ricchezza della Cina, più volte inneggiata da Mao: le braccia di 600 milioni di esseri umani !
Se la II sessione dell’VIII Congresso tenutasi a Pechino dal 5 al 25 maggio 1958 sarà l’assise che lancerà il Grande Balzo in Avanti, le riunioni del Comitato Centrale del PCC che si tennero dopo il III Plenum furono, anche per la presenza dei segretari provinciali e dei massimi dirigenti di governo, le vere e proprie riunioni in cui furono sistemati i dettagli dell’ennesima battaglia economica.
La prima riunione si ha nel dicembre 1957 a Hangzhou, la seconda nel gennaio seguente a Nanning, e dalle due riunioni seguì una bozza di risoluzione (segno di non sopiti contrasti interni) il 19 febbraio 1958, titolata “60 punti sui metodi di lavoro” e stesa congiuntamente dai due futuri acerrimi rivali: Mao Zedong e Liu Shaoqi.
Altre due riunioni, sempre del Comitato Centrale e dei segretari
provinciali, si tengono a Chengdu nel marzo 1958, e l’ultima, prima
della II sessione dell’VIII Congresso,che si ha nell’aprile è la
Conferenza di Wuhan.
Il documento più importante di queste riunioni fu la bozza “60
punti sui metodi di lavoro”, accompagnata da una presentazione
dello stesso Mao che in poche righe ribadiva il duro compito che i
proletari ed i contadini venivano chiamati ad assolvere:
«Stiamo ora constatando un’attività e una
creatività
delle masse popolari sul fronte della produzione maggiori di quanto
abbiamo mai visto finora. Una nuova alta marea della produzione
è
salita, e sta ancora salendo, poiché il popolo dell’intero paese
si è
ispirato alla parola d’ordine “Superiamo la Gran Bretagna nel ferro e
nell’acciaio e negli altri principali prodotti industriali in quindici
anni al più”».
La presentazione avvertiva che questa nuova situazione pretendeva
subitamente una modifica di alcuni metodi di lavoro del Centro e dei
Comitati di Partito. Una chiosa è facile: l’opportunismo senza
capisaldi di principio è costretto ad una serie di mosse e
mossettine
per aggiustare la sua tattica e la sua organizzazione interna a
situazioni non previste, né studiate, né preparate, ma
semplicemente
subite, condanna, questa, di tutti i vantati Timonieri ! Rilievo
questo
che naturalmente non vale solo per il defunto Mao, stella d’oriente, ma
anche per i moccoli occidentali dalla tremolante luce.
Dei “60 punti” ne rileviamo alcuni fra i più significativi.
I punti 8 e 20 parlano dei piani produttivi e di ispezioni alle
Comuni agricole, segno quindi che già nell’inverno 1958 erano
iniziate
le fusioni fra Cooperative, e che, come nel caso della
collettivizzazione di due anni prima, la deliberazione decisiva non
ratificherà altro che un dato di fatto.
Il punto 13 è una parola d’ordine di mobilitazione “Lotta dura per tre anni. Il nostro metodo: scuotiamo le masse senza alcuna riserva; tutto deve essere sperimentato”.
Il punto 16 è sull’accumulazione di capitale nelle
cooperative
agricole, problema sul quale era in definitiva ruotata tutta la
polemica precedente fra “destra “e “sinistra”. Gli aumenti di
produzione che le cooperative realizzano non dovevano essere
interamente consumati; il 50-70% di questi, oppure addirittura tutti
gli aumenti, devono servire per l’accumulazione di capitale, come
preparazione al Grande Balzo in Avanti.
Produzione quindi in funzione dell’accumulazione, e questa in
funzione della produzione futura, ciclo classico di ogni accumulazione
originaria, non del sistema produttivo socialistico, ma del classico
capitalismo.
Il punto 17 suona come condanna per l’economia degli appezzamenti privati dei contadini e nel contempo preziosa confessione della ritirata dell’anno 1957. In certe località il reddito della famiglia contadina proviene per il 60-70% dall’appezzamento privato, dal che il poco entusiasmo dei contadini per la sorte delle cooperative.
I punti 21 e 22 enunciano completamente lo spirito del Balzo in
Avanti:
«Rivoluzione ininterrotta. Le nostre rivoluzioni si
susseguono una dopo l’altra (...) Le nostre rivoluzioni sono come
battaglie. Dopo una vittoria, dobbiamo subito proporre un nuovo
obiettivo. In questo modo, i quadri e le masse saranno sempre pieni di
fervore rivoluzionario anziché di presunzione. In verità,
non avranno
tempo per la presunzione, anche se a loro piacerebbe (...) Rosso ed
esperto, politica ed attività professionale,il rapporto tra
questi
elementi costituisce l’unità delle contraddizioni. Dobbiamo
criticare
l’atteggiamento apolitico. Dobbiamo opporci da un lato ai “politici”
dalla testa vuota, dall’altro ai “pratici” privi di
orientamento (...)
Ignorare l’ideologia e la politica, preoccuparsi esclusivamente di
problemi economici: il risultato sarà un economista o un tecnico
disorientato, e questo è un disastro (...) Lo squilibrio
è una regola
generale, oggettiva. Il ciclo, che è senza fine passa dallo
squilibrio
all’equilibrio, e quindi di nuovo allo squilibrio. Ogni ciclo,
peraltro, ci porta a un livello superiore di sviluppo. Lo squilibrio
è
normale e assolutamente l’equilibrio è temporaneo e relativo. I
cambiamenti verso l’equilibrio e lo squilibrio nella nostra economia
nazionale di oggi sono un parziale mutamento quantitativo nel generale
processo di mutamento qualitativo».
Queste sono citazioni che meritano un nostro commento, perché se da una parte è tesi nettamente marxista che è la politica che deve dominare l’economia («la politica è l’espressione concentrata dell’economia (...) la politica non può non avere il primato sull’economia», dirà il restauratore Lenin nella polemica con Trotski e Bucharin sui Sindacati nel 1921), nel senso che lo stesso Stato proletario dovrà affrontare tutti i suoi problemi non dal semplicistico punto di vista amministrativo-contabile, ma da quello ben più complicato dei rapporti fra le classi, e della loro influenza sulla politica interna ed esterna del Partito e dello Stato, dall’altro le tesi maoiste approdano completamente nell’idealismo e nel riformismo.
La tesi maoista è che lo slancio delle masse può
surrogare un
determinato basso sviluppo delle forze produttive, sostituendosi
così
ai mezzi di produzione che il capitalismo mondiale teneva ben
stretti,situazione questa reale e non certo inventata dalla pur fertile
mente di Mao. Si ha così che lo sviluppo delle forze produttive
dipenderà e seguirà l’intensità di questo slancio,
dal che la
proposizione di “rivoluzioni che si susseguono”, di “fervore
rivoluzionario” che non si deve spegnere.
Solo il “rosso ed esperto” può mantenere questo slancio, e,
soprattutto può farlo mantenere, con il bastone e la carota, ai
“quadri
ed alle masse in odore di presunzione”, tanto più che si deve
ammettere che lo sviluppo dell’intera economia passa da un equilibrio
ad uno squilibrio, e poi di nuovo ad un equilibrio. Più
crudamente,
fedele al suo personaggio, Liu Shaoqi dirà alla II sessione
dell’VIII
Congresso: flusso, riflusso, ancora flusso, presentando
così un
andamento sinusoidale dell’economia, schema che corrispondeva
altresì
alle esigenze degli uomini chiamati a mobilitarsi, capaci si di grandi
sforzi fisici, ma pure bisognosi del necessario riposo.
Mao lo deve rilevare il 20 marzo a Chengdu: «Se abbiamo
soltanto fretta e duro lavoro, questa è unilateralità.
Preoccuparsi soltanto dell’intensità del lavoro non sarebbe
sufficiente, non è vero ? In tutto il nostro lavoro noi
dobbiamo
servirci sia della calma che della fretta (per esempio, il segretario
di partito del Hsien di Wuchang non aveva tenuto conto dei sentimenti
dei contadini e voleva che andassero a lavorare alla costruzione della
diga anche il 29° giorno del decimo mese (lunare), così
più della metà
dei lavoratori civili non si presentarono».
Se di passaggio possiamo notare che questo schema “sinusoidale”,
“un progresso ad ondate” dirà sempre il 20 marzo Mao,
poggia interamente su capisaldi filosofici idealisti, perché il
riconoscimento del “movimento” sociale (al quale erano già
approdati i
greci) manca della determinazione delle caratteristiche del modo di
produzione reale, presente, finendo così sospeso nel niente
della
teorizzazione equilibrio-squilibrio, è chiaro che la questione
non era,
e non è, semplicemente filosofica ma ha un’immediata
ripercussione
nella politica pratica del regime. Infatti un dettame del Grande Balzo
in Avanti è che lo sviluppo economico non dipende dalla
distribuzione
aritmetica delle risorse note, ma dalla mobilitazione di tutte le
risorse latenti, delle braccia e delle menti dei 600 milioni di
cinesi !
Ma allora spariscono le figure dei contadini poveri e agiati, del proletariato di fabbrica come del suo direttore, del quadro di partito come dell’impiegato statale, ed appare in tutta la Cina, in ogni suo angolo, anche quello più remoto, il volto serio e barbuto di Stachanov ai cui sforzi tutto si chiede !
Se quindi la strada dei “prezzi” propugnata da Chen Yun
presupponeva uno Stato chiuso, rigido, pronto a difendersi anche
militarmente per controllare le forze sociali messe in moto dalla “liberalizzazione”
economica che avrebbe incrinato la sua base sociale,
il contadiname, la strada della “mobilitazione” ammetteva uno Stato
aperto, più “popolare» e meno “centralizzato”, unico modo
perché fosse
possibile attuare una mobilitazione fisica, morale, ideologica, capace
di sfruttare fino in fondo tutte le risorse, di popolazione e di dati
fisici dell’immenso paese, confessione questa di una economia
dipendente dalla campagna e che riusciva solo malamente a risolvere il
problema base di ogni ulteriore progresso: l’alimentazione !
Il discorso che Mao tenne il 28 gennaio 1958 al Consiglio di
Stato, ben sintetizza lo spirito della “mobilitazione» che si
stava
preparando:
«Raggiungeremo l’Inghilterra in 15 anni circa; la
pubblicazione del programma in 40 punti per lo sviluppo agricolo
è
stata di grande incoraggiamento per le masse (...) Non c’è posto
per il
pessimismo. Il pessimismo è sbagliato. Quando critichiamo i
pessimisti
non dovremmo venire alle mani ma cercare di farli ragionare. Dobbiamo
dirgli che abbiamo davvero una speranza grande non piccola. Dobbiamo
insistere sulla parola “grande”, o come dicono i giapponesi (quando
parlano cinese) abbiamo “grande grande” speranza.
«La nostra nazione si sta svegliando, proprio come una persona
che si sveglia dopo il sonno della notte. Abbiamo rovesciato il sistema
feudale vecchio di migliaia di anni e ci siamo svegliati. Abbiamo
cambiato il sistema di proprietà; abbiamo ottenuto vittorie
nelle
campagne di rettifica e nella campagna contro la destra. Il nostro
paese è al tempo stesso povero e bianco. Il povero non ha niente
che
possa dire di suo. Chi è in bianco è come un foglio di
carta bianca.
Essere povero è una cosa buona perché ti spinge a essere
rivoluzionario. Con un foglio di carta in bianco si possono fare molte
cose. Ci puoi scrivere sopra e disegnarci. La carta in bianco è
la
migliore per scriverci su (...) Tuttavia noi abbiamo grande slancio,
dobbiamo metterci alla pari. Raggiungeremo l’Inghilterra entro quindici
anni.
«Questi quindici anni dipendono dai primi cinque. I primi
cinque dipendono da i primi tre. I primi tre dal primo e il primo anno
dal primo mese.
«Ora il nostro entusiasmo si è risvegliato. La nostra
è una
nazione ardente, travolta da una bruciante marea. C’è una buona
metafora in proposito, la nostra azione è come un atomo...
quando il
nucleo di questo atomo verrà spezzato, l’energia termica
sprigionata
avrà una potenza davvero impressionante. Noi saremo capaci di
fare cose
che prima non potevamo fare».
Il mistico discorso tutto teso a scuotere gli animi della Nazione
e del popolo lanciati verso borghesi traguardi, innalza la
povertà a
fattore positivo, secondo l’assioma che il povero è
rivoluzionario e
possiede entusiasmo.
Ora, l’appello mistico all’entusiasmo delle masse diveniva
indispensabile ad un regime che si apprestava a sostituire con
l’energia umana i mezzi produttivi offerti dalla rivoluzione tecnica
capitalistica, blandendo in una certa misura la diffidenza contadina
verso le innovazioni moderne; ma subito va aggiunto che non solo
l’equazione povero uguale rivoluzionario è falsa, in special
modo
quando il povero è rappresentato da una massa di piccoli
contadini
che tendono a dar soddisfazione ad illusioni proprietarie, ma di
più:
la Cina non poteva, ne può, essere nessuna pagina bianca.
La Cina è stata teatro di epiche lotte di un giovane ma concentrato e combattivo proletariato, risultato diretto della violenta penetrazione imperialistica in un immenso paese dal modo di produzione asiatico. Sconfitta la rivoluzione proletaria negli anni 1927-28 per cause essenzialmente internazionali, la Cina ha mostrato una rivoluzione borghese contadina capace di decisioni e di impennate orgogliose nei confronti dell’intero schieramento imperialistico, Russia compresa.
Rivoluzione borghese in un processo internazionale di “controrivoluzione democratica”, va giudicata sistemando al loro giusto posto fattori interni ed esterni per un lungo arco di tempo, zeppo di avvenimenti potenti e miseri che fanno della Cina tutto fuorché una pagina bianca.
La dimenticanza di Mao non è di poco conto né casuale, è il mito borghese dell’Uomo che fa la storia mentre il marxismo afferma che la fa ma con il materiale del passato e con i... piedi, dimenticanza che naturalmente intendeva una Cina ridotta ad un modello autoctono ed arcaico, estrema beffa alla pretesa di raggiungere in quindici anni la perfida e vecchia Albione studiata da Marx come modello capitalistico valevole per l’intero globo !
Abbiamo già detto, nel capitoletto 40 Mobilitazione e migrazioni verso la campagna, che nell’inverno-primavera 1958 si formarono le prime brigate per i lavori idrici; brigate che si differenziavano sostanzialmente da quelle che nel passato raggruppavano i contadini di una certa zona e di una stessa cooperativa, con poderi più o meno prossimi, in occasione di importanti lavori agricoli come i raccolti.
Le “brigate idriche” si spostavano da luogo a luogo secondo le esigenze costruttive e basavano la propria organizzazione sulla “razionalità” di una certa divisione del lavoro, mentre le vecchie brigate non erano altro che una mutua assistenza la quale lasciava immutata l’organizzazione produttiva sia della singola cooperativa, sia dei singoli poderi.
I metodi usati per l’organizzazione delle “brigate idrauliche” ricalcavano per certi versi quegli delle unità militari, metodi che sotto l’impulso del Grande Balzo in Avanti si cominciò ad applicare alla totalità del lavoro agricolo superando i confini dei pur importantissimi lavori idraulici. Si profilava così, nettamente, la rottura dei tradizionali equilibri sociali nei villaggi.
Già il 4 luglio 1958 un articolo del ”Jenmin Jihpao” descriveva la cooperativa n. 38 a Su-h sien, nello Anhui, “amministrata come una fabbrica”. La cooperativa in questione era già molto grande, in quanto comprendeva 1.065 famiglie contro una media, per il 1957, di 152 famiglie, e secondo il significativo articolo aveva dovuto affrontare tre importanti problemi, naturalmente suscitati dal Grande Balzo in Avanti.
Primo era l’esigenza di “metter su” un’industria capace di fornire agli agricoltori mezzi di produzione e fertilizzanti necessari; il secondo che la “divisione del lavoro semplice originaria” non era più in grado di promuovere l’atteso balzo in avanti della globale produzione agricola; il terzo, ed ultimo, che contemporaneamente ad una carenza di tecnologia, cioè di moderni mezzi di produzione, si aveva una carenza di forza lavoro, problema questo sconosciuto alla Cina tradizionale.
Ma i tre problemi non erano che una logica conseguenza dello stesso fatto.
I lavori di irrigazione estesi e complessi avevano già sottratto una parte cospicua di forza lavoro dai campi e questo nonostante il non trascurabile apporto della popolazione urbana; mentre il tentativo di aumentare la disponibilità di concimi e fertilizzanti avviando alla produzione piccole industrie locali si scontrava con una mancanza di mezzi che faceva risaltare ancor più la mancanza di uomini capaci di surrogare, con i loro sforzi fisici, il movimento delle macchine, proprio quando il ricco raccolto estivo che si profilava richiedeva ulteriori apporti di mano d’opera straordinaria.
L’articolo descriveva la nuova organizzazione, tipo fabbrica:
«Nell’intera Cooperativa si erano formate dieci brigate
specializzate e sette fabbriche. Ogni brigata specializzata all’interno
della cooperativa aveva una singola organizzazione; all’interno di ogni
brigata specializzata, vennero costituite brigate e squadre
specializzate. Ogni membro e ogni quadro della cooperativa partecipava
all’attività delle brigate, secondo la qualificazione e le
necessità di
lavoro di ognuno. Alcune di queste brigate erano permanenti e duravano
un anno, come le sette fabbriche e le brigate addette al macchinario,
le brigate per la vernalizzazione, le brigate per le costruzioni di
base, e così via, con qualche piccola fluttuazione. Alcune erano
relativamente permanenti, come le brigate per il trapianto del riso, le
brigate per il prosciugamento dei campi, le brigate addette allo scavo,
le brigate addette al giardinaggio (...) tali brigate praticavano una
divisione del lavoro, ma avevano una direzione comune.
«Nelle loro attività agricole, esse si subordinavano alle
necessità generali e alle distribuzioni unificate della
cooperativa;
per esempio, durante la stagione estiva, più del 90% della
forza-lavoro
dell’intera cooperativa partecipava al raccolto estivo».
L’articolo concludeva che una tale organizzazione del lavoro, il cui esperimento era durato “molti mesi”, aveva innalzato la produttività del lavoro, eterno corno della produzione capitalistica.
Rapporti ed articoli simili da settimane ormai si pubblicavano sui vari giornali, e nelle diverse regioni e la stura era stata data nientemeno che da un articolo di Mao, Presentazione di una cooperativa, sul primo numero di “Bandiera Rossa” (“Hong Qi”) uscito il 1 giugno; segni questi che indiscutibilmente rivelano come la conferenza di Beidaihe del 17-30 agosto successivo, sulla quale in avanti ci soffermeremo, non avrebbe che ratificato un dato di fatto, e che il raccolto dell’estate sarebbe stato interamente condotto con il già sperimentato nuovo metodo di “lavoro razionale”.
Nuovo metodo che, sempre secondo l’articolo, aveva subitamente manifestato il suo apprezzabilissimo pregio: quello di aumentare il numero degli individui attivi (lavoranti a tempo pieno o parziale) passati, per la Cooperativa n. 38, da 2093 a 2300 con il reclutamento dei vecchi.
E stava nell’introduzione di questo metodo “razionale” la vera e propria rottura con la passata conduzione agricola, rilevata dai più onesti sinologhi.
La riforma agraria susseguente alla costituzione della Repubblica aveva eliminato come forza sociale operante e determinante i proprietari fondiari, ma aveva dovuto lasciare immutata la base economica sulla quale tale strato si reggeva, la piccola conduzione particellare familiare.
Le terre confiscate erano state assegnate a contadini poveri e medi, ma questa partizione era la naturale base per una nuova differenziazione sociale basata non tanto sulla proprietà fondiaria e l’usura, quanto su un primitivo ma iniziale capitale agrario; il “diritto” alla proprietà della terra non era ancora istituzionalizzato che già il regime si era impegnato nel favorire e suscitare la collettivizzazione delle terre, che pareggiò la relativa agiatezza dei contadini ricchi e medi con le peggiori condizioni dei rimanenti contadini, grande maggioranza.
Come abbiamo documentato, la collettivizzazione subì avanzate e rinculi clamorosi, tanto che pure i contadini poveri alla fine la considerarono una mezza disgrazia, cedendo sì le proprie terre ed i propri strumenti di lavoro alle cooperative, ma conservando altresì la casa, l’orto, alcuni alberi ed alcuni animali.
In questa situazione le brigate che furono costituite nelle cooperative, avevano poco o niente innovato del processo produttivo i cui segreti si tramandavano gelosamente di generazione in generazione.
I contadini, poveri o ricchi che fossero, continuavano a lavorare le stesse identiche terre, con le brigate delle cooperative tutti insieme, ma rimaneva il dato che sulle stesse zolle si continuano a svolgere le stesse operazioni dagli stessi uomini, anni prima affittuari poi proprietari infine cooperatori.
L’orto, gli animali da cortile rimanevano poi il rifugio e la sicurezza della singola famiglia la cui routine lavorativa continuava a seguire l’incedere delle stagioni, dei fattori climatici, routine che attendeva a piè fermo un’accumulazione di capitale pure nelle campagne, ben lungi dall’essere proletarizzate.
Era stata l’inevitabile impossibilità del regime di Pechino a stornare verso il settore della produzione agricola, grandi quantità di capitali, necessari all’industrializzazione, a mettere in discussione ed a minare il lento procedere del mondo contadino.
Che significava la “nuova” organizzazione razionale del lavoro ? Ogni contadino veniva reclutato in una squadra di lavoro nella quale svolgeva determinati compiti, inquadrato con contadini con i quali non aveva mai lavorato e con i quali non valevano quei rapporti familiari tanto forti da sussumere nel passato la stessa organizzazione del processo produttivo.
Di più, con la “nuova” organizzazione il contadino si ritrovava a lavorare una terra non sua, non familiare in tutti i sensi, per cui la conoscenza intima del proprio appezzamento di terra perdeva qualsiasi significato; mentre prima poteva far fronte alle idiosincrasie del suolo attingendo dalle sue conoscenze e nozioni, estese ma troppo particolaristiche, adesso non aveva altra risorsa che affidarsi a metodi “universali”, propri del lavoro razionalmente definito, il che negli anni a venire peserà negativamente di fronte non solo alle catastrofi climatiche, ma anche all’ottusità di quadri e dirigenti di partito.
Questa svolta produttiva metteva logicamente in mano ai “quadri” di partito la conduzione e l’organizzazione delle cooperative, quadri dotati di conoscenze generali e ligi agli ordini dell’amministrazione governativa, ma incapaci però di afferrare la conoscenza intima del terreno propria dei vecchi contadini, fedeli custodi dell’equilibrio terre-acque che il Grande Balzo in Avanti successivamente frantumerà, con effetti per lo più disastrosi.
Ai primi di agosto nel corso della sua visita a Hsu shui nella provincia dell’Hebei, a Mao viene riferito da parte del locale primo segretario del Comitato di Partito, che su 110.000 lavoratori del hsien, più di 40.000 erano stati impiegati per la costruzione di impianti idrici, scavo di fonti, messa in opera di industrie locali, rimanendo così per il lavoro dei campi 70.000 uomini, tanti ma insufficienti per gli ambiziosi traguardi della nuova organizzazione razionale.
Dopo i vecchi furono le donne ad essere chiamate a rimediare la carenza di mano d’opera. Le donne nella Cina settentrionale in genere non compivano lavori strettamente agricoli ma erano saldamente incatenate alle fatiche del focolare domestico, tanto che questa rottura col passato ebbe un’immediata ripercussione sull’organizzazione familiare e sulla rimanente proprietà privata della famiglia contadina.
Il dato che poche persone, per lo più inabili, rimanevano a casa ad occuparsi degli interessi privati della famiglia contadina, rese automatico il passaggio degli appezzamenti privati, degli animali da cortile e dei suini, degli alberi come degli attrezzi da lavoro, totalmente alle cooperative in molti posti già denominate “Comuni”, alle quali si demandava la “gestione unificata” di terre, animali ed... uomini !
Se solo in alcune cooperative si arrivò a sostituire le case private con dormitori, certa era la fine della limitata vita privata dei contadini, tutto diveniva pubblico in villaggi-caserme a cui il regime tutto chiedeva, propagandando il raggiungimento del “comunismo” questione di ore !
La carenza di mano d’opera si sarebbe poi fatta valere per un altro importante aspetto. Le vecchie cooperative limitavano la loro estensione al villaggio, tanto che le brigate per i lavori idrici avevano imposto, per la complessità delle opere da realizzare, la fusione di più cooperative. Il Grande Balzo in Avanti con il suo tentativo di “industrialismo agrario” imponeva una gestione unitaria ancora più estesa della forza lavoro, come delle risorse disponibili, per cui le cooperative aumentarono ancor più la loro estensione. Quando giunse il momento del raccolto estivo, dagli ottimi risultati, divenne ancor più evidente la carenza di mano d’opera quindi si rivelò ancor più necessario spostare le squadre e le brigate da un villaggio ad un altro, secondo il momento ottimale del raccolto.
Significativo fu l’editoriale del “Jenmin Jihpao” del 18 agosto, un giorno dopo l’apertura della sessione allargata dell’Ufficio Politico del PCC a Beidaihe decisiva per il lancio del movimento delle Comuni popolari, in cui veniva fatta la cronaca di una fusione di più cooperative della provincia dell’Henan, avvenuta mesi prima:
«Quest’anno in aprile, Duip’ing e P’ingyu, che sono due hsien, hanno iniziato a incorporare le cooperative più piccole in quelle più grandi. Ogni hsien ha costituito una grande cooperativa di 6.000-7.000 famiglie. Nei mesi di maggio e giugno le cooperative dei due hsien hanno incominciato gradualmente a fondersi l’una con l’altra, verso la metà di luglio, l’intera regione subiva l’ “alta marea” delle fusioni e della costituzione delle Comuni Popolari. Per la fine di luglio, il lavoro di fusione delle 5.376 cooperative della regione era fondamentalmente compiuto. Ora 208 Comuni Popolari di vaste dimensioni sono pronte, con una popolazione media di 8.000 famiglie»
Sul primo numero dell’organo teorico del C.C. “Bandiera Rossa” vi era un articolo significativo di Chen Boda titolato “Sotto le bandiere del compagno Mao”, nel quale si propagandava affinché l’industria, l’agricoltura, il commercio e l’educazione, insieme con l’esercito, venissero combinati in una sola grande “Comune”:
«In questo tipo di Comune, l’industria, l’agricoltura e il commercio sono la vita materiale del popolo, mentre la cultura e l’istruzione sono la vita spirituale, e riflettono la vita materiale. Armare il popolo significa proteggere tale vita materiale e spirituale».
Con logica stringente Chen Boda, saldava il termine Comune con la “militarizzazione” della popolazione, come ugualmente farà un redattore del “Jenmin Jihpao” nel riferire come – in un distretto dell’Hebei – Mao era stato informato, l’11 agosto, che «si era realizzata la militarizzazione; la cooperativa dell’intero hsien aveva costituito più di 90 battaglioni e più di 300 compagnie».
Quando Pechino nel settembre lancerà definitivamente il movimento delle Comuni Popolari, contemporaneamente si avvertì che sarebbe stata ricostruita una milizia popolare, il cui reclutamento fu così rapido che alla fine del 1959 contava 220 milioni di arruolati, di cui 300 mila armati.
Ma è sciocco vedere in ciò l’apoteosi dello Stato popolare che quasi si scioglie nel popolo mettendosi alla mercé della sua volontà. La teoria marxista vi legge ben altro: la mobilitazione sociale evocata dal Grande Balzo in Avanti doveva poggiare su una base salda di quadri fedeli esecutori e capaci di inquadrare il resto dell’intera immensa popolazione; lo Stato era quindi costretto a reintrodurre e mantenere in tempi di pace i sistemi organizzativi ferrei di un esercito in guerra. Se apologia vi deve essere, è dello Stato dittatoriale e militare non di quello popolare !
Lo stesso organo “Bandiera Rossa” tornerà sull’argomento in agosto: «Numerosi lavoratori hanno accettato senza esitazione le forme organizzative della Comune Popolare, e hanno senza esitazione trasformato molto (!) gli antiquati rapporti di produzione (...) I lavoratori, nella loro corsa in avanti, hanno lanciato gli slogan seguenti, che soddisfano lo spirito rivoluzionario: militarizzare l’organizzazione, trasformare l’azione in lotta, collettivizzare la vita ! Ciò che si intende per militarizzazione dell’organizzazione non significa certo che essi siano realmente in procinto di organizzare compagnie militari, e tanto meno significa che essi desiderino dotarsi di gradi militari. Lo sviluppo rapido dell’industria richiede semplicemente che essi diano molto rilievo al carattere organizzativo, richiede che essi agiscano con rapidità nel loro lavoro, in modo più disciplinato e più efficiente, che possano spostarsi all’interno di un quadro più ampio, come gli operai in una fabbrica, oppure come i soldati di una unità militare. Così essi hanno capito che la loro organizzazione richiede la militarizzazione (...) anche se la militarizzazione nel lavoro agricolo non è intesa allo scopo di respingere i nemici dell’umanità, ma allo scopo di portare avanti la lotta contro la natura, essa rende facile la trasformazione di uno di questi due tipi di lotta nell’altro. La Comune Popolare che combina l’industria con l’agricoltura, con il commercio, con la cultura, con l’istruzione e con l’esercito, in un momento in cui non si verificano attacchi esterni da parte del nemico, è un esercito che avanza contro la natura, che lotta a favore dell’industrializzazione dei villaggi, dell’urbanizzazione dei villaggi e per il futuro felice del comunismo nelle campagne. Ma se un nemico esterno osasse attaccarci, tutti potrebbero essere mobilitati, armati ed uniti in un esercito e distruggere il nemico in modo definitivo, risoluto, completo»,
Nel clima “comunista” ne conseguiva che il contadino aveva perduto ogni libertà (tempo, lavoro, metodi e scelta delle colture, ecc.); aveva cessato di appartenere al proprio clan e alla propria famiglia per entrare al servizio esclusivo dello Stato-padrone della Comune.
Così il contadino si trovava ad essere inquadrato come mai era stato in tutta la sua storia, anche se il popolo cinese, essenzialmente agricolo, era abituato sin dalla sua preistoria a comunità rurali autosufficienti, in cui ha sempre condotto un tipo di vita estremamente disciplinato, con ogni suo pensiero e ogni sua azione limitati dalle ferree regole di una concezione della vita in comune sconosciuta al mercantile e commerciale occidente.
La corvée ed il lavoro gratuito dei contadini sono costanti nella storia dell’immensa Cina; la novità stava che lo Stato centrale, estendendo il suo braccio fino all’individuo singolo, mentre prima si arrestava al villaggio, al clan, alla famiglia, poteva generalizzare ed istituzionalizzare mobilitazione e militarizzazione; tanto che sarebbero bastati due o tre anni di sofferenze e di sforzi ed il comunismo, la felicità, sarebbero stati raggiunti, avrebbe scandito la risoluzione di Beidaihe !
Era l’apogeo dell’ideologia di Mao con cui si impone il senso del sacrificio, l’elogio dell’austerità, del lavoro fino allo spasimo, della collaborazione di tutti i membri della società, con il nemico da distruggere rappresentato dalle vecchie abitudini all’immobilismo patriarcale della vita del villaggio, ceppi che oggettivamente si frapponevano alla mobilitazione di massa dell’unica forza produttiva a disposizione, la forza lavoro, proprio in quanto si trattava dare la base all’accumulazione originaria, senza macchine e con uno Stato centrale ai suoi primi passi dopo secoli di guerre civili e di regionalismi.
Significativamente, come i saturnali nazionalisti avevano contraddistinto la statalizzazione dell’industria e la “rifondazione” dell’amministrazione statale, gli appelli alla mobilitazione interna furono accompagnati dalle cannonate contro le isole Quemoy-Matsu ancora sotto il Generalissimo e super protette dagli americani, ultimo tentativo di risolvere con le armi il problema del ritorno della provincia di Taiwan sotto il governo centrale di Pechino. Politica esterna in sintonia con quella interna, tutte due ugualmente borghesi.
Prima quindi del lancio ufficiale del movimento delle Comuni, già nell’aprile si ha la fusione di più cooperative contigue, fatto che i cronisti cinesi appellavano lavoro, lavoro che nel luglio diventa una “alta marea”, termine metaforico per indicare una maggiore intensità nel processo di fusione delle cooperative.
Secondo i rapporti apparsi sulla stampa locale, l’ alta marea nel luglio 1958 aveva oramai interamente interessato le regioni dell’Hebei, dell’Henan e della Manciuria, tanto che un editoriale del “Jenmin Jihpao” del 21 agosto riferiva come il Comitato di Partito di uno hsien dell’Henan si fosse riunito dal 29 luglio al 5 agosto, nella sede della Comune Sputnik, futura Comune modello, per “consolidare la Comune Popolare e sviluppare ulteriormente la produzione”.
La provincia dell’Henan era stata colpita sempre nel mese di luglio da gravi alluvioni, e certamente i problemi idrici furono una formidabile molla nei confronti del movimento di fusione delle cooperative, primo decisivo passo per la costituzione delle Comuni.
Un rilievo si impone: il processo di “comunalizzazione” senza essere stato spontaneo non fu per questo interamente imposto dall’alto. Le condizioni oggettive, indiscutibilmente favorevoli alla trasformazione delle cooperative in strutture più ampie ed estese, erano presenti. La storia secolare delle campagne cinesi abbonda infatti di combattimenti per e contro l’acqua, combattimenti che si facevano valere nei confronti sia dell’organizzazione economica che di quella politica.
La continua presentazione di rapporti simili sulla stampa indicava chiaramente che tutto era predisposto per l’ufficializzazione delle Comuni Popolari, termine apparso per la prima volta sul “Jenmin Jihpao” dell’11 agosto in un articolo che descriveva la visita di Mao in un hsien dell’Hebei a seguito dell’ispezione dal 6 all’8 agosto nella Comune di Qili-ying nello Henan:
«Le Comuni che prima “fermentavano” nel villaggio Tassukochuang vennero formalmente costituite quella sera: tutti gli alberi vennero collettivizzati; anche le case dovevano essere uniformemente distribuite dalla Comune i cui membri dovevano mettere in atto un sistema di salari».
Rapporti simili su visite di Mao in altre Comuni appaiono sul “Jenmin Jihpao” il 12 ed il 13 agosto successivo, veri e propri vaticini per la Riunione di Beidaihe.
È infatti dal 17 al 30 agosto che si tiene nella stazione climatica di Beidaihe, prossima a Pechino nella provincia dell’Hebei, una riunione allargata dell’Ufficio Politico con presenti i segretari delle provincie ed i principali quadri statali, oltre i membri del CC del PCC.
La lunghezza stessa della riunione è un indice sia della gravità dei disaccordi fra i principali esponenti politici, sia che il CC non aveva potuto presentare precise decisioni politiche per una discussione operativa, tanto che il procedere della Comunalizzazione sarà oltremodo caotico e variegato da località a località.
Se quindi, probabilmente, la decisione di promuovere il movimento delle Comuni Popolari era stata presa dalla straordinaria II sessione dell’VIII Congresso svoltasi dal 5 al 23 maggio, la Riunione di Beidaihe sotto la spinta dell’ottimo raccolto estivo, il cui andamento già nel passato aveva deciso le svolte dei “grandi” uomini del regime, si apprestava a generalizzare, non senza contrasti che esploderanno di lì a pochi mesi, un movimento già esteso in molte importanti zone delle regioni settentrionali.
Come nel 1955 il Politburo si trovò di fronte al fatto compiuto, ad un processo già in atto che in un mese coinvolgerà l’intera popolazione contadina, come bene possiamo rilevare dalla tabella riportata.
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I “quadri” furono spinti ad improvvisare ed a prendere proprie decisioni in pieno processo di formazione delle nuove unità economiche-amministrative, ed il disordine e la confusione nacquero dal diverso procedere delle Comuni e delle differenti località riguardo la dimensione, la struttura e i sistemi di proprietà e di ripartizione, questioni su cui il PCC solo a fine 1958 prenderà precise posizioni.
Il Comunicato-risoluzione del CC sulla costituzione delle Comuni Popolari venne emesso il 29 agosto, ma non fu pubblicato che il 10 settembre successivo accompagnato dai regolamenti della Comune Sputnik a mo’ di esempio, quando la comunalizzazione aveva fatto un altro decisivo passo in avanti inglobando quasi il 50% delle famiglie contadine.
L’inizio particolarmente ottimista della risoluzione: «Il progresso senza precedenti dell’agricoltura permetterà di stabilire una nuova base per eliminare praticamente inondazioni e siccità», veniva bilanciato dalla prudenza di una successiva affermazione: «Si deve combinare la fusione delle grandi cooperative in Comuni con le condizioni di produzione esistenti; non solo tale fusione non deve influenzare negativamente la produzione esistente, ma questo movimento deve trasformarsi in una grande forza che stimoli un balzo in avanti ancora più grande della produzione», affermazione che indicava come la «mobilitazione permanente», pur con le differenze da zona a zona, fosse la sostanza della organizzazione delle Comuni.
Ma vediamo, prima di avanzare nella trattazione, quali fossero le caratteristiche e gli scopi delle Comuni presentate dalla propaganda filocinese come un’anticipazione della futura struttura della società comunista, caratteristiche e scopi ben diversi da quelli delle cooperative dalle quali pur derivavano.
La risoluzione della riunione di Beidaihe non parlava dell’organizzazione della produzione e delle strutture della Comune, ma il “Jenmin Jihpao” del 4 settembre proponeva di ispirarsi alla Comune Sputnik e di ripartire i membri della Comune «in contingenti di produzione che si suddividano in brigate».
Cosa furono dunque le Comuni ? Per l’essenziale, delle cooperative che si fusero localmente. «Tutti i grandi raggruppamenti di cooperative saranno chiamati Comuni Popolari», annunciò Mao a commento del processo che vedeva prima la fusione delle esistenti cooperative, poi la loro trasformazione in Comuni.
Alla base si aveva pertanto la squadra composta dalle 20 alle 50 famiglie e che disponeva di 200-600 mu, cioè 15-40 ettari, di terra coltivabile, a seconda delle regioni. La squadra corrispondeva come dimensioni alle vecchie cooperative elementari o semisocialiste.
Al disopra delle squadre si aveva la brigata che corrispondeva sensibilmente alle esistenti cooperative. Costituita da 150-300 famiglie – generalmente una decina di squadre – lavorava in media 2 mila mu (150 ettari) di terra.
Infine la Comune Popolare in quanto tale, che variava di molto come dimensioni, secondo la densità della popolazione e l’efficienza delle comunicazioni; comprendeva da 10 a 20 brigate, in media 5 mila famiglie (20 mila abitanti) e territorialmente i dirigenti di Pechino cercarono di far coincidere lo hsiang (villaggio amministrativo) con la Comune.
La Comune modello Sputnik tuttavia, comprendeva 9.300 famiglie e 43 mila abitanti ed aveva assorbito 27 cooperative tanto che il suo territorio si estendeva per ben 4 hsiang.
Ma a parte le eccezioni, anche se originariamente le Comuni erano di dimensioni diverse, col passare del tempo esse pervennero ad equivalere allo hsiang, come era nei voti della risoluzione dell’agosto:
«Per quanto riguarda le dimensioni organizzative delle Comuni, si può affermare che attualmente e complessivamente è opportuno che uno hsiang equivalga a una Comune, con un totale di 2 mila famiglie. I limiti di alcuni hsiang sono piuttosto ampi e la popolazione è relativamente scarsa; in questi casi, si possono ammettere meno di 2 mila famiglie, e uno hsiang può contenere più di una Comune. In certe aree, in dipendenza dalle condizioni naturali e dalle necessità dello sviluppo produttivo, più hsiang possono andare a comporne uno solo, e quindi si può costituire una sola Comune, con sei o sette mila famiglie. Per quanto concerne le Comuni con dieci o ventimila famiglie, non ci si deve opporre alla loro esistenza, ma nemmeno incoraggiarle».
Nell’estate del 1958, la fusione della Comune e dello hsiang era diventata una direttiva politica ufficiale ed era vista nello spirito del “comunismo” imminente, dello Stato che si scioglie nella società.
Ma non si trattava di una “indigestione” di “democrazia”, tutt’altro.
La fusione della Comune con lo hsiang era enormemente facilitata per il ruolo dominante che il Partito svolgeva nell’amministrazione. Una volta che lo hsiang, con il suo Comitato di Partito, e la Comune, con il suo Comitato di Partito, si fossero semplicemente identificati, la fusione delle strutture amministrative e produttive diveniva una questione relativamente semplice.
Era questo un salto di qualità rispetto alle cooperative, le quali, di fronte allo Stato rappresentavano, almeno teoricamente un’unità economica particolare, con interessi propri.
La Comune-hsiang che, come “unità omogenea del fondamento della futura società comunista”, svolgeva anche attività amministrative di governo locale, rafforzava invece prepotentemente la lunga mano statale del PCC sulla popolazione rurale, con un controllo più diretto da patte delle autorità centrali sull’importantissima produzione agricola. Le funzioni dello Stato a livello locale che passarono sotto le Comuni furono: la riscossione delle imposte agricole che venivano calcolate quale percentuale di un reddito fittizio dei terreni, la giustizia, la sanità, l’educazione, la milizia, i lavori pubblici, l’industria ed il commercio.
Per rendere evidente il volere centralizzatore, il presidente dell’amministrazione della Comune era contemporaneamente un funzionario dello Stato e del Partito, chiara manifestazione di come i “quadri”cercassero di estendere il controllo statale sulla famiglia contadina, dopo i successi avuti nelle zone urbane e nelle fabbriche.
A scanso di equivoci va affermato che la centralizzazione non è un imperativo morale, ma è necessità economica prima di tutto, e politica poi; per questo non è un risultato dato per sempre.
Se la costruzione Stato-Comuni è nettamente centripeta, la base sulla quale poggiava, cioè il pulviscolo di aziende autosufficienti, autarchiche e familiari è altrettanto nettamente centrifuga, dissidio tuttora irrisolto a causa della difficile industrializzazione delle campagne cinesi.
La questione importantissima della proprietà dei mezzi di produzione sarà, nei mesi seguenti la riunione di Beidaihe, oggetto di controversie e cambiamenti importanti, ma dall’inizio, dell’estate al dicembre 1958, è probabile che fu ovunque seguito l’articolo 4° dello Statuto della Comune Sputnik, secondo il quale al momento della loro fusione, le cooperative dovevano passare la totalità dei mezzi di produzione alla Comune che pure diveniva proprietaria delle intere risorse del suolo e delle acque, salvo nel caso in cui queste non venivano direttamente sfruttate dallo Stato o dalle Provincie e dallo hsien.
La risoluzione di Beidaihe aveva avanzato che: «In generale, gli appezzamenti privati possono eventualmente essere fusi nella gestione collettiva della terra (...) non bisogna aver fretta nello stabilire una regola precisa riguardo gli appezzamenti privati, gli alberi da frutta isolati, ecc.», ma il procedere impetuoso della comunalizzazione infranse ogni riserva e tutti i confini familiari privati.
L’articolo 5° degli stessi Statuti Sputnik precisava che anche le terre, le case, il bestiame, gli alberi dei membri delle cooperative o delle famiglie isolate venivano ugualmente trasferiti in proprietà alla Comune; al contadino rimaneva di proprietà solo gli scarsi beni di consumo, fatto che faceva definitivamente venir meno la speranza di una ridistribuzione della terra alle famiglie contadine da parte dello Stato com’era nella tradizione storica cinese.
Resoconti dei giornali non facevano che riportare cronache di riunioni di massa in tutta la Cina, nelle quali i contadini «rinunciavano alla loro proprietà privata» per divenire di fatto degli operai agricoli al servigio della Comune.
Nello hsien Loto, provincia di Qinghai, nella Comune Bandiera Rossa, vennero riferiti i seguenti avvenimenti:
«Un giorno, quando la piccola brigata n.12 di questa Comune tenne una riunione, i membri della Comune registrarono gli orti, le case, le pecore, le sedie, le tavole, le panche, i banchi, i vasi e le stoviglie, insieme con il materiale di produzione e il materiale di sussistenza e con tutto il cuore lo donarono alla Comune. Abbiamo domandato ad alcuni membri della Comune: “Ora che avete donato tutti questi beni di sussistenza alla Comune, come sarete in grado più tardi, di comprare beni come le radio, gli orologi e altre cose simili ? E se sarete in grado, saranno proprietà della Comune anch’essi ?”. Essi non esitarono a rispondere: qualunque cosa appartenga alla Comune e qualunque cosa appartenga ai privati va considerato dal punto di vista dell’utilità a fini produttivi».
Il quadro descritto per la Comune Bandiera Rossa venne stereopaticamente ripetuto migliaia di volte in tutta la Cina.
Nella febbre della comunalizzazione, i quadri premevano per la collettivizzazione di quasi tutta la proprietà privata, andando ben oltre al tentativo del biennio 1956-57.
Va risposto al quesito se tali quadri esprimevano inconsciamente le aspirazioni degli strati più poveri della popolazione rurale, come poi verrà sostenuto dalle Guardie Rosse durante la Rivoluzione Culturale, tesi che logicamente vede nel Mao di quegli anni l’integerrimo difensore del marxismo.
La teoria marxista non si lascia abbacinare dalle pretese collettiviste di un dato regime, proprio in quanto mai ha descritto il modo di produzione capitalistico come un modo di produzione privato, ma sociale tanto che già nettamente anticipò, in pieno capitalismo concorrenziale privato, che ad un dato grado di sviluppo, delle forze produttive potrà fare a meno della stessa classe borghese sostituendola con individui stipendiati.
Le sorti quindi di pochi e miseri oggetti di consumo appartenenti alle famiglie contadine, non possono smuovere di un millimetro il giudizio già formulato di uno Stato cinese capitalistico che aiuta, con tutti i mezzi, la formazione di capitale agrario nell’immensa e popolata campagna.
Marxisticamente la strada per il socialismo poggia su nessuna collettivizzazione ma ha come condizioni irrinunciabili il grado di sviluppo delle forze produttive e quello dell’internazionale rivoluzione proletaria, condizioni indissolubilmente legate.
Ma abbiamo invece uno Stato che ha bisogno di una industrializzazione forzata, di un’accumulazione forzata di capitale, che tenta di spingere al massimo le forze produttive, di basare l’accumulazione capitalistica, nell’industria e nelle campagne, sull’unico fattore effettivamente esistente in sovrabbondanza in Cina, che è la forza degli uomini, sulle braccia estremamente disponibili.
Mobilitazione a cui naturalmente si opponeva l’economia particellare e familiare dei contadini poveri come di quelli ricchi, tutti ugualmente attaccati alla loro casa, al loro orto, ai loro animali. L’eccezionale raccolto estivo del 1958 ed il relativo conseguente benessere fece accettare a tutti l’estrema collettivizzazione, che durò del resto pochi mesi per poi sbriciolarsi non solo per le sopraggiunte difficoltà produttive ma anche per la caparbia resistenza proprietaria dei contadini, pure di quelli poveri.
Va quindi detto che uno Stato che vuole rovesciare le forme di produzione, come sarà lo Stato proletario, procederà in maniera molto più lenta magari, ma procederà sicuramente a modificare i rapporti agricoli in maniera che non chiudano la strada che va verso la grande azienda statale condotta da salariati, verso la proletarizzazione della popolazione rurale.
Tipicamente sia lo stalinismo, sia il maoismo, autori ambedue di due cruenti e radicali collettivizzazioni, hanno poi classificato come socialista una forma di conduzione agricola che se è superiore alla semplice conduzione familiare, non poteva arrivare alla forma di conduzione per salariati della grande azienda, proprio perché il basso livello delle forze produttive delle campagne si imporrà su qualunque posa radicale saldando indissolubilmente, sia nei colcos che nelle Comuni, la conduzione collettiva di una parte delle terre con quella individuale degli orti, ibrido connubio che reggerà mirabilmente la prova degli anni, anzi dei decenni, chiara sconfitta non solo del collettivismo maoista ma dello stesso capitalismo cinese.
La risoluzione di Beidaihe scandiva con forza:«La costruzione rurale di base e la tecnica agricola avanzata richiedono maggiore manodopera. Lo sviluppo industriale delle campagne richiede anche che una parte della manodopera venga trasferita dal fronte della produzione agricola al fronte della produzione industriale. Infine, diventa sempre più necessario meccanizzare l’agricoltura ed elettrificare le campagne (...) Sebbene la proprietà nelle Comuni sia ancora di carattere collettivo, sebbene la ripartizione (giornata di lavoro o salario) sia fatta sul principio “a ciascuno secondo il suo lavoro” le Comuni realizzano la migliore forma di organizzazione per compiere l’edificazione socialista e passare gradualmente al comunismo. Esse saranno dunque l’unità sociale di base della società comunista (...) La realizzazione del comunismo nel nostro paese non è cosa lontana e noi dobbiamo, grazie alle Comuni, aprirci una strada verso questa realizzazione (...) preparare attivamente l’avvento del comunismo (..). (per far questo ci vorranno) da tre a sei anni, se non un po’ di più».
Le Comuni furono quindi presentate come la forma finalmente scoperta
di organizzazione comunista, questo perché le Comuni a
differenza di
una semplice
cooperativa non solo eliminavano qualsiasi conduzione particellare
della terra divenuta proprietà di tutto il popolo, ma anche
perché sia
l’agricoltura che l’industria che le attività collaterali erano
gestite
in un’unica unità, la Comune il cui compito essenziale diveniva
quello
di mobilitare l’intera manodopera rurale maschile e in larga misura
femminile per il raggiungimento quasi immediato del comunismo.
Conteggiando circa 120 milioni di famiglie contadine, 250 giornate di lavoro per gli uomini e 120 per le donne, la Cina rurale disponeva di ben più di 45 miliardi di giornate lavorative per anno, di cui i lavori agricoli propriamente detti ne assorbivano nella migliore delle ipotesi i 2/3, cioè 30 miliardi di giornate..
Rimaneva un’immensa torta di 15 miliardi di giornate disponibili per altri lavori, era la possibilità reale per i quadri per istituire delle vere e proprie “armate del lavoro”, da manovrare secondo le possibilità, i bisogni e i piani di sviluppo della Comune, migliore forma non per realizzare il comunismo ma per l’utilizzazione delle uniche forze, disponibili in abbondanza e a buon prezzo, i cinesi appunto.
Le Comuni costituivano quindi la forma di una divisione del lavoro ancora indifferenziata, nel tentativo di non disperdere queste immense energie umane, e soprattutto di risolvere il problema della sottoccupazione agricola e dell’emigrazione dei contadini verso le città, offrendo occupazione ai contadini durante le stagioni morte inserendoli nel processo di industrializzazione.
Giganteschi lavori effettuati a forza di braccia, con strumenti rudimentali verranno imposti facilmente (scavo di migliaia di canali di irrigazione, rivoltamento dei terreni in profondità) insieme a tecniche giudicate proficue come la coltivazione intensiva, sarchiamenti minuziosi, spandimenti di limo, ecc.
Contemporaneamente venivano incoraggiati i contadini a superare le loro attività agricole sviluppando un’industria leggera di interesse locale (concime, prodotti tessili e chimici, cemento e piccoli attrezzi) che lo Stato centrale non poteva né finanziare né controllare direttamente causa le ristrettezze delle sue risorse, fatto che decise per lasciare alle Comuni piena autonomia di investimento delle proprie risorse e dei propri profitti e delle proprie... perdite ! Sulla base infatti delle direttive statali era la Comune che compilava il proprio piano di produzione e di sviluppo, per poi ripartirlo ed imporlo alle brigate e alle squadre.
Si ha quindi una proliferazione di piccole imprese e di piccole industrie – più che altro segno dell’arretramento delle forze produttive per mancanza di capitali – che permetteva di assorbire sul posto il surplus di manodopera agricola, senza per questo aggravare i problemi del vettovagliamento che erano propri dell’emigrazione dei contadini verso i centri industriali.
In questa mobilitazione delle forze che fu il movimento delle Comuni, una parte importantissima l’ebbe il lavoro gratuito dei contadini, dalla costruzione di abitazioni rurali agli imponenti lavori di infrastrutture per il controllo delle acque, alle campagne per l’acciaio ai necessari lavori di manutenzione, nuova conferma della debole monetarizzazione dell’economia cinese tutta.
Ma è la chiave della “grande rivoluzione cinese”: voler rendere sociale il lavoro dei contadini in modo che l’industria – solo oggi anche agraria – potesse appropriarsi della loro capacità lavorativa, trasformando la corvée, tradizionale della storia cinese, in sfruttamento capitalistico della forza lavoro, ed i valori d’uso di uno scambio primitivo (il razionamento e la distribuzione in natura contro lavoro) in valori di scambio del moderno processo lavorativo.
E la tappa delle Comuni era per certi versi una tappa obbligata, perché mancando un’estesa produzione di merci ed essendo ogni nucleo economico (cooperative o Comune era lo stesso) “chiuso”, cioè praticamente autosufficiente, il regime non aveva potuto impiantare quella serie di meccanismi automatici, regolati dalla domanda, dall’offerta e dalla valorizzazione del capitale, che le società dichiaratamente capitalistiche possiedono.
La ricostruzione da noi fatta degli avvenimenti che la “destra” economicista puntava all’introduzione di questi meccanismi nelle campagne accettando la sfida delle inevitabili lacerazioni sociali. La “sinistra», vittoriosa nella contesa politica, impose invece il tentativo non da dozzina di una centrale mobilitazione di uomini con cui ci si sforzava di regolare dall’alto la produzione, secondo uno schema che, va detto, non deriva affatto dall’applicazione del centralismo di una società ultra matura e, meno che mai, in una società socialista, ma dallo schema imperiale asiatico, sia pure metamorfosato dal mandarino al quadro, schema che sarà infranto inevitabilmente dal sorgere di rapporti capitalistici più maturi ed estesi.
Da un punto di vista economico quindi le Comuni, corrispettive in agricoltura del Grande Balzo in Avanti, sono manifestazioni dello sforzo dello Stato cinese di risolvere all’interno dei confini nazionali le contraddizioni derivanti dall’arretrata struttura produttiva, in special modo agricola, inadatta ad una moderna economia di mercato che non conosce barriere nazionali.
Sforzo interno che logicamente favorì le tesi di Mao, profondamente attaccato alla terra, che ricercavano nel “villaggio” una risposta al problema chiave dello sviluppo della società cinese. Soluzione interna era pure quella dei “prezzi”.
Ad ambedue vi contrapponiamo l’unica soluzione internazionale, la rivoluzione comunista !
La risoluzione di Beidaihe raccomandava di trattare i problemi economici e finanziari “nello spirito del comunismo”, e di non ricorrere pertanto al “regolamento troppo minuzioso dei conti”, L’avvertimento era conseguente ai continui appelli alle masse a sacrificarsi duramente per la grandeur degli obbiettivi di piano; effettivamente solo l’uomo nuovo, maoista tutto di un pezzo, poteva accettare di piegare la schiena per poi piegarla di nuovo !
Ma l’uomo non era nuovo, si emulava Stachanov.
Va però aggiunto che, una volta intrapresa la strada della mobilitazione sociale, il regime, con i suoi progetti di grandi lavori di infrastrutture e di creazione di una industria locale, doveva rompere i vecchi equilibri sociali dei villaggi, assestare un colpo mortale alle economie individuali delle famiglie contadine costringendole, volenti o nolenti, a dedicare integralmente i loro sforzi ai terreni collettivi ed ai progetti della Comune.
Solo un contadino cinese deterritorializzato era a disposizione dello Stato e della Comune, la quale lo poteva inviare sia qua che là.
La Comune doveva pertanto cercare di sostituire ai rapporti di parentela, in generale molto stretti anche fra membri ricchi e poveri di uno stesso gruppo familiare, un genuino spirito, se non di classe per lo meno nazionale; la costituzione di mense, asili, lavanderie, come il pagamento individuale delle retribuzioni, tutto tendeva ad allentare l’unità familiare, con le sue visioni particolari, riflesso di interessi particolari.
Riducendo l’importanza della famiglia, la Comune doveva esaltare la vita collettiva, si trattasse di lavoro, di cibo, di divertimenti, di abitazione, sparendo pure, per lo meno nel secondo semestre 1958, il senso della proprietà ridotta ben presto al vestito, ai mobili, a qualche oggetto ed a pochi soldi.
Le manifestazioni estreme del collettivismo delle Comuni saranno la scomparsa delle abitazioni private dei contadini e la consegna alla Comune di mattoni, tegole e legno per la costruzione di nuove case che essa affitterà per assicurarne le spese di manutenzione e di riparazione (art. 20 degli Statuti della Comune Sputnik), e la creazione di refettori comunitari di cui non sempre i quadri oseranno imporre l’uso; ce ne saranno, comunque, 3-400.000 alla fine del 1958, nelle sole regioni rurali anche per provvedere all’alimentazione dei lavoratori urbani respinti a forza nelle campagne.
L’istituzione di grandi servizi comunitari, oltre alle mense, sartorie, lavanderie, nidi di infanzia, bagni pubblici, permettevano da una parte di recuperare un’ingente quota di manodopera femminile, ma dall’altra anche di evitare lo spreco e di controllare meglio i consumi, rovescio di un collettivismo che per più di un decennio ha meravigliato la piccola borghesia occidentale ben pasciuta, ben riposata e nulla facente.
Tutto questo avrebbe decisamente sconvolto i modi di vita e la mentalità, come le secolari abitudini di lavoro, fatte di industriosa ma anche troppo lenta pazienza, unico modo per riuscire a trascinare nelle attività produttive milioni di donne delle campagne altrimenti non occupate. Il processo di accumulazione necessitava degli sforzi di tutta la popolazione, il che involontariamente dava fiato alle varie e multicolori teorie populiste !
Altra questione importante era quella del sistema di retribuzione dei membri della Comune.
Va detto subito che, fino al dicembre 1958, è stato il sistema di retribuzione quello che ha presentato le maggiori differenze fra Comune e Comune e località e località, soprattutto riguardo la quota del prodotto destinato al consumo; certe Comuni infatti distribuiranno senza controllo le derrate alimentari, all’inverso altre praticheranno un rigoroso razionamento.
La maggior parte delle volte esse adotteranno un sistema intermedio denominato “semi-approvvigionamento e semi-salario”. Li Xiannian, allora Ministro delle Finanze, indicherà che l’approvvigionamento, in derrate o servizi doveva ispirarsi alla formula “a ciascuno secondo i suoi bisogni” e corrispondere ad un sistema di cinque, sei o sette garanzie: cibo, abbigliamento, cure mediche, parti, istruzione, alloggio, spese di matrimonio ed esequie. Il salario invece, quando veniva rapportato al lavoro personale, variava da 4 a 15 yuan al mese, secondo la ricchezza delle Comuni, e veniva pagato metà in contanti e metà in derrate.
La Comune Sputnik teneva in particolare conto della natura, e della quantità del lavoro fornita da ognuno ed assegnava un posto importante ai premi di produzione (al massimo un quarto totale dei salari), sistema questo che con qualche variante sarà poi generalizzato.
Era questa una stridente contraddizione; mentre da una parte si faceva sparire la proprietà personale dei beni più umili dall’altra si faceva versare in moneta sonante un salario a cottimo !
E aggiungiamo, la contraddizione non era solo dell’organizzazione della Comune, ma dell’intera ideologia maoista ispirante tutte le mosse dello Stato centrale di Pechino che, stretto al suo compito di accumulazione forzata di capitale, dovette fin dal 1949, unire il decentramento al centralismo, la socialità all’autarchia, l’individualismo al mutualismo, contraddizioni del modo di produzione capitalistico costretto a gettare le sue basi ed a svilupparsi su una struttura economica costituita di isole produttive familiari e locali, disseminate su un’immensa superficie con scarse vie di comunicazione, ed anche per questo chiuse in sé.
Il Grande Balzo in Avanti era in pieno corso e la comunalizzazione si era appena conclusa, quando già si stavano diffondendo le prime preoccupazioni per il buon funzionamento della nuova organizzazione del mondo rurale, preoccupazioni derivanti anche dalla non uniformità di un movimento lasciato da Pechino senza precise indicazioni riguardo molte importanti questioni (dalle requisizioni della proprietà privata contadina all’organizzazione della Comune).
I segnali d’allarme non erano mancati: i contadini non avevano accolto con favore l’eliminazione degli appezzamenti privati, le mense collettive erano mal viste dalla popolazione oltre che in generale mal gestite, la costruzione di immobili collettivi non aveva superato lo stadio di esperienze isolate, ugualmente il principio di garantire servizi gratuiti (funerali, parti, ecc.) non era andato più in là. In più, per la mancanza di fondi, le Comuni rischiavano di non pagare in molti casi i salari, situazione questa che si sarebbe aggravata fino alla realizzazione del futuro raccolto primaverile.
Per questo, riunitosi a Wuchang dal 28 novembre al 10 dicembre 1958 l’VI Plenum del CC del PCC, oltre ad esaminare i risultati economici dell’anno ormai trascorso ed a fissare gli obiettivi per quello a venire, ritornò sul problema delle Comuni popolari approvando una lunga deliberazione intitolata “Risoluzione a proposito di certi problemi riguardanti le Comuni”.
L’ottimismo di maniera iniziale addolciva, ma non troppo, le chiare critiche a come era stato preparato il movimento; secondo la risoluzione infatti, a causa della loro breve esistenza, della entità dei lavori dei campi durante l’autunno, della campagna per la produzione dell’acciaio le Comuni Popolari non avevano avuto il tempo di «rafforzare la loro organizzazione, di emendare il loro sistema e risolvere metodicamente i loro problemi di produzione, di distribuzione, di opere sociali e di amministrazione». La risoluzione pertanto si predisponeva a definire con molta più precisione e prudenza della risoluzione di Beidaihe, le caratteristiche e le funzioni delle Comuni.
Prima importante rettifica riguardava le retribuzioni dei membri della Comune. Si doveva mantenere «il sistema di distribuzione che combina il sistema dei salari con quello del compenso in natura (...) la più sentita esigenza della grande massa dei membri», ma «attualmente l’estensione dei compensi in natura non deve essere eccessiva; l’applicazione del sistema del compenso in natura non deve rendere uniforme la vita del popolo; nel sistema del socialismo e del comunismo i membri del popolo sono nel complesso simili, ma variano secondo gli individui».
La precisazione oltre a far stropicciare le mani di soddisfazione ai dichiarati difensori del sistema capitalistico di produzione e distribuzione, vale per altro verso: è conferma che, come durante la collettivizzazione del biennio 1955-56, i contadini stavano dando fondo alle scorte, distribuendosi e mangiandosi tutto il capitale di esercizio e fisso, il che non impediva ai quadri di risfoderare la tipica bandiera del contadino rivoluzionario borghese, spartizione e uguaglianza !
Altra importante rettifica:
«Alcuni pensano che il passaggio alla Comune porterà ad una redistribuzione delle proprietà esistenti dei singoli consumatori: bisogna chiarire alle masse che i mezzi di vita posseduti dai membri (compresi case, abiti, corredo e mobilio) e i loro depositi nelle banche e cooperative di credito, resteranno di loro proprietà dopo che essi si sono uniti ad una Comune, e continueranno ad appartenere a loro. Ove sia necessario, la Comune può prendere in prestito gli alloggi in sovrappiù dei membri, col loro consenso, ma la proprietà rimane sempre ai proprietari; i membri possono avere alberi propri intorno alle loro case, e piccoli strumenti, piccoli animali domestici e pollame; possono anche continuare ad impegnarsi in qualche piccola occupazione secondaria domestica, purché questo non comprometta la loro partecipazione al lavoro collettivo».
Erano questi chiari cedimenti alle spinte proprietarie della pleiade contadina, spinte sostenute anche dalla parte povera partigiana di una spartizione egualitaria, chiaro indice del difficile ammaestramento del pulviscolo familiare-aziendale-rurale da parte dello stesso grandeggiante capitalismo !
La risoluzione continuava ristabilendo legalità a tutti i debiti anteriori alla istituzione delle Comuni, sia quelli fra gli individui e questi e la Comune; stabilendo infine che, anche in periodi di grandi lavori, va garantito ad ognuno 8 ore per il sonno e 4 per i pasti e la ricreazione, segno questo che i ritmi di lavoro, sotto la spinta dei quadri e delle promesse di un imminente passaggio al comunismo, erano arrivati al livello della rivoluzione industriale nell’ottocento europeo.
Con uguale spirito rettificatore, si incoraggiavano le Comuni a sviluppare la loro produzione commerciabile (buona parte di questa proveniva dagli appezzamenti privati appena aboliti e subito semi-permessi), come i loro scambi reciproci e con lo Stato, significativo punto a favore degli “economicisti” e nuova piccola sconfitta della mobilitazione sociale, non rispettosa nemmeno di 8 ore di sonno. La risoluzione scandiva:
«C’è chi, pensando di anticipare “l’era comunista”, vuole rifiutare troppo in fretta la produzione di merci e il loro scambio, negando il ruolo positivo delle merci, dei valori, delle monete e dei prezzi».
È proprio il caso di dire: L’ha da veni’... Deng Xiaoping !
La risoluzione ordinava anche agli organi provinciali e regionali del Partito di procedere nei mesi a venire, ad un lavoro di “risistemazione» delle Comuni con relativa eliminazione degli elementi dubbi ed incompetenti.
La stessa identica prudenza la leggiamo nel “Messaggio di saluto alla conferenza nazionale dei delegati delle unità primeggianti nella costruzione socialista in agricoltura”, da parte del grigio Liu Shaoqi, in data 25 dicembre 1958:
«I nostri successi sono stati grandi, ma in nessun modo dobbiamo essere presuntuosi (...) attualmente il compito centrale nelle aree rurali è di controllare, di consolidare seriamente le Comuni Popolari in combinazione con la produzione invernale. Per controllare e consolidare le Comuni deve essere posto in atto un alto livello di democrazia, e le masse devono essere consultate con modestia (...) noi dobbiamo basarci sul popolo non solo per dirigere la produzione bene e portare a termine altri compiti, ma anche per prenderci seriamente cura della vita quotidiana del popolo, regolare appropriatamente l’orario di lavoro, lo studio, il riposo e la ricreazione, esercitare ogni sforzo possibile per far funzionare bene i refettori, gli asili, le case per i vecchi e tutti gli altri mezzi di sussistenza».
Le enunciazioni di Liu non erano semplici consigli, ma un minuzioso elenco di difetti già presenti e che il regime cercava di correggere nel futuro, tentativo che sarebbe fallito non per mancanza di volontà, ma per fatti materiali che travalicavano anche gli stessi confini dell’immensa Repubblica.
La ritirata fu continua, costante per tutto l’anno 1959. Dal gennaio all’agosto, il PCC si sforzò di far diminuire la quota di derrate e di servizi assegnati ai membri della Comune, migliorando nel contempo il sistema dei salari, infatti fin dalla primavera diverse Comuni cominciano a reintrodurre metodi di misura del lavoro del singolo e di gruppo.
Nel marzo-aprile si tenne a Shanghai il VII Plenum del CC, sempre sulla situazione economica generale e sulle Comuni. È la preparazione dell’VIII Plenum che si terrà a Lushan nello Jiangxi dal 2 al 16 agosto, dei cui risvolti drammatici si seppe solo 7-8 anni più tardi, quando la Rivoluzione Culturale sollevò qualche velo sulle passate lotte politiche all’interno del PCC.
Allora niente si seppe del duro scontro tra Mao Zedong e il Ministro della Difesa, il mitico Peng Dehuai, né dell’epurazione della “cricca antipartito” di Peng, Huang Kecheng, Zhang Wentian e Zhou Xiaozhou, tutti oggi pienamente riabilitati.
Al pubblico ed ai giornalisti, instupiditi ieri come oggi, il regime si limitò a correggere le enormi cifre fornite per la produzione del 1958, ed a modificare di conseguenza gli obbiettivi del 1959, pur facendo nuovamente sfoggio del Grande Balzo in Avanti e della Comune, sua esemplare esplicazione.
Il Plenum di Lushan è però costretto a ratificare un importante dato di fatto seguito alla riunione di Wuchang: L’unità economica fondamentale della Comune, cioè la struttura base di calcolo di profitti e perdite e che prende le decisioni economiche oltre che ripartire i prodotti, era divenuta la Brigata di produzione, cioè la vecchia cooperativa i cui confini andavano poco più in là di un semplice villaggio.
Il rinculo era netto, non era un semplice passaggio di consegne fra pari, ma un intero pezzo della complessa visione del Grande Balzo in Avanti e delle Comuni Popolari, era fragorosamente crollato, a tutto beneficio della prosperità degli appezzamenti privati di terra, fornitori alla fine del 1959 del 15-20% dell’intero bilancio di un villaggio.
Nell’importante scritto “La vittoria del marxismo-leninismo in Cina”, Liu Shaoqi deve riassumere in un linguaggio involuto ed ermetico la ritirata: «Di particolare importanza è il fatto che sebbene la proprietà nella Comune Popolare sia ancora una proprietà collettiva socialista, e sebbene la proprietà collettiva delle brigate di produzione corrispondenti alla cooperativa avanzata dei produttori agricoli, sia la forma fondamentale di proprietà, mentre solo parte della proprietà è conferita alla Comune globalmente, questa parte di proprietà conferita ora alle Comuni Popolari non esisteva nelle cooperative (...) Quando quella parte di proprietà conferita ora alla Comune globalmente diventerà la forma fondamentale di proprietà, sarà posta una base sicura per la transizione dalla proprietà collettiva socialista alla proprietà dell’intero popolo delle campagne (...) La Comune Popolare, può fare avanzare rapidamente lo sviluppo economico rurale, mentre la crescita economica a sua volta promuovere lo sviluppo del sistema delle Comuni Popolari sia nella forma che nel contenuto».
La buona produzione industriale, tuttavia, concorse a conservare l’ottimismo ufficiale della II Sessione dell’Assemblea Nazionale, tenutasi dal 30 marzo al 10 aprile 1960.
Secondo Li Fuzhun, Presidente della Commissione di Piano, nel 1960 era previsto ben 300 mil. di t. di cereali raccolti, un aumento del 10% rispetto al 1959 che avrebbe avuto 270 mil. di t.
Cifre fantastiche che solo vent’anni dopo, con attrezzaggio di capitale incomparabilmente diverso, si sarebbero realmente raggiunte. Con le posteriori prove, l’anno 1959 avrebbe avuto 170 mil. di t., il 1960 appena 156 mil. di t., ben lontane dal record del 1958, 206 mil. di t., ma anche dalla produzione del 1952.
Uguale ottimismo Li Fuzhun lo ha per le previsioni di aumento della intera produzione industriale (+23% nel 1960) e per la sua produzione principe, l’acciaio (18,4 mil. di t., +38% nel 1960).
Quasi inavvertitamente però Li Fuzhun pone significativi accenti sul settore agricolo e sui necessari sforzi per meccanizzarlo: «l’agricoltura è la base, l’industria il settore dominante», diviene lo slogan ufficiale, e subitamente il regime aumenta del 50% l’aiuto finanziario dello Stato nei confronti delle Comuni diminuendo nel contempo le tasse che queste erano chiamate a versare allo Stato (5,3% del prodotto nel 1960 contro il 5,8% del 1959, secondo il rapporto di Li Xiannian sempre alla II sessione dell’Assemblea Nazionale).
Altro dato significativo: riveduto e corretto verrà presentato “Il programma duo-decennale agricolo in 40 punti”, il 6 aprile da Tan Zhelin, che darà la stura alla stampa per insistenti articoli sulla modernizzazione del settore agricolo.
Passata però l’Assemblea Nazionale, avvicinandosi il momento dei raccolti estivi, sulla stampa si manifesteranno continuamente le preoccupazioni del regime per l’andamento della produzione agricola: appariranno le prime notizie di frequenti e varie intemperie, si riconoscerà lo squilibrio fra lo sviluppo delle città e quello delle campagne, insistendo sul sostegno che le città e l’industria potevano dare al settore agricolo.
Li Fuzhun, il 16 agosto 1960, in un articolo apparso sull’organo teorico “Bandiera Rossa” titolato ”Impugniamo la bandiera rossa della linea generale e continuiamo ad avanzare”, deve ribadire la priorità agricola, dei cereali soprattutto, su tutte le altre produzioni, scacco definitivo del programma di industrializzazione forzata del Grande Balzo in Avanti: «Bisogna perseguire la politica dello sviluppo simultaneo dell’industria e dell’agricoltura e bisogna esercitare fermamente il nostro controllo sul meccanismo fondamentale – l’agricoltura – per promuovere lo sviluppo di tutta l’economia nazionale. Tutti i compagni di partito devono far propria l’idea di Mao Zedong secondo la quale l’agricoltura è la base di sviluppo dell’economia nazionale, e accordare il primato all’agricoltura. In questa accelerazione dello sviluppo agricolo, la stessa priorità deve essere accordata alla produzione cerealicola».
L’appello di Li Fuzhun fu ripreso con vigore dalla stampa, e poco alla volta si delineò un vasto “fronte agricolo” alimentato dalle migliaia di lavoratori licenziati dalle industrie costrette a rallentare il ritmo, non solo per la crisi alimentare ed agricola che si stava manifestando ma anche per il ritiro, sempre nell’agosto, dei tecnici russi e dei loro aiuti, ritiro che minacciava seriamente di mettere in ginocchio l’intera economia cinese dando un duro colpo al Governo centrale di Pechino mai completamente domato da Mosca.
Gli inurbati rimandati nelle campagne furono, secondo varie dichiarazioni in tempi diversi, circa 20 milioni, tanto che la popolazione urbana passa dai 130 milioni del 1959 ai 110 del 1961, cifre confermate anche da un articolo del “T’oung Pao” il 2 gennaio 1961: «Nel corso degli ultimi tre anni la popolazione di città e dei distretti minerari ed industriali è aumentata di 20 milioni. Molti contadini sono diventati operai e si sono stabiliti in città. Le scorte di prodotti agricoli non sono sufficienti a coprire i nuovi bisogni».
Il ritorno alle campagne naturalmente era la fine dello slogan, vieppiù riaffermato, dello sviluppo simultaneo di “agricoltura ed industria”, ma rivelava chiaramente che la società cinese non si era ancora emancipata dal suo problema millenario, quello dell’alimentazione, ed il grano scacciava l’acciaio mentre la piena affermazione del capitalismo vede l’acciaio che scaccia il grano !
Nelle città il razionamento si fa stretto e rigoroso; non solo furono introdotti buoni per l’acquisto di prodotti industriali di consumo per porre “rimedio” ad un’acuta carenza di questi manufatti, ma soprattutto per le razioni alimentari.
Secondo la testimonianza di G. Etienne, nelle fabbriche gli operai ricevevano 15 kg. di cereali al mese, quota che doveva bastare anche per la famiglia, e nonostante questo per due-tre mesi i cereali scarseggiarono. Pare che la razione mensile di carne per un adulto fosse di 250 grammi, e altrettanto quella dei grassi; per il pesce 500-570 grammi, talvolta meno, e queste quantità non sempre furono assicurate nelle grandi città.
Dall’inverno 1960 a tutto il 1961 fu tollerato il mercato nero dei contadini nelle campagne dei dintorni delle città. A Pechino come a Shanghai un pollo veniva venduto a 4-5 yuan contro un prezzo ufficiale di 1-2 yuan; un uovo a 1-2 yuan, cifra con la quale ufficialmente si sarebbe dovuto poter comprarne una o due dozzine; il costo del riso era triplicato rispetto al prezzo ufficiale.
E ad ulteriore conferma della gravità della situazione alimentare, sulla stampa si esortava alla raccolta delle bacche e delle piante selvatiche, si consigliava di mettere in produzione i terreni più ingrati e marginali, cortili, scarpate e marciapiedi in terra battuta.
La mancanza di notizie impedisce ancora oggi di apprezzare la profondità reale della crisi alimentare nel biennio 1960-61, allineiamo però altri fatti.
Secondo un documento della Rivoluzione Culturale, nella Provincia del Guangdong, di cui era segretario un futuro avversario di Mao, Tao Zhu, nel 1959-60 si ebbero 20.000 decessi dovuti a carestia, cifra enorme perché riferita ad una Provincia ricca e senza conteggiare il cruciale 1961.
Nel 1961 il Governo comincia i suoi acquisti di granaglie dall’Australia e dal Canada, sottoponendosi ad un doloroso salasso di valuta pregiata: ben 6 milioni di tonnellate per un valore di 350 milioni di dollari, un terzo delle importazioni totali.
Più avanti nell’aprile 1962, il Primo Ministro Zhou Enlai annunciò che veniva lanciata una campagna per rimandare nelle campagne la popolazione urbana eccedente. L’ennesima campagna denominata Hui hsiang, cercò di rimandare ai villaggi coloro che vi erano nati e poi emigrati. Furono nuovamente chiuse altre migliaia di piccole fabbriche, ed in seguito alla loro smobilitazione riapparve la disoccupazione fra le file operaie; ugualmente furono licenziati i lavoratori urbani impiegati dopo il 1958, primo anno del Grande Balzo in Avanti: tutti vennero incoraggiati a far ritorno ai loro villaggi di origine. La riorganizzazione dell’industria, si basava infatti sull’aumento della produttività e non si prevedeva nessuna creazione di posti di lavoro.
Nell’aprile-maggio 1962 si ha la grande fuga ad Hong Kong di circa 200 mila cinesi. Il ritorno dei disoccupati delle città nelle campagne aggravò le deficienze alimentari e produsse una vera e propria ondata di panico per paura della fame, segno che questa nuovamente aveva dispiegato le sue mani nell’immensa campagna.
All’inizio, soltanto le cattive condizioni atmosferiche furono indicate come responsabili delle difficoltà alimentari.
Certo, nel 1960 la siccità, i fortunali, le inondazioni e le malattie delle piante, devastarono 800 mil. di mu (55,3 mil. di ha) e danneggiarono gravemente altre 300-360 mil. di mu (20-24 mil. di ha), parte dei quali non diede nessun raccolto; nello Shandong il Fiume Giallo rimase praticamente in secca per un mese, fatto senza precedenti.
Tuttavia, contemporaneamente alle dichiarazioni ufficiali di non raggiungimento degli obiettivi economici prefissati, ricominciarono ad apparire articoli sull’organizzazione della Comune.
Il 20-25 novembre 1960, apre le cateratte il “Jenmin Jihpao” con due editoriali, che consideravano la squadra l’unità proprietaria de facto degli strumenti di produzione, oltre che “unità di conto fondamentale”: gli editoriali distinguevano i diritti di proprietà (alla Brigata) da quelli di uso (alla squadra) sul lavoro, la terra, gli animali, gli strumenti e gli equipaggiamenti, distinzione marxisticamente in riga.
Il testimonio veniva raccolto il 16 dicembre dal “Nanfang Jihpao” di Canton:
«Il sistema di base attualmente in vigore nelle Comuni rurali del popolo è il sistema di proprietà a tre livelli con alla base le Brigate di produzione. Se è essenziale rafforzare la proprietà fondamentale al livello della Brigata di produzione, è necessario anche insistere sul diritto ad una piccola parte di proprietà al livello della squadra di produzione e di permettere ai membri della Comune di coltivare piccoli appezzamenti privati e di svolgere piccoli lavori domestici, complementari ed indispensabili alla produzione collettiva».
Ma quest’ultima indicazione non era necessario ufficializzarla ed incoraggiarla, si stava semplicemente svolgendo alimentata dalle difficoltà economiche che avevano fatto rifugiare il contadino al suo orto, alle sue attività supplementari, ai suoi traffici.
Se in generale, il regime tendeva a mantenere al 5% della terra coltivata da una Comune quella sfruttata privatamente, sotto l’incalzare della crisi alimentare e per il rilassamento del controllo del partito e dell’amministrazione statale, tale quota limite lievitò anche al 30-50% della terra totale, e c’è da credere che si trattasse delle terre più fertili e meglio disposte.
Pare anche, secondo talune testimonianze, che gli appezzamenti privati furono oggetto di transazioni fra i contadini stessi, e che, per aumentare l’estensione degli appezzamenti privati, si sia proceduto al dissodamento di terre vergini.
Lo sviluppo delle attività ausiliarie richiese la libera vendita dei prodotti. Sempre il “Nanfang Jihpao”, il 14 dicembre 1960, propose l’organizzazione di fiere rurali per facilitare gli scambi tra Comuni, Brigate e squadre, autorizzando i contadini a vendere i loro prodotti.
Appelli questi che furono ripresi ed amplificati ed incoraggiati per tutto il 1961, in special modo dopo lo svolgimento del IX Plenum del CC, tenutosi a Pechino dal 14 al 18 gennaio, che avrà il compito di riassumere la grave situazione:
«In considerazione delle gravi calamità naturali che per due anni consecutivi hanno colpito la produzione agricola, l’intera nazione deve nel 1961 concentrarsi: nel rafforzamento del fronte agricolo; nell’attuazione piena della linea che pone l’agricoltura a fondamento della economia nazionale e che chiama al lavoro nelle campagne e alla produzione cerealicola tutto il Partito e il popolo intero; nell’intensificazione dell’appoggio all’agricoltura da parte di tutti i mestieri e le professioni, e nell’esercizio del massimo sforzo per ottenere migliori risultati nella produzione agricola. Nelle zone rurali, occorre fare sforzi per consolidare ulteriormente le Comuni Popolari, attuando pienamente le varie disposizioni concernenti la Comune e l’economia agricola, misure efficaci per la difesa del tenore di vita dei membri delle Comuni, aiutandoli a superare le difficoltà derivanti dalle calamità naturali e a fare buoni preparativi per accrescere quest’anno la produzione agricola».
E come rimedi a questa situazione, il Comunicato del Plenum riassumerà quelli da tempo spontaneamente affermatisi nelle campagne ed incoraggiati dalla stampa:
«Il Comitato Centrale invita tutti i settori competenti a muovere solleciti passi per favorire lo sviluppo dell’industria leggera, dell’artigianato rurale e urbano, delle occupazioni collaterali domestiche e dell’agricoltura suburbana, e per accrescere la produzione di ogni sorta di beni di consumo e di generi alimentari secondari, perfezionando nel contempo la attività commerciale e stimolando i mercati primari dei villaggi in modo da migliorare gradualmente le condizioni di approvvigionamento».
Il Comunicato denunciava altresì i quadri ed i funzionari, in odore di campagna di “rettifica”, rimasti attaccati al collettivismo originario del Grande Balzo in Avanti, collettivismo allora di intralcio per una ripresa del commercio privato del contadino, fosse questo povero in canna o un furbo kulak passato indenne dalle varie campagne di collettivizzazione: «Costoro non comprendono gli indirizzi fondamentali del Partito e del Governo; non comprendono abbastanza la distinzione tra socialismo e comunismo, fra proprietà socialista da parte della collettività e proprietà socialista da parte del popolo intero; non comprendono bene la proprietà a tre livelli in seno alle Comuni Popolari e il posto primario che in esse occupa la brigata di produzione; non comprendono chiaramente, infine, i principi propri della società socialista, dello scambio tra valori eguali, “a ciascuno secondo il suo lavoro” e maggior reddito per chi più lavora, tutte cose che il Partito ha ripetutamente illustrato».
Ed a ulteriore conferma della difficile situazione economica e della problematica attuazione delle misure di liberalizzazione, il Comunicato ammoniva nella sua parte finale:
«Il IX Plenum dell’VIII Comitato Centrale tiene a rilevare che i compiti che si prospettano nel 1961 sono estremamente duri».
Nonostante che nei discorsi dei massimi dirigenti la Comune Popolare continuasse a far bella mostra di sé, gli avvenimenti l’avevano completamente svuotata delle sue iniziali caratteristiche: rimaneva solo come un’istituzione di controllo, di coordinamento, proprietaria e responsabile unicamente di aziende che interessavano l’intera giurisdizione (tipo concimi o attrezzi), o che interessavano l’industria statale.
Per il resto era la Brigata la principale proprietaria degli strumenti di produzione, ed ad essa lo Stato applicava la formula “tre impegni ed un compenso”, cioè la Brigata si impegnava a produrre determinate quantità di derrate, al costo fissato, nel periodo di tempo deciso, e l’intera eccedenza di prodotti rimaneva a sua disposizione. Contratti e compenso che poi passarono alla squadra, con la Brigata confinata nel semplice ruolo di responsabile finanziaria.
La squadra era l’oggetto delle principali attenzioni e di diritti di uso, le quattro cose d’uso (Szu ku-ting): alla squadra veniva garantito l’uso della manodopera (l’80% della totale), di animali, di terre e di strumenti.
Era la chiusura ufficiale delle requisizioni improvvise delle masse contadine da parte delle Comuni e da parte dello Stato, tipo la campagna per l’acciaio o per i lavori idrici.
Il mugugno contadino segnava punti a suo favore, l’arretrata conduzione agricola, la mancanza di mezzi di produzione, scandivano il passo facendo valere le proprie pretese: lo Stato, pena la crisi alimentare, non doveva disturbare né intralciare i raccolti, rivincita di quella stessa povertà che da un lato favoriva la mobilitazione centrale degli uomini e dall’altro la impediva !
La squadra vantava poi diritti di proprietà su piccoli strumenti ed era chiamata a partecipare alla stesura dei piani di produzione, frenando così lo zelo e le richieste dei quadri e dei funzionari, sia riguardo le quote di produzione sia per l’introduzione di nuove culture o nuove tecniche.
Le nuove misure liberal riguardavano anche il singolo contadino al quale si riconosceva “piccole libertà”: manteneva la proprietà sull’abitazione, sugli animali da cortile, nuovamente gli veniva concesso l’allevamento di un maiale, di coltivare un piccolo appezzamento i cui prodotti poteva vendere nei mercati rurali. Il divieto veniva mantenuto soltanto per cereali, cotone e olio, prodotti di cui lo Stato rimaneva unico acquirente.
Anche il sistema di retribuzione subiva cambiamenti, non più un salario più o meno fisso, ma un sistema di “punti di lavoro” già anni prima sperimentato, che valutava ogni singola operazione eseguita.
La riforma si completava con minori dimensioni delle Comuni che, all’inizio del 1962 passarono da 26 mila circa a 70 mila, facendo cadere così l’ultimo tassello dell’originaria Comune, la fusione della società nello Stato !
La realtà oggettiva pose fine alle Comuni, come inizialmente furono concepite.
Le loro dimensioni troppo ampie, la loro estensione media era di 200 Kmq. con una popolazione da 20 a 40 mila persone da organizzare in ogni loro attività, fecero chiaramente risaltare la scarsità assoluta di mezzi di trasporto e di vie di comunicazione, primo dato necessario per centralizzare le attività di un vasto territorio.
La stessa rete di quadri e funzionari, dimostrò di essere inadatta alla bisogna, mettendosi solamente in evidenza per lo zelo con il quale venivano seguite le direttive di Pechino, confezionando così una serie di clamorosi falsi più che dei reali risultati pratici.
Il che suona a difesa della rete di mandarini imperiali del modo di produzioni asiatico, e conferma anche di nostre passate considerazioni: non è semplice ottenere una burocrazia seria, è più facile deriderla, perché abbisogna di un lungo travaglio amministrativo !
L’indocilità, dei contadini fece il resto, Non potendosi opporre alle direttive dei quadri e dei funzionari, inizialmente accettarono tutto, dall’egalitarismo alla vita collettiva, dagli spostamenti di villaggio in villaggio alle dure fatiche che non risparmieranno sonno e riposo, come ricorderà la risoluzione di Wuchang.
Il sordo malcontento sfocerà, secondo il preciso Guillermaz, in disordini circoscritti, in piccoli omicidi di quadri più zelanti degli altri, e soprattutto in apatia, false ubbidienze. Un sordo malcontento che avrebbe interessato pure l’Esercito, grandemente contadino e pilastro portante della struttura della Repubblica. Non è forse un caso che a Lushan fu Peng Dehuai, Ministro della Difesa, ad attaccare con vigore le Comuni ed il Grande Balzo in Avanti, ammonendo gli astanti che solo la “bontà” dei contadini aveva impedito una rivolta tipo l’Ungheria del 1956.
Ma qui il rude Peng prendeva un abbaglio, non si trattava di spirituale bontà ma di prosaici interessi a neutralizzare il brontolio contadino, a far sì che il Mandato del Cielo non fosse tolto al PCC.
Gli appezzamenti privati furono la ciambella di salvataggio del regime, questo prima volutamente li ignorò, poi li accettò, poi ancora disperatamente li incoraggiò.
Ed il contadino, con strumenti rudimentali ma con la sua eccezionale abitudine alla fatica, riusciva a trarre dai terreni privati il 20-30% delle risorse necessarie alla sua sussistenza.
Nei fanghi dei terreni privati affondava quindi la truppa dei quadri e dei funzionari, trascinando con sé la visione maoista di una società caratterizzata da un alto livello di tensione e di lotta perpetua, da una maniera di vivere puritana, dall’assorbimento dell’individuo nella collettività, e dalla credenza quasi religiosa di una trasformazione “ideologica” dell’uomo.
E tale risultato ci induce ad altra considerazione; saldandosi indissolubilmente la conduzione collettiva delle terre con quella individuale, il contadino diventerà una figura ibrida, anziché mutarsi – per effetto degli espropri e concentrazioni capitalistiche di terre e capitali – in quella di moderno proletario salariato.
Risultato quest’ultimo non a favore della futura rivoluzione proletaria, ma di quella controrivoluzione democratica che ha come suoi figli lo stalinismo ed il maoismo.
Il Grande Balzo in Avanti verrà reso ufficiale dalla II straordinaria sessione dell’VIII Congresso del PCC, tenutasi a Pechino dal 5 al 23 maggio 1958.
Il rapporto principale, unico testo conosciuto della riunione, fu di Liu Shaoqi che ebbe il compito di riassumere le tesi esposte da Mao nelle varie riunioni di inizio 1958, su cui già ci siamo soffermati nella puntata apparsa nell’aprile.
«La primavera 1958 è stata testimone dell’inizio del Grande Balzo in Avanti su ogni fronte della nostra edificazione socialista. Industria, agricoltura e tutti gli altri campi di attività stanno registrando una crescita maggiore e più rapida».
Dirà Liu, per poi descrivere lo spirito del Grande Balzo in Avanti:
«Le vaste masse dei lavoratori hanno compreso in pieno che gli interessi individuali e immediati dipendono e sono legati agli interessi collettivi e a lunga scadenza, e che la felicità dell’individuo si fonda sulla realizzazione degli alti ideali socialisti di tutto il popolo. Questa è la ragione per cui hanno rivelato un eroico spirito comunista di sacrificio personale nel lavoro. Il loro slogan è: “Duro lavoro per pochi anni, felicità per mille”. Questo torrente impetuoso di idee comuniste ha spazzato via molti scogli: individualismo, regionalismo, localismo e nazionalismo. In città e in campagna, la gente compete reciprocamente nel prender parte a vari tipi di lavoro volontario (...) Il compagno Mao ha proposto gli slogan: “Portarsi al livello della Gran Bretagna e superarla in 15 anni”, “costruire il socialismo compiendo i nostri massimi sforzi e spingendosi avanti per ottenere i risultati più rapidi, migliori, più grandi e più economici”, “costruire il nostro paese e far funzionare la nostra grande famiglia industriosamente e frugalmente”, “combattere duramente per tre anni per portare a termine un cambiamento di base delle caratteristiche della maggior parte delle zone”, tutti questi appelli hanno subito fatto presa sulla immaginazione della grande armata di milioni di lavoratori e sono stati trasformati in una immensa forza materiale».
Ed a sostegno di questa mobilitazione, Liu descriverà i grandi progressi nello sviluppo delle opere di irrigazione, della campagna per il miglioramento degli attrezzi agricoli, della campagna contro i quattro mali (mosche, zanzare, topi e passeri), respingendo, sempre a nome di Mao, le critiche che già venivano avanzate al Grande Balzo:
«Alcune persone ci criticano di desiderare grandezza e
successo
per cercare un rapido successo e benefici immediati. Quello che dicono
di noi è vero ! Non dovremo desiderare grandezza per i
nostri
600 milioni
di persone e il successo del socialismo ? Dovremo piuttosto
desiderare
la meschinità e il fallimento, rifiutare il successo e i
benefici ed
essere contenti di restare indietro e di non far nulla ?
«Alcune persone si chiedono se l’attuazione della politica di
ottenere consistentemente maggiori, più rapidi, migliori e
più
economici risultati, non ci conduca alla sconfitta. Naturalmente se
questa politica viene seguita poco a poco, se noi miriamo semplicemente
alla quantità e alla velocità trascurando la
qualità e l’economia, o
viceversa, allora ci sarà sconfitta. “Maggiori” e “più
rapidi”
risultati riguardano la quantità e la velocità;
“migliori”
e “più
economici” la qualità e i costi. Sono complementari e si
condizionano
a vicenda (...)
«Altri si preoccupano che l’impulso a questa politica
porterà le
varie branche della produzione in una situazione di squilibrio nel
reddito finanziario delle spese. Ci sarà necessariamente
uno
squilibrio. Anche se non porteremo avanti questa politica, ci
sarà
sempre uno squilibrio, perché ogni equilibrio è
temporaneo e
condizionato, quindi relativo. Non esiste un equilibrio assoluto».
Anche se l’intervento di Liu fu giudicato senza il calore e lo
spirito mistico di quelli di Mao, la parte finale ben riassume
l’ottimismo volontarista del Grande Balzo in Avanti:
«Noi ora ci troviamo in un grande periodo della storia del
nostro paese, il periodo dello sviluppo attraverso balzi e salti (...)
Dobbiamo ricordare che la modestia aiuta a fare progressi, dove invece
la presunzione fa rimanere indietro. Ma la modestia cui ci appelliamo
non ha niente a che fare con qualunque senso di inferiorità.
Abbiamo
una popolazione di più di 600 milioni e il nostro
partito ha
legami di carne e sangue con questa nostra grande popolazione. Facendo
affidamento su questa grande forza noi possiamo, o presto potremo, fare
qualsiasi cosa nei limiti delle possibilità umane (..) Nella
storia,
sono sempre i nuovi arrivati che superano i vecchi, sempre le cose nate
da poco, che per un certo tempo appaiono deboli e piccole, ma
che rappresentano il progresso, a vincere le cose moribonde, che
appaiono potenti, ma che rappresentano la conservazione. In un periodo
molto breve lasceremo indietro di gran lunga ogni altro paese
capitalista. E quindi non dovremo aver fiducia in noi stessi e scartare
ciò che abbia il sapore della superstizione, paura e senso di
inferiorità ?».
E le possibilità umane, si sa, sono un materiale elastico dilatabile secondo le sollecitazioni che riceve; su questa “elasticità” poggiava il Grande Balzo in Avanti, il cui postulato primo era che i 600 milioni e più di cinesi dovevano rimpiazzare con i loro sforzi la tecnica avanzata del mondo capitalistico, inavvicinabile per Pechino causa la sua debolezza finanziaria.
Naturalmente il regime, scelta la via della mobilitazione sociale, capì che non sarebbe stata spontanea, volontaria; qualunque controllo organizzativo della manodopera rurale e urbana, per un sistematico impiego in opere che sostituissero l’investimento di capitale, doveva poggiare sui quadri e funzionari di partito, sui legami di questi con la popolazione come ricordò crudamente Liu.
E contemporaneamente alla denuncia delle tecniche e della tecnologia moderna, si innalzava un feticcio, più alto, rozzo e mostruoso, quello della produzione, della “edificazione”.
Il Grande Balzo in Avanti vide, quindi, un vero e proprio clima di guerra, fatto in ugual misura di costrizione e disciplina, ma anche esaltazione mistica perché l’imperativo della “edificazione economica” si sposava con l’imperativo della “salvezza nazionale”, a cui le “armate del lavoro” tutto dovevano dare e sacrificare per vincere le sempre continue e sempre nuove “battaglie della produzione»
«Una fabbrica è un campo militare. Di fronte alla macchina l’operaio è disciplinato come il soldato», dirà la risoluzione di Wuchang, il 12 dicembre 1958, e come ai soldati, a tutta la popolazione veniva richiesto disciplina, dedizione, abnegazione, spirito di sacrificio, spirito di corpo, unico modo per «sviluppare simultaneamente tutta l’economia nazionale», di produrre di più, più rapidamente, meglio !
Questa eccezionale mobilitazione, oltre ad una maggiore produzione industriale ed agricola – sostegno finanziario di investimenti e importazioni – doveva, con imponenti grandi lavori di insieme (irrigazione, rifacimento terreni, rimboschimenti), emancipare una volta per tutte le produzioni agricole dalle oscillazioni climatiche.
Lo scopo primo del Grande Balzo in Avanti rimaneva però l’industrializzazione forzata, un’industrializzazione che proprio perché intendeva sfruttare anche le materie prime disponibili localmente doveva far ricorso a tecniche produttive tradizionali – fate da voi le macchine ! incitavano i quadri – fidando sulla grande disponibilità di forza lavoro a basso prezzo delle campagne e delle città.
Liu aveva esclamato alla II sessione dell’VIII Congresso: «mobilitare tutti i fattori positivi», e lo Stato passò decisamente, da una utilizzazione di capitale industriale che aveva caratterizzato gli anni del primo piano quinquennale, ad una massiccia utilizzazione di forza lavoro che rimpiazzava lo scarso capitale fisso.
Uno degli aspetti principali del Grande Balzo in Avanti fu il decentramento al livello locale delle responsabilità di conduzione delle imprese industriali. Il controllo centrale di Pechino che nel 1957 interessava il 46% delle imprese, passò in un anno al 27%, per calare ancora nel 1959 al 26%.
Escluso quindi determinati principali prodotti, tipo l’acciaio, durante il Grande Balzo le decisioni economiche erano passate dalla Commissione di Piano, tanto cara ai Gao Gang ed ai Chen Yun, ai Comitati Regionali di Partito, primo determinante anello della catena della “mobilitazione”.
Secondo i dirigenti di Pechino, l’autonomia locale delle aziende doveva spingerle alla ricerca ed all’utilizzazione di materie prime estratte e prodotte localmente. Se così fosse stato, non solo gli asfittici trasporti ne avrebbero tratto beneficio – merci in meno da trasportare – ma anche lo Stato ne avrebbe tratto un indubbio vantaggio potendo destinare tutte le sue poche risorse finanziarie allo sviluppo dell’industria pesante ed all’ammodernamento dell’esercito.
Il che non era poi una grande pensata, ma una carta da giocare per un paese povero costretto a far di necessità virtù !
Ma il decentramento locale cinese, se da un lato favoriva la “mobilitazione” da parte dei quadri di tutte le risorse e di tutti i fattori positivi, automaticamente generava due “mali” contro cui avrebbe dovuto fare i conti lo Stato centrale di Pechino: 1) dava forza ad un sistema economico formato da isole chiuse, autarchiche, base per tendenze localiste e autonomiste; 2) la pur debole pianificazione centrale salta del tutto.
Mao lo deve riconoscere al Plenum di Lushan, il 23 luglio 1959: «Adesso gli organi della pianificazione non si occupano della pianificazione: è già un po’ che non se ne occupano. Gli organi per la pianificazione non si limitano alla Commissione per la pianificazione, comprendono anche altri ministeri così come le amministrazioni locali. Gli organi locali possono essere perdonati se per un certo periodo non si sono interessati all’equilibrio generale dell’economia. Ma la Commissione per la pianificazione e i ministeri centrali operano da dieci anni e all’improvviso a Beidaihe hanno deciso di non occuparsene più. L’hanno chiamata una direttiva sulla pianificazione, ma era equivalente a sbarazzarsi della pianificazione. Voglio dire che, sbarazzandosi della pianificazione, non prestavano più attenzione agli equilibri generali e che semplicemente non procedevano a nessuna stima di quanto carbone, ferro e trasporti sarebbero stati necessari. Carbone e ferro non possono camminare da soli, hanno bisogno di essere trasportati su veicoli. Questo non l’aveva previsto. Io (...) e il Primo ministro non ci siamo occupati di questo punto. Voi potreste dire che noi non lo sapevamo. Io non dovrei scusarmi visto che non sono il capo della Commissione per la pianificazione, ma lo farò lo stesso. Prima dell’agosto dell’anno scorso le mie energie erano tutte concentrate sulla rivoluzione. Io ho una competenza del tutto marginale quando si tratta di costruzione economica e non capisco niente di pianificazione industriale».
La sincerità di Mao riconosceva l’impreparazione della mobilitazione del Grande Balzo e la totale mancanza di pianificazione centrale delle produzioni, problema capitale per uno Stato vasto quanto un continente e super-popolato come quello cinese.
Allentati i freni regolatori di Pechino, gli uomini – eccezionali faticatori – furono travolti dagli avvenimenti produttivi, come fagocitati dal Moloch dell’accrescimento della produzione.
I quadri vogliosi di vincere le “battaglie produttive», e soprattutto desiderosi di non deludere i superiori con i loro ambiziosi progetti, spodestarono i manager, i direttori, coccolati da Chen Yun e consigliati dagli esperti russi. Se ritmi di lavoro imposti dai quadri furono eccezionali (Liu il 14 settembre 1959 scriveva che «nella campagna di massa per il ferro e l’acciaio, l’anno scorso, dieci milioni di uomini trascurarono il proprio sonno e i propri pasti e non fecero caso alla remunerazione materiale»). L’assenza di cognizioni tecniche e scientifiche, il mancato addestramento del modo di produzione capitalistico, fecero sentire tutto il loro peso, con le macchine super-sfruttate che cedevano, con le materie prime ed i prodotti finiti, fabbricati senza riferimento alla loro rispettiva utilità e alla capacità di trasporto, destinati ad un immane spreco !
La campagna per la fabbricazione dell’acciaio per mezzo di “piccoli altiforni”, fu certamente esemplare manifestazione dello spirito del Grande Balzo, nel bene e nel male. Sempre secondo il discorso di Lushan, fu Mao stesso il promotore della campagna:
«Chi è stato il responsabile dell’idea della fusione d’acciaio di massa ? Ke Quing-shi e io ? Dico che sono stato io. Ho avuto una conversazione con Ke Quing-shi e parlai di sei milioni di tonnellate. Dopo ho voluto parlare anche con altri: anche (...) disse che era possibile. In giugno parlai di 10.700.000 tonnellate. Poi andammo avanti e lo facemmo. Fu pubblicato nel comunicato di Beidaihe; (...) buttò giù alcune idee e considerò che tutto fosse a posto. Così siamo precipitati in una grande catastrofe e 90 milioni di uomini sono scesi in battaglia».
La cadenza degli obbiettivi proposti era impressionante; come se si trattasse di noccioline, dai 5,3 milioni di tonnellate di acciaio del 1957 si passa a proporre una produzione di 6, annunciata anche da Bo Yi-bo il 3 febbraio 1958, ai 7,1 previsti da Liu Shaoqi il 5 maggio, ai 10 mil. di settembre.
Poteva ben scrivere il “Jenmin Jihpao” il 28 febbraio 1958, che «le vecchie quote, i vecchi obiettivi, i vecchi regolamenti e istituti entrano costantemente in collisione con l’iniziativa e la creatività delle masse», ma la collisione era d’altra fatta e niente c’entravano le masse. Erano le condizioni materiali delle forze produttive a disposizione del Governo di Pechino che si scontravano con la volontà di questo di attuare in pochi decenni un’accumulazione di capitale e di proletarizzazione delle campagne che in Europa (paragonabile per dimensione ma non per popolazione) ha impiegato un ciclo – per molti versi tutt’ora non chiuso nel settore agricolo – di secoli, dalle innumerevoli lotte sociali e politiche.
E l’immancabile vaso di coccio fra tradizionali vasi di ferro, erano le condizioni di esistenza e di lavoro dei 600 milioni di cinesi, alla cui creatività, e soprattutto alla cui fatica, tutto si domandava !
Di fatto, durante la seconda metà del 1958, buona parte della popolazione cinese venne impiegata a raccogliere e fondere rottami metallici, fino ai più umili utensili di cucina. Mao successivamente parlò di 90 milioni di persone impiegate nelle “campagne”; altre valutazioni calcolarono in due milioni i piccoli altiforni messi in funzione, ed in 50-60 milioni i contadini che parteciparono all’esperimento, e siccome questo raggiunse il suo culmine in agosto-settembre, mesi di importanti raccolti agricoli, i rudimenti tecnici che molti contadini impararono cimentandosi con elementari forni, furono subitamente pagati con piccoli ma importanti disastri alle colture colpite dal sopraggiungere delle gelate.
Uguali piccoli disastri economici nelle zone urbane, con i cittadini che si davano alla fabbricazione dell’acciaio dopo il normale lavoro, con il risultato di uno scarso “rendimento” nei giorni successivi.
La “campagna”, interrotta dal Governo allorché fu chiaro che la quantità di produzione eccedente era per lo più scadente e che il sistema dei trasporti stentava a reggere l’aumento delle merci da spostare, dette ufficialmente buoni risultati: dal 1957 al 1960 la produzione di acciaio passò da 5,3 milioni di tonnellate a 11,1, a 13,3 e 18,4. Cifre che, non conteggiando la cattiva produzione (nel 1958, 3 milioni di t. di acciaio dovettero essere ritirate e servirono solo per la produzione di piccoli attrezzi agricoli), andrebbero ridimensionate in 5,3; 6,1; 8,3 e 13,7, quote anche esse che saranno definitivamente e sicuramente raggiunte un decennio dopo.
Stessi i risultati per il carbone: dal 1957 al 1960 si ebbe 130; 270; 348; 425 milioni di tonnellate.
I cinesi inneggiando il loro decentramento sostennero che nel 1958 l’80% del prodotto (219 mil. di t.) era estratto con metodi moderni, e di questo circa il 24% (52,5 mil. di t.) in miniere di piccole dimensioni gestite dalle Comuni. Ma da queste cifre certi osservatori deducono che ben 100 mil, di t. sarebbero state di carbone non utilizzabile o di qualità molto scadente. La serie della produzione andrebbe quindi ricostruita in 130; 170; 248 e 325 mil. di t., sempre eccezionale come cadenza pur valendo le considerazioni su esposte per l’acciaio.
Furono però i lavori fatti a braccia dall’enorme esercito di contadini quelli che meglio caratterizzarono il Grande Balzo in Avanti come una epica mobilitazione di forza lavoro, a cui dette un importante contributo la massa di milioni di cittadini spinti nei villaggi forzatamente, ed impiegati anch’essi nei lavori agricoli.
Negli anni del primo piano quinquennale furono progettati e costruiti 83.403 Km. di strade percorribili da veicoli a motore; nel 1958 ne furono costruiti 150 mila circa, e l’anno successivo ancora 80 mila.
Ugualmente per i lavori di irrigazione, di bonifica e di rimboschimento, il biennio 1958-59 superò di gran lunga i risultati quantitativi del primo piano quinquennale.
Nell’anno di massimo sforzo, il 1958, pare che furono rimossi 58 miliardi di metri cubi di terra, pari a 290 volte il movimento di terra che fu necessario per la costruzione del canale di Suez, o, se preferiamo, 300 volte quello di Panama. Cifre enormi, impressionanti, tenendo conto che la gran parte di questi lavori fu eseguita senza ausilio di macchine, con attrezzi primitivi di scavo e con il trasporto a spalla dei materiali di risulta, durante i periodi morti per gli ordinari lavori agricoli.
Ma l’eccezionale mobilitazione delle masse per i lavori idraulici oltrepassò il senso comune; aratura in profondità in una zona, ricerca forsennata di concimi organici nell’altra, completavano il quadro di rara drammaticità.
Per di più, nella corsa alla costruzione di dighe, insufficiente attenzione fu prestata alla esecuzione di studi particolareggiati sulla topografia del limo, il regime dei fiumi e l’andamento meteorologico, trascurando fra l’altro i sistemi di convogliamento delle acque dai bacini artificiali ai campi.
Nella realizzazione di una rete irrigua che doveva tagliare in lungo ed in largo la regione compresa tra il Fiume Giallo, l’Hai e lo Yang Tze-Kiang, furono scavati troppi canali di irrigazione e troppo pochi canali di drenaggio. Essendo troppo piccoli molti canali di irrigazione avrebbero intralciato una futura meccanizzazione agricola, senza garantire d’altra parte una sicura protezione in caso di inondazioni. Parecchi canali perdevano, e l’infiltrazione, provocando l’infradiciamento dei terreni, ne accentuava anche il tenore alcalino o la salinità, contro le quali è difficile combattere.
I dati fisici-storici facevano nuovamente valere il loro peso: i terreni coltivati intensamente per secoli, senza rotazione a maggese per la costante pressione demografica, avevano mantenuto quasi intatta la loro originaria fertilità per il costante apporto di concimi naturali che ricostruivano gli elementi organici del terreno. Questo delicato equilibrio naturale si era preservato per secoli, custodito dalla parsimonia e lentezza dei contadini cinesi saggi ed abili coltivatori.
Questi delicati equilibri naturali furono qua e là infranti dai ricorrenti eccessi del Grande Balzo in Avanti, dopo aver subìto un lento ma costante deterioramento dall’avanzare del capitalismo nelle campagne.
Non si tratta di politiche più o meno giuste, di uomini più o meno preveggenti, è che il modo di produzione asiatico si reggeva sull’ammaestramento centrale delle acque e sul conseguente andamento della produzione agricola, i cui elementi erano da conservare intatti, se non migliorati, alle generazioni successive; mentre il modo di produzione capitalistico deve rompere – per affermarsi pienamente – ogni legame con la natura i cui cicli sono troppo lenti per le sue esigenze di accumulazione e di riproduzione allargata.
Per questa ragione, storica e non personale, là dove gli antichi regimi avevano dimostrato indubbie capacità, quelli moderni, pur riuscendo talvolta a mobilitare uguali immense masse di uomini, come fu per il Grande Balzo in Avanti, dimostreranno chiare deficienze che non furono del passato.
Il biennio 1959-60, vide infatti i terribili fiumi del Nord rompere molte di quelle opere che avrebbero dovuto preservare dalle inondazioni i terreni coltivati, fatto che indubbiamente concorse all’archiviazione del Grande Balzo in Avanti con le sue eccezionali mobilitazioni di masse di uomini, bocciatura che però va estesa all’intero meccanismo di produzione capitalistico ed a tutti i suoi miti, primo fra tutti quello dell’aumento incessante della produzione di merci !
La tabella che presentiamo mostra l’andamento delle principali produzioni industriali ed agricole nel triennio 1958-60, confrontando gli incrementi percentuali medi annui con quelli dei periodi precedenti, già presi in esame.
Va subito detto che molti di questi dati non sono ufficiali, ma sono invece ripresi da studi effettuati da più parti sull’economia cinese, preferendoli a quelli ufficiali comunicati per alcune produzioni fino al 1960 e generalmente considerati poco attendibili. L’avvertenza varrà fino al 1978, quando il Governo centrale della Repubblica Popolare ricomincerà a ripresentare, in grande stile, le statistiche della propria economia.
La mancanza di un quadro statistico di sicuro riferimento, carenza fondamentale sentita persino dalle computerizzate economie occidentali, non impedisce però l’allineamento di cifre e dati che, pur non brillando per esattezza quantitativa, sono pienamente in grado di delineare e delimitare le tendenze generali dell’economia cinese in ogni suo periodo, base unica questa delle lotte politiche e sociali svoltesi.
Prima di commentare la tabella è bene riannodare ulteriormente il filo degli avvenimenti.
Abbiamo già detto come il lancio delle Comuni Popolari e del Grande Balzo in Avanti ebbe la formidabile base di appoggio dell’ottimo raccolto agricolo del 1958 che portò la quota pro-capite di cereali a 312 kg. l’anno (dato che sarà nuovamente toccato solo dopo venti anni), ed il successo agricolo poteva ben determinare tutto l’andamento economico in un paese in cui l’agricoltura forniva la metà delle risorse dello Stato ed alimentava per i 2/3 il commercio estero.
In pieno periodo di fervore di mobilitazione sociale, il VI Plenum di Wuchang comunicò gli eccezionali dati sulle varie produzioni dell’anno 1958: l’acciaio prodotto sarebbe stato 11 mil. di t.; il carbone 270 mil. di t.; i cereali ben 375 mil. di t. ed il cotone 3,35 mil, di t. Questi risultati di alcune fondamentali produzioni, avevano spinto in avanti la produzione industriale ed agricola del 70% rispetto a quella dell’anno precedente, aumento superiore persino a quello avutosi nell’intero quinquennio 1953-57, solo il 68%.
Sulla base di questi stratosferici successi il Plenum del dicembre 1958, redasse gli obbiettivi per l’anno seguente: 18 milioni di tonnellate di acciaio, 380 di carbone, 525 di cereali, 5 di fibra di cotone, cifre che rappresentavano il livello di produzione fissato per la fine del III piano quinquennale, cioè a dire il lontano 1967.
Il clamore delle cifre doveva però lasciare il passo al cupo incedere degli avvenimenti.
Già l’VIII Plenum di Lushan, deve registrare le dure critiche di Peng Dehuai e degli altri suoi sostenitori; la difesa accorata di Mao che di fronte alla possibilità di rendere pubbliche le aspre critiche al Grande Balzo in Avanti ed alle Comuni Popolari, minaccia: «In tal caso io andrei in campagna e mi metterei alla testa dei contadini per rovesciare il Governo. Se quelli di voi, che sono nell’Esercito di Liberazione, non mi vogliono seguire, allora io andrò a cercarmi un’Armata Rossa e organizzerò un altro Esercito di Liberazione. Ma io penso che l’Esercito di Liberazione mi seguirebbe»; la sconfitta di Peng e dei suoi, qualificati dei peggiori epiteti, e una radicale revisione dei dati statistici mesi prima annunciati, indiretta conferma di alcune delle principali critiche di Peng, «del ricorso generalizzato alle spacconate, alla millanteria, quella megalomania dilagata ovunque, cosa che pregiudica assai il prestigio del nostro partito».
Il Plenum di Lushan fu costretto a passare dai 375 milioni di tonnellate di cereali a 250; da 3,35 di cotone a 2,1; dagli 11,1 di acciaio ad 8, cifre pure queste, per acciaio e cereali, ancora superiori a quelle da noi ordinate ed incasellate.
La rettifica, automaticamente, coinvolse anche il piano per il 1959: per l’acciaio si corressero i previsti 18 mil. di t. in 12; per il carbone da 380 mil. di t. si scese a 335; per i cereali dai 525 mil. di t, programmati (pure oggi vera e propria chimera), si precipitò a 275 mil. di t.; idem per il cotone, da 5 mil. di t. a 2,3.
Anche se ufficialmente continuò l’esaltazione della politica del Grande Balzo in Avanti, ed il popolo fu chiamato a vincere “lo spirito opportunista di destra”, per realizzare nel biennio 1958-59, i traguardi produttivi del II piano quinquennale 1958-62, fu quello il primo decisivo passo per la messa in soffitta della politica di mobilitazione sociale, processo già descritto riguardo la sorte delle Comuni Popolari.
Gli ultimi dati ufficiali verranno forniti da Li Fuzhun, alla II sessione della II Assemblea Nazionale, dal 30 marzo al 10 aprile 1960, e furono l’ultimo sbotto di un ottimismo che i disastri naturali atmosferici ed il ritiro degli aiuti russi del luglio-agosto successivo, si incaricheranno di rimpiazzare con uno sdegnoso e dignitoso silenzio.
Li Fuzhun mostrò che alla fine del 1959, per la maggior parte dei prodotti agricoli ed industriali, era stata raggiunta la quota prevista per il 1962, e che nuovi ambiziosi programmi dovevano essere stilati per il 1960.
Cifre e programmi enunciati in quell’Assemblea, possono però dormire sonni tranquilli, nessuno li disturberà. La tabella presentata, fa infatti giustizia di molte di queste cifre, fino ad ora esposte più che altro per mostrare la difficoltà di un regime a conoscere la condizione di marcia della sua economia, riflesso da una parte di anarchia produttiva e, dall’altra di autarchia e arretratezza tecnico-produttiva delle campagne, solo marginalmente interessate e coinvolte dal flusso mercantile dei prodotti, base per ogni statistica borghese.
Il triennio 1958-60, presenta un incremento percentuale medio annuo
superiore di gran lunga a quello del periodo precedente 1953-57, per
tutti i prodotti industriali, la produzione dei quali raddoppia in tre
lunghi anni di eccezionali e duri lavori. Per l’energia elettrica, il
petrolio e l’acido solforico viene persino superato l’incremento del
periodo di ricostruzione 1949-52, dai molti record per la precedente
caduta della produzione ai minimi livelli di sussistenza.
[ Quadro delle principali Produzioni 1949-77 ]
Le produzioni di petrolio (+55,6%) e di macchine utensili (+47,6%), sono quelle che vantano gli incrementi maggiori rispetto alle altre produzioni, che si attestano su un incremento medio annuo variante dal 32,6% del cemento al 39,1% del carbone, tutte rate eccezionali non più ripetute, da allora ad oggi, dalla Gialla Repubblica.
L’industria, pur con tutte le difficoltà e tutti gli immensi sprechi, ha le carte in regola con le esigenze produttive del Grande Balzo in Avanti. Ma se è relativamente facile comandare i ritmi delle macchine, del capitale fisso messo in moto dal lavoro salariato, solo estendendo la giornata di lavoro, il difficile è comandare alla natura, la quale obbedisce a ben altri cicli che non quello della riproduzione capitalistica, ed immensi investimenti di capitali sono necessari per dotare di infrastrutture ed attrezzaggio la campagna e renderla adatta allo sfruttamento capitalistico.
La produzione di filati di cotone (industria leggera dipendente per la materia prima dall’agricoltura), deve infatti segnare il passo con un -1% medio nel triennio, che anticipa il vero e proprio tracollo dell’essenziale produzione cerealicola che, non solo non riesce a tener dietro all’aumento della popolazione (+1,82%), ma regredisce pure in valore assoluto scendendo dai 206 mil. di t. del 1958, ai 171 del 1959, e ai 156 del 1960, al disotto della quota raggiunta nel lontano 1952, inizio della riforma agraria e di tanti sogni collettivisti.
L’andamento è ulteriormente peggiore per la disponibilità annua pro-capite dei cereali, per la continua pressione di una sempre aumentante popolazione costretta a spartirsi una quantità minore di prodotti alimentari.
Non l’acciaio teneva la chiave dell’economia cinese, ma i cereali, proprio perché prima si mangia e poi si produce; ed il segno negativo della produzione cerealicola aveva il potere di tutto svendere del Grande Balzo in Avanti e delle Comuni Popolari, sia questo che quelle reggentesi sulla scommessa di aumentare, ipso facto, il surplus agricolo, chiave di volta di una problematica industrializzazione nazionale.
Parallelamente quindi alla ritirata operata nel campo delle strutture e dei compiti delle Comuni, dal 1960 il regime di Pechino dovette prima annacquare, poi sbarazzarsi dei vari aspetti del Grande Balzo in Avanti anche in campo industriale.
Questo processo di ritirata si caratterizzò prima di tutto per una costante diminuzione di entusiasmo ed ottimismo nei discorsi dei massimi dirigenti, poi – prosaicamente – seguì la riorganizzazione delle Comuni e le pressanti esigenze alimentari.
Un esempio di ciò si poteva leggete sul “Jenmin Jihpao” del 2 agosto 1960:
«Dobbiamo fare in modo di intensificare la produzione nell’industria senza aumentare la mano d’opera che vi lavora. L’economia delle Comuni non deve assorbire più del 5% dei lavoratori agricoli e, nell’alta stagione, le imprese delle Comuni dovranno trasferire quanta più mano d’opera è possibile al lavoro dei campi».
Queste brevi e lapidarie frasi erano una vera condanna per il Grande Balzo in Avanti; il regime riconosceva infatti, la sua impossibilità a continuare, pena la bancarotta alimentare, la mobilitazione delle masse per grandi lavori e grandi industrializzazioni, che dovevano segnare il passo in favore delle esigenze alimentari che imponevano l’assoluta priorità dei cereali, dell’agricoltura rispetto a tutti gli altri settori produttivi.
Il ritmo fragoroso dell’incremento dell’industria pesante passava la mano a quello più discreto dell’industria leggera, fornitrice di necessari beni di produzione e di consumo, per l’immenso ed affamato, pure di merci, mondo contadino.
Il cambio di consegne va marxisticamente letto: non si accumulava, ma si riattivava il necessario scambio mercantile fra Agricoltura ed Industria, unico fondamento della solo successiva accumulazione di capitale, sia nell’industria che nell’agricoltura.
Questo cambio di consegne verrà ben riassunto dal IX Plenum tenutosi dal 14 al 18 gennaio, anno 1961, a Pechino:
«I settori dell’industria leggera debbono sforzarsi di
superare
le difficoltà derivanti dalla scarsezza di materie prime
prodotta,
aprire nuove fonti di materie prime, accrescere la produzione e
assicurare fin dove è possibile la soddisfazione delle
necessità
quotidiane del popolo. Nell’industria pesante, tenuto conto del
grandioso sviluppo che si è conseguito negli ultimi tre anni e
del
fatto che la produzione dei beni principali ha notevolmente superato le
quote originariamente stabilite per il 1961 e 1962, ultimi
due anni del secondo Piano quinquennale, l’obbiettivo della costruzione
di base deve essere convenientemente ridotto, il tasso di sviluppo deve
essere riaggiustato, e, sulla base delle vittorie già
conseguite,
occorre adottare una linea di consolidamento, completamento e
miglioramento dei livelli qualitativi. Ciò significa che bisogna
far
sforzi per migliorare la qualità dei prodotti, accrescerne la
varietà,
rafforzare gli anelli deboli del processo produttivo e continuare a
sviluppare il movimento di massa per le innovazioni tecniche,
economizzare materie prime, abbassare i costi di produzione e
accrescere la produttività del lavoro.
«Le temporanee difficoltà nell’approvvigionamento
del mercato
causate dal cattivo raccolto e dalla scarsità di materie prime
per
l’industria leggera costituiscono problemi importanti che esigono una
urgente soluzione».
La confessione è chiara ed esplicita: non si tratta di una società che veleggia verso il socialismo ed il comunismo, ma di una che chiaramente punta all’affermazione del modo di produzione capitalistico, che deve maneggiare le tradizionali borghesi leve dell’abbassamento dei costi di produzione e dell’accrescimento della produttività del lavoro, per rafforzare gli anelli deboli del processo produttivo sconvolto dalla crisi agricola che aveva determinato prima una crisi industriale, poi un bloccarsi degli scambi fra le città e le campagne per mancanza di merci.
Il livello dei prezzi era rimasto immutato, successivamente verrà nuovamente favorito il settore agricolo, ma la rarefazione dei beni di consumo aveva automaticamente diminuito il potere di acquisto dei contadini, bloccando gli scambi mercantili e favorendo l’autarchia economica della miriade di villaggi, nemico mortale per il generale processo di accumulazione e riproduzione di capitale.
Tale processo, di accumulazione e riproduzione, esalta gli incrementi produttivi dell’industria pesante fornitrice di beni strumentali, come per il biennio 1958-59 era stato. È la consegna classica del modo di produzione capitalistico: più beni strumentali, più operai, più tempo di lavoro, più intensità di lavoro, consegna che ha il suo logico sbocco in un’accumulazione progressiva di capitale a ritmi d’inferno, parafrasando i cinesi a Grandi Balzi in Avanti.
La svolta quindi, di rimettere sull’altare l’industria leggera fornitrice di beni di consumo, indirettamente manifestava che anche da un punto di vista borghese la Cina mordeva il freno, che non si era ancora decisamente e risolutamente impiantato, nell’immenso territorio, un esteso scambio di merci fra i vari settori produttivi, che senza tale impianto era vano parlare, non solo di socialismo, ma di moderno capitalismo, e che industrializzazioni forzate accelerate avrebbero finito per bruciare i pochi capitali disponibili.
Tesi queste sostenute dalla “destra” di Chen Yun, come già descritto.
La storia non si fa né con i se né con i ma, né
tantomeno a
posteriori.
Lo Stato cinese, borghesemente, ha fatto quello che poteva e, soprattutto, quello che le condizioni materiali date imponevano. Anche lo Stato influenza le forze produttive (e come !), se quindi si affermò la soluzione della mobilitazione sociale, con i suoi scarsi risultati, va detto che lo sviluppo dello Stato era esso stesso ad un basso livello, e che i rischi di una lacerazione sociale presupposti dalle tesi economiche della “destra”, non potevano essere allora accettati dalla necessaria integrità dello Stato centrale.
Con il Grande Balzo in Avanti e il dimostrato fallimento delle consegne che lo caratterizzavano, si chiude il decennio epico ed eroico della Repubblica Popolare cinese, con il romanticismo proprio di ogni rivoluzione nazionale borghese in ascesa.
È il decennio dello Stato forte, che manovra e mobilita l’immensa popolazione, segnatamente quella contadina, e lo può fare sull’onda di un genuino, forte ma anche ingenuo movimento contadino che per decenni aveva alimentato costantemente il PCC, dandogli vigore e decisione. Ed il PCC, vero partito borghese non per estrazione sociale dei suoi vertici e base ma per programma politico, impiega il vigore e la decisione contadina prima nella costituzione della Repubblica Popolare, poi nel suo rafforzamento sbarazzando il campo da corruzione e debolezze.
È il decennio dei grandi sommovimenti del mondo contadino, della Riforma agraria e della collettivizzazione e comunalizzazione. Titubanze e tendenze al compromesso del PCC, non possono arrestare una marea che impietosamente inghiottisce i grandi proprietari fondiari prima, e l’economia dei contadini ricchi poi. Il risultato che ne consegue non può però impedire successive differenziazioni sociali nelle campagne, ineliminabili in ambiente necessariamente mercantile, cioè borghese.
È il decennio della salda alleanza cino-russa, con cospicui aiuti economici del regime di Mosca che tenta, attraverso questa leva, di legare indissolubilmente a sé l’inquieto alleato. Nel decennio, la Cina sfrutta mirabilmente a fini interni nazionali la dispendiosa ed onerosa guerra di Corea, scontrandosi con la potente America protettrice del Generalissimo confinatosi a Formosa; con la Conferenza di Bandung, la Cina fa poi valere tutto il suo fascino e la sua forza nei confronti dei Paesi cosiddetti Non allineati presso i quali gode di grande prestigio.
È il decennio della grande crescita economica, politica e militare del grande Stato giallo, crescita che, secondo i dirigenti di Pechino, non doveva arrestarsi di fronte a qualsivoglia ostacolo ma darsi obbiettivi sempre più ambiziosi.
Ma l’epica e mistica mobilitazione estensiva del lavoro e degli sforzi dei 600 milioni di cinesi non poteva andare più in là di dove arrivò; raggiunti tutti gli obiettivi possibili alla volontà umana, urtò naturalmente contro la necessità della specializzazione e concentrazione della grande industria di base, unico ossigeno per l’affermazione di un’agricoltura capitalistica moderna.
Il rumoroso urto renderà impossibile l’avvento di un altro decennio di eroismo ed epicità; gli anni Sessanta, nonostante il chiasso ed i colori della Rivoluzione Culturale, saranno il decennio non degli eroi, ma delle comparse che tenteranno di recitare una parte non loro, di cui non sono all’altezza.
In campo economico, il decennio, a parte trascurabili parentesi, sarà caratterizzato da moderazione e pragmatismo che sostituiranno l’entusiasmo e l’ottimismo precedenti. Le grandi mobilitazioni sociali del passato non potranno essere tentate da un regime in evidente crisi interna. La stessa Rivoluzione Culturale poggerà sul disciplinato Esercito più ancora che sulla massa studentesca, corpo estraneo rispetto al mondo contadino oltremodo diffidente, ma anche rispetto agli operai, istintivamente in difesa delle loro immediate condizioni di esistenza minacciate dagli isterismi ed estremismi delle Guardie Rosse.
In politica estera, il decennio si aprirà con la rottura con la Russia e si chiuderà con il riavvicinamento all’America. Nonostante un virulento antimperialismo verbale, la Cina sarà oltremodo cinica ed utilitaristica, difenderà vittoriosamente i suoi confini con l’India, non altrettanto farà con la Russia, gli scontri sull’Amur riveleranno anzi una preoccupante debolezza militare; si terrà pilatamente in disparte quando scoppierà la guerra del Vietnam, e quando si dispiegherà con tutta la sua ferocia il colpo di Stato in Indonesia arriverà persino a non far mancare il suo appoggio al regime di Sukarno.
Anche i personaggi saranno all’altezza dei tempi.
Oltre a Mao, il primo decennio vanta mitiche figure, il decennio a seguire non sarà a tale altezza.
Tramonteranno le forti e rudi figure militari di Zhu De e Peng Dehuai, ed il grigio Lin Biao conoscerà nel volgere di pochi anni la massima gloria e la massima infamia. Tacerà il brillante economista Chen Yun, come l’ingegnere del Grande Balzo in Avanti, Li Fuzhun, più volte acerrimi rivali; solo lo sfuggente Li Xiannian rimarrà in sella appoggiandosi al vero ed unico super pragmatico ed equilibrista, Zhou Enlai.
Gli eroi semiseri saranno i componenti della futura Banda dei Quattro, autori di una rapida quanto effimera carriera, Jiang Qing, Zhuang Chunqiao, Yao Wenyuan e Wang Hong-wen, appoggiati dallo stanco timoniere Mao, dal poliziotto Kang Sheng, dal segretario Chen Boda, dal militare Lin Biao, capitaneranno una pilotata Rivoluzione Culturale, fallimentare in tutti i suoi dichiarati fondamentali propositi.
Unico personaggio che ottimamente e seriamente si farà portavoce della forza sociale agente sotto la sovrastruttura delle dure cruenti lotte politiche, sarà Zhou Enlai.
La sua capacità al compromesso che gli ha valso di non conoscere l’onta della polvere, unico nella storia della giovane Repubblica, lo rendeva mirabile interprete della forza sociale dell’accumulazione e riproduzione capitalistica cinese che doveva ad ogni modo poggiare sulla continuità dello Stato, sulla sua stabilità ed efficienza.
Senza questa continuità e stabilità, nessuna
accumulazione e
riproduzione di capitale, nessuna lotta politica, nessuna
modernizzazione della giovane potenza capitalistica quale è la
Cina !
La profonda crisi economica dovuta in gran parte ai cattivi raccolti del periodo 1959-61, determinò, come abbiamo già accennato, una radicale svolta politica seguita dal Governo di Pechino in campo economico.
Significativamente, il IX Plenum dell’VIII Congresso del PCC, nel gennaio 1961, decise di rafforzare il “fronte agricolo», facendo dell’agricoltura il settore trainante sia dell’industria che dell’intera economia, considerazione che poggiava sulla constatazione che l’immensa campagna assorbiva l’80% dei prodotti dell’industria leggera, nonché una parte considerevole dei prodotti dell’industria pesante, Naturalmente furono prima di tutto le pressanti esigenze alimentari a spingere il regime a dedicare tutta la sua attenzione al settore agricolo.
La “svolta” si sbarazzò anche della “mobilitazione sociale”, tanto cara all’ideologia maoista e pilastro portante del Grande Balzo in Avanti, e volenti o nolenti si dovette far ricorso al libero gioco delle forze del mercato, alle spontanee oscillazioni dei prezzi, a quell’economicismo anni prima vigorosamente sostenuto da Chen Yun che allora lo inquadrava con un attento controllo dell’amministrazione statale, sicura e vitale.
Sotto l’incedere della crisi economica fu quindi permesso un mercato libero dei prodotti agricoli, coltivati negli appezzamenti privati dei contadini, tollerando giocoforza mercato nero e speculazioni, e specialmente dopo la Conferenza di lavoro del CC del PCC, convocata in sessione allargata nel gennaio 1962, gradualmente nelle campagne si adottarono le misure economiche dette “san-zi-yi-bao”
Della Conferenza del gennaio 1962, detta dei 7.000, è conosciuto interamente solo il discorso di Mao, il quale non solo dovette riconoscere che «anche noi in passato abbiamo trattato alcuni quadri in modo scorretto» e le sue scarse cognizioni economiche: «Nel nostro lavoro di costruzione economica noi stiamo in gran parte agendo ciecamente. Prendete me per esempio: ci sono ancora molti problemi nel lavoro di costruzione economica che non capisco. Non capisco molto di industrie e commercio. Capisco qualcosa di agricoltura ma soltanto in modo relativo, non ne capisco ancora molto»; ma dovette altresì abbassare il tiro sui pretesi grandi destini della Cina, pochi anni prima lanciatasi a raggiungere e superare l’Inghilterra in 15 anni: «Il socialismo è superiore al capitalismo sotto molti aspetti e lo sviluppo economico del nostro paese può essere molto più veloce di quello dei paesi capitalistici. La Cina ha però una grande popolazione, le risorse sono scarse e la nostra economia è arretrata di modo che, secondo me, sarà impossibile sviluppare la nostra capacità produttiva tanto rapidamente da poter raggiungere e superare i paesi capitalistici più avanzati in meno di cento anni».
Secondo le cronache centellinate con cura cinque anni dopo dalle Guardie Rosse, la platea fu poco propensa ai giri di parole di Mao, e Liu Shaoqi, a cui era demandato il rapporto principale, usò toni duri nei confronti della politica economica seguita durante il Grande Balzo: «Il Grande Balzo (...) è stato lanciato troppo affrettatamente e mancava di equilibrio. Tre anni di Grande Balzo richiederanno, in seguito, forse otto o dieci anni di sforzi per ristabilire la normalità; il gioco non valeva la candela (...) Le Comuni Popolari erano un’iniziativa prematura (...) Gli altiforni di campagna hanno pagato con delle chiacchiere (...) Le attuali difficoltà in campo economico e finanziario, sono gravi (...) Lo spreco di energie è stato troppo grande; anche in sette o otto anni, sarà difficile rinormalizzare la situazione», ed il grande timoniere corse il rischio di essere messo clamorosamente sul banco degli accusati.
Il 20 settembre 1967, il “Don fan Hong” (“L’Est è rosso”) organo delle Guardie Rosse dell’Istituto Minerario di Pechino, nell’articolo “Tutti i particolari dell’affare controrivoluzionario di Chang-Guanlou”, rivelò infatti che Peng Zhen, sindaco di Pechino e ascoltato membro del Politburo, capeggiò nel novembre 1961 un gruppo di lavoro per la preparazione di un dossier contro Mao da presentare al “convegno dei 7.000”.
Probabilmente furono gli stessi imperativi economici, i quali imponevano risolutive misure economiche, a consigliare il gruppo dirigente del PCC a non operare una brusca demaoizzazione che avrebbe lacerato Partito e Stato, proprio in un momento in cui ogni integrità di facciata era essenziale per affrontare il difficile momento e per iniziare un deciso “riaggiustamento economico». Anche le difese di Lin Biao e di Zhou Enlai certamente giovarono alla stella di Mao, chiaramente in difficoltà.
La “Risoluzione su qualche questione della nostra storia”, adottata dal PCC il 27 giugno 1981, non lascia dubbio alcuno sulla sostanza di quel lontano avvenimento:
«Nel corso della conferenza di lavoro del CC, convocato nel gennaio 1962 in sessione allargata con la partecipazione di 7.000 persone, si stila un primo bilancio delle esperienze e degli insegnamenti tratti dal Grande Balzo in Avanti, e si pratica la critica e l’autocritica. La maggioranza dei compagni ingiustamente criticata durante il movimento “contro la deviazione di destra” furono riabilitali in questo periodo. Inoltre, gran parte di quelli che erano stati etichettati come “destri” si videro tolto questo titolo. Grazie a queste misure economiche e politiche, l’economia nazionale uscì dalle sue difficoltà e si sviluppò senza difficoltà negli anni dal 1962 al 1966».
E le misure economiche si riassumevano nella formula “san-zi-yi-bao”, tre libertà ed un contratto. Le tre libertà consistevano nella restaurazione degli appezzamenti privati e nella possibilità di estenderli dissodando terre incolte, nella libertà di vendere nei mercati rurali quei prodotti agricoli non consegnati all’ammasso statale, ed infine nella libertà di costituire piccole imprese familiari che si assumevano interamente la responsabilità dei loro profitti e delle loro perdite. Il contratto riguardava invece il fissare quote di produzione su base familiare, anziché per squadra.
Secondo l’ “Autocritica” di Liu Shaoqi del 23 ottobre 1966, la formula “san-zi-yi-bao” fu inizialmente proposta da Deng Zihui, responsabile del settore agricolo del CC e dal Segretario generale Deng Xiaoping.
Queste misure economiche non furono mai ratificate da nessun Plenum del PCC, che del resto, dopo la sessione del CC del settembre 1962, non si riunirà più fino al maggio 1966, furono anzi a più riprese aspramente criticate da alcuni massimi dirigenti, specialmente riguardo la norma di fissare quote di produzione per famiglia, sperimentata ufficiosamente in molte regioni, in particolare nell’Anhui e nello Henan.
Deng Xiaoping e Deng Zihui non mancavano però di una logica borghese. Siamo in ritirata, dobbiamo riattivare un minimo di produzione alimentare, base di qualsiasi regime, e per questo diamo il via libera agli appezzamenti privati ed ai mercati liberi. Sbarazziamoci della facciata collettivista, la quota di produzione degli appezzamenti privati è essenziale, e se lo Stato vuol continuare ad investire capitale industriale deve estendere le sue lunghe braccia anche su questa quota di produzione, deve mirare alla famiglia-impresa contadina, non alla squadra !
Questo il filo di un ragionamento difficile da ricostruire con i testi ufficiali quanto mai inattendibili. È facile bollare Deng Xiaoping e Deng Zihui come borghesi, ma di grazia, con le Comuni proprietarie della totale terra cosa si aveva ?
Lo abbiamo già detto: né più né meno di uno Stato borghese poggiante sulla generalizzata proprietà fondiaria contadina, che cerca di far marciare l’industrializzazione forzata dell’immenso paese mantenendo la compattezza della popolazione contadina, evitando qualsiasi differenziazione sociale delle campagne.
Deng Xiaoping mirava alla famiglia e, attraverso di essa, all’economia dei contadini ricchi ? Sia pure ma in tal caso si sarebbe formato capitale privato, braccianti proletari, e tale risultato va preferito per il partito di classe sulla linea di una internazionale uniclassista alla costruzione piccolo-borghese delle Comuni, con tutti i contadini legati alla terra coltivata collettivamente, privi cioè di uno dei massimi risultati delle rivoluzioni borghesi: la libertà di spezzare il giogo della terra, la libertà di andare a lavorare per il Capitale !
Quasi a prova della logica del ragionamento di Deng Xiaoping e Deng Zihui il contributo dei fondi privati alla produzione crebbe enormemente, e con esso il peso e la forza delle correnti “capitalistiche” nelle campagne che alimentavano la generale produzione industriale.
Successive testimonianze raccolte e divulgate dalle Guardie Rosse stimano che, nel 1962, il raccolto privato dei cereali nello Yunnan era maggiore di quello collettivo, e che la terra coltivata privatamente si estendeva per il 50% della totale; in certe regioni le Comuni affittavano fino al 20% della terra ai contadini ai quali si metteva in bocca una dissacrante dichiarazione: «Il fazzoletto di terra è nostro figlio, il campo affittato è nostro figlio adottivo, il campo della Comune un orfano».
Era un vero e proprio funerale di terza classe, non solo per il collettivismo del biennio 1958-59, ma anche per il preteso atteggiamento comunista dei contadini, i quali, trascinati in una impresa non loro, passata la bufera, ritornavano al loro vecchio e non sconfessato amore, la proprietà individuale costretta dalla situazione a mille mutazioni.
La linea dei “san-zi-yi-bao” era duttilmente sostenuta da un prestigioso gruppo di dirigenti, oltre Deng Xiaoping e Deng Zihui, dall’allora presidente Liu Shaoqi, dal vecchio Maresciallo Zhu De, dall’allora Maresciallo He Long, da Chen Yun, Tao Zhu e Tan Zhenlin, sui quali poi le Guardie Rosse rovesciarono furenti accuse che meritano essere riportate perché unici riflessi dei processi sociali in atto nelle campagne cinesi.
Zhu De verrà accusato di essersi fatto paladino delle aziende familiari rurali: Tao Zhu sarebbe stato responsabile di aver introdotto in alcuni hsien del Guangdong un sistema di “responsabilità individuale” dei contadini con premi, multe e prestiti di terre; e se Deng Xiaoping diverrà famoso con la frase: «per aumentare la produzione si può anche intraprendere la coltivazione privata delle terre; che un gatto sia bianco o nero non importa, se acchiappa i topi è un buon gatto». Chen Yun non lo sarà da meno dichiarando lapidariamente, nel 1962, che la fissazione di quote di produzione familiari non era che una mezza misura, «un semplice strato di mercurio-cromo su una piaga», e che bisognava redistribuire le terre collettive ai privati.
Liu Shaoqi avrebbe poi esteso la sua protezione a Zhang Wentian, uno dei grandi sconfitti di Lushan, che era stato inviato fin dall’ottobre 1960, all’Istituto di Studi Economici il cui direttore era Sun Ye-fang, e di lì faceva valere la sua voce in favore di un ritorno alla conduzione privata delle terre.
Ed anche se a questo risultato non si arrivò, niente era rimasto delle originarie Comuni.
Prima furono smembrate e ridotte di dimensioni, passando nel 1961-62 da 24 mila a 74 mila, poi senza traumi la squadra si impossessò di quasi tutti i compiti della Comune e della Brigata, la prima si limitava in genere a trasmettere le indicazioni venute dai Distretti amministrativi con generalissime direttive sulla produzione, la seconda agiva da intermediario fra la Comune e le squadre.
Poco valeva che sia l’una che l’altra, potessero condurre officine, allevamenti e stazioni di trattori da affittare alle squadre.
Tutto ruotava ormai intorno alla squadra con la quale si accordava la Brigata per le quote di produzione, proprietaria di fatto di terre, animali da lavoro, di attrezzi, che prende in affitto macchine e trattori ed acquista dagli organi statali, dalle Comuni e dalle Brigate, concimi, sementi, insetticidi ecc.
È la squadra che ammassa il raccolto, versa allo Stato un’imposta in natura, trattando sempre con lo Stato le vendite obbligate di cereali e cotone; che tiene il conto delle giornate di lavoro dei singoli contadini pagandoli in natura ed in denaro.
Ed in questa situazione i singoli contadini, pur non ritornando a reimpugnare titoli di proprietà delle terre, estendevano caparbiamente i propri possessi. Già la casa di abitazione, appena scalfita dal collettivismo passato, si trasmetteva ai discendenti per via ereditaria, purché questi continuassero ad abitarla: lo stesso rapporto valse per gli orti adiacenti alle case e che facevano parte integrante di queste !
Anche il rapporto fra una famiglia ed il terreno che “privatamente” coltivava divenne un rapporto di proprietà di fatto se non di diritto. La proprietà dei terreni rimaneva ufficialmente collettiva, e sempre ufficialmente alle singole famiglie erano vietate l’affittanza, la vendita, o cederli come pegni di garanzie, ma finché una famiglia non si spostava (e come lo poteva fare, quando il regime febbrilmente rimandava milioni di inurbati nelle campagne ?), il terreno “privato” le apparteneva e di fatto era ereditario.
I contadini poi avevano tratto lezione dalle collettivizzazioni passate, ed i terreni privati erano vere e proprie fette dei terreni collettivi, e sia questi che quelli erano coltivati insieme dalle famiglie della squadra; l’unica differenza formale era nelle concimazioni, molto più abbondanti per le fette di terreni privati. Come stupirsi che le quote dei terreni privati sul totale oscillassero fortemente, e che in genere fossero sconosciuti per il regime ?
Naturalmente la disponibilità dei prodotti dei terreni privati apparteneva totalmente alle famiglie contadine, e nessun diritto, né tassa, potevano vantare la Brigata, la Comune e lo Stato, ed il contadino li poteva tranquillamente vendere allo Stato, nei mercati rurali o semplicemente ammassare.
La teoria marxista vi legge un’economia dichiaratamente borghese e capitalistica, in cui lo Stato è parzialmente estromesso dal processo di accumulazione e riproduzione capitalistica, maneggiando malamente la leva delle imposte per raccogliere surplus agricolo, manovra che sarebbe stata più semplice e fruttifera, con una classica proprietà privata delle terre, come propugnato dai “destri”, consci che, dopo la rottura con i russi, non disponendo la Cina di alcun capitale estero, si doveva accrescere la raccolta di surplus dal mondo rurale se si voleva mantenere elevati tassi di investimento industriale.
Anche Zhou Enlai, che pure nel gennaio aveva difeso Mao, all’Assemblea nazionale dell’aprile 1962, deve stilare un “programma in dieci punti” moderato e cauto, tutto teso a riattivare le libere forze del mercato, blandite francamente dalla destra. Fra i punti più importanti: il terzo sulla draconiana riduzione degli investimenti: «impiegare materiali, attrezzature e mano d’opera là dove siano più urgentemente necessari»; il quarto sul rinvio alle campagne dei lavoratori e funzionari trasferiti in città durante il Grande Balzo in Avanti, 30 milioni furono le persone che dal 1961 al 1965 ritornarono nelle campagne; il quinto sulla parsimoniosa utilizzazione di tutti i fondi e materiali disponibili, dopo averli inventariati impresa per impresa; il decimo che ribadiva la scala gerarchica in economia: «migliorare ulteriormente il lavoro di pianificazione e assicurare un completo equilibrio fra le branche dell’economia nazionale secondo la seguente scala: agricoltura, industria leggera, industria pesante».
Le difficoltà del momento si rilevavano anche da un lungo panegirico di corteggiamento degli elementi patriottici della borghesia nazionale: «È necessario continuare ad unire gli elementi patriottici della borghesia nazionale aiutandoli a progredire e correggere le loro mentalità e prolungando di altri tre anni, dopo il 1963, il periodo di pagamento dell’interesse fisso a loro favore. Allo scadere del suddetto periodo di proroga il problema dovrà essere nuovamente preso in esame».
Ed il corteggiamento discreto delle classi medie, patriottiche ed intellettuali, era parte integrante del generale processo di riaggiustamento economico che, dopo i duri sforzi del Grande Balzo in Avanti con la promessa rivelatasi falsa di “tre anni di fatica un’eternità di felicità”, doveva giocoforza orientare la produzione verso il consumo, concedendo, ad una popolazione senza più molti entusiasmi, generi di consumo elementari per l’Occidente ma nuovi per la Cina.
L’obiettivo dell’aumento della produzione industriale, leggera e pesante, si sposò pertanto con l’aumento della gamma dei prodotti di consumo e, soprattutto, con l’adozione, nei confronti dei rimasti lavoratori urbani, di una politica di incentivi materiali, di indennità e premi, tanto che, insieme alla giornata di otto ore, nelle fabbriche furono restaurati generalmente vari sistemi a cottimo.
Insieme quindi ad un riordinamento dell’apparato di pianificazione, che tuttavia non andrà oltre la determinazione di piani annuali, nelle fabbriche si ebbe un ritorno della direzione nelle mani dei direttori e dei manager, spodestati anni prima dai Comitati di Partito.
Il passaggio di consegne – che era un ritorno all’antico – verrà bollato durante la Rivoluzione Culturale come politica del “profitto al posto di comando”, ma il cambiamento non inquietò la classe lavoratrice. Premi e cottimo, come condizioni materiali di esistenza, sul lavoro gratuito spesso elargito dal proletariato industriale durante il Grande Balzo in Avanti che faceva dipendere interamente la possibilità di accumulazione capitalistica sull’aumento della “produttività del lavoro», da aversi con un sistema egualitario di salari e entusiasmo, tanto entusiasmo.
Certo, anche lo Stato proletario richiederà ai propri operai i sacrifici più pesanti e dolorosi senza nulla dare come miglioramento delle condizioni di esistenza e di lavoro, la Russia di Lenin lo fece. Lo potrà fare anche quando, in attesa della rivoluzione internazionale, si trattasse di accumulare nazionalmente capitale, ma in tal caso lo farà senza mistificare tale accumulazione come “costruzione di socialismo”, che non è costruzione nazionale ma demolizione internazionale di Stato e di rapporti di produzione !
Non si tratta di questione morale, “non si deve dire bugie !”, ma di ben altro: le masse, ed il Partito stesso, hanno assoluta necessità di sapere qual è la direzione reale del proprio agire, pena la tragica rottura del legame fra le masse ed il Partito, e un disastroso scompaginarsi dei ranghi dei militanti, illusi e poi delusi.
Cosa si ha in Cina ? Lo Stato nazionale aveva fatto appello ai sacrifici e alla capacità di soffrire delle masse contadine ed operaie, perché il loro entusiasmo e la loro abnegazione desse il là all’industrializzazione, spacciata come socialismo.
Ma oltre un certo limite, la forzata mobilitazione delle forze sociali sfocia in un disastro economico, e sia la classe contadina che la classe lavoratrice delle città, mentre si delinea una sorda lotta politica interna al PCC, riacquistano faticosamente connotati di classe propri: i contadini riabbracciano la Santa Proprietà, mentre la classe lavoratrice ripudia gli entusiasmi nazionalistici spingendo il regime ad usare nei suoi confronti, non le diane patriottiche, ma l’economicismo, riflesso di una minima coscienza tradunionista in una classe che fisicamente non aveva alcun legame con quella valorosa ed eroica degli anni Venti, e solo flebili ricordi degli scioperi del 1949-50 che avevano salutato la costituzione della Repubblica Popolare Cinese.
Dal 24 al 27 settembre 1962, si svolse a Pechino il X Plenum del CC del PCC, riunione che chiude un capitolo e ne apre un altro. Si chiudeva infatti, il capitolo dell’emergenza economica in cui tutto andava parsimoniosamente impiegato e in cui niente andava sprecato, periodo in cui le necessità della sopravvivenza economica e politica del regime assumevano apparati, uomini ed indirizzi programmatici. Si apriva invece il capitolo della “convalescenza economica”, in cui nuovamente il regime dovrà affrontare il difficile corno del necessario passaggio di risorse dalla agricoltura all’industria, dopo che la “liberalizzazione” seguita con la linea del “san-zi-yi-bao” stava ridando fiato all’indispensabile produzione agricola.
Se quindi il X Plenum niente innoverà riguardo la politica economica seguita fin dal 1961 (uno spirito “collettivo” mantenuto nelle campagne al livello più basso possibile ed un’industria pesante ridotta all’indispensabile), una parte della risoluzione era un chiaro preludio di futuri e prossimi scontri:
«Non dobbiamo mai dimenticare che questa lotta di classe è complicata, tortuosa, che ha degli alti e bassi e che a volte è molto acuta. Tale lotta di classe trova inevitabilmente la sua espressione in seno al partito. La pressione che proviene dall’imperialismo straniero e l’esistenza delle influenze borghesi all’interno del paese costituiscono la fonte sociale delle idee revisionistiche nel partito. Mentre lottiamo contro i nemici di classe interni e stranieri, dobbiamo vigilare e opporci decisamente, in tempo utile, alle diverse tendenze ideologiche opportuniste che si manifestano in seno al partito».
Secondo le ricostruzioni dei vari sinologi, tutti ugualmente alle prese con l’arduo problema della mancanza di molti testi ufficiali, il X Plenum fu una delle ultime occasioni in cui il PCC fece sfoggio della vecchia unità dei suoi uomini principali, i fatti posteriori hanno mostrato che se unità vi fu, la si ebbe perché i due futuri schieramenti, seguaci di Liu e di Mao, davano risposte diverse al passaggio decisivo della risoluzione, come meglio vedremo in seguito trattando del “movimento di educazione socialista”.
I due schieramenti concordavano sul fatto che le misure liberali, imposte dalla situazione nelle campagne, avevano oltremodo allentato il controllo dei quadri di partito sulla sterminata popolazione, e che i quadri locali, abbandonati a sé stessi, con una popolarità ed influenza in costante diminuzione, erano sottoposti ad una costante pressione e corruzione.
Ogni chicco di grano sottratto allo Stato minava, la voluta da tutti, industrializzazione, ma, sarà qui il dissidio, come impedire questa sottrazione, come ridare al partito-Stato il controllo dei milioni di villaggi disseminati sull’immenso territorio ?
Difficile quesito è, d’altra parte, ulteriore conferma che la Cina di allora non avanzava verso un’impossibile socialismo nazionale, ma nuovamente era alle prese con compiti schiettamente borghesi, apprestandosi, dopo i disastri economici del biennio 1960-61, a cercare di ricentralizzare le “libere e sparse forze del mercato”, compito che mirava non al superamento del capitalismo, ma semplicemente alla costituzione di una base su cui potesse crescere e svilupparsi Capitale e Lavoro Salariato.
L’anno 1962, sia per il migliore andamento delle condizioni atmosferiche che per le rettifiche apportate alla politica economica del regime, fu l’inizio della risalita dell’intera economia cinese che marciò al passo di un incremento annuo del 10-15% fino al 1966, anno di inizio della Rivoluzione Culturale.
I prodotti agricoli raccolti sui terreni privati dei contadini (soprattutto legumi) e l’uso sempre più esteso di “stimoli materiali” fra le squadre di produzione, contribuirono in maniera determinante all’aumento della produzione agricola ed al miglioramento della situazione alimentare nelle città. A partire dal 1964 infatti,l’approvvigionamento delle città si normalizzò, le razioni dei cereali ritornarono sufficienti e assicurate in modo regolare (13-15 kg. al mese per funzionari ed impiegati; da 15 a 24 kg. per gli operai); così per gli olii vegetali, mentre fu ripresa la libera vendita di carne, pesce, uova, burro e lardo, questi ultimi però a prezzi alti. Riguardo invece l’industria, la cessazione della costruzione di nuovi stabilimenti, la chiusura di numerose imprese che non potevano essere approvvigionate di materie prime, favorì – su una base ristretta – un notevole miglioramento della quantità della produzione specialmente per i beni di consumo, richiesti da un commercio che si animava dopo il buio Biennio 1960-61 in cui regnava l’imperativo sopravvivere.
Ed il riaggiustamento economico reimponeva al regime di affrontare il difficile problema dell’espansione industriale, possibile solo con un’accresciuta disponibilità di materie prime, di derrate alimentari per una mano d’opera più numerosa, e di prodotti agricoli da scambiare commercialmente con attrezzaggio industriale che non poteva essere prodotto in Cina, se non a prezzi molto elevati.
La penuria cronica delle risorse da destinare all’indispensabile investimento industriale, la dipendenza di questo dall’agricoltura, implicava necessariamente che lo Stato esercitasse un controllo diretto sull’economia dispersa dei contadini, proprio al fine di assicurare un drenaggio centrale di tutte le risorse disponibili ed utilizzabili.
Ed il ristabilimento di questo controllo centrale delle forze produttive fu il punto fondamentale della risoluzione del X Plenum del CC del PCC, su cui ci siamo già soffermati, come del Movimento di Educazione Socialista che, dal 1963 ai 1965, si dispiegherà in tutta la Cina, segnatamente nelle campagne perché proprio lì era sfuggito dalle mani dello Stato il controllo della produzione, proprio lì era necessario rivoluzionare le menti degli uomini per subordinarli agli interessi anonimi dell’accumulazione capitalistica.
Come abbiamo già visto, dopo il fallimento del Grande Balzo in Avanti, il regime aveva operato una radicale riorganizzazione delle Comuni e delle Brigate, ridando spazio e vigore alle attività e alle “proprietà” private dei singoli contadini, unico modo per risollevare le sorti dell’economia ed anche per impedire che malcontenti e disordini si generalizzassero nelle campagne minacciando oltre che di ammorbidire i quadri locali, la stessa integrità statale.
Ora, a prescindere dalle proposte di molti dirigenti del PCC favorevoli ad una maggiore estensione delle attività private dei contadini, Stato e Partito si rendevano ben conto che le sorti dell’industrializzazione dipendevano da un ristabilimento del controllo dei “quadri” sul surplus di prodotti agricoli nuovamente disponibili. Controllo che solo l’autorità dei quadri locali poteva assicurare, tanto era debole la leva degli scambi mercantili.
Per questo il Plenum aveva rilanciato il “movimento rivoluzionario di base”, per questo aveva fatto appello alla lotta contro il burocratismo ed il caporalismo dei quadri locali, per questo aveva di nuovo prospettato una mobilitazione in favore della produzione, obbiettivi iniziali che vedevano d’accordo tutti i massimi dirigenti ma che pure saranno causa di futuri aspri contrasti, come ben conferma la “Risoluzione su qualche questione della nostra storia”.
Se infatti le necessità dell’accumulazione per l’accelerazione dello sviluppo economico richiedeva la garanzia del passaggio di un flusso di surplus dall’agricoltura al settore industriale, il problema era come ottenere questo risultato in un momento in cui lo svolgersi della situazione aveva scosso la capillare organizzazione dei quadri locali dipendenti – tramite il Partito – dallo Stato; qui si romperà l’intesa dei vari gruppi del PCC uniti negli appelli del X Plenum.
«Il movimento di educazione socialista che si sviluppa dal 1963 al 1965 in una parte delle regioni rurali ed in un piccolo numero di officine nelle città, contribuì al miglioramento dello stile di lavoro dei quadri, nel rafforzamento della gestione economica e in altri campi; ma questi problemi di carattere differente, furono considerati come risultato della lotta di classe o come manifestazione di questa nei ranghi del Partito».
Il primo manifestarsi del Movimento di Educazione Socialista si ha con una istruzione in dieci articoli: Decisione del CC del PCC su certi problemi di lavoro nelle regioni rurali (progetto), del 20 maggio 1963.
Il quadro descrittovi era quanto mai allarmante: «In certe comuni i vecchi agrari ed i contadini ricchi sono riusciti a corrompere in diversi modi i quadri, usurpando di fatto la direzione e penetrando persino nelle istanze più alte. Hanno rimesso in vigore le leggi feudali dei clan e si servono della religione per abusare delle masse».
E tale “restaurazione” veniva descritta come naturale, “le tendenze spontanee del capitalismo nelle campagne”, per la persistenza delle vecchie idee e per la debolezza e la complicità di molti quadri, spiazzati dal corteggiamento che il regime aveva eseguito nei confronti degli elementi produttivi, causa la passata grave penuria alimentare.
Per questo era necessario rompere la “coesistenza pacifica nelle campagne”, esortare all’organizzazione e alla lotta i vecchi contadini poveri e medio-poveri, che erano quelli che più avevano a dolersi del degenerato rapporto fra quadri e base, fra governatori e governati.
Intorno alle nasciture organizzazioni contadine si dovevano stringere le masse per procedere alle necessarie ristrutturazioni, alle “quattro pulizie”, «nella contabilità, nell’inventario delle risorse, nell’utilizzazione della proprietà pubblica e nella registrazione dei punti di lavoro».
Ai quadri fu ingiunto di partecipare seppur in misura diversa, al lavoro manuale, richiesta che riguardava quadri rurali e cittadini; l’ingiunzione derivava, più che da un imperativo economico, da preoccupazioni ideologiche e morali, i funzionari di qualsiasi livello dovevano dar prova di sollecitudine per la risoluzione dei prosaici problemi dei campi e delle fabbriche.
Il 95% dei quadri venivano giudicati “buoni” o recuperabili, se confessavano colpe ed errori, e tempo due, tre anni di “movimento di risanamento” il regime contava di riprendere il pieno controllo delle campagne senza danneggiare l’andamento dei raccolti.
Dalla primavera del 1963, i quadri rurali saranno quindi oggetto di incoraggiamenti come di sanzioni, lodi ai migliori portati ad esempio ma anche continui inviti a “non guardare i fiori dall’alto del cavallo” tanto che, specialmente nel 1964, purghe ed epurazioni guarderanno poco per il sottile.
Un problema non semplice sarà invece la costituzione, peraltro minima, delle associazioni di contadini poveri e medi che secondo “l’istruzione in dieci punti” del maggio 1963, ispirata da Mao, doveva sconfiggere burocratismo e caporalismo per riaffermare i vecchi entusiasmi rivoluzionari delle collettivizzazioni.
Lo stesso sinologo maoista G. S. Karol, una fonte quindi non sospetta, dovette poi riconoscere che era difficilissimo distinguere i vecchi contadini poveri e medio poveri, quando fra i nuovi “ricchi” c’erano ormai tutti, comprese famiglie un tempo poverissime, e quando la Riforma Agraria, la Collettivizzazione e la Comunalizzazione avevano livellato enormemente le condizioni di esistenza dei contadini.
Era più la differenza fra Comune e Comune per la diversa dislocazione e fertilità del terreno, che quella che esisteva all’interno di una squadra – corrispondente il più delle volte ad un villaggio – fra un contadino povero ed uno ricco, differenziazione che non poteva poggiare su considerazioni produttive o sociali.
Considerazioni propagandistiche daranno però un peso enorme a queste associazioni, dalla vita breve ed effimera, per il loro contributo nella lotta contro gli egoismi individuali e familiari, esaltando il loro attaccamento al Partito e allo Stato per la consegna di quote maggiori di cereali agli ammassi statali o per la rinuncia alla loro economia privata.
Questa prima istruzione sarà ripresa, nel settembre 1963, da un secondo progetto “I dieci punti corretti”, ispirata – diranno i testi della Rivoluzione Culturale – da «un alto responsabile del Partito che agisce sempre in connivenza con Liu Shaoqi», Peng Zhen secondo la successiva Autocritica di Liu.
I “dieci punti corretti” ammonivano «i quadri che hanno mangiato troppo» a rimborsare ai loro compagni il valore corrispondente al cibo «illegalmente consumato», ma subito aggiungevano che «bisogna essere indulgenti verso coloro che si sono arricchiti ma senza far danno alla collettività ed allo Stato», clemenza che dipendeva dalla relatività del termine “arricchito”: «il nuovo ricco è colui che si è comprato la bicicletta» o «ha mangiato meno frugalmente».
I “dieci punti corretti” scandivano anzi, che occorreva passare sopra alle piccole irregolarità che molti contadini avevano commesso speculando per aiutare i parenti o che avevano messo insieme una piccola fortuna ma che accettavano di non speculare più, che era inutile prendersela con i contadini sensibili agli incentivi del guadagno. Se guadagnavano di più era perché producevano di più e di questo tutta la collettività ne traeva vantaggio; il principio della remunerazione secondo il lavoro non andava rimesso in causa e non poteva essere castigato chi vi ricorreva.
Come quindi gli incentivi materiali conservavano tutta la loro importanza, pur non nominando mai il secondo progetto la formula “san-zi-yi-bao», era pure sparito ogni riferimento alla formazione di associazioni di contadini poveri e medi, segno che le necessarie epurazioni e purghe, mai negate da Liu Shaoqi, da Deng Xiaoping e da Peng Zhen, dovevano avvenire sotto il controllo stretto dell’organizzazione di partito, lasciando alle masse ben poca spontaneità.
Delle associazioni di contadini, propagandate nell’estate 1963 su tutta la stampa, si perse quindi la traccia e con esse era sparita la richiesta di Mao di una “spinta dal basso”, indicazioni e propositi sostituiti da quelli d Peng e di Liu fautori di un controllo diretto del partito sulla produzione e di un ristabilimento della sua autorità. Dissidio che travalicava la questione in sé ma che riandava alle idee ispiratrici del Grande Balzo in Avanti in cui tutto era demandato alla “volontà delle masse”, trasposizione in campo economico delle “esperienze” guerrigliere degli anni Trenta con lo sparuto esercito rosso che riuscì a resistere ad un nemico di molto superiore solo contando sulle sue forze, sulla sua coesione morale frutto di una vita austera e spartana in cui partito, esercito e contadini si identificavano.
Nel settembre 1964, quindici mesi dopo il lancio delle “4 pulizie”, si ha una brusca accelerazione del processo di epurazione dei quadri rurali. L’accelerazione seguiva la revisione dei “10 punti corretti”, ispirata da Liu Shaoqi e da sua moglie Wang Guang-mei. Liu aveva ispezionato le campagne dell’Hunan nell’agosto 1964 per poi convocare a Pechino molti responsabili provinciali, ed i resoconti su come si sviluppava la situazione nelle regioni rurali lo convinsero che il movimento delle “4 pulizie” non era sufficientemente intenso e approfondito, ma che solo con difficoltà avanzava nell’immenso mondo rurale, tanto che in quindici mesi aveva appena interessato un terzo dei 5 milioni di villaggi esistenti. Liu dirà, nella sua Autocritica, che si convinse che il movimento era fallito.
Già Mao, in un discorso del 18 agosto 1964, aveva dichiarato che: «Nel nostro Stato, oggi, circa un terzo del potere è nelle mani del nemico. Dopo 15 anni controlliamo i 2/3 del paese. Oggi puoi comprare un segretario di sezione (del partito) con qualche pacchetto di sigarette, se non vuoi arrivare a dargli una figlia».
A Liu, arrivato pure lui alle stesse conclusioni, capitò di peggio. Dirà nel settembre 1964: «A mio parere, il potere direttivo di un buon terzo dell’intero paese è nelle mani del nemico (...) Quando mi recai nell’Hunan per prendere contatto con i quadri a livello di base essi mi scacciarono (...) Anche se abbiamo riportato qualche successo nel movimento delle 4 pulizie, tuttavia non abbiamo svolto un lavoro sufficientemente approfondito ed integrale, siamo ancora fuori dalla porta».
La moglie di Liu, Wang Guang-mei, fu ancora più esplicita, secondo le dichiarazioni attribuitele dalle pubblicazioni delle Guardie Rosse: «Quando Wang Guang-mei si recò a Taoyuan ripeté le solite vecchie storie di suo marito. Essa definì guardie nere e ruffiani i membri delle formazioni di classe dei villaggi e, analizzando le associazioni dei contadini poveri e medio poveri a Kaochen, disse: “Ecco qui tutta la vecchia banda di Wang Fen-kan”; molti di loro erano con lui nell’esercito fantoccio e molti altri erano banditi e membri delle società segrete. Troppe persone hanno gravi deficienze nella loro storia personale. Per quanto si insegni ai contadini poveri e medi, non c’è quasi nessuno di loro che sia esente da difetti. Gli unici puri sono alcuni giovani (...) Banditi, membri del Guo-min-dang, soldati dell’esercito fantoccio, grossi banditi, vecchi preti, non vi è praticamente nessuno al di là dei 35 anni che abbia delle buone qualità (...) Cercate finché volete, ma difficilmente troverete dei contadini poveri e medi che siano senza difetti. Non potrete trovare nessun quadro di partito che lavori bene, che abbia delle origini sociali oneste e che sia rispettato».
C’è da credere che il quadro descritto da Liu e dalla moglie, indirettamente confermato da Mao, corrispondesse alla realtà, tanto era stata, negli anni 1961-63, la libertà di azione dei “vecchi contadini e di coloro che hanno esperienza produttiva”. Il regime quindi, con l’avvicinarsi dell’inizio del 3° piano quinquennale (1 gennaio 1966) che ribadiva l’importanza del settore agricolo per la fornitura del surplus necessario al programma di industrializzazione, non si poteva più permettere quella passività pragmatica del periodo della ripresa economica.
Liu, in difesa degli obbiettivi di accumulazione, senza chiudere con la politica economica dei mercati liberi e dei terreni privati, si apprestava a ristabilire una rete fidata di quadri di partito, preludio indispensabile per esercitare qualsiasi pressione politica nei confronti dei contadini, per anni solamente “controllati” attraverso il ricorso agli incentivi materiali, l’allettamento del guadagno attraverso uno scambio favorevole dei prodotti agricoli con lo Stato o sui mercati liberi.
Non fidandosi per niente delle associazioni dei contadini, considerate facilmente corruttibili, Liu propose drastiche misure di attuazione delle “4 pulizie”. La nuova direttiva raccomandava infatti che un trattamento molto duro fosse riservato a quei quadri che si erano macchiati di colpe e di disonestà, e che fossero conferiti i massimi poteri alle “squadre di lavoro» inviate dal centro, che avevano il compito di dirigere e sorvegliare un movimento che si stimava dovesse durare cinque o sei anni.
Che l’accelerazione fosse stata brusca si rileva anche da una dichiarazione di An Ziwen, direttore del dipartimento Organizzazione del CC, nel settembre 1964:
«Questo è il movimento socialista più profondo e di maggior portata da quando il partito prese il potere; è la migliore scuola per educare e temprare quadri, per preparare chi ci succederà nel compito di realizzare la rivoluzione proletaria».
Lasciamo ad An Ziwen, futuro sconfitto della Rivoluzione Culturale, la sua enfasi su una pretesa rivoluzione proletaria che di ben altro si trattava, cioè del contraddittorio processo di sviluppo di un capitalismo nazionale; è certo però che il movimento di purga fu esteso e duro, penetrando in pochi mesi in tutti i settori, nelle regioni rurali come nelle città, come era nelle intenzioni di Liu.
Solo i successivi avvenimenti dell’anno 1965 faranno sì che lentamente la purga si placasse per poi terminare con il primo semestre del nuovo anno apertosi, il 14 gennaio, con una nuova Conferenza Nazionale di Lavoro del CC del PCC che farà circolare – sempre solamente fra i quadri – un quarto documento, questa volta elaborato da Mao, in 23 articoli, titolato: “Certi problemi attuali sollevati dal Movimento di Educazione Socialista nelle campagne”.
In seguito, dopo la loro affermazione, i maoisti dichiareranno che questi “23 articoli” furono stilati per contrastare i “10 punti” elaborati da Liu, che erano di “sinistra nella forma ma di destra nella sostanza”, sabotavano il Movimento di Educazione Socialista perché attaccavano quadri fedeli e rivoluzionari, ed anche quando incitavano a smascherare i disonesti ed i corrotti lo facevano pilotando e limitando il malcontento delle masse.
Sempre secondo successive dichiarazioni delle Guardie Rosse, la pubblicazione dei “23 articoli” segnò il fallimento della linea di Liu, boicottata fin dall’inizio dalle masse e dai contadini. Bando alle frottole: tutti i vari progetti sul Movimento di Educazione Socialista rimasero, fino all’XI Plenum del 1-12 agosto 1966 quando l’ennesima Conferenza si eleverà al rango di Plenum solamente dei progetti e mancarono di qualsiasi “imprimatur” ufficiale. Solo allora, si ebbe nel CC una maggioranza solida e decisa che bocciò o promosse i progetti passati, secondo chi era stato l’estensore.
Che nel gennaio 1965, i “23 articoli” non invertissero nessun corso, lo indicano altri fatti, dalla conferma di Liu Shaoqi alla Presidenza della Repubblica da parte della III Assemblea Popolare sempre in quel gennaio, alle interviste del 1970 con Show di Mao, in cui il vegliardo dichiarò che solo dopo la presentazione dei “23 articoli” capì che Liu andava battuto, segno indiscutibile che sia Liu che l’apparato di partito e di Stato non raccolsero, come già successo nel passato, gli appelli di Mao: frattura questa che posteriormente Mao stesso testimoniò parlando coloritamente del Segretario Generale Deng Xiaoping, il 24 ottobre 1966:
«Deng è duro di orecchi, ma nelle riunioni si sedeva sempre lontano da me. Nei cinque anni successivi al 1959 non mi ha mai fatto alcun rapporto sul suo lavoro. Per il lavoro della segreteria si rivolgeva solo a Peng Zhen».
Il documento riprendeva e prolungava il primo progetto in “10 punti” del maggio 1963, mettendo ancor più in evidenza l’asprezza della lotta di classe che si stava sviluppando nelle campagne. Già la presentazione ammoniva che «l’essenziale nel movimento in atto è cacciare coloro che pur occupando posizioni d’autorità nel partito seguono la via capitalistica. Questo è necessario per consolidare e sviluppare le posizioni del socialismo nelle città e nelle campagne. I responsabili che hanno preso la via del capitalismo si tengono nascosti fra le quinte, anche se in certi casi appaiono sul proscenio».
L’articolo 1 insisteva sull’affermazione che lo stesso partito era da considerarsi, in parte, passato al nemico e certo l’affermazione suonava come minaccia per tutti coloro che non sostenevano direttamente Mao, oltre ad essere una risposta chiara a Liu che contava sulla struttura di partito per ristabilire un controllo centrale degli sparsi villaggi contadini: «Nelle nostre città esiste una lotta di classe che è molto grave e acuta. Dopo la trasformazione socialista di base della proprietà, certi nemici di classe ostili al socialismo vogliono servirsi dell’ “evoluzione pacifica” per ristabilire il capitalismo. Tale lotta di classe si è necessariamente riflessa nel partito. La direzione di un certo numero di Comuni, Squadre, Unità si è corrotta o vi sono state infiltrazioni negative, il nostro lavoro incontra molti problemi nel suo cammino»,
L’articolo 2 era ancora più esplicito: «Si tratta di rettificare ed epurare quelli che, detenendo l’autorità nel partito hanno imboccato la via del capitalismo, alcuni dei quali sono collocati molto in alto e hanno tolta la maschera, rivelato la loro vera natura».
L’articolo 5 traeva le conclusioni organizzative di questo passaggio, armi e bagagli, nel campo capitalistico di alti dirigenti, si indicava infatti la creazione di nuovi gruppi dirigenti, frutto di una triplice alleanza fra masse, quadri e gruppi di lavoro, per sollevare con coraggio le masse senza pretendere di controllarle dall’alto.
L’articolo 9 faceva persino appello alle armi: «Là dove il potere è detenuto da quadri che si sono resi colpevoli di fatti gravi, bisogna impadronirsi a viva forza del potere; in caso di necessità, se le milizie locali non sono fidate, bisognerà disarmarle e passare le loro armi ai contadini poveri e medio poveri».
Le bellicose dichiarazioni fecero un clamoroso fallimento. Finché la Campagna di Educazione Socialista continuò, continuò con i metodi proposti da Liu, dall’alto insomma, ed i contadini poveri e medio-poveri, classificazione quanto mai artificiosa, non presero nessun potere né epurarono nessun quadro corrotto o disonesto; figurarsi se aveva invece semplicemente imboccato la via del capitalismo che è e rimane quella dei contadini. Solo le “squadre di lavoro” di Liu moralizzarono ed epurarono i quadri rurali, cercando di dare nuovo lustro all’amministrazione delle produzioni e dello Stato. Per il resto, i contadini invocati da Mao continuarono tranquillamente a coltivare terre collettive e terre private, disposti a traffici ed a commerci ma non al sollevamento proposto da Mao, tanto che, solo dopo le rivelazioni delle Guardie Rosse, i meno fessi poterono incominciare a districarsi nella intricata matassa dei fatti, dei progetti, delle dichiarazioni di questo e di quello, di cui allora ben poco si seppe.
La clamorosa cilecca del Movimento contadino evocato a più riprese da Mao, particolarmente con i “23 articoli”, va al di là del fatto in sé.
Il fallimento, che di fallimento si tratta, va esteso alla
prossima
Rivoluzione Culturale: giusto il quadro fin qui descritto a più
mani,
quelle di Liu, di sua moglie e di Mao, di un capitalismo marciante
nelle campagne, l’eventuale riscossa “socialista” avrebbe dovuto
far piazza pulita degli “elementi capitalistici” suscitando la rivolta
delle masse povere dei contadini.
Ma invece, la lotta politica si sposta sul terreno della “Cultura”, i
“23 articoli” quietano anche le purghe di Liu, le masse
contadine rimangono immobili come le montagne tante volte protagoniste
delle favolette di Mao, e le stesse Guardie Rosse che pure sciameranno
a milioni nelle campagne si guarderanno bene dall’incitare i contadini
a ribellarsi contro i loro “nemici di classe”, forse perché
preoccupate di scansare le dure difese dei contadini alla
“proprietà
personale”.
Fatti questi che confermano ancora una volta i nostri giudizi sulla rivoluzione cinese e sulla base di classe dello Stato di Pechino: rivoluzione nazionale borghese che poggia e si sviluppa sullo sterminato mondo contadino che per quasi vent’anni aveva alimentato un esercito capace di muoversi nelle campagne come un pesce nell’acqua. Ma la testa della rivoluzione nazionale è nelle città, anche quando l’esercito del PCC è confinato a Canan in grotte o case di fango.
Nelle città si sviluppa il nazionalissimo movimento antigiapponese e le città tolgono al Generalissimo Jiang Jieshi il loro appoggio. Le armate della campagna guidate dal PCC conquistano le città, ma, nella lunga storia cinese, i “barbari”, talvolta vincitori militari, venivano assorbiti dalla superiore civiltà Han, è il programma delle città a trionfare.
Il regime deve ripagare il sostegno ed il tributo contadino con la Riforma Agraria, ma già nel 1953 cerca di inquadrare le riforme interessanti le campagne nel generale programma di industrializzazione, scopo primo e borghese dello Stato.
Con questo contadini e Stato sono legati a doppio filo e nessuno dei due attori può spezzare impunemente questo legame; i contadini perché sanno bene che la loro condizione precipiterebbe, insieme alle loro piccole ma significative proprietà, se solo si attenuasse l’azione di controllo e di direzione centrale, e lo Stato perché deve pattuire, anno dopo anno, con i contadini le risorse necessarie agli investimenti oltre che alla sua stessa esistenza materiale.
Questo connubio, inevitabile per un regime dichiaratamente borghese, in quelle determinate condizioni nazionali e internazionali, fa sì che ogni misura politica deve preservare la indispensabile produzione agricola, fatto che imponeva molta elasticità nel promuovere qualunque epurazione fra i quadri rurali, come anche molta cautela nel lanciare vasti movimenti “produttivi” come era stato il Grande Balzo in Avanti.
Ed il determinarsi di questo legame segnava pure il passaggio di storiche consegne fra Mao ed i suoi avversari politici che in un lungo arco di tempo andarono da Chen Yun a Peng Dehuai a Liu Shaoqi a Deng Xiaoping, secondo l’aneddotica storica che non vede scontri di forze sociali ma di personalità più o meno illustri, amante dei nomi anche quando sono facilmente confondibili !
Forze borghesi, i contadini arrivano al massimo ad una visione nazionale se riescono a superare i confini locali e piccolo-borghesi della loro produzione, ed è quindi inevitabile il loro attaccamento alla proprietà e alle forze del mercato, anche se in determinate situazioni sono capaci di abbracciare totale egualitarismo di terra e massimo razionamento dei prodotti e del lavoro.
Durante la Lunga Marcia, le guerre seguenti e la fame sconfinata del periodo successivo di Jiang Jieshi, sono questi ultimi i “sentimenti” propri delle masse contadine che ben accettano un “comunismo di guerra” da estrema miseria; ma la successiva, difficile e inevitabile accumulazione di capitale nelle città e nelle campagne fa subito i conti con questi “sentimenti”, inizia l’attaccamento dei contadini a proprietà e produzione, pilastri portanti dello Stato Centrale di Pechino.
L’austerità morale di Mao deve passare la mano, in un processo difficoltoso lungo e contraddittorio, all’efficienza produttiva dei gatti bianchi e neri di Deng, passaggio di consegne che significa che le necessità dell’accumulazione capitalistica non hanno bisogno degli appelli di Mao, tanto utili alla costituzione della Repubblica Popolare Cinese !
Per questo gli appelli di Mao per la sollevazione dei contadini contro i loro avversari identificati nell’amministrazione statale, cadranno nel vuoto e non riusciranno nemmeno a scalfire il connubio Stato-classe contadina, in special modo agitando il collettivismo passato.
Per questo.anticipiamo, sarà l’esercito a temporaneamente dirimere l’inconciliabile dissidio fra il romantico passato della rivoluzione cinese, vivo ancora in Mao, ed il prosaico avvenire del grande Stato giallo che parlava per bocca ora di Chen Yun, ora di Liu ora di Deng.
Ma se tutto l’apparato di Stato e di Partito era d’accordo perché ogni risorsa disponibile fosse indirizzata alla riproduzione ed accumulazione di capitale, se da questo punto di vista, solo da questo, lo slogan “la politica al primo posto”, cioè l’interesse nazionale sopra a tutto, era accettato da qualsivoglia dirigente, diverse erano le risposte date ai reali quesiti di una accumulazione capitalistica che problematicamente era costretta a cercare risorse e vigore da una asfittica ed arretrata agricoltura, appena capace di fornire all’immensa popolazione una razione annua di nemmeno 300 chilogrammi di cereali pro capite.
Come abbiamo già cominciato a vedere, con il ristabilimento della produzione agricola e l’aumento della disponibilità annua di cereali, l’avvicinarsi dell’inizio del terzo piano quinquennale (1 gennaio 1966), cioè il nuovo presentarsi dei problemi non sciolti dagli aiuti russi e dal Grande Balzo in Avanti, aumentò gradatamente la spaccatura all’interno del Partito-Stato. Questo fatto non deve interpretarsi come una prova dell’indipendenza della volontà umana dai fatti economici, ma come un ulteriore ribadimento della tesi marxista che sono le forze sociali che riescono a trovare un inebetito homo sapiens a proprio portavoce.
Una parte del PCC, comprendente la maggioranza dell’apparato di partito, dei responsabili dei Sindacati, degli economisti intendeva da un lato, proseguire ad accrescere più o meno considerevolmente la produzione industriale facendo leva su un aumento diversificato dei salari operai, sull’applicazione all’interno delle aziende del principio del bilancio in “attivo”, sull’eventuale sviluppo tecnico da aversi con capitali esteri; dall’altro, ritornare con prudenza all’azienda privata nelle campagne con libertà di vendere la terra, di comprarla, di darla in affitto, per favorire una relativamente rapida espropriazione dei contadini per una finale formazione di un’agricoltura moderna, meccanizzata, fondata su grandi aziende a conduzione privata. Tale politica implicava automaticamente, parallelamente a certe concessioni sia ai contadini che agli operai, una differenziazione nei consumi dei prodotti, quindi un lacerarsi del compatto tessuto sociale del “blocco delle 4 classi”, lacerazione che poteva essere controbilanciata dal potere centrale solamente con un rafforzamento della rete di controllo e di direzione dei quadri di partito.
L’altra parte, contrapposta alla prima (Mao Zedong, i suoi sostenitori e inizialmente gran parte dell’Esercito Popolare di Liberazione), intendeva ottenere la ripresa dello sforzo immane dell’industrializzazione della Nazione con un ricorso ancora più estremo alla “energia ideologica”, alla mobilitazione sociale dei contadini, in modo di pompare tutto il surplus dei prodotti agricoli verso la città e verso le casse dello Stato, manovra che andava assolutamente completata, pena il fallimento, con un vero e proprio giro di vite alle condizioni degli operai dell’industria, imponendo un egualitarismo assoluto, abbassando i salari, prolungando la giornata di lavoro.
Sempre schematizzando, il primo schieramento si diramava e regolava il funzionamento del Partito e del Governo, concentrando i suoi sforzi sul buon andamento della produzione, considerava quindi pericolose le incontrollate campagne di massa, le offensive produttive impostate sulla volontà, come era stato per il Grande Balzo in Avanti; il secondo schieramento, da par suo, temeva una degenerazione burocratica tipo quella che causò il crollo interno del Guo-min-dang, sosteneva pertanto “l’entusiasmo rivoluzionario” come unico antidoto per risolvere qualsiasi problema economico, sempre da affrontarsi con mobilitazioni che facessero avanzare la Nazione verso la prosperità ed il benessere con continui “balzi in avanti”, la fatica doveva cementare ogni classe e strato sociale con lo Stato di Nuova Democrazia, riposto ogni caporalismo e burocratismo.
Ma appunto il disastro del Grande Balzo in Avanti, le susseguenti indispensabili “riforme economiche”, avevano fatto sì che per tutto il periodo 1961-65 lo schieramento di Liu Shaoqi e Deng Xiaoping segnasse significativi punti a suo favore ramificando la sua influenza in tutti gli organismi di Partito e di Stato, e attraverso l’opera del Capo di Stato Maggiore Generale Luo Ruiqing, dirigeva tutte le attività della Commissione Militare del CC fin dal 1961 e si apprestava a smantellare l’ultima potente roccaforte maoista, l’Esercito Popolare di Liberazione, che aveva fatto argine al relativo liberismo del resto della società con continue, periodiche e capillari “campagne ideologiche e morali”.
Tutti questi motivi, sommati alla riottosità dei lavoratori e dei contadini a mobilitarsi per chicchessia (lo abbiamo descritto con il Movimento di Educazione Socialista, negli anni 1961-65), faranno politica all’interno del PCC che dagli ultimi mesi del 1965 assunse un ritmo convulso con la Rivoluzione Culturale, in cui si avrà una vera e propria lotta armata fra forze ugualmente statali e di governo ma anche fra classi, svolta questa che costringerà l’EPL, vera spina dorsale della Rivoluzione Culturale, ad assumere tutto nelle sue mani lasciando agli studenti la consueta recita delle mosche cocchiere.
La questione che sarà all’origine della Rivoluzione Culturale, fu quella relativa a Wu Han, questione che sembrava più che altro appartenere alle tante critiche che il regime periodicamente indirizzava agli ambienti letterali liberali. Questa originaria impressione era rafforzata dal fatto che le tensioni politiche che si avevano all’interno del PCC rimanevano segrete, ed al volgo niente era dato sapere di quello che si svolgeva dietro le quinte.
Gli osservatori più attenti avevano intuito che qualcosa bolliva nella pentola per le due interviste, peraltro non significative, che Mao aveva rilasciato ad Edgar Snow e André Malraux, rispettivamente nel gennaio e nell’agosto 1965, solamente per la ritrosia di allora dei dirigenti cinesi alle interviste con giornalisti stranieri, rilievo che poneva interrogativi sul loro reale significato nella fine e psicologica politica cinese.
Niente poi era trapelato di una importantissima riunione del CC allargato, nel settembre-ottobre 1965, in cui Mao intervenne denunciando il “modo di pensare borghese”, allocuzione che seppur sconosciuta sarà generalmente ricordata come la “scintilla” della Rivoluzione Culturale. L’unica testimonianza è dello stesso Mao che, ad una conferenza di lavoro del 25 ottobre 1966, dirà: «Nel settembre e nell’ottobre scorsi ad una riunione del CC chiesi: “Che cosa intendiamo fare nei confronti del revisionismo che si è sviluppato al Centro del Partito, cosa faranno le periferie ?”». Evidentemente, l’interrogativo rimase senza risposta e foriero di futuri contrasti.
L’ottobre 1965 vide poi due contrastanti segnali, uno, inquietante, era lo spostarsi della Campagna di Educazione Socialista, calmatasi nelle regioni rurali, verso i quadri provinciali urbani che furono anch’essi criticati per il loro autoritarismo e caporalismo; l’altro, tranquillante, era l’editoriale della rivista teorica “Bandiera Rossa”, titolato “Adottiamo la concezione proletaria del mondo per costruire il nostro mondo nuovo” che criticava sì le “vecchie” concezioni di conoscenza e di comportamento ma si premuniva di aggiungere che la lotta contro il pensiero tradizionale doveva essere condotta con moderazione e pazienza, evitando aggressività ed eccessi.
Con queste enigmatiche premesse, quando uno dei due quotidiani di Shanghai, il “Wenhui Bao”, pubblicò il 10 novembre 1965 l’articolo dello sconosciuto caporedattore Yao Wenyuan, “Commento ad un dramma storico di recente composizione: La destituzione di Hai Rui”, tutti gli osservatori politologi si chiesero invano cosa diavolo stesse succedendo nella gialla repubblica, dei cui abitanti tutto si può dire ma sicuramente che non prendono le cose di petto.
Il dramma in questione era stato scritto da Wu Han, specialista della storia Ming, membro della Lega Democratica, vicesindaco di Pechino dal 1949 ed intimo collaboratore del sindaco Peng Zhen membro influente del Politburo. La figura dello scrittore-storico e quella del suo protettore, spostavano immediatamente la questione dall’ambito letterario della figura dell’onesto Mandarino Hai Rui, in contrasto con l’imperatore di allora per difendere le condizioni dei contadini, a quello più strettamente politico della lotta fra fazioni all’interno del PCC.
Se gli scritti su Hai Rui, fin dal loro apparire nel 1961, erano sottilmente intesi come una difesa del Maresciallo Peng Dehuai, destituito dalle sue funzioni di Ministro della Difesa al VII Plenum di Lushan per le aspre critiche al Grande Balzo in Avanti, il duro finale dell’articolo di Yao Wenyuan: «Reputiamo che lo scritto “La destituzione di Hai Rui”, lungi dall’essere un fiore profumato, sia in realtà un’erba velenosa», era un chiaro segnale che i fautori della mobilitazione sociale, adesso che le condizioni economiche si erano normalmente riabilitate, si apprestava ad attaccare i propri avversari irrobustitisi da 5 anni di politica di “riaggiustamento” e di “economicismo”.
Che le posizioni di Peng Zhen fossero particolarmente salde in quel frangente, lo rivelarono successive testimonianze. Secondo la Circolare del CC del 16 maggio 1966, già nella stessa riunione allargata del CC nel settembre-ottobre 1965, Mao aveva impartito direttive per criticare Wu Han, ma queste erano cadute completamente nel vuoto e soltanto in minima parte furono riprese dagli organi centrali del regime. Sempre Mao dirà il 23 ottobre 1966, ricordando i fatti di un anno prima: «In quell’epoca non potevo attuare le mie idee a Pechino. La ragione per cui lanciai la critica a Peng Zhen a Shanghai, lontano da Pechino, era la consapevolezza che qualunque cosa avessi proposto non sarebbe stata attuata da Peng Zhen», confessione che chiariva a posteriori anche il senso delle due interviste concesse da Mao in quell’anno: Il Timoniere non era più alla barra dopo i rovesci del Grande Balzo in Avanti ed il buco nell’acqua del Movimento di Educazione socialista, e per far sentire il pensiero suo doveva affidarsi o a giornalisti stranieri o alla stampa locale, come era il “Wenhui Bao”.
Lotte politiche fra uomini quindi, ma dietro a queste figure, grandi o piccole non importa, si ha il movimento imperioso di classi sociali che cozzano fra loro per affermare i propri interessi, determinando le politiche e le contese dei leaders, contese che non erano altro che la punta di un iceberg.
L’articolo di Yao Wenyuan sarà ripreso dopo ben 19 giorni dall’organo ufficiale dell’EPL, “Jiefangjun bao”, e in successione, il 30 novembre, dal “Jenmin Jihpao”, segni inequivocabili che l’attacco di Mao, concordato con la moglie Jiang Qing e Zhang Chunqiao, un Commissario politico della Regione Militare di Nanchino, stava aprendo una breccia disastrosa nello schieramento avversario.
Probabilmente, i futuri sconfitti della Rivoluzione Culturale, da Liu Shaoqi a Deng Xiaoping, che pure allora sembrava controllassero gran parte dell’apparato di partito, sottovalutarono gli attacchi di Mao a Peng Zhen attraverso il pupillo Wu Han e quando l’organo dell’EPL si pronunciò era ormai troppo tardi per porre rimedio.
Wu Han, né difeso né attaccato da
nessun altro personaggio importante del Partito, tentò di uscire
dall’occhio del ciclone con una lunga autocritica, apparsa il 30
dicembre 1965 sul “Jenmin Jihpao”, ma sia questa che le
maldestre difese dei suoi amici storici ed accademici, determinarono
una nuova campagna contro di lui. Il 12 gennaio, Wu Han tentò
una
seconda autocritica che lo portò invece al completo isolamento,
con
tutta la stampa che si accanì sulla sua persona, i suoi
pensieri, il
suo passato. Ridotto ormai al silenzio, il malcapitato Wu Han fu
inviato da Peng Zhen in una comune rurale per allontanarlo da Pechino e
per tentare di spoliticizzare la battaglia delle idee che stava
montando.
[ Quadro delle principali Produzioni 1949-77 ]
Durante l’inverno 1965 ed i primi mesi del 1966, mentre sulla stampa infuriavano le polemiche letterarie,Peng Zhen, contro cui indirettamente erano rivolte le critiche agli ambienti letterali ed accademici di Pechino, sembrò conservare tutto il suo credito. Sarà anzi lui a capeggiare il “Comitato dei cinque” (formato da Peng stesso, da Kang Sheng membro supplente del Politburo, da Lu Dingyi e Zhou Yang rispettivamente ministro e vice – ministro della Propaganda, e da Wu Lengxi redattore capo del “Quotidiano di Pechino” e direttore dell’Agenzia Nuova Cina) incaricato dal CC di redigere la carta della futura “Rivoluzione Culturale».
I “cinque”, nonostante l’opposizione di Kang Sheng, redassero un documento che fu sottoposto a Liu Shaoqi il 5 febbraio, dopo l’approvazione di questi,tre giorni dopo, il documento fu trasmesso a Mao che allora si trovava a Wuchang. Poiché Mao aveva formulato rilievi e dubbi, gli autori corressero l’originario per presentarlo di nuovo a Liu e Deng; il 12 febbraio, il testo finale del primo documento sulla Rivoluzione Culturale veniva diffuso nel PCC, con tutti i crismi formali di una deliberazione ufficiale del CC.
Il documento di Peng Zhen spostava tutta la discussione sul terreno della pura critica accademica, e ricordava che già Mao nel 1957, all’epoca dei “Cento fiori”, aveva insistito sulla necessità di una «larga apertura anche nei confronti di correnti di opinione non marxiste», suggeriva di non sviluppare il movimento di riforma delle idee se non con calma e prudenza, «i problemi dell’ordine culturale essendo complessi e non potendo essere circoscritti in un batter d’occhio».
Ammoniva il documento indirizzando una frecciatina a Mao: «Noi non dobbiamo comportarci come quei tiranni intellettuali che agiscono sempre in modo arbitrario e ricorrono alla forza per ottenere il consenso degli altri; noi dobbiamo incoraggiare il mantenimento della verità ed essere sempre pronti a correggere i nostri errori».
Era la parafrasi dell’epopea dell’onesto Mandarino Hai Rui che aveva osato sfidare l’autorità imperiale centrale in difesa delle condizioni dei contadini, di 600 anni anticipatore dell’altrettanto sfortunato Maresciallo Peng Dehuai, oppositore franco e deciso del Grande Balzo in Avanti, lui che riconosceva di non capire niente di economia e di diplomazia.
Le frasi sottili, le allusioni discrete del documento di Peng facevano riandare al quesito economico reale, sui destini dell’accumulazione capitalistica in Cina, interrogativi chiaramente evocati anche dalla bandiera scelta da Peng Zhen: «senza edificazione non può esserci vera e completa distruzione», contrapposta a quella di Mao: «nessuna costruzione senza distruzione».
Con la presentazione delle “tesi di febbraio”, iniziò un oscuro periodo che andrà fino al maggio e la cui ricostruzione è tuttora molto difficile. Agli inizi del marzo, appare per l’ultima volta in pubblico Peng Zhen mentre nella seconda quindicina del mese, secondo l’attendibile Guillermaz, Mao decide di rompere ogni indugio. Alla fine di febbraio, secondo la ricostruzione dei giornali delle Guardie Rosse, c’era poi stato l’arresto del Capo di Stato Maggiore Generale, Luo Ruiqing, con il pretesto di complotto contro lo Stato; costretto a sedute di “autocritica”, il generale Luo tentò il suicidio gettandosi da una finestra, il 18 marzo, riuscendo solamente a rompersi una gamba.
L’arresto e l’epurazione di Luo Ruiqing influì senz’altro sull’andamento delle riunioni della Segreteria del CC (9-12 aprile) e del Politburo (16 aprile e 4 maggio), in cui furono attaccati ed isolati Peng Zhen, Lu Dingyi e Yang Shangkun, un segretario supplente del CC, sconfitti al pari di Luo.
Il 16 maggio fu inviato a tutti i livelli superiori del Partito delle province e dei distretti, ed a quelli dell’EPL, il risultato finale di queste riunioni: con una circolare tutti i quadri furono informati dei bruschi avvenimenti succedutisi, e furono soprattutto invitati a discutere il testo di questa come delle “tesi di febbraio” per poi scegliere da che parte stare. La “circolare del 16 maggio” che verrà resa pubblica solo un anno più tardi, annullava le “tesi di febbraio”, scioglieva il “gruppo dei cinque”, decideva di «formare un nuovo gruppo per la Rivoluzione Culturale», e dopo varie disquisizioni letterarie contro Peng Zhen, accusato di difendere Wu Han e di non volere combattere i multiformi aspetti dell’ideologia borghese, lanciava un vero e proprio grido di allarme, un accalorato appello alle epurazioni, inquietante perché l’anonimato estendeva potenzialmente su tutti appiccicosi sospetti: «I rappresentanti della borghesia che si sono infiltrati nel Partito, nel governo, nell’esercito e nei vari settori della cultura sono un gruppo di revisionisti controrivoluzionari. Una volta maturate le condizioni, si impadronirebbero del potere e trasformerebbero la dittatura del proletariato in una dittatura della borghesia. Alcuni di costoro li abbiamo già individuati, altri no. Altri ancora, per esempio gli individui del tipo Kruscev, godono ancora della nostra fiducia, vengono formati come nostri successori e si trovano attualmente in mezzo a noi. I Comitati di Partito a tutti i livelli devono prestare molta attenzione a ciò».
Stile ed immagini non erano certo quelli di un documento da discutere, da criticare. La “circolare” era infatti il risultato di un rapporto di forze già determinatosi, ed i riceventi o la accettavano o automaticamente passavano nella schiera degli sconfitti. Luo Ruiqing, Peng Zhen, Lu Dingyi e Yang Shangkun, già scomparsi dalla scena politica e bollati come scoperti complottatori.
Anche il discorso che Lin Biao tenne ad una riunione allargata del Politburo, il 18 maggio 1966, ammoniva a più riprese gli astanti e suonava come esplicita minaccia a tutti i quadri e dirigenti del Partito e dello Stato, minaccia grave perché con Lin Biao parlava l’esercito.
Lin Biao disse allora che Mao, scomparso per la verità dal novembre 1965 dalla vita pubblica, tanto che circolarono voci di una sua grave malattia, da mesi aveva fatto adottare «diverse misure per la prevenzione di un colpo di Stato controrivoluzionario», che le truppe controllavano ed occupavano tutti i punti strategici dell’immenso paese, e che Luo, Peng, Lu, e Yang erano dei veri rappresentanti della borghesia infiltrati nel Partito e nei suoi organi dirigenti per formare una frazione autoritaria che controllava la macchina governativa, il potere politico e quello militare.
La chiara uscita sulla scena di Lin Biao, era una ulteriore indicazione sul ruolo giocato, negli avvenimenti di inizio della Rivoluzione Culturale, dall’EPL. Oltre all’occupazione dei punti strategici, trapelò che con il concorso di Yang Chengwu (primo vice dirigente dello Stato Maggiore) e di Fu Chongbi (comandante in seconda della Regione Militare di Pechino), tutte le province del Nord erano strettamente e militarmente controllate dalla fazione maoista, appoggiata pure dai Servizi di Polizia e dai Servizi Segreti comandati da Xie Fuzhi.
Oltre a questi compiti strettamente militari, l’EPL aveva pure assolto, tramite il suo apparato di propaganda, il compito di indicare e pubblicizzare il “nuovo corso” intrapreso, pubblicando sul suo quotidiano l’articolo “Sventoliamo alto il grandioso stendardo rosso del pensiero di Mao Zedong; partecipiamo attivamente alla grande rivoluzione culturale socialista”, il 18 aprile, e un vigoroso appello“Non dimenticate la lotta di classe”, il 4 maggio.
Il fucile stava quindi dirimendo le dispute dei politici, era il ritorno alla lotta interna fratricida nel PCC, unito dopo la proclamazione della Repubblica.
Se inizialmente la Rivoluzione Culturale interessò solamente le Università, seppur con manifestazioni esteriori e caduche, ciò va ricercato non nella presunta “sensibilizzazione politica” degli studenti o baggianate simili, ma nello studio materialistico del grado di sviluppo delle forze produttive e dell’inevitabile influenza di questo sulle classi e sugli strati sociali, nei loro rapporti reciproci.
Abbiamo già visto, riguardo i capitoli sul Movimento di Educazione Socialista, l’atteggiamento di immobilità della classe contadina, a vuoto sollecitata sia da Mao Zedong che da Liu Shaoqi. La ripresa economica del quinquennio 1961-65, aveva poggiato infatti sulle misure liberal dell’ “economicismo” che aveva ridato sì fiato alla misera economia della piccola conduzione agricola familiare, ma che nel contempo aveva stemperato il “vigore sociale” dei contadini attestatisi, dopo le sofferenze ed i rovesci delle Comuni e del Grande Balzo in Avanti, in difesa delle loro piccole proprietà. Anche la classe salariata, rispetto al periodo precedente, aveva leggermente migliorato le pur dure ed austere condizioni di vita e di lavoro, il ricorso e l’introduzione dei cottimi aveva assicurato ai burocrati di Liu Shaoqi nei Sindacati un atteggiamento di neutralità da parte della classe lavoratrice, innegabile passo in avanti del regime rispetto ai mugugni e le delusioni minacciose del triennio 1958-61.
Era invece il mondo della “cultura” e degli studenti ad essere in pieno fervore, sia perché l’intelligenza, pur collaborando fin dal 1949 con il governo del PCC, mai aveva cessato di criticare, ora in modo sibillino ora apertamente, il controllo stretto che lo Stato esercitava su tutti gli aspetti della vita sociale, compreso quello accademico; sia perché la straordinaria proliferazione della popolazione studentesca negli anni Sessanta (risultato delle migliori condizioni di vita e dell’abbassarsi dei tassi di mortalità infantile e dei sempre alti tassi di natalità) era coincisa temporalmente con la prudente politica economica del 1961-65 che, avendo come scopo il riassetto della struttura produttiva sconvolta, non aveva bisogno né di nuovi operai, né tanto meno di nuovi quadri e nuovi dirigenti.
Significativo di questa situazione fu l’intervento di Tan Zhenlin, nell’agosto 1964; ad una Conferenza, dedicata all’organizzazione del Movimento di Educazione Socialista, dichiarò senza abbellimenti che durante il III Piano quinquennale che sarebbe iniziato il 1 gennaio 1966, l’industria delle città non avrebbe potuto assorbire più di 5 milioni di operai, che altrettanti bisognava mandarne nelle campagne, mentre i giovani diplomati non ammessi alla Università (centinaia di migliaia visto che le scuole secondarie ne diplomavano 4,6 milioni l’anno) avrebbero anch’essi subìto la stessa sorte scomparendo nello sconfinato mondo rurale.
Pur ammettendo che le cifre del periodo sono tutte poco attendibili, solo nel periodo 1963-65, quando il movimento “xiafang” fu ripreso in grande stile con la mobilitazione e l’appoggio della Lega Giovanile Comunista, i giovani diplomati delle scuole secondarie trasferiti in campagna furono circa 6 milioni, una cifra enorme che poneva il grosso problema dell’integrazione alla produzione di questa forza lavoro relativamente qualificata che risentiva prima di tutto gli effetti della stagnazione e blocco degli investimenti.
Queste, brevemente, le reali ragioni del manifestarsi della Rivoluzione Culturale – lotta politica tra due diverse tendenze del regime di fronte ai problemi dell’accumulazione capitalistica – prima di tutto nel mondo accademico, dopo i primi colpi dietro il sipario discreto del CC e dei suoi organismi. Il mondo accademico era controllato dal “pugno di revisionisti” né più né meno del mondo delle fabbriche o di quello delle Comuni rurali, esistenti per molti aspetti fondamentali solo sulla carta, ma, come cerchiamo di dimostrare, diversi erano gli interessi degli studenti da quelli degli operai e dei contadini e da questa diversità si aveva la disponibilità alla lotta contro il “revisionismo” di Liu preteso colpevole della mancanza di “posti al sole” per la piccola borghesia studentesca.
Fin dai primi giorni del maggio 1966, all’Università di Pechino (Beida) serpeggiarono agitazioni ed assemblee che avevano come principale obbiettivo la critica allo scrittore Deng Tuo. Il 25 maggio, una professoressa, Nie Yuanzi, e sei membri insegnanti della facoltà di Filosofia, affissero un giornale murale in cui violentemente si attaccava il Rettore e Segretario del PCC all’Università, Lu Bing.
Lu Bing, i suoi collaboratori e l’intero Comitato di Partito dell’Università, venivano accusati di soffocare la nascitura Rivoluzione Culturale attraverso tutta una serie di artifizi (dal proibire i giornali murali a proibire le assemblee).
Il dazibao non solo scandiva: «“Il CC del partito e il presidente Mao avevano da lungo tempo indicato la giusta via della Rivoluzione Culturale e il suo giusto orientamento», frase che indicava come i 7 estensori dell’attacco a Lu Bing erano a conoscenza della circolare interna segreta del 16 maggio, ma soprattutto terminava con un vibrante appello alla lotta:
«Intellettuali rivoluzionari, è l’ora della lotta ! Uniamoci e teniamo in alto la grande bandiera rossa del pensiero di Mao Zedong, uniamoci intorno al CC del partito e al presidente Mao ! Infrangiamo tutti i controlli e tutti i malefici complotti dei revisionisti, risolutamente, radicalmente, totalmente, completamente, distruggiamo tutti i mostri, tutti gli elementi revisionisti del tipo Kruscev ! Portiamo fino in fondo la rivoluzione socialista; Proteggete il CC ! Proteggete il pensiero di Mao Zedong ! Proteggete la dittatura del proletariato !».
La reazione di Lu Bing fu subitanea, con i suoi sostenitori che attaccarono a loro volta giornali contro Nie e gli altri, bollati come “cani rinnegati”, elementi antisocialisti e “cospiratori”, e fu inizio di violenti scontri fra studenti che immediatamente si propagarono all’Università delle Scienze e di Ingegneria, Qinghua, dove si produsse una fazione favorevole agli esponenti accademici e di partito ed un’altra che invece osteggiava gli uni come gli altri.
Giorni dopo, il “Jenmin Jihpao”, che aveva visto la sostituzione del caporedattore Wu Leng-xi (legato al carro di Peng Zhen e Lu Dingyi) con Chen Boda seguito da un gruppo di fedeli redattori del “Giornale dell’Esercito”, sostenne gli attacchi contro il rettore Lu Bing con un articolo titolato «Siete dei rivoluzionari proletari o dei borghesi monarchici ?»
Sempre nello stesso numero, con il lungo articolo “Spazzare via tutti i mostri”, il “Jenmin Jihpao” annunciava lo scatenarsi di una immensa ondata rivoluzionaria il cui scopo era di distruggere da cima a fondo il pensiero, la cultura, i costumi e gli usi antichi per crearne di nuovi:
«In pochi mesi, milioni e milioni di operai, di contadini e di soldati assieme alla grande massa dei quadri e degli intellettuali, rispondendo all’appello alla lotta, lanciato dal CC del partito e dal presidente Mao e armati del pensiero di questi, hanno spazzato via un gran numero di geni malefici che si erano insediati nelle posizioni ideologiche e culturali. Con la rapidità e la forza dell’uragano e della tempesta, hanno spezzato le catene imposte per tanti anni al loro pensiero da parte delle classi sfruttatrici e hanno completamente sconfitto e vinto l’arroganza degli “specialisti”, “luminari”, “autorità” e “maestri del pensiero borghese”».
Le cose vanno sistemate al loro posto: i milioni e milioni di uomini citati dall’articolo non avevano risposto né stavano rispondendo a nessun appello, stavano semplicemente fermi e, del resto, appelli pubblici non ce ne era stati da parte di alcuno, vincitori e vinti, tutto era circoscritto in circolari interne. Gli individui “tipo Kruscev” della circolare del 16 maggio, i geni malefici e mostri dell’articolo del 1° giugno, non imponevano catene a pensieri o idealità, perché non erano frutto di magia e perversione ma, più prosaicamente, esprimevano il nascituro industrialismo e mercantilismo che faticava e penava a permeare le campagne; ed il pensiero del presidente Mao non era per niente una “bomba atomica spirituale”, come scioccamente diceva l’articolo, ma il semplice e tenace resistere di questo sconfinato mondo contadino alle lacerazioni sociali inevitabili con il suo ingresso nell’agone della riproduzione e accumulazione capitalistica.
Questo resistere non si può semplicisticamente etichettare come “reazionario” o, stessa la considerazione, come “progressista”, ma, come stiamo dimostrando con lo svolgimento del lavoro, poggiava su considerazioni politiche borghesi non sciocche.
La aneddotica registrerà che solo il 1° giugno sera, il Timoniere Mao, buon ultimo, schiatti il superuomo, verrà a conoscenza del giornale murale di Nie Yuanzi e ne raccomanderà la diffusione e radiodiffusione; anche l’aneddotica è, talvolta, irrispettosa con i grandi uomini che adula e coccola.
Il 2 giugno il “Jenmin Jihpao” dedica un nuovo attacco al malcapitato Lu Bing presentato come un ingannatore ed un baluardo antipartito ed antisocialista nell’articolo: “Salutiamo il giornale murale dell’Università di Pechino”. Il 3 giugno, sembra per iniziativa di Liu Shaoqi, in un ultimo tentativo di limitare ed arginare la contesa politica, c’è l’annuncio ufficiale della destituzione di Peng Zhen e di molti suoi collaboratori nel Comitato di Partito di Pechino.
Il comunicato annunciava: «Una linea nera antipartito e antisocialista si era insediata nel precedente Comitato municipale di Partito di Pechino. Taluni dei principali membri dirigenti del precedente Comitato non sono marxisti ma revisionisti (...) Per un lungo periodo di tempo, gli organi di stampa “Qianxian” (“Fronte”), “Beijing Ribao” (“Quotidiano di Pechino”) e “Beijing Wanbao” (“Pechino sera”) sono stati strumenti di questa cricca controrivoluzionaria e hanno diffuso veleno revisionista, nel vano tentativo di restaurare il capitalismo. Il precedente Comitato era alla radice di tutto ciò !».
Peng Zhen veniva sostituito da Li Xuefeng, segretario per la Cina del Nord, che diveniva pure Sindaco di Pechino; lo avrebbe affiancato come vice-segretario Wu De che rimpiazzava nella carica Liu Ren, pure lui andato ad ingrossare la prima pattuglia di sconfitti della Rivoluzione Culturale.
Sarà lo stesso Wu De, alla mezzanotte di quello stesso giorno, a recarsi alla Università per annunciare la sconfitta di Peng, Liu Ren e del rettore Lu Bing espulso, con i suoi collaboratori, dall’Università. Wu De annunciò pure che il CC avrebbe inviato presso l’Università di Pechino e tutti gli altri istituti scolastici della capitale e del paese, “gruppi di lavoro per dirigere la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria».
Questi “gruppi di lavoro», composti da membri responsabili, attrezzati e consistenti (quello dell’Università Qinghua era composto da 400 persone e, secondo la testimonianza di Chen Yi, in totale furono mobilitati 400 mila quadri) cercarono di calmare le agitazioni studentesche, di limitarle, isolarle, orientarle. In tempi successivi, a fine luglio, i “gruppi di lavoro” verranno accusati di aver subìto l’influenza dell’infido Liu Shaoqi, il quale, nella sua autocritica del 23 ottobre, riconoscerà le sue responsabilità pur addebitandole anche all’intero CC: «Io non ebbi fiducia nelle masse e non fui capace di decidere se mobilitare le masse per condurre avanti la propria autoeducazione e autoliberazione. Al contrario, credetti ciecamente nella funzione dei gruppi di lavoro, avendo la volontà di monopolizzare il movimento di massa».
Dal 4 giugno, inizio dell’azione dei “gruppi di lavoro», al 24 luglio quando i “gruppi di lavoro” furono ritirati, tutta la vita politica sembrò concentrarsi nelle Università della capitale dove gli scontri fra studenti e gruppi erano all’ordine del giorno.
Professori ed alunni di presunto spirito moderato, cioè sostenitori della “banda nera di Peng Zhen e Lu Bing” anche semplicemente di estrazione sociale borghese subirono offese e maltrattamenti dai vari gruppi che gareggiavano in radicalismo fra loro, e con i consistenti “gruppi di lavoro” che, nella loro opera di pacificazione, contrastavano gli appelli alla “ribellione” di Jiang Qing, di Kang Sheng e di Qi Benyu e Kuang Feng, questi ultimi due redattori della rivista “Bandiera Rossa”.
Nei contraddittori e nelle assemblee parteciparono pure il Ministro dell’Insegnamento Superiore Jiang Nanxiang – rettore dell’Università Qinghua – la moglie di Liu Shaoqi, Wang Guangmei, ed occasionalmente, il Maresciallo He Long e Bo Yibo, successivi sconfitti della Rivoluzione Culturale. In un clima di scontro, di gara alla fedeltà al maoismo, apparvero i primi raggruppamenti di Guardie Rosse, etichetta che accompagnerà ogni gruppo a prescindere dalle posizioni sostenute o dal personaggio sul quale si appoggerà.
Gli scontri all’Università furono particolarmente violenti dal 15 giugno all’inizio di luglio, con bastonature, feriti ed arresti. Solo il 24 luglio, i “gruppi di lavoro” verranno ritirati, ritiro che segnò un vero e proprio scacco per la struttura di Partito che da sola (senza l’appoggio cioè della Polizia e della Milizia, come si era avuto nel 1957-58 con il movimento di critica sviluppatosi a seguito dell’adozione della politica dei “cento fiori”) non era riuscita a minimamente controllare la “frustrazione” della intellighenzia sollecitata ad esplodere dai maoisti, prossimi vincitori della contesa.
Il 1° luglio si aveva la conferma ufficiale della destituzione del vice Ministro della Propaganda, Zhou Yang, “Bandiera Rossa” nel suo editoriale rivelava che anche lui era stato identificato come un “demone controrivoluzionario”, e coloritamente descriveva la sconfitta della “banda Nera”: «La piena rivelazione della loro natura revisionista ha richiesto un certo periodo di tempo e l’instaurazione di una linea favorevole. Anche i rettili velenosi non escono dalla loro tana che con il favore di certe condizioni climatiche; ma nell’istante stesso in cui tali serpenti pestiferi si sono messi allo scoperto, il presidente Mao li ha catturati».
Il 9 luglio si ebbe un altro episodio significativo: durante la chiusura di un meeting di scrittori afroasiatici, Chen Boda viene presentato come il capo del “gruppo incaricato per la Rivoluzione Culturale del CC” e Tao Zhu (primo Segretario delle Regioni Meridionali, sua potente roccaforte) come nuovo Ministro della Propaganda, conferma ufficiale della caduta di Lu Dingyi, da tempo scomparso dalla vita pubblica.
Al quadro, non mancava che il ritorno clamoroso alla vita pubblica di Mao il quale, dal novembre 1965, non appariva in cerimonie e manifestazioni ufficiali, tanto che nell’aprile-maggio si erano sparse voci sulle sue precarie condizioni di salute e, persino, della sua morte.
Il 16 luglio si ha la coreografica nuotata di Mao nelle acque dello Yangtze, a fianco del segretario dell’Hubei, Wang Renzhong. 200 mila persone, 5 mila nuotatori, zattere pavesate di bandiere e di grandi ritratti di Mao, stucchevoli ditirambi propagandistici, fanno da contorno alla messinscena che ha il solo scopo di dimostrare l’integrità fisica del Timoniere in quel delicato frangente della lotta politica, Timoniere che però, pure nei mesi a venire, non brillerà certo per la sua attività o per i suoi discorsi.
Due giorni dopo della dimostrazione fisica, ancora non pubblicizzata, si ha l’appello speciale a tutti i membri del CC con cui Mao annunciava che si sarebbe recato a Pechino per la prossima seduta plenaria del CC; nello stesso giorno si aveva la sospensione delle attività dei “gruppi di lavoro” nelle Università e, secondo taluni sinologhi, si era completato lo schieramento delle truppe della guarnigione di Pechino tutt’attorno alla capitale, pronte a rispondere ad ogni eventuale attacco.
Il 21-22 si hanno poi dei colloqui di Mao con il “gruppo centrale della Rivoluzione Culturale” e con una parte dei Segretari del Partito delle Province: viene disconosciuto l’operato dei “gruppi di lavoro”, da rimpiazzare con “squadre della Rivoluzione Culturale” e si hanno i chiari ammonimenti di Mao agli astanti che «le masse, in verità sollecitate dai suoi, possono scatenarsi contro il Partito e lo Stato». Dirà, il 21 luglio, con sottili minacce:
«Dobbiamo prepararci all’eventualità che la rivoluzione possa essere rivolta contro di noi. La direzione del Partito e dello Stato, e i compagni responsabili del partito devono essere preparati a questo. Se volete proseguire la rivoluzione fino a compimento, dovete imporre a voi stessi una disciplina, trasformare voi stessi in modo di poter mantenere il passo. Altrimenti potrete soltanto rimanere indietro (...) Non è il caso di imporre modelli rigidi alle masse. All’Università di Pechino, quando si sono accorti che gli studenti stavano alzando la testa, hanno tentato di imporre dei modelli. Eufemisticamente l’hanno chiamato “ritorno alla retta via”. In realtà era “deviazione sulla via sbagliata “».
Due giorni dopo, i consigli di Mao sono messi in pratica con il ritiro dei “gruppi di lavoro”, ritiro che anticipa l’annuncio su tutta la stampa dell’impresa natatoria del presidente che avrebbe nuotato 15 km, in un’ora e 5 minuti in favore di corrente.
Era il 26 luglio 1966, il 28 quattro aerei militari riportarono a Pechino, con discrezione controllata dai militari, Mao e i suoi più stretti collaboratori.
Quello che sarà poi considerato il Plenum storico, giudizio oggi completamente cambiato dall’attuale leadership cinese, non fu né preannunciato, né pubblicizzato, Allora, si ebbe sentore dell’avvenimento l’8 agosto quando fu pubblicata la “Decisione in 16 punti” sulla Rivoluzione Culturale, ma solo con il Comunicato finale del 12 agosto il Plenum ebbe l’imprimatur dell’ufficialità.
Il copione era quindi rimasto fedele al tradizionale canovaccio del regime di Pechino, con un dramma svolgentesi davanti agli occhi delle masse e con le masse come protagoniste, e con un secondo, quello che in definitiva determinava il risultato del primo, recitato in sordina con protagonisti gli uomini dell’apparato.
Sembra, che lo storico Plenum si dovesse riunire nella seconda quindicina di luglio (probabilmente il 21), con Mao assente almeno durante le prime sedute, ma che questo tentativo di dar corpo ad una maggioranza antimaoista fosse abortito per la defezione di Deng Xiaoping, allora Segretario Generale, intimorito dall’ingiunzione di Mao ma soprattutto, forse, dalla pressione dell’Esercito che di nuovo avrebbe fatto valere la sua forza. Questa ipotesi trova credito con il recente processo alla “Banda dei 4” in cui, seppur discretamente, si dice di un complotto di luglio.
L’ipotesi, che l’Esercito abbia giocato un ruolo di prima forza, si può rilevare anche da altri significativi segnali. È il 1 agosto – giorno di apertura del XI Plenum – che il “Quotidiano dell’Esercito”, con l’editoriale “Trasformiamo il nostro Esercito in una grande scuola del pensiero di Mao Zedong”, parla esplicitamente della decisiva battaglia politica conclusasi all’interno dell’EPL: «La terza grande battaglia (nell’esercito) ha avuto luogo non molto tempo fa. Immischiati nella lotta erano rappresentanti della borghesia che avevano usurpato posti di potere nell’esercito e, insieme a questi, importanti membri della cricca controrivoluzionaria, antipartito e antisocialista, scoperta nel nostro partito».
Ed è sempre il 1° agosto che l’agenzia Nuova Cina dà notizia di un banchetto celebrativo, menzionando Yang Chengwu come l’attuale Capo di Stato Maggiore Generale, prima conferma pubblica della destituzione di Luo Ruiqing che non compariva più in pubblico dal novembre.
Lo stesso giorno anche il “Jenmin Jihpao” alzava l’ennesima lode al pensiero di Mao ed all’EPL come suo migliore profeta: «Il compagno Mao Zedong ha fatto appello al popolo dell’intero paese affinché trasformi le fabbriche, le comuni popolari rurali, le imprese commerciali, i servizi commerciali e le organizzazioni di partito e di governo della Cina in grandi scuole realmente rivoluzionarie come l’EPL (...) Se l’imperialismo vorrà invaderci sarà annientato nel grande oceano della guerra popolare. Agendo secondo i dettami del compagno Mao Zedong, i 700 milioni di cinesi diverranno tutti critici del vecchio mondo e costruttori e diffusori del nuovo mondo. Con il martello in mano essi saranno in grado di svolgere il lavoro di fabbrica, con la zappa e l’aratro essi saranno in grado di combattere il nemico e con la penna saranno in grado di esprimersi scrivendo».
Il 2, 3 e 4 luglio, si ha invece il tentativo estremo di Liu Shaoqi di limitare i danni che si annunciavano con lo svolgimento del Plenum del CC, parlò infatti a diversi gruppi di Guardie Rosse riconoscendo i passati errori del CC e del Comitato di Partito di Pechino nei riguardi della Rivoluzione Culturale. Criticò a più riprese i “gruppi di lavoro”, accusandoli, nell’assemblea del 4 luglio, senza tanti complimenti, di caporalismo:
«Quando il Comitato di Partito della Facoltà di Ingegneria è crollato, il “gruppo di lavoro” ha assunto il potere. Voi dovevate appoggiare il movimento, potevate dare dell’assistenza alle masse ? Sarebbe stato sufficiente se le aveste seguite senza dar loro alcuna assistenza ! Non lo avete fatto. Siete diventati i nuovi dominatori, vi siete messi nella posizione di persone d’autorità ed avevate paura che il movimento fallisse, cioè che non procedesse secondo le vostre idee. Eravate voi i padroni delle masse ?».
Sarebbe quindi toccato al diplomatico Zhou Enlai, lo stesso giorno, a condurre una assemblea con 10 mila persone all’Università Qinghua ed a riabilitare come “rivoluzionari proletari” tutti coloro che erano incorsi nelle critiche e nei rigori dei “gruppi di lavoro”, riabilitazione che avrebbe dato il la per nuove violente campagne contro il rettore Jiang Nanxiang, collaboratore per di più dell’altro presidente, quello della Repubblica, Liu Shaoqi.
Come su un altro piano si svolgeva intanto l’XI Plenum, allora ed oggi avvolto da misteriose nebbie. Misterioso rimase e rimane il numero dei partecipanti. Il comunicato finale si limiterà a citare che vi avevano partecipato i membri regolari e supplenti del CC, i dirigenti provenienti da diversi organi del Partito, privi di voto, ed anche rappresentanti di insegnanti e Guardie Rosse.
Sia il comunicato finale sia la “Decisione del CC del PCC sulla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria”, detto Programma in sedici punti, furono approvati per alzata di mano, senza votazioni, alla presenza di soldati e Guardie Rosse, e c’è da credere che la presenza di quelli e di queste fu il migliore antidoto contro possibili opposizioni.
Il comunicato finale, rivelatore della lotta politica ancora in corso, non doveva essere né preciso né spiegare, doveva brutalmente chiudere un ciclo di lotte per aprirne un altro; si riprendeva infatti l’appello di Mao al X Plenum sulla “teoria delle contraddizioni, delle classi e della lotta di classe nella società socialista”, e una volta per tutte si approvavano i documenti di Mao sul Movimento di Educazione Socialista, insistendo sull’infallibilità del pensiero di Mao (“il più grande marxista-leninista della nostra epoca”), definito “il principio direttivo da osservare in ogni lavoro”.
E se l’intera terza parte finale del comunicato era un panegirico al grande uomo, la prima, riguardante la politica interna, riproponeva «il principio di quantità, rapidità, qualità e economia» del Grande Balzo in Avanti, mentre la seconda era un violento comizio contro i dirigenti moscoviti accusati di aver instaurato con gli Stati Uniti d’America «una nuova Santa Alleanza anticomunista, antipopolare, controrivoluzionaria e anticinese», ultimo giovanile grido di battaglia del regime di Pechino contro la coesistenza pacifica dei grandi.
Più esaustivo il “Programma in sedici punti della Rivoluzione Culturale”. I primi due scandivano con decisione: «Elementi in posizione di autorità che si sono impegnati sulla via capitalistica si sono infiltrati nel partito, si appoggiano in particolare sulle strutture culturali ereditate dal passato, con vecchie idee, la vecchia cultura, i vecchi costumi e le vecchie abitudini». Dal che la necessità di combattere ed annientare questi elementi per una vera e propria riforma intellettuale e morale che trasformi idee ed abitudini.
Il punto tre chiariva che il risultato finale di questa Grande Rivoluzione Culturale Proletaria sarebbe stato deciso dal coraggio che il partito, minato da burocratismo e dagli elementi sulla via capitalistica, avrà nel mobilitare le masse, nel dargli l’iniziativa. Il punto quattro era un grido di incitamento a «liberarsi dalla paura ! Non temere i disordini ! Le masse possono liberarsi soltanto da sole», bisogna rispettare il loro spirito di iniziativa, il loro spirito critico, non temere i disordini, i giornali murali, i grandi dibattiti per discutere, le denunce.
Il punto cinque, prudentemente, limitava al 5% dei quadri e delle masse la quota dei nemici da combattere: «concentrare tutte le forze per colpire il pugno di elementi di destra borghesi ultrareazionari e i revisionisti controrivoluzionari».
Il punto sei era un invito alla calma, al ragionamento. Non è permesso usare coercizione o forza per sottomettere la minoranza che deve «essere protetta, perché a volte la minoranza ha ragione». Bisogna esporre i fatti, ragionare sulle cose, persuadere attraverso il ragionamento. Punto che secondo taluni critici non fessi, aveva lo scopo di proteggere le forze maoiste nelle province dove erano ancora delle minoranze.
Il punto sette chiariva che «nel corso del movimento, solo i controrivoluzionari attivi e colpevoli di delitti, di sabotaggi, di furti di segreti di Stato vanno trattati secondo la legge», mentre nessuna misura deve essere presa contro studenti e professori a causa dei problemi che sorgono nel movimento. Viene proibito l’incitamento alla lotta fra le masse,le une contro le altre.
Il punto otto suddivideva in quattro categorie i quadri di partito. Quelli “buoni” o “relativamente buoni” costituiscono la grande maggioranza; coloro che hanno sbagliato per buona fede, inefficienza, routine, si correggeranno per l’azione della Rivoluzione Culturale; gli altri, i “destri antipartito e antisocialisti” verranno «smascherati, colpiti duramente, rovesciati, completamente screditati. La loro influenza deve essere eliminata, ma bisogna pur tuttavia lasciar loro una via di uscita».
Gruppi o comitati per la Rivoluzione Culturale guideranno il movimento che si svolgerà per un periodo di tempo molto lungo. Questi gruppi – in stretto contatto con il partito – avranno un carattere di massa permanente. Scuole, organizzazioni governative, fabbriche, miniere, imprese, villaggi avranno questi comitati, i cui membri, eletti da tutti, saranno revocabili in qualunque momento. Così suonava il punto nove.
Sarà questa costituzione di gruppi o comitati un futuro spinoso problema per il regime di Pechino che dovrà, negli anni a venire, fare i conti con questa gerarchia di gruppi per la Rivoluzione Culturale esistente in maniera parallela a quella collaudata degli organismi del partito; ora, se nell’agosto 1966, i maoisti vollero questo “dualismo» per limitare la vasta opposizione dei quadri di partito, nel tempo questa situazione determinerà un pericoloso allentamento dell’intero apparato statale che si troverà con una autorità divisa, a tutto discapito dell’indispensabile centralizzazione.
Le masse, tanto invocate, diverranno incontrollabili dagli stessi gruppi della Rivoluzione Culturale, e una nuova gerarchia, non indebolita dalla contesa politica, dovrà impedire lo smembramento dello Stato centrale, la cui struttura verrà scossa non solo dalle lotte politiche delle fazioni del PCC ma da potenti lotte sociali di masse enormi di uomini: sarà, anticipiamo, la gerarchia del fucile, l’EPL.
Il punto dodici era oltremodo caratteristico del sottofondo nazionale della Rivoluzione Culturale, scontro tra diverse politiche di sviluppo borghese della Cina. Gli uomini di scienza, il personale scientifico e tecnico di qualità (cioè proprio la crema dell’intellighenzia borghese che si pretendeva combattere) deve essere rispettato purché non siano loro stessi ad opporsi al partito ed al socialismo.
Altrettanto interessante era il punto quattordici. La riforma intellettuale, morale, ideologica, deve ottenere «risultati maggiori, più rapidi, migliori e più economici in ogni settore del lavoro». Liberato il partito dalla mentalità burocratica, mobilitando pienamente le masse, il fervore rivoluzionario deve stimolare l’intera produzione («Fare la rivoluzione e promuovere la produzione»), con la partecipazione delle masse che è la migliore garanzia dell’aumentata produttività della forza lavoro («La Grande Rivoluzione Culturale Proletaria è una potente forza motrice delle forze sociali produttive del nostro paese»).
Nuovamente, con il puntare tutto sulle capacità produttive delle masse, si imponeva l’assoluta eguaglianza fra cittadini, proprio perché è più facile accettare l’austerità se tutti i cittadini sono uguali per condizioni materiali, se il livello di vita è uniforme. Di conseguenza si ritornava ad esaltare il lavoro manuale, la vita nelle campagne, la semplicità (puritana, per usare un termine occidentale) dei costumi, la frugalità, la condanna del lusso.
Politica ed atteggiamenti che erano il chiaro risultato di una società molto povera, in cui ogni minima ineguaglianza – inevitabile in ambiente mercantile in formazione – assurgeva ad estremo “sopruso”, e che poggiavano sui potenti avvenimenti storici degli anni 1930-40 in cui il PCC, dopo la tragica sconfitta della rivoluzione proletaria nelle città a cui tutto e tutti concorsero, era sopravvissuto ed aveva riportato la vittoria militare finale poggiando su una armata di contadini analfabeti ed ignoranti che più volte lo aveva costretto a decisioni e vigore non voluti.
Mentre il finale punto sedici non era che uno stucchevole ditirambo sull’infallibilità di Mao, tanto che si vedrà che anche i maggiori accusati si definiranno i migliori interpreti del pensiero maoista, il precedente punto undici niente lasciava a romantiche e poetiche pose.
Con secche parole, le forze armate sono poste sotto la Commissione Militare del CC e del Dipartimento Politico dell’EPL, soli organi designati a dirigere la Rivoluzione Culturale fra i militari. Lo stesso Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale del CC viene estromesso e la Commissione Militare rimane garante che le Guardie Rosse non avrebbero minato le gerarchie militari; altro segno che in quel decisivo momento di lotte politiche la struttura militare aveva si appoggiato una delle due fazioni in lotta ma, prudentemente, aveva reciso la sua totale originaria subordinazione al Partito-Stato.
Il 12 agosto, in un clima di misticismo e di fanatica esaltazione del grande Mao, lo storico Plenum si concluse con un’apparizione pubblica del vate e con una sua banalissima frase: «Preoccupatevi degli affari dello Stato, portate fino in fondo la Rivoluzione Culturale proletaria» che sarebbe stata diffusa in tutta la Cina come il pronunciamento di un oracolo infallibile.
Ma a parte le scenografie ad effetto, che allora ed oggi sciaguratamente attraggono le giovani generazioni anche proletarie, la Rivoluzione Culturale era appena agli inizi. Se la sorte dei maggiori uomini dell’apparato – da Liu Shaoqi a Chen Yun – era nell’agosto del tutto compromessa, rimaneva l’intera struttura del partito nelle disperse province e regioni da guadagnare alla politica maoista, struttura riottosa e a suo modo fedele a Liu ed a Deng perché fedele alla gerarchia e all’ordine.
L’EPL stesso, anche se fino a quel momento aveva seguito Mao e Lin Biao, era insufficiente e numericamente inadatto a compiti di amministrazione civile dell’immenso paese, senza contare che le figure del Maresciallo Peng Dehuai e del Generale Luo Ruiqing avevano molti sostenitori nelle altre gerarchie militari.
Nelle province e regioni, la politica maoista non poteva quindi affidarsi unicamente, a cuor leggero, alle guarnigioni locali ma doveva guadagnarsi l’appoggio di buona parte dei quadri di partito, non a caso considerati per il 95% buoni o relativamente buoni. Lo storico Plenum pertanto, anziché chiudere la contesa politica non faceva altro che generalizzarla.
Sei giorni dopo la chiusura dell’XI Plenum, la Rivoluzione Culturale mostrava all’attonita opinione pubblica mondiale la sua prima spettacolare manifestazione che segnava altresì il primo chiaro risultato della lotta politica svoltasi nei mesi passati.
La direzione del partito si presentò in nuovo ordine, con dirigenti promossi che avanzavano, altri che retrocedevano, altri ancora che non comparivano neppure. Era il risultato del difficile e non decisivo, per l’evolversi della lotta politica, XI Plenum che rimaneggiò l’interna gerarchia del PCC.
Mao, stella solitaria ed irraggiungibile era seguito da Lin Biao, Zhou Enlai, Tao Zhu, Chen Boda, Deng Xiaoping, Kang Sheng, Liu Shaoqi (precedentemente al secondo posto della gerarchia) e dal vecchio Maresciallo Zhu De che scivolava dal quarto al nono posto.
Dai resoconti di stampa si poté apprezzare anche le modifiche del vecchio Politburo: ne uscivano Liu Shaoqi, Zhou Enlai, Zhu De, Deng Xiaoping, Peng Zhen, Peng Dehuai, Liu Bocheng e Li Jingquan; era clamorosamente promosso Tao Zhu ed entravano nel massimo organo, Nie Rongzhen, Ye Jianying, Xu Xiangqian (tutti e tre marescialli), Li Xuefeng e Xie Fuzhi, generale e Ministro di Pubblica Sicurezza. Conservavano il loro posto i discussi Chen Yun, Bo Yibo, He Long e Tan Zhenlin, la cui presenza era il sintomo più evidente che alla fine un compromesso c’era stato, anche per la necessità del regime di mostrare alle masse un’unità degli organi dirigenti. Oltre a Lin Biao, ormai definito come “Il più vicino compagno di Mao”, erano in chiara ascesa Chen Boda e Kang Sheng, mentre l’influenza di Liu e Deng era in netto declino.
La manifestazione ebbe un carattere essenzialmente militare, con il gruppo dei massimi dirigenti di Partito e di Stato in uniforme, e con il milione di Guardie Rosse che sfilavano inquadrate in compagnie e battaglioni veri e propri. Tutto era marziale, tutto riandava alle passate lotte eroiche ed epiche del PCC, in cui potere politico e potere militare erano un tutt’uno, con il primo anzi che dipendevano dal secondo, tanto che l’esercito aveva garantito ed assicurato la vittoria di Mao, prima all’interno del PCC, poi contro il Generalissimo. La rievocazione, anche l’appellativo Guardie Rosse era preso dagli anni Venti, doveva infondere alle masse coraggio, vigore e spirito di sacrificio, questa volta non per i destini nazionali e borghesi della grande Cina ma per la conduzione della Rivoluzione Culturale e per gli obbiettivi produttivi.
Ad altro scopo la rievocazione doveva servire: se da una parte si screditava l’apparato di Partito, costantemente accusato di aver concesso posti chiave a “mostri” ed a “geni malefici”, dall’altro era necessario innalzare il prestigio del puro e fedele a Mao, Esercito di Liberazione, il cui schierarsi aveva probabilmente tutto deciso, e che i fatti di nuovo chiamavano a importanti compiti politici e civili, esattamente come negli anni Trenta. Non secondariamente, tutto serviva a dare carisma e prestigio al Ministro della Difesa Lin Biao che si voleva al secondo posto nella gerarchia ma pure di scarsa personalità di fronte ai dirigenti che rinculavano.
Il discorso principale fu naturalmente tenuto dall’insipido Lin Biao, a cui fece da contraltare un più lucido Zhou Enlai mentre il simulacro Mao – con il bracciale rosso recante la scritta a caratteri gialli “Hong Wei Bin”, rigido ed inespressivo, contemplava la fiumana umana scorrere e rendere omaggio al grande Uomo immobile.
Mentre Lin Biao lanciò appelli alla battaglia ed alle epurazioni: «Noi abbatteremo quelle autorità che hanno imboccato la via capitalistica, i dirigenti controrivoluzionari borghesi che si oppongono con ogni loro atto alla rivoluzione, noi annienteremo tutti i fantasmi e mostri. Noi sradicheremo con la forza tutte le vecchie idee, la vecchia cultura, i vecchi costumi, le vecchie abitudini delle classi sfruttatrici (...) noi spazzeremo via tutti i vermi e sgombereremo tutti gli ostacoli»; Zhou Enlai sarà molto meno barricadero e comiziale: «Il presidente Mao ci ha insegnato che per fare la rivoluzione dobbiamo contare sulle nostre forze. È da noi stessi che dobbiamo educare, liberarci e condurre la rivoluzione. Tutti i rivoluzionari devono servire il popolo corpo ed anima, divenire suoi servitori, essere allievi delle masse prima di essere suoi professori. Devono opporsi risolutamente a chi si tiene al disopra di esse e le comanda alla cieca».
Le chiare differenze di tono, più che risultato delle diversità fra le due personalità, erano certamente il riflesso nella testa degli oratori dei difficili quesiti con i quali si trovava a fare i conti la Rivoluzione Culturale. Stringiamo: il ritorno definitivo ad una politica di mobilitazione sociale si potrà avere senza prima sbarazzarsi di buona parte dell’apparato di Partito e di Stato ? E se a questo bisognerà arrivare, ciò non minerà l’unità statale della grande Repubblica gialla ?
Questi tredici giorni, fra la prima e la seconda grande manifestazione di Guardie Rosse, furono il primo atto della lunga recita di quelle organizzazioni studentesche sorte, sembra spontaneamente, poche settimane prima. Apparse nella scuola media dipendente dell’Università Qinghua, le Guardie Rosse si estesero rapidamente nelle scuole medie e nelle Università della capitale, per poi interessare tutte le città. Il nome era chiaro indice del tentativo di rievocare il passato, dalle Comuni di Shanghai e Canton, alle “basi rosse” nella Cina Meridionale, e soprattutto era dimostrazione del fascino dell’Esercito che imponeva modelli paramilitari e marziali. Anche altra terminologia ricordava la vita militare: a partire dagli ultimi giorni di agosto furono istituiti “Comandi” o “Quartieri Generali” per coordinare l’azione dei vari gruppi di Guardie Rosse denominatisi “truppe” o “reggimento”.
Inizialmente, le Guardie Rosse riguardavano solo gli studenti ed il solo criterio valido per entrarvi riguardava l’estrazione sociale del candidato. Potevano essere Guardie Rosse i figli di contadini poveri o medio poveri (classificazione fatta con i primi movimenti di cooperativizzazione), di lavoratori manuali, di quadri rivoluzionari, di soldati e di martiri della rivoluzione; in seguito, il criterio di ammissione sarà più permissivo e le Guardie Rosse inquadreranno impiegati statali, amministrativi e commerciali, infine si confonderanno con la pletora di organizzazioni di “ribelli rivoluzionari” che inquadreranno invece, spesso, solo operai dell’industria.
Due giorni dopo la manifestazione oceanica del 18 agosto, Pechino è il grande teatro delle Guardie Rosse a cui Polizia e Stato cedono piazze e strade. Nella mattinata del 20, con giornali murali le Guardie Rosse ordinano di distruggere in una settimana tutti i resti del passato borghese e di quello feudale. Era l’inizio di vasti disordini, con squadre di Guardie Rosse che si accanirono contro ex borghesi, insegnanti, intellettuali e quadri spesso molto alti di Partito e di Stato.
Squadre volanti a piedi o in bicicletta, accompagnati da una scenografia di tamburi e di gong, provocarono e picchiarono tutti coloro che si discostavano dalla massa per abbigliamento od altro. I dazibao vietavano infatti le “permanenti”, i capelli lunghi stile Hong Kong, i pantaloni stretti. Gruppi di giovani, accompagnandosi con l’immancabile ritratto di Mao, eseguirono accurate perquisizioni distruggendo qualsiasi cosa che ricordava il passato o l’occidente: libri, dischi, oggetti d’arte, foto familiari, archivi e documenti privati. L’ondata spazzò via ogni piccolissima manifestazione di frivolezza o di lusso. Sospesa ogni vendita di prodotti occidentali e di antichità, venne ingiunto ai negozi che vendevano articoli per matrimonio e da regalo di cessare la loro attività; sorte simile toccò ai negozi ed ai privati che vendevano fiori, pesci rossi, gabbie per uccelli, piccioni; per quelli che vendevano bare e abiti per i morti l’ingiunzione di cessare l’attività era accompagnata dall’ordine di consegnare il legname alle fabbriche che lavoravano il legno.
Altri negozi furono costretti a cambiare il loro nome con appellativi rivoluzionari: ristoranti, sarti, fotografi, librerie d’occasione vennero addobbati con manifesti minacciosi, mentre tutti gli spacci di vino e molte case da tè furono messe sotto sigillo.
Professioni “sconvenienti” come pugili, espositori e venditori di immagini, narratori comici, cantanti con tamburello, furono proibite, e spesso chi le esercitava fu costretto a ritornare nelle campagne.
Anche le testimonianze architettoniche del passato subirono l’azione distruttiva delle Guardie Rosse che si sfogarono contro le facciate decorate e scolpite delle case, contro statue, tegole colorate, tradizionali draghi e leoni di pietra.
Il 22 agosto, le Guardie Rosse si dirigevano verso le tre ultime chiese di Pechino che, spogliate e saccheggiate di mobili e ornamenti, vennero chiuse al culto. Saccheggi e distruzioni colpirono pure moschee, tempi taoisti e buddisti della capitale e dei dintorni.
Xenofobia e nazionalismo caratterizzarono poi le manifestazioni contro le poche religioni straniere che allora vivevano a Pechino, fustigate e umiliate pubblicamente, come anche la devastazione del cimitero occidentale.
Le manifestazioni dei giovani ebbero subito l’appoggio del “Quotidiano dell’Esercito”, della rivista “Bandiera Rossa” e, infine del “Jenmin Jihpao” che il 23 agosto, con l’editoriale titolato “È bello”, affermava:
«Le Guardie Rosse, le “Squadre combattenti della Bandiera Rossa” e altre organizzazioni del genere create dagli studenti rivoluzionari sono delle organizzazioni legali in regime di dittatura proletaria. Le loro sono azioni rivoluzionarie, cioè legali. Chiunque contrasti le azioni degli studenti rivoluzionari contravviene agli insegnamenti del presidente Mao e alle decisioni del CC».
Nello stesso giorno, veniva diffuso, a ulteriore sostegno dell’azione delle Guardie Rosse, il dazibao stilato da Mao il 5 agosto passato, durante lo svolgimento dell’XI Plenum, dall’esplicito titolo: “Fuoco sul Quartiere Generale”, in cui il placido e immobile presidente dava ulteriori colpi ad “alcuni compagni dirigenti”, accusati di avere una posizione reazionaria, di aver instaurato una dittatura borghese, di voler abbattere il nascente movimento della grande rivoluzione del proletariato.
Il proletariato era però, nonostante Mao e l’agitarsi delle Guardie Rosse, in assoluta calma, pensosamente ammirava e studiava la bufera che si abbatteva sugli strati medi urbani, già colpiti dal regime durante il movimento dei “Cento fiori”, nel 1957-58.
Il proletariato notava che le insegne dei quartieri, delle strade, erano cambiate, come cambiati erano i nomi delle fabbriche e delle officine in cui giornalmente si recava a faticare e sudare. E questi piccoli cambiamenti, che mandavano in brodo di giuggiole giovani inesperti e studenti, non ispiravano né entusiasmo né fiducia, visto che le Guardie Rosse niente dicevano sullo sfruttamento di fabbrica ma testardamente si accanivano sui più piccoli e miseri lussi e consumi, atteggiamento che faceva riandare agli appelli morali del 1958-59 che avevano preteso fatiche e fatiche dalla classe lavoratrice, fatiche che non potevano certo essere dimenticate con la richiesta delle Guardie Rosse di un sistema di custodia gratuito delle biciclette !
Violenze e distruzioni si placarono una settimana dopo, il 28, quando ufficialmente l’editoriale del “Jenmin Jihpao” invitava le Guardie Rosse alla calma e alla disciplina, a “convincere”, a “non battere” sia che si trattasse di sconfiggere un gruppo di controrivoluzionari, sia che si trattasse invece di dirimere i contrasti fra i vari gruppi di Guardie Rosse.
Anche se gruppi di studenti cominciarono una capillare predicazione di moderazione, gli incidenti – pur diminuendo, continuarono fino alla seconda grande manifestazione delle Guardie Rosse, il 31 agosto.
Così l’editoriale del “Jenmin Jihpao”, il 29 agosto, “Omaggio alle nostre Guardie Rosse” descriveva la settimana di passione di quegli eroi semiseri all’assalto di mostri e vampiri:
«Nell’assalto alle posizioni
avversarie, le Guardie Rosse giocano un ruolo di punta (...) Niente
resiste al ferro della loro azione. Esse hanno battuto i mostri, i
costumi e le abitudini di tutte le classi sfruttatrici. Tutti gli
elementi parassitari celati negli anni in numerose posizioni non
riusciranno a sfuggire al loro sguardo penetrante.
«Questi vampiri, questi nemici del
popolo sono adesso presi per il colletto, gli uni dopo gli altri, dalle
Guardie Rosse. L’oro, l’argento, i gioielli e le altre ricchezze che
nascondevano sono stati mostrati in pubblico da queste ultime. I
registri segreti e le altre carte che conservavano nella speranza di un
cambiamento della situazione, le armi che nascondevano per disegni
criminali, tutto questo è stato sequestrato dalle Guardie Rosse
e
mostrato in pubblico. Queste sono le imprese meritorie di questi
giovani combattenti».
Nemmeno tre anni passeranno e queste imprese meritorie saranno belle e dimenticate, come anche tutti gli ori e gli argenti ed i denari sequestrati non faranno fare un passo avanti alla formazione di una moderna e diffusa industria nazionale come nella proletarizzazione delle campagne, ben altre risorse necessitava e necessita l’accumulazione e riproduzione capitalistica dei magri risparmi delle classi medie urbane.
Il 31 agosto si ha la seconda grande riunione con 500 mila Guardie Rosse; Mao arrivò con la prima macchina del corteo insieme a Lin Biao, He Long, Xie Fuzhi, Yang Chengwu, mentre gli altri dirigenti vengono così elencati: Zhou Enlai, Tao Zhu, Nie Rongzhen, Jiang Qing, Deng Xiaoping, Kang Sheng, Liu Shaoqi, Chen Yi, Zhu De, Li Fuzhun, Chen Yun, Dong Biwu, Ye Jianying, Xiao Hua, Wang Renzhong, Liu Wenzhen.
I due discorsi principali, come per la prima occasione, sono sempre di Lin Biao e Zhou Enlai.
Il primo ribadì che, seppur con il ragionamento e non con la forza, andavano attaccati coloro che, dopo essersi infiltrati nel Partito, avevano posizioni di potere pur seguendo la via capitalistica, dichiarazione che anticiperà i primi scontri fra Guardie Rosse e sostenitori delle organizzazioni di Partito nelle Province, quelle di Shanghai e Canton in testa.
Il secondo non si limitò a chiedere e pretendere una “lotta ragionata”, ma senza paure espose la necessità del regime che le sciamanti Guardie Rosse divenissero una semplice armata di riserva del disciplinato e compatto EPL:
«La nostra guardia rossa è organizzata sull’esempio dell’EPL. Mettersi alla scuola dell’EPL è la parola d’ordine militante delle Guardie Rosse (...) Esse devono ispirarsi allo stile di lavoro “tre otto” dell’EPL, osservare le tre grandi regole di disciplina e le otto raccomandazioni, proteggere gli interessi delle masse, difendere i beni dello Stato e creare una nuova atmosfera, sana e socialista. Le Guardie Rosse devono diventare un distaccamento di lotta avente una coscienza politica elevata e un senso acuto della organizzazione e della disciplina. Esse devono essere un’armata di riserva dell’EPL».
Il discorso di Zhou segnerà poi l’appoggio del regime agli spostamenti di studenti nell’immenso paese possibili alla sola condizione che lo Stato assicurasse le spese di trasporto, di alloggio e di approvvigionamenti, oltre a permettere la migrazione dalla località di residenza.
«In questo momento – continuerà Zhou – studenti di varie regioni del paese stanno venendo a Pechino per uno scambio di idee e studenti di Pechino vanno in altri luoghi per stabilire legami rivoluzionari. Noi pensiamo che questa sia un’ottima cosa. Vi appoggiamo. Il CC del Partito ha deciso che tutti gli studenti universitari e i rappresentanti degli studenti delle scuole medie di altre parti del paese devono venire a Pechino, gruppo dopo gruppo, in tempi stabiliti (...) Siamo certi che l’azione rivoluzionaria di creare contatti su scala nazionale spingerà energicamente la grande Rivoluzione Culturale proletaria a svilupparsi in profondità».
Decisioni queste che sono il migliore epitaffio di pieno fallimento della teoria maoista, presentata e spiegata allora dal segaligno Lin Biao: dai proclami sulle campagne che devono accerchiare le città non si passa nemmeno alle città che si prendono la lor brava rivincita nei confronti delle campagne, ma, scomparse le figure dei contadini e dei cittadini, si erge a protagonista lo studente che dalla Pechino capitale marcia verso le altre città saldamente in mano alle figure dei burocrati, marcia che per l’assoluta impermeabilità delle campagne, sorde a qualunque sollecitazione, sarà sostenuta dal soldato, cioè dallo Stato centrale.
Niente quindi cambia il riconoscere che gli studenti erano “spontanei” e sinceri; la lotta politica era iniziata come scontro fra forze statali e questo carattere rimarrà finché il proletariato cinese non farà sentire – è solo questione di mesi – la sua ingenua, ma possente e terrificante voce, allora, solo allora, ogni artificiosa barriera alla lotta politica sarà infranta e la questione sociale per un attimo brillerà di vivida luce !
Dopo le prime due grandi manifestazioni di Guardie Rosse, intermezzate dalla settimana e più di disordini, la capitale Pechino vide quasi placarsi la lotta politica che si irradiò invece verso le Province.
Rispettando il compromesso seguito all’XI Plenum, anche se il Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale presieduto da Chen Boda appariva sempre più attivo, raramente quelli che saranno i suoi futuri irriducibili avversari, da Liu Shaoqi e Deng Xiaoping, verranno criticati ed attaccati. I due schieramenti quasi si studiarono, e tutte le critiche e le offese delle Guardie Rosse come della stampa si limitarono ad infierire sulla sconfitta banda dei “mostri” di Peng Zhen e Luo Ruiqing. Anche l’importante sessione allargata del CC che si terrà dal 5 al 25 ottobre 1966, rispetterà questo clima di “moderazione” e di “persuasione” che momentaneamente si era instaurato fra i rimasti vertici dell’apparato, tanto che Mao in un certo modo difese Liu e Deng «Non possiamo gettare tutto il biasimo sul compagno Xiaoping. Loro hanno alcune responsabilità, ma anche il Centro ne ha. Il Centro non ha diretto le cose correttamente» dirà Mao, il 25 ottobre, e Liu aveva preso l’occasione per una prima cautissima autocritica.
Questo clima di compromesso al vertice si volatilizzerà quando, il 23 novembre, le Guardie Rosse inizieranno la campagna contro Liu spregiativamente etichettato come il Kruscev cinese, quando nel novembre la Rivoluzione Culturale si stava estendendo in tutte le città e province, con le Guardie Rosse che iniziavano a scontrarsi con le organizzazioni locali di Partito e, soprattutto, quando cominciarono ad entrare in scena i primi gruppi operai.
Come già annunciato da Zhou Enlai il 31 agosto, per “sviluppare in profondità” la Rivoluzione Culturale il CC aveva deciso di permettere e sviluppare fra la capitale e le altre città un flusso continuo di Guardie Rosse, “scambio di esperienze” verrà chiamato questo flusso.
Questo sciamare delle Guardie Rosse e questo resistere dei Comitati locali di Partito impone un importante rilievo; l’evolversi della lotta politica al vertice di Partito e Stato aveva determinato la rottura degli stretti legami esistenti fra Pechino ed i Governi delle Amministrazioni provinciali e locali, rottura che non poteva certo essere neutralizzata con la centralizzazione che Pechino cercava di dare alle Guardie Rosse fornendole, dal settembre 1966, di capi ed istruttori provenienti dall’EPL e dal suo Dipartimento Politico, nel tentativo – invero difficile – di coordinarne le attività facendone una dipendenza dell’Esercito, come ottimisticamente ed avventatamente aveva proclamato Zhou Enlai il 31 agosto.
Mentre da Pechino si irradiavano verso le altre città gruppi di Guardie Rosse, movimento che superò le diverse migliaia di individui, un movimento inverso si ebbe per Pechino, meta degli spostamenti delle Guardie Rosse delle Province per la presenza del Grande Timoniere.
I viaggi per la capitale furono prima spontanei poi organizzati e, nonostante il caos che causarono sulla debole rete ferroviaria, resi gratuiti con disposizione centrale.
Il pellegrinaggio nella mitica capitale che si concludeva il più delle volte con sfilate oceaniche o con comizi nel grande Stadio circolare del Club operaio, servì ai vari gruppi di Guardie Rosse per stabilire contatti costanti e continui con gruppi affini e coinvolse una massa di circa 13 milioni di giovani, tutti gli studenti universitari e degli istituti superiori, delegazioni delle altre scuole inferiori e prime delegazioni di impiegati e operai.
Nel periodo fra l’agosto ed il novembre si stimarono in 2 milioni le Guardie Rosse stabilitesi in Pechino che vide aumentare la sua popolazione del 50%. Alloggiati sommariamente in scuole, giardini pubblici, costruzioni improvvisate, accampati all’aria aperta, i giovani alfieri della Rivoluzione Culturale suscitarono subito il sordo malcontento della popolazione della capitale che vedeva gli approvvigionamenti alimentari non riuscire a far fronte all’accresciuta popolazione ed il sistema del trasporto pubblico del tutto sconvolto per le molte requisizioni di autobus.
Questa grande migrazione interna, certe fonti valutarono in decine e decine di milioni di individui il totale degli sciamanti, determinò un risultato forse non voluto da nessuno: l’inflessibile verifica delle informazioni, i rigidi controlli che rendevano impossibile la conoscenza di fatti e persone di altre regioni e città, erano infranti. Aumentava sì il prestigio di Mao e di pochi altri dirigenti, ma diminuiva o crollava addirittura il prestigio di riconosciuti uomini delle istituzioni, pubblicamente attaccati e talvolta derisi ed umiliati dalle difficilmente inquadrabili Guardie Rosse. Queste avevano di nuovo sospinto in primo piano Mao ed i suoi che avevano prevalso nei confronti dei loro avversari per l’azione discreta e silenziosa dell’EPL, ma con il diminuire del prestigio della vasta schiera degli oppositori di Mao, quasi si liquefaceva la forza “morale” delle istituzioni repubblicane, fatto che non avrebbe mancato di avere conseguenze riguardo le fabbriche e l’azione degli operai, fino adesso fuori dalla mischia.
Il titolo del dazibao di Mao esprimeva bene la principale linea direttrice della Rivoluzione Culturale: si doveva vincere “un pugno di alte autorità”, far cedere le resistente nel Politburo e nel CC, epurare e riorganizzare i Comitati di Partito delle ventuno province, delle cinque regioni autonome e delle due, allora, municipalità speciali. Il “bombardamento” doveva limitarsi all’apparato superiore di Partito, non scalfire la precisa organizzazione dei 2.117 Distretti, meno che mai turbare l’andamento della vita produttiva dell’immenso paese. Il “bombardamento”, per evitare spinte decentralizzatrici, avrebbe dovuto poggiare sulla solida base dell’autorità morale di Mao e dell’intero CC come corpo costituito, autorità ambedue da conservare e da alimentare costantemente.
La critica proveniente dalle masse doveva avere il solo scopo di permettere questa epurazione ai vertici, questo secondo le intenzioni di Mao e dei suoi. Se questa era la principale direttrice, subito importanti differenziazioni apparvero fra i protagonisti, incalzati dagli avvenimenti.
Se Zhou Enlai, Chen Yi, Li Xiannian saranno fra coloro che più richiederanno moderazione e prudenza, Chen Boda, Kang Sheng e Jiang Qing saranno invece fra coloro che continuamente richiederanno la massima estensione e la massima velocità nel processo di epurazione.
Zhou Enlai, pratico e duttile per resistere alla bufera, si farà scudo immancabilmente con il “programma in 16 punti” dell’8 agosto che, come abbiamo visto, conteneva di tutto; sarà lui ad insistere in ogni discorso sulla necessità che il “bombardamento” si limitasse al Quartier Generale, sarà lui che, sottilmente ed a più riprese, farà notare che l’espressione “bombardamento” non significava distruggere la struttura degli organi superiori ma solamente colpire certi quadri, e che non tutti coloro che avevano sbagliato erano da classificare come controrivoluzionari, di questi essendo una parte – così recitava il “programma in 16 punti” – recuperabili. Sempre Zhou tenterà di disciplinare le Guardie Rosse qualificandole come “riserva dell’EPL”, di cui andavano apprese le virtù e le capacità.
Ma la preoccupazione principale di Zhou sarà quella di salvaguardare l’andamento produttivo, già minato dal soffocamento della indispensabile e cronicamente insufficiente rete di trasporto, costretta a sobbarcarsi gli spostamenti di centinaia di migliaia di Guardie Rosse.
Già il 15 settembre, alla terza grande sfilata di un milione di Guardie Rosse, Zhou senza abbellimenti esclamerà:
«La grande rivoluzione culturale proletaria mira a trasformare l’uomo in ciò che egli ha di più profondo e anche a promuovere la produzione sociale (...) Far progredire nel modo migliore la produzione industriale e agricola, riveste una grande importanza. A ciò sono legati l’edificazione socialista del nostro paese, il III Piano quinquennale, la vita della popolazione urbana e rurale e la grande rivoluzione culturale proletaria»; per poi innalzare un vero e proprio inno delle virtù produttive delle masse: «Le larghe masse degli operai, dei membri delle Comuni popolari, del personale scientifico e tecnico e dei quadri degli organismi e delle imprese devono mantenersi fermamente ai loro posti nella produzione, scegliere opportunamente l’anello della produzione e porre l’ardore irruento, che avrà fatto nascere in loro la rivoluzione culturale al servizio della produzione nazionale e della sperimentazione scientifica».
Ed è qui che dobbiamo soffermarci, non sui caratteri folcloristici ed eccitanti perché spettacolari, per fissare in maniera indiscutibile i caratteri reali di una Rivoluzione che tutto pretendeva cambiare. È l’atteggiamento del regime e delle Guardie Rosse nei confronti della classe lavoratrice che rivela il carattere di classe di ciò che stava accadendo. Come nel 1949 il carattere borghese, non socialista, del costituirsi della Repubblica Popolare Cinese risaltava in maniera cristallina dai solleciti inviti del nuovo Stato agli operai, perché questi continuassero a lavorare “come loro abitudine”; ugualmente nell’agosto-settembre 1966, appena la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria inizia la sua trionfale marcia è sua cura lanciare appelli perché gli operai ed i contadini continuino “come loro abitudine” ad accudire alla produzione, o, come dirà Mao il 7 settembre per gli incidenti fra Guardie Rosse ed operai e contadini a Qingdao, Changsha e Xian: «pubblicate degli editoriali per dire agli operai e ai contadini di non interferire più nei movimenti studenteschi».
Ed infatti editoriali di tal genere si ebbero sul “Jenmin Jihpao” sia il 7 che il 15 settembre, ambedue ispirati al principio; “fare la rivoluzione e promuovere la produzione”, il primo compito degli studenti, il secondo delle mani callose operaie.
Ancora Zhou Enlai dirà, sempre sulla stessa onda, il 15 settembre: «Compagni e studenti, al fine di facilitare lo sviluppo normale della produzione industriale e agricola, le Guardie Rosse, gli studenti degli istituti superiori e secondari non devono andare ora nelle officine, nelle imprese, negli organismi al di sotto del livello distrettuale e nelle Comuni popolari per stabilire dei contatti rivoluzionari. La rivoluzione deve essere fatta tappa per tappa in modo pianificato (...) Le fabbriche e le regioni rurali non possono avere delle vacanze come gli istituti d’insegnamento e interrompere la produzione per fare la rivoluzione (...) La stagione dei grandi lavori di raccolta e di semina d’autunno è arrivata. Le Guardie Rosse, gli insegnanti, gli studenti degli istituti superiori e secondari devono organizzarsi per recarsi nelle campagne e partecipare al lavoro manuale, aiutare per la raccolta d’autunno, prendere esempio dall’entusiasmo rivoluzionario e dallo spirito laborioso di cui danno prova i contadini poveri e medi dello strato inferiore».
Ed anche se quest’ultimo desiderio di Zhou rimase inappagato, si conferma ciò che andiamo svolgendo; la Rivoluzione Culturale non voleva, e non poteva, essere altro che la conclusione di una dura lotta politica all’interno della struttura del vertice del Partito e dello Stato; tale lotta politica non era parto di ambizioni ed invidie – anche se queste hanno concorso a determinare i caratteri esteriori dell’avvenimento – ma dipendeva dai difficili problemi che si presentavano all’industrializzazione del paese ed all’introduzione del capitale nelle campagne. Doveva pertanto epurare i vertici ma non intaccare l’efficienza dello Stato (“Bombardare il Quartier Generale”), poteva scatenare le folle disponibili degli studenti ma mai e poi mai gli operai, dalle cui fatiche proveniva la ricchezza della Nazione.
Altro aneddoto significativo per ciò che andiamo svolgendo, è riportato dallo studioso Generale Guillermaz. Il 30 novembre, quando già disordini interessavano molti stabilimenti ed imprese, Zhou Enlai e Chen Yi rimproverarono aspramente dei delegati operai che si erano recati a Pechino di loro iniziativa. Il primo riaffermò che il CC doveva ancora studiare le condizioni pratiche con le quali fabbriche e miniere potevano partecipare alla Rivoluzione Culturale; il secondo – carattere più spigoloso – sbottò invece così: «Esistono 30 milioni di operai che sono le fonti di vita dell’economia e 500 milioni di contadini, se tutti venissero a Pechino, che succederebbe ? Gli studenti non hanno a carico la Nazione, possono prendersi delle vacanze per fare la rivoluzione, voi non potete !».
Sembra che Zhou Enlai, nella sua azione moderatrice, fosse appoggiato oltre che da Chen Yi anche da Li Fuzhun, Li Xiannian, Tao Zhou, Tan Zhenlin, Ye Jianying, Liu Ningyi e Xie Fuzhi, futuro grande accusato nel processo alla banda Lin Biao-Jiang Qing.
Il Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale rappresentava invece, a prescindere dalla sorte di alcuni dei suoi membri, l’ala radicale. Composto inizialmente di 18 membri, aveva come presidente Chen Boda, Jiang Qing come primo vice-presidente, Kang Sheng e Tao Zhu come consiglieri, Wang Renzhong, Wu De, Liu Zhianqian, Zhang Chunqiao, Zhang Pinghua, Zheng Jixiao, Tan Zhenlin, Liu Wenzhen. come vice presidenti, e Wang Li, Xie Tangzhong, Guan Feng, Qi Benyu, Mu Xing e Yao Wenyuan come membri.
Già però nel gennaio dell’anno a venire, Tao Zhu sarà clamorosamente eliminato da ogni vertice politico, mentre ripensamenti e contrasti avevano eliminato dal Gruppo Centrale tutti i vice presidenti, escluso l’astro nascente Zhang Chunqiao, la cui carriera politica sarà ugualmente breve.
Dove il radicalismo ? Semplicemente nel pretendere che il processo di epurazione mietesse impietosamente le sue vittime, da sacrificare perché il Partito e le masse ritrovassero il vigore di un tempo perduto.
Anche il gruppo radicale aveva in dispetto la sorte dei duri lavoratori salariati, tanto che quando inizierà la campagna contro Liu Shaoqi, nel novembre, il Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale sarà alla testa della canea piccolo borghese studentesca contro l’economicismo, cioè il miglioramento delle condizioni di esistenza che i lavoratori incominciarono a richiedere.
Fra questi due schieramenti, quasi defilato, stava Lin Biao, punta dell’iceberg-Esercito (fino al 1971 principale beneficiario della Rivoluzione Culturale), in breve tempo innalzato al rango di semidio e quindi per questo ancora più scontroso e riservato.
Ma il carattere dell’uomo poco importa; i suoi discorsi piatti, privi di passionalità anche quando promettevano battaglie cruente contro gli avversari della Rivoluzione Culturale, assolutamente privi delle paure e delle cautele di Zhou Enlai per gli effetti dei disordini sulla produzione, esprimevano appieno ciò che le forze sociali richiedevano.
Da una parte il grigio Lin Biao doveva, umilmente, essere il migliore esegeta di Mao, figura ormai astratta ma il cui mito era sempre più indispensabile per il mantenimento del prestigio dell’immobilizzato CC e per salvaguardare la stessa unità statale della Repubblica ed in questa opera di incensazione e di glorificazione la sua debole personalità era l’ottimo; dall’altra, invece, il cauto defilarsi di Lin Biao dalla contesa politica fra gruppi al vertice esprimeva la prudenza dell’intero apparato dell’Esercito che si stava avviando a rimanere l’unica struttura statale funzionante ed efficiente, in ogni angolo del paese.
Processo che alla fine avrebbe imposto all’Esercito di prendere in mano le sorti dell’intera Cina e che si svolgeva inarrestabilmente proprio quando l’esaltazione dei “movimenti di massa” raggiungevano il parossismo, quando lo stesso Lin Biao doveva coniare la formula della “grande democrazia”, così rappresentata nel suo discorso alle Guardie Rosse del 3 novembre 1966:
«La grande democrazia consiste nel fatto che il partito incoraggia senza nessun timore le masse affinché critichino e sorveglino gli organi dirigenti e i dirigenti di Partito e dello Stato a diversi livelli, con franchi e ampi dibattiti, con giornali murali a grossi caratteri, con vasti scambi di esperienze rivoluzionarie e sempre con la più ampia libertà di espressione».
La capitale Pechino, che era stata teatro nei mesi passati della sconfitta della “banda nera” di Peng Zhen, per il trimestre settembre-novembre vide quasi placarsi la lotta politica che seguì le epurazioni, le Guardie Rosse la mantenevano però meta delle grandi manifestazioni di fanatico attaccamento all’incensato Presidente.
Oltre alla manifestazione del 15 settembre, con un milione di inquadrati e nella quale parlò il solito duo Lin Biao-Zhou Enlai altre manifestazioni si tennero il 1° ottobre (1,5 milioni sfilarono, oratori sempre Lin e Zhou), il 18 ottobre (ancora 1,5 milioni di Guardie Rosse, nessun oratore), il 3 novembre (2 milioni di Guardie Rosse e di Lin Biao l’unico discorso), ed il 10-11 novembre, con Mao ed i massimi dirigenti a presiedere la parata.
Ma questa enorme presenza di Guardie Rosse non aveva determinato un incrudimento della lotta politica nella capitale, infatti, anche per lo svolgersi di una importante sessione di lavoro del CC, che si riunì dal 3 al 25 ottobre, raramente i massimi dirigenti in evidente disgrazia saranno tirati in ballo dai giovani urlanti.
Giudicando dai discorsi di Mao del 24-25 ottobre, la sessione cercò benevolmente di convincere Liu Shaoqi, Deng Xiaoping ed i loro sostenitori a piegarsi di fronte allo svolgersi della Rivoluzione Culturale; Mao allora non solo lanciò una corda di salvataggio a Liu e Deng («Dobbiamo permettere a Liu Shaoqi e Deng Xiaoping di fare la rivoluzione e di riformare se stessi»), ma, ricordando gli anni passati, ammise sinceramente che da tempo tutti gli affari quotidiani di Partito e di Stato erano in mano ai due, mentre lui Mao si era ritirato in “seconda linea”, e che solo con le ripetute bocciature del suo programma di “Movimento di Educazione Socialista” aveva capito da dove combattere il “revisionismo del Centro” facendo fulcro su altre città, visto che a Pechino, lui il grande Mao, non riusciva a “metterci uno spillo” !
Se quindi nei confronti di Liu e Deng la Rivoluzione Culturale osservò un attimo di tregua, concessa anche ad altri suoi autorevoli oppositori tipo i Marescialli Zhu De e He Long, lo stesso non accadde ai numerosi Ministri ed ai membri del CC dalla statura personale inferiore.
Apparentemente in maniera spontanea, le Guardie Rosse avevano proseguito ad attaccare autorevoli personaggi del Partito, del Governo, dei Sindacati e del malcapitato mondo della cultura con un già collaudato sistema di gradualità, dalla parafrasi anonima, all’appellativo insultante, alla designazione per nome. Quando le critiche e gli attacchi erano prematuri o troppo arditi, ci pensavano mani anonime a far sparire i manifesti affissi dalle Guardie Rosse, come accadde per i dazibao contro Li Xue-feng comparsi a Pechino il 18 ottobre e sollecitamente rimossi, o come quelli contro Tao Zhu, numero quattro della gerarchia, che subirono la stessa sorte l’11 novembre.
L’elenco dei dirigenti messi sotto accusa si allungava di giorno in giorno comprendendo sempre più le strutture più prestigiose del Partito e del Governo: Bo Yibo, prima di tutti, membro supplente del Politburo e Ministro della Commissione di Piano; Tan Zhenlin, membro del Politburo; An Ziwen, responsabile del Dipartimento Organizzazione del CC; Liu Lantao primo segretario per le Province del Nord-Ovest; Kang Feng, segretario del Gansu; Li Baohua, segretario dell’Anhui e figlio di uno dei fondatori del PCC, Li Dazhao; Hu Yaobang, allora segretario della Gioventù Comunista; erano alcuni dei tanti dirigenti tirati in ballo dalle Guardie Rosse che non si peritavano a sequestrare, processare sommariamente ed anche maltrattare vecchi quadri o intellettuali caduti in disgrazia, fino alla morte o al “suicidio” come era stato per Li Da, uno dei dodici partecipanti al primo congresso del PCC, morto per i maltrattamenti ricevuti, stessa sorte per Nan Han-ch’en uno specialista di Commercio Estero, mentre Lao She famoso scrittore umorista si suicidò annegandosi in uno stagno e Yang Hsiu-feng, ex-Ministro dell’Insegnamento Superiore, sopravvisse ad un tentativo di suicidio.
È proprio in questo periodo che appaiono sulla scena “i lavoratori dell’industria e delle miniere”, quelli per i quali, da ormai sei mesi, gli studenti e l’Esercito stavano facendo la Rivoluzione Culturale.
Infatti, insieme alle prime notizie di ricorrenti scontri fra Guardie Rosse che interessavano sia Pechino che la regione circostante, i giornali murali cominciarono a riportare quelle di scontri fra Guardie Rosse e gruppi operai nei sobborghi della grande città del Nord, scontri il cui significato verrà presto alla luce.
Una cosa però saltò subito agli occhi dei promotori della Rivoluzione Culturale: non si trattava solamente di abbattere un pugno di dirigenti incamminati sulla strada del capitalismo, ma ben di più: si trattava di ridare a tutte le componenti della società cinese il vigore borghese del 1949-53, di ricomporre il frantumato dagli eventi “blocco delle quattro classi”, e le Guardie Rosse paladine della “mobilitazione sociale” non si potevano limitare a prendere per il bavero vecchi ed indifesi quadri, ma conquistare a sé tutti gli strati della popolazione, quelli urbani e quelli rurali, impresa per la quale niente contavano le misure di polizia !
Pechino significativamente lo mostrava, con la sua popolazione che dava segni sempre più evidenti di insofferenza e di stanchezza per lo zelo e la prepotenza dei “giovani combattenti”, tanto che, nonostante le propagande, non mostrava nessuna fretta a rivoluzionare i propri usi e le proprie abitudini.
L’attento CC, prontamente il 16 novembre decise allora di interrompere i viaggi gratuiti delle Guardie Rosse verso Pechino, mantenendo la gratuità per il viaggio di ritorno, provvedimento che mirava a decongestionare il traffico ferroviario, ma anche, secondo le dichiarazioni di Zhou Enlai e di Chen Boda, conseguenza della mancanza di alloggio, di cibo e di medicine, con migliaia di Guardie Rosse che si stavano ammalando proprio quando la capitale stava per essere raggiunta dai rigori del rigido inverno del Nord.
Due giorni dopo, il 18 novembre, un “importante comunicato” del Comitato Municipale di Pechino minacciava poi “immediate e severe punizioni” per le Guardie Rosse che picchiavano e sequestravano le persone, il che non impedì nella settimana successiva, nuovi incidenti che ormai interessavano gli operai delle fabbriche.
Era ormai però nelle Province che si era spostato l’asse della lotta politica e sociale.
In tutte le Province, disordini e scontri coinvolgevano continuamente Guardie Rosse organizzate da studenti di Pechino e gruppi, spesso di operai e impiegati oltre che di studenti, organizzati dai locali Comitati di Partito, che non solo resistevano ma il più delle volte sopraffacevano i loro avversari. La tanto proclamata epurazione di un “pugno di individui” si rivelava ben più difficile delle previsioni.
Lo studioso Guillermaz fornisce una lunga nota di scontri che interessarono le principali città, da Tianjin a Xi’an a Lanchow, e praticamente in tutta la Cina. Secondo lo studioso, gli incidenti furono particolarmente gravi a Tianjin dove coinvolsero subito i Sindacati (il Segretario di quello dei cicloportatori moriva per le ferite subite), mentre il primo Segretario del Comitato di Partito della città e primo Segretario dell’Hebei, Wan Xiatang, sarebbe morto il 21 settembre per attacco cardiaco a seguito dei maltrattamenti subiti durante un assalto di Guardie Rosse alla sede del Partito; a Xi’an dove si ebbero sanguinosi scontri fra studenti di diversi istituti e nella intera Provincia dello Shandong, sempre fra studenti.
Il mese di settembre vide pertanto la prima ondata di Guardie Rosse interessare le Province, ondata che fu arginata e respinta dai Comitati di Partito; era il fallimento di uno degli obiettivi del “programma in sedici punti” dell’8 agosto, di “prendere il potere nei Quartieri Generali” che infatti, localmente, avevano resistito e sconfitto i mandati da Pechino, le Guardie Rosse.
Era un ulteriore segno dell’allentarsi della forza centripeta della Capitale e della rinata forza dei particolarismi locali, politicamente certo favoriti dal compromesso avutosi al vertice con l’eliminazione di Peng Zhen e Luo Ruiqing, ma con il mantenimento, seppur in posizione subalterna, sia di Liu Shaoqi che di Deng Xiaoping, veri capi di quella politica tutto “economicismo” e “pragmatismo” che si pretendeva sconfiggere.
Ma il fatto più rilevante di questi mesi era che, nonostante i continui appelli perché la Rivoluzione Culturale si estendesse al mondo della produzione, nelle fabbriche l’allentato controllo dei dirigenti, il fatto stesso che i Comitati di Partito organizzassero a loro difesa i primi gruppi operai, questi due convergenti fatti ebbero come conseguenza che le norme produttive e disciplinari non venivano più rispettate, e gli operai non accennavano minimamente né a fare la rivoluzione né a promuovere la produzione !
Gli operai cominciarono invece a chiedere come premio della loro entrata in scena aumenti di salario, premi di produzione, gratifiche; una ondata di scioperi – da novembre a gennaio – travolse infatti i centri industriali, i porti, le miniere, i pozzi petroliferi.
Ugualmente nelle campagne, tenute prudentemente fuori della contesa politica, dopo i grandi lavori di raccolta e semina autunnali, i contadini cominciarono a spartirsi il grano non più consegnato agli ammassi statali, i fondi comuni e le riserve di Squadre, Brigate e Comuni, qua e là si ebbero persino sporadici episodi di assalti ai depositi statali di viveri.
Operai e contadini stavano aprendo un nuovo decisivo capitolo della Rivoluzione Culturale.
I tre mesi dell’inverno 1966-67, videro la Cina sull’orlo del caos, quasi la sua stessa recente unità nazionale minacciata, con la Rivoluzione Culturale che si estendeva progressivamente agli operai e, marginalmente, alle regioni e popolazioni rurali.
Nei mesi precedenti, la Rivoluzione Culturale si era limitata a mobilitare le masse degli studenti e dei piccolo borghesi in generale. Gli operai erano rimasti organizzati nelle cellule e nei Sindacati, sotto quella burocrazia che prendeva la sua forza dalla presenza ai vertici di Liu e Deng, burocrazia che solo come estrema risorsa e con mille cautele aveva infine organizzato i suoi gruppi operai, per contrastare l’azione delle Guardie Rosse dirette da Pechino alla “conquista” dell’intera Cina.
In quei primi mesi della Rivoluzione Culturale, possiamo ben dire che la lotta politica che si dispiegava interessò e coinvolse solo forze statali (dall’Esercito, alla Polizia e alla Milizia), e masse piccolo borghesi studentesche. Furono quindi le stesse necessità della lotta politica, l’estensione e ramificazione dei due schieramenti, ad imporre che anche la temuta,da tutti, classe operaia fosse lanciata sulla scena.
Il coinvolgimento prima ed i successivi potenti scrolloni della classe lavoratrice, andarono quasi di pari passo con la campagna condotta dai maoisti contro Liu Shaoqi e Deng Xiaoping e la schiera dei loro partigiani, campagna che vide, fra l’altro, lo scioglimento della Federazione pancinese dei Sindacati, punta della burocrazia di Liu, ed una vigorosa e virulenta denuncia da parte dei teorici della Rivoluzione Culturale dell’economicismo e dell’anarchismo.
Come quegli stregoni che non riescono a controllare gli spiriti da loro stessi evocati, era successo che la classe lavoratrice non si era lasciata abbacinare dagli eclatanti proclami della Rivoluzione Culturale, aveva approfittato dello sciamare delle Guardie Rosse che avevano scardinato la soffocante struttura burocratica, ed aveva incominciato a percorrere la strada propria della difesa dei propri interessi materiali, richiedendo immediati miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro. Emblematici furono gli avvenimenti di Shanghai di cui fra breve ci occuperemo.
Si ha, pertanto, che la classe lavoratrice, più che parteggiare per uno dei due schieramenti in lotta, si oppose alla Rivoluzione Culturale sul piano delle rivendicazioni economiche, su quello della difesa dei propri interessi immediati, non certo su quello della difesa degli esistenti sindacati di regime.
Questo progressivo estendersi e radicalizzarsi delle lotte politiche e sociali, segnò l’inizio del processo di decomposizione dell’autorità e dei legami amministrativi, impose il deciso e risoluto intervento dell’EPL, la forza statale per eccellenza, unica rimasta intatta ed integra, che dovette intervenire a più riprese laddove la situazione diventava più critica, per i sanguinosi scontri fra Guardie Rosse e fra queste e gli operai.
L’EPL, pertanto, da importante comprimario dello schieramento di Mao (comprimario al quale si doveva partenza e primi risultati della Rivoluzione Culturale) era divenuto l’incontrastato protagonista e nel suo segno apparvero i primi “Comitati Rivoluzionari», organismi che cominciarono a sostituire nelle loro funzioni gli irriducibili Comitati di Partito ed i mai funzionanti Comitati per la Rivoluzione Culturale; risultato inatteso questo, perché nella visione dei suoi promotori, la Rivoluzione Culturale doveva limitarsi ad una purga interna e doveva poggiare su una stretta collaborazione fra Guardie Rosse e EPL, modello organizzativo e sostegno materiale del movimento (trasporti, comunicazioni, mezzi e uomini), senza per questo arrivare a prendere in mano le sorti dell’intera società civile.
Se i primi volantini che davano un nome ai “massimi dirigenti incamminati sulla via del capitalismo”, sono del 15 novembre (Liu è soprannominato il Kruscev cinese), è il 23 novembre 1966 che iniziò in grande stile la campagna contro i due e la loro “banda”.
Quel giorno, Pechino fu invasa da un libello di 20 pagine diretto contro Liu Shaoqi, Deng Xiaoping, Bo Yibo e Wang Guangmei; anche se due giorni dopo sia Liu che Deng assistettero, assieme a tutti gli altri dirigenti, all’ottavo raduno delle Guardie Rosse che sfilarono per Pechino disciplinatamente irreggimentate, una parata in cui significativamente nessuno prese la parola, da allora le accuse delle Guardie Rosse contro il Presidente della Repubblica e gli altri dirigenti, più o meno a lui vicini, furono continue, ossessionanti e puerili assieme.
Oltre a Liu e Deng verranno aspramente attaccati i già citati Bo Yibo e Wang Guangmei, e tutta una schiera di loro collaboratori o semplici sostenitori. Il Maresciallo He Long, l’economista Chen Yun, il mongolo Ulanhu, membri del Politburo; Deng Zihui, responsabile della Commissione agraria del CC; Tan Zheng già vice Direttore del Dipartimento Politico dell’EPL e Huang Kecheng già Capo di Stato Maggiore – due sconfitti del Plenum di Lushan; Yan Hongyan primo Segretario dell’Yunnan; Xi Zhongxun membro del CC; Jiang Nanxiang preside dell’Università Qinghua e Ministro dell’Insegnamento Superiore; Lin Feng direttore della più importante scuola di Partito, tutti questi personaggi illustri si aggiungevano alla già nutrita schiera degli accusati e degli sconfitti di una purga ormai incontrollata.
Mentre Liu e Deng venivano giornalmente attaccati ed accusati, si generalizzavano oramai nelle principali città – segnatamente a Shanghai – i primi cruenti scontri e lotte fra operai e Guardie Rosse, con morti e feriti da ambo le parti; il contraccolpo “teatrale” di questa inattesa piega si ebbe la mattina del 4 dicembre quando le Guardie Rosse irruppero nella casa dello sconfitto Peng Zhen e lo arrestarono. Stessa la sorte di Lu Dingyi, Yang Shangkun e Liu Ren.
È invece il 12 dicembre che viene finalmente reso ufficiale l’arresto, eseguito mesi prima, di Luo Ruiqing, mentre all’inizio di gennaio, nel Sichuan, le Guardie Rosse imprigionano il grande oppositore di Mao al Plenum di Lushan, l’ex Ministro della Difesa Maresciallo Peng Dehuai, ed a Canton catturano Bo Yibo.
Il 6 gennaio le Guardie Rosse fanno prigionieri Liu Shaoqi (subito rilasciato sembra per un ordine di Zhou Enlai) e la moglie Wang Guangmei, costretta ad un interrogatorio pubblico che si risolverà in un fiasco per le Guardie Rosse.
Quattro giorni dopo – siamo al 10 gennaio – come folgorante era stata la sua promozione, altrettanto improvvisa è la destituzione di Tao Zhu da tutte le sue cariche.
Il 16 gennaio, grande manifestazione per la platea di Pechino; Peng Zhen, Lu Dingyi, Liu Ren, Yang Shangkun e Luo Ruiqing e altri “revisionisti” sono insultati per ore e ore, braccia legate dietro la schiena e testa china, al grande Stadio Circolare.
Ma la messinscena, per quanto ben riuscita con passionalità e fanatismo profusi a piene mani, non può risolvere minimamente gli ardui problemi con i quali si trova a scontrarsi la Rivoluzione Culturale: ormai è nelle Province, nelle mani dei fucili dell’EPL la chiave risolutiva degli scontri che vedono protagonisti Guardie Rosse e Operai.
Se ancora il 30 novembre, Zhou Enlai aveva affermato con vigore che la “produzione” non andava sconvolta, coinvolgendo gli operai nella Rivoluzione Culturale, il rapido estendersi degli scontri fra Guardie Rosse e operai, spesso organizzati sotto le insegne dei locali Comitati di Partito (secondo la Tass nelle prime settimane di dicembre vere battaglie campali si ebbero a Shanghai e nelle principali città, con decine di morti e centinaia di feriti), così come impose l’intensificarsi della campagna contro Liu e Deng, determinerà una subitanea svolta dei dirigenti del Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale che, volenti o nolenti, dovettero momentaneamente mettere da parte ogni preoccupazione di salvaguardare la “produzione”, ricchezza nazionale.
Già il 13 dicembre, la rivista teorica “Bandiera Rossa”, allora vera portavoce degli umori dei massimi dirigenti, cercò di spiegare nell’articolo “Conseguire nuove vittorie”, gli inattesi ed esecrati scontri fra Guardie Rosse ed operai come una provocazione di un pugno di nemici: «Una caratteristica del pugno di persone che hanno l’autorità all’interno del Partito e che hanno preso la strada capitalistica, è che agiscono dietro le quinte, manipolando quelle organizzazioni di massa di studenti e lavoratori ingannati da loro, seminando la discordia creando frazioni, provocando conflitti nei quali si usa la forza o la coercizione e persino ricorrendo a vari tipi di mezzi illegali contro le masse rivoluzionarie»; poi, di indicare il modo di superare i “conflitti” che si sperava momentanei: «Condurre la lotta con il ragionamento e non con la coercizione o la forza è una delle linee più importanti della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (...) Solo insistendo nella lotta con il ragionamento, combattendo risolutamente questa gente che provoca conflitti tra le masse servendosi della forza o della coercizione è possibile attuare con sicurezza la democrazia ampia sotto la dittatura del proletariato».
Certamente, né il ragionamento né la forza riuscirono ad irrobustire l’ “ampia democrazia” che si invocava se, solo dopo tredici giorni, in piena campagna contro Liu Shaoqi ed i suoi sostenitori, fu d’imperio sciolta la Federazione dei Sindacati, misura che fu accompagnata dall’interruzione delle pubblicazioni per tre mesi del “Giornale dei lavoratori” che ne era l’organo.
E che il problema fosse molto più vasto dello sconfiggere Liu e la sua burocrazia alla testa dei Sindacati (Liu Ningyi, membro della Segreteria del CC e, dal 1958, presidente della Federazione, era da settimane nell’occhio del ciclone delle critiche delle Guardie Rosse) lo rivelava chiaramente la pubblicazione, sul “Jenmin Jihpao” sempre del 26 dicembre, delle prime direttive per estendere alle fabbriche la Rivoluzione Culturale.
L’autorevole articolo doveva confessare, prima di tutto, i successi degli oppositori del grande movimento: «Nonostante i risultati ottenuti dalla classe operaia in 17 anni, molte aziende hanno subìto influenze capitaliste, revisioniste o addirittura feudali nell’ideologia, nella direzione della produzione»; per poi baldanzosamente proclamare: «Per preservare il sistema socialista non si può più evitare di portare la rivoluzione nelle fabbriche». Decisione questa che rivelava quanto profonda ed estesa si fosse fatta la lotta scatenatasi, si poteva infatti leggere più avanti: «Con il pretesto di reclutare nuovi membri del PCC e della Lega dei Giovani Comunisti (i nemici della Rivoluzione Culturale) usano anche incentivi materiali per ingannare il popolo in modo che questi diventi la loro guardia del corpo (...) Il CC del PCC ha deciso che durante la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria nessun compagno dirigente di imprese industriali e minerarie adotti misure di rappresaglia contro le masse che lo criticano. Per la stessa ragione, non deve ridurre i salari, licenziare operai o revocare contratti di lavoratori temporanei o di quelli avventizi. Devono essere fatte azioni dirette a riabilitare alcuni membri delle masse rivoluzionarie che sono stati definiti “controrivoluzionari” durante la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Non è consentito cambiare gli incarichi dei lavoratori o minacciare o perseguire le famiglie dei lavoratori. Deve essere consentito ai lavoratori rivoluzionari che sono stati colpiti o obbligati a lasciare le fabbriche di trovarsi, di partecipare alla produzione e alla Rivoluzione Culturale. I salari di questi lavoratori, per tutto il periodo della loro assenza devono essere pagati».
La parte finale dell’importante articolo autorizzava gli operai a creare loro Comitati o gruppi per la Rivoluzione Culturale, e, nuovamente, a non rallentare la produzione, a non distruggere niente, a cessare l’uso della forza e della coercizione e ad “accogliere bene” gli studenti, interpreti primi del pensiero del vate Mao Zedong.
Le direttive del 26 dicembre trovarono una pronta conferma nell’editoriale del 1° gennaio 1967 del “Jenmin Jihpao” che confermò la decisione di interessare le aziende e le campagne con la Rivoluzione Culturale:
«I fattori più importanti di questa nuova situazione sono i seguenti: la partecipazione di un gran numero di operai e contadini alla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (...) In armonia con le direttive del presidente Mao e del CC del Partito, tenere saldamente in pugno la rivoluzione e promuovere la produzione, la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria dovrà essere portata su vasta scala nelle officine e nelle campagne per stimolare il rivoluzionamento del pensiero del popolo e promuovere l’incremento della produzione industriale ed agricola (...) Ogni argomento contrario all’estensione su vasta scala nelle fabbriche, nelle miniere e nelle campagne della Grande Rivoluzione è sbagliato».
Ed anche se l’editoriale scandiva di continuo che «se la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria si sviluppa unicamente negli uffici, nelle scuole e negli ambienti culturali, essa si fermerà a metà strada», appello che era immancabilmente accompagnato dalla sacra tesi: «soltanto la rivoluzione può promuovere lo sviluppo delle forze produttive della società», i fatti ben mostrarono la riottosità della classe lavoratrice a seguire gli scarti e gli atteggiamenti sia della Rivoluzione Culturale, che dei suoi profeti, le Guardie Rosse.
Si aveva infatti che, per l’indebolimento dell’apparato statale lacerato dalla lotta politica, incominciarono ad apparire scritti e testimonianze di quanto fosse stata dura e brutale la disciplina dello sfruttamento in fabbrica per tutti gli anni 1950-60. Denunce e scritti che il più delle volte incolpavano il temporaneo sconfitto Liu e inneggiavano al temporaneo vincitore Mao. E la pioggia di denunce operaie faceva crescere rigogliosa la diffidenza dei lavoratori nei confronti delle giovani Guardie Rosse, la classe lavoratrice presagiva che la Rivoluzione Culturale avrebbe voluto costringerla a maggiori fatiche e maggiore austerità, visto che ai “liuisti” ed ai “denghisti” veniva rimproverato una politica di interesse e di incentivi materiali che, più o meno segretamente, approvava.
I larghi ventagli salariali, cottimi o premi più o meno sostanziosi, rischiavano di essere soppressi o decurtati senza nessuna contropartita, per cui dalle denunce del duro e brutale regime di fabbrica del passato la classe lavoratrice incominciò, ora in questa ora in quella località, Liu o non Liu, Mao o non Mao, sì a processare gli anni Cinquanta ma ad esigere nel contempo un immediato risarcimento delle angherie e delle sofferenze subite; risarcimento materiale per l’appunto, che i ragazzoni maoisti non trovarono di meglio che bollarlo come il risultato di mestatori e provocatori.
Dirà, nel gennaio 1967, un comunicato dei “ribelli” rivoluzionari (etichetta dei gruppi operai studenti che seguivano le direttive della Rivoluzione Culturale) della città di Fuzhou della Provincia del Fujian:
«Attualmente le nuove manovre dei nemici di classe sono di questo tipo: 1) Essi tramutano la severa lotta politica di massa in una lotta economica, cercando così di portare il movimento degli operai rivoluzionari sulla deviazione del tradeunionismo; 2) Essi mandano gruppi di operai a Pechino per sabotare la produzione e le comunicazioni. Incitano le unità delle Guardie Rosse operaie che loro controllano a interrompere il lavoro e a scioperare e attualmente hanno persino ideato un grande sciopero cittadino e l’arresto dei trasporti (...) In questi giorni, in certe imprese e in certe unità, incitati da alcuni dirigenti, un pugno di aborti e di mostri ha ingannato i membri confusi delle unità delle Guardie Rosse operaie e alcuni elementi delle masse lavoratrici per far loro chiedere maggiori salari e altre rivendicazioni agli Uffici Amministrativi e direttivi degli stabilimenti (...) I dirigenti ed i capi, accogliendo queste rivendicazioni, non considerano se sono conformi alla politica statale, firmano con i loro nomi la concessione generosa di molti fondi statali (...) un pugno di aborti e di mostri ha ottenuto un mucchio di cose illegalmente. Essi tentano di comprare i rivoluzionari con biglietti e denaro. Attualmente è loro la responsabilità di questa situazione. Questa è una nuova corrente avversa, un nuovo ostacolo per la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria».
E che questo ostacolo non si presentasse soltanto nella città di Fuzhou lo si poteva dedurre dalla circolare inviata, l’11 gennaio, dal CC a tutti i livelli del Partito e dello Stato e che riprendeva in ogni punto l’ “Appello urgente” che le organizzazioni maoiste avevano indirizzato contro gli scioperanti di Shanghai, due giorni prima.
Gli avversari della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, diceva il documento, cercano di distruggere l’economia collettiva dello Stato a beneficio di pochi, incitano le masse a rivendicare aumenti di salari e incoraggiano i contadini a reclamare beni che non gli appartengono. Operai e contadini erano invitati ad aumentare la loro “vigilanza” in difesa dell’economia collettiva, mentre alle banche e alle Aziende di Stato veniva ingiunto di rifiutarsi di pagare ed accettare quelle spese non previste dai normali regolamenti amministrativi, redatti, a suo tempo, dai burocrati degli esecrati Liu Shaoqi e Deng Xiaoping !
Per non urtare il moto ascendente delle richieste si ammetteva che «certe situazioni irragionevoli del passato» avrebbero potuto essere emendate (dopo la proverbiale inchiesta tra le masse, naturalmente), ma il finale grido di battaglia: «Abbasso la linea borghese, abbasso l’economicismo» era il migliore viatico per l’abbraccio che dietro le quinte si aveva fra maoismo e liuismo, sostanzialmente e indissolubilmente uniti nello sforzo di costruzione di una potente e borghese nazione cinese, costruzione che presupponeva e, presuppone, la subordinazione degli interessi materiali della classe lavoratrice a quella dello Stato nazionale, anonimo agente dell’accumulazione capitalistica. Con o senza burocrazia niente cambia !
Abbiamo visto l’importante ruolo, giocato a più riprese, dall’EPL nella Rivoluzione Culturale, sia quando si trattò di favorirne la partenza sia per la vittoria, nelle istanze più alte del Partito e dello Stato, della frazione maoista.
Abbiamo anche visto la discrezione di questa azione e come con l’evolversi della lotta politica, la caparbia resistenza dei Comitati di Partito locali alle Guardie Rosse, l’entrata in scena del proletariato che intraprese una strada autonoma, tutto richiedeva che l’EPL si assumesse ogni responsabilità di conduzione del movimento, visto che questo non riusciva ad imporsi con la sola azione delle Guardie Rosse e degli “elementi di sinistra” di quadri, impiegati ed operai.
Se quindi, ancora il 5 ottobre 1966, le istruzioni della Commissione Militare del CC e del Dipartimento Politico dell’EPL precisavano che era essenziale dar corso alla Rivoluzione Culturale fra le truppe ma che «non bisognava intervenire né immischiarsi nella Rivoluzione Culturale», modo super elegante per prendere tempo, gli avvenimenti di Shanghai costrinsero il regime a fare infine appello all’Esercito, decisione che i fautori della Rivoluzione Culturale non presero certo a cuor leggero.
Se infatti nel passato l’EPL era considerato un organismo fortemente centralizzato in cui la lealtà di ogni unità al Centro era sicura, cosa ne sarebbe stato di questa lealtà adesso che la lotta politica stava praticamente decimando gli organi centrali del Partito e dello Stato, dai quali dipendevano le più alte strutture dell’EPL ?
Sarebbe bastato il carisma di Mao Zedong, in chiaro declino fisico ed intellettivo, e la costruita ed artificiosa autorità di Lin Biao a mantenere unito l’EPL e ad assicurarne la fedeltà a Pechino, o, invece, le unità periferiche dell’EPL – Comandi Militari Provinciali – non avrebbero subìto i tradizionali legami con i locali Comitati di Partito che la Rivoluzione Culturale voleva umiliare e sconfiggere ?
Durante l’estate e l’autunno 1966, Shanghai, come le altre principali città cinesi, seguì frettolosamente le orme di Pechino, organizzando giganteschi raduni di Guardie Rosse, a favore della Rivoluzione Culturale e contro gli intellettuali di “destra”; alla fine dell’agosto le Guardie Rosse pechinesi incominciarono una campagna di accuse contro Cao Diqiu, Sindaco della grande città, e gli altri maggiori dirigenti, tutti bollati di “antimaoismo nero”, il che diede il là ai primi scontri fra Guardie Rosse pechinesi e quelle di altre città e di Shanghai, tra Guardie Rosse (composte da studenti) e operai, e, infine, fra Guardie Rosse e responsabili dell’Amministrazione cittadina, tanto che, almeno una volta, gruppi di Guardie Rosse invasero la locale sede di Partito devastando l’immobile e picchiando i presenti.
A metà di settembre, già un milione e mezzo di Guardie Rosse erano arrivate dalle altre città nella grande metropoli industriale e portuaria, acquartierandosi in 1.500 centri approvvigionati da ben 150 mila lavoratori. I gruppi di Guardie Rosse, anche in concorrenza fra loro, requisivano edifici pubblici e trasporti, giornalmente terrorizzando ogni oppositore.
Ai primi di novembre, dopo mesi di questa situazione, l’autorità del locale Comitato di Partito e del Governo municipale si era come liquefatta. Il 6 novembre, si costituì, per opera di alcune organizzazioni operaie di 18 officine, il “Quartier generale della rivolta rivoluzionaria degli operai di Shanghai” (Xi-ghuoliaoyuan) che, tre giorni dopo, indisse un’assemblea nella Piazza della Cultura nel corso della quale gli organizzatori posero al Sindaco 3 rivendicazioni: 1) di riconoscere il Xighuoliaoyuan come “organizzazione legale sotto la dittatura del proletariato”; 2) di venire a rispondere del suo operato all’assemblea; 3) di fornire al Xighuoliaoyuan i fondi necessari per la propaganda e per l’organizzazione in tutte le fabbriche.
Il comizio iniziò alle 14, in pieno orario di lavori e vi parteciparono, stipate nella piccola piazza, 40 mila persone in grande maggioranza operai. Il comizio proseguì fino alle 21 quando si sparse la voce che il Sindaco aveva accettato di venire all’assemblea, arrivo che fu inutilmente atteso fino all’alba da 2-3.000 irriducibili. Fu allora che i rimasti decisero di recarsi a Pechino, dividendosi in tre gruppi: il primo occupò alcune vetture del treno Shanghai – Pechino; il secondo ottenne dai ferrovieri un treno speciale; il terzo formò un “corpo di spedizione del Nord” che, con mezzi di fortuna, cercò di raggiungere la città di Suzhou per poi proseguire a piedi verso la lontana capitale.
Il Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale, venuto a conoscenza delle iniziative, ordinò di bloccare le tre distinte marce: i treni furono infatti fatti fermare a Nanchino ed a Anting, ed uguale sorte toccò alla colonna di appiedati; gli operai rifiutarono però di tornare a Shanghai.
Il 14 novembre, Zhang Chunqiao accettò ad Anting le rivendicazioni del Xighuoliaoyuan che fu riconosciuto come “una associazione legale”; sempre Zhang accettò le rivendicazioni degli “accampati” a Suzhou che costituirono il “Il corpo di Armata degli operai di Shanghai”.
La grande città aveva quindi due organizzazioni operaie autonome se non contrapposte; una settimana dopo furono affiancate da altre due nuove organizzazioni, il “III Quartier Generale” e i “Corpi rossi di difesa operaia”, questi ultimi successivamente accusati di essere appoggiati dal locale Comitato di Partito.
Anche se la stampa ufficiale ignorò tutti gli avvenimenti succedutisi nelle due convulse settimane, limitandosi a lodare lo spirito degli operai a “fare la rivoluzione ed a promuovere la produzione”, prudentemente il Governo Municipale invitò le aziende a non multare gli operai che non si erano presentati alla produzione.
Il reclutamento delle organizzazioni operaie fu oltremodo rapido: il “II Corpo d’Armata” che il 14 novembre era composto da 500 persone, dopo una settimana ne dichiarava 521 mila; i “Corpi rossi di difesa operaia” vantavano ben 800 mila militanti, mentre il Xighuoliaoyuan ne contava solo 400 mila. Leader di questa ultima organizzazione era Wang Hongwen, appoggiato direttamente da Zhang Chunqiao.
Il 9 dicembre, sotto la spinta dell’estensione dei disordini e degli scioperi nelle fabbriche delle principali città, il Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale redasse le norme che dovevano valere per le fabbriche: si insisteva sulla necessità di mantenere ferme ad ogni costo le otto ore di lavoro, di garantire quantità e qualità della produzione; di risolvere le “contraddizioni” attraverso “consultazioni azienda per azienda”, precisando che solo in casi eccezionali «gli operai possono ricorrere alle organizzazioni superiori e inviare qualche delegazione nella capitale, ma senza grandi partenze di delegazioni dalle fabbriche o dalle miniere». Più oltre, veniva riconosciuto il diritto di costituire organizzazioni operaie, fatto però che ormai si svolgeva irresistibilmente senza bisogno di nessuna etichetta di ufficialità.
La diga si era rotta ! A Shanghai i gruppi operai incominciarono a denunciare le loro penose condizioni di lavoro, richiedendo immediati rimedi: giornata di otto ore e riposo settimanale rispettati, aumento dei salari dei premi, delle assicurazioni sociali, costruzione di alloggi, abolizione delle categorie dei lavoratori “a contratto” e temporanei che costituivano a Shanghai una classe a parte di lumpenproletariat.
Le manifestazioni operaie – pur con molteplici e variopinti aspetti – presentarono un denominatore comune: avere come obbiettivo immediato e nella maggior parte esclusivo, il soddisfacimento di rivendicazioni di ordine sociale ed economico, questo anche se le rivendicazioni erano state innescate dalla licenza totale che il regime aveva dato agli studenti e alle Guardie Rosse, i cui atteggiamenti da intoccabili avevano finito per irritare il resto della popolazione; questo anche se il più delle volte gli operai ammantavano le loro rivendicazioni di fraseologia chiaramente maoista.
I gruppi maoisti cercarono di porre un freno, di far accettare la direttiva di “fare la rivoluzione e promuovere la produzione”, ma loro stessi furono sommersi dalla ondata di scioperi e di disordini che interessavano ormai i principali stabilimenti industriali.
Dalla metà di dicembre le autorità municipali cedettero di schianto alla pressione delle categorie, alle parole d’ordine minacciose e agli aperti appelli alla ribellione: oralmente o per scritto promisero miglioramenti a certe categorie, ad altre concessero permessi di circolazione ferroviaria e somme di denaro per recarsi a Pechino a “lamentarsi delle loro condizioni».
I cedimenti delle autorità scatenarono però un processo di reazione a catena, in cui le esigenze degli operai si fecero via via più assillanti e minacciose, l’agitazione rabbiosamente si estese, si amplificò con una tale rapidità che assunse la proporzione di uno sciopero generale.
Pochi giorni prima di Natale lo sciopero partì dal porto dove, secondo un resoconto ufficiale, scaturì per le “irragionevoli condizioni di lavoro”; i portuali furono imitati dai ferrovieri e le due maggiori linee che collegavano Shanghai con Nanchino e Hangzhou furono paralizzate, nessun treno partì dalla grande città con gli scioperanti che bloccarono parecchi treni viaggiatori e merci sulle due linee. Gli scioperi coinvolsero poi i trasporti fluviali, preziosi per l’approvvigionamento di materie prime e di derrate indispensabili alla vita della grande città di 10 milioni di abitanti; l’interruzione di acqua ed elettricità successivamente fermò ogni vita produttiva. Era l’inizio del nuovo anno, il 1967.
Tre fattori rendevano ancora più drammatica la situazione: 1) Le casse della municipalità, delle imprese, delle Banche erano vuote per i sussidi estorti dagli spazientiti operai, per le somme spese per alloggiare le Guardie Rosse, per le somme concesse agli operai e agli studenti per recarsi a Pechino, per il ritiro precipitoso dei depositi privati bancari; 2) I contadini della regione avevano interrotto gli invii di derrate nelle città, se le tenevano, si spartivano le quote e le risorse comunali collettive, si recavano in città per rivendicare, pure loro, condizioni migliori di vita; 3) La popolazione era smisuratamente aumentata per il milione e passa di Guardie Rosse ospitate, per i contadini della regione in città, per il ritorno di quegli studenti inviati, dopo gli studi, dalle autorità nel Xinjiang. Il 27 dicembre infatti, ben 116 organizzazioni composte da giovani ritornati dalla campagna tennero a Shanghai una manifestazione di massa nella Piazza del Popolo, affermando di rappresentare le province e le più grandi città della Cina Orientale e chiedendo di essere autorizzati a far ritorno in maniera definitiva nelle città di origine.
Penuria cronica di alloggi, di derrate, cattive e brutali condizioni di lavoro, tutto aveva concorso allo sciopero rivolta con le folle irritate ed inquiete che assediavano negozi e sedi di Partito.
Niente era più degli appelli morali, delle epurazioni clamorose, dei proclami ampollosi della Rivoluzione Culturale nei suoi primi giorni gloriosi, istintivamente il proletariato dalle mani callose si era attestato caparbiamente sui suoi interessi materiali ed il suo incedere aveva fatto alzare i tacchi ai campioni dell’ugualitarismo e dell’austerità, conferma ulteriore della potenza della teoria marxista e nuova ennesima sconfessione di tutte le altre scuole di pensiero, maoismo incluso.
In questo clima caotico ed anarchico, in cui il Comitato Municipale e le autorità non avevano più nessun potere, in cui non vi era ordine pubblico perché nessuna direzione dell’ordine pubblico era funzionante, si ebbe la “grande tempesta della rivoluzione di gennaio a Shanghai”.
I “ribelli maoisti” non avevano nessun nemico di fronte ma solo il vuoto, con una città paralizzata da uno sciopero che coinvolgeva tutte le categorie lavorative. Una minoranza disciplinata e risoluta, in più appoggiata dalla lontana capitale Pechino e dall’EPL per suo tramite, poteva e doveva tentare di ristabilire ordine e disciplina.
Annunciata il 3 gennaio ad un’assemblea di operai e impiegati, la requisizione del giornale “Wenhui Bao” avvenne il giorno successivo ad opera del Xighuoliaoyuan, punta di diamante del Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale. Il 5 gennaio sul giornale requisito comparve un importante “Appello al popolo di Shanghai” firmato, oltre che dallo stesso Xighuoliaoyuan, da altre 10 organizzazioni di Guardie Rosse. Degli undici firmatari solo il Xighuoliaoyuan era una “organizzazione operaia”, mentre le altre erano invece studentesche e di queste, oltre la metà, di altre città.
L’Appello, significativamente titolato “Fare la rivoluzione e promuovere la produzione, stroncare radicalmente il nuovo contratto della linea reazionaria borghese”, riassumeva bene le concezioni “insurrezionali” dei maoisti; nella presentazione si cercava infatti di blandire gli scioperanti a ritornare al loro posto di lavoro:
«Noi, compagni partigiani della rivolta rivoluzionaria, accoglieremo calorosamente il vostro ritorno per proseguire insieme la rivoluzione, per condurre a buon termine insieme la produzione. Non vi biasimeremo perché siamo tutti fratelli di classe, perché nella vostra schiacciante maggioranza, voi siete vittime della linea reazionaria borghese, delle masse rivoluzionarie e ingannate da coloro che, detenendo dei posti di direzione, si incamminano, pur appartenendo al Partito, sulla strada del capitalismo, e da coloro che si arroccano ostinatamente sulla linea reazionaria borghese».
Il testo dell’Appello ribadiva ancora una volta l’attaccamento maoista per l’innalzamento della produzione: «Solo se la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria è condotta bene la produzione industriale può essere ulteriormente sviluppata. I punti di vista che contrappongono la Rivoluzione Culturale sono errati»; incolpava degli scioperi il pugno di autorità borghesi e ammoniva gli organizzatori degli scioperi: «Essi allora sono ricorsi a una nuova astuzia. Fingendo di appartenere all’estrema sinistra, servendosi di un linguaggio rivoluzionario fiorito, cercano di sabotare la produzione, i trasporti e le comunicazioni inducendo numerosi membri dei Corpi rossi di difesa operaia, che sono riusciti a gabbare, ad andare a “sporgere denuncia” (per modo di dire) a Pechino, con l’intento di sabotare la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria e la dittatura del proletariato. Inoltre, da qualche tempo in qua, un pugno di elementi reazionari sta complottando di tagliare l’acqua, la corrente elettrica e le comunicazioni. Noi dobbiamo mettere le mani su di essi, applicare contro di loro le leggi della dittatura del proletariato e punirli severamente. Non è possibile per noi tollerare i loro complotti criminali»; ed infine chiariva il ruolo di crumiraggio svolto durante lo sciopero dai gruppi maoisti capeggiati dal “sinistro” Wang Hongwen, due anni fa processato e condannato insieme ai membri della banda Lin Biao-Jiang Qing: «Tenendo bene a mente gli insegnamenti del presidente Mao, i nostri operai della rivolta rivoluzionaria hanno auto prova di possedere un alto grado di spirito rivoluzionario di responsabilità affrontando questa corrente contraria e assicurando la produzione di tutte le fabbriche pur in condizioni di estrema difficoltà (...) hanno smascherato la loro grande cospirazione mirante a combattere la rivoluzione mediante il sabotaggio della produzione. Hanno avuto ragione di agire così: hanno fatto bene. Tutti i compagni della rivolta rivoluzionaria devono ispirarsi al loro esempio».
Il giorno 6 gennaio si aveva l’occupazione dell’altro giornale di Shanghai, il “Jiefang Ribao” organo locale del PCC, con nuovi sanguinosi scontri nella città; lo stesso giorno i “ribelli” maoisti trascinavano prigionieri ad un comizio il Sindaco Cao Diqiu ed il Segretario locale del Partito, Chen Pixian (oggi ambedue pienamente riabilitati). E siccome nemmeno questa ultima messinscena riuscì a ristabilire l’ordine pubblico nelle piazze e nelle fabbriche, i gruppi maoisti si rimboccarono le mani e, l’8 gennaio, gruppi studenteschi incominciarono ad organizzarsi per rimpiazzare, non senza difficoltà, gli scioperanti portuali cercando di scaricare le tante navi alla fonda. Il 9 gennaio, sotto l’egida degli inviati di Pechino, Zhang Chunqiao e Yao Wenyuan, fu pubblicato su due giornali di Shanghai un Avviso Urgente che, riposta ogni comprensione e diplomazia, usava infine un tono categorico per far ritornare al lavoro gli scioperanti e far cessare i disordini. L’Avviso era firmato da 32 organizzazioni di cui 10 “operaie”: il Xighuoliaoyuan, il II Corpo d’Armata degli operai di Shanghai ed il III Quartier Generale quelle principali. Ma l’Appello, benché urgente, non convinse minimamente gli operai ad interrompere lo sciopero che continuò insieme alle manifestazioni di piazza, sempre contro le cattive condizioni di lavoro e di esistenza, particolarmente dure per i numerosi lavoratori a contratto e temporanei.
Avevano voglia i maoisti di incolpare i “destri” delle condizioni di lavoro, come loro stessi talvolta erano costretti a riconoscere, era da 17 anni (dal 1949 quindi) che questa situazione si perpetuava, 17 anni che avevano visto il regime di Pechino sperimentare ogni indirizzo economico, di “destra” come di “sinistra”, sempre però mantenendo schiacciata l’intera classe lavoratrice subordinata ad un avvenire di grande potenza industriale.
L’Appello urgente era accompagnato da due note editoriali, sia del “Wenhui Bao” che del “Jiefang Ribao”, che bollavano violentemente l’economicismo cioè il soddisfacimento delle condizioni materiali di esistenza, come “paccottiglia revisionista controrivoluzionaria”, astutamente usata per “corrompere la volontà rivoluzionaria delle masse”.
Più esaustivamente, l’Avviso urgente senza ombra di equivoci spiegava l’atteggiamento della Rivoluzione Culturale nei confronti delle agitazioni, degli scioperi e delle rivendicazioni operaie. Già la premessa indicava nel “pugno di persone incamminate nella via capitalistica” i responsabili delle agitazioni, tesi che automaticamente intendeva relegare fra i sabotatori dell’economia e del prestigio internazionale della Cina tutti coloro che richiedessero qualsivoglia “vantaggio materiale”, dagli aumenti salariali ai sussidi ecc. Sabotaggi della produzione ed in genere ogni danno all’economia nazionale avevano quindi come unico fine quello di minare la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, per questo andavano senza indugio circoscritti e scongiurati.
I “ribelli” maoisti si impegnavano «a restare a piè fermo al loro posto di produzione e di edificazione» (insomma a fare i crumiri), «a mantenere il sistema delle 8 ore» (segno questo che gli altri gruppi operai pretendevano una giornata lavorativa più breve), a «portare a termine e superare i piani di produzione e fabbricare dei prodotti di qualità», leit motiv di tutta la politica economica cinese, da 17 anni appunto !
L’Appello urgente era poi congegnato in
10 sintetici e inappellabili punti: 1) Agli operai era ingiunto di
«rimanere senza esitazione al loro posto di produzione»,
per «dare
l’esempio nel “fare la rivoluzione e promuovere la produzione”»;
2)
I
“ribelli” rivoluzionari di tutto il paese dovevano fare in modo
che le delegazioni di Shanghai ritornassero immediatamente nella
propria città per condurre lì la Rivoluzione Culturale e,
soprattutto,
per superare il piano di produzione per il 1967; 3) Erano dichiarate
nulle e non valide tutte le autorizzazioni per spostarsi da Shanghai, a
meno che non fossero emesse dai fedeli gruppi maoisti; 4) Venivano
bloccati i fondi di dotazione di tutti gli organismi governativi,
associazioni ed imprese, eccettuati quelli necessari alla produzione,
al pagamento dei salari e ad altre indispensabili spese.
I “ribelli” dovevano garantire assolutamente che l’economia dello
Stato non subisse perdite; 5) Il riaggiustamento dei salari e tutte le
altre questioni che riguardavano il “benessere” dei lavoratori
venivano demandati ai futuri tempi migliori, “per evitare delle
deviazioni nell’orientamento generale della lotta”; 6) Veniva
assolutamente proibito il versamento di qualsiasi salario agli
studenti, fatto che aveva suscitato un “vivo malcontento” fra gli
operai; 7) Si ricordava che a nessuno era permesso di
appropriarsi con la forza di edifici statali, che simili azioni
sarebbero state punite dagli uffici di Sicurezza Pubblica, e che coloro
i quali incitavano i cittadini ad impadronirsi degli edifici pubblici
sarebbero incorsi nei rigori della legge. Infine, veniva ingiunto a
quanti si erano installati con la forza in case non a loro assegnate,
di ritornare, entro il termine di una settimana, al loro domicilio
iniziale; problema questo particolarmente sentito a Shanghai, con i
tanti illegali ritorni di studenti dalle campagne; 8) Finale
enunciazione di provvedimenti punitivi:
«I sabotatori della Grande
Rivoluzione Culturale e della produzione devono essere immediatamente
arrestati dall’Ufficio di Sicurezza Pubblica in conformità della
legge.
Tutti coloro che, nel corso del movimento, minano l’ordine sociale,
picchiano delle persone, commettono dei crimini, saccheggiano e rubano
i beni altrui, sono passibili delle sanzioni stabilite dalla legge a
seconda della gravità dei casi; gli oggetti rubati devono essere
immediatamente restituiti; coloro i quali commettono dei crimini o dei
delitti simili e che non si correggeranno dopo diverse successive
rieducazioni, dovranno essere puniti severamente»; 9) le
organizzazioni dei “ribelli” venivano invitate all’applicazione
immediata dei punti prima riportati e ad educare le masse al loro
rispetto; 10) Infine stesso invito era rivolto al Comunicato Municipale
del Partito di Shanghai ed all’Ufficio di Sicurezza Pubblica.
Fu l’inizio della lotta contro l’economicismo, un’ondata di scioperi infatti si ripercuoteva in tutta la Cina, il “vento nero” delle richieste materiali soffiava a Wuhan come in Manciuria ed a Pechino, tanto che il regime fece blocco intorno all’Appello Urgente delle organizzazioni maoiste, trasmesso immediatamente alle varie radio locali e, era l’11 gennaio 1967, pubblicato interamente sul “Jenmin Jihpao” con sotto le felicitazioni del CC, del Consiglio di Stato, della Commissione Militare del CC, del Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale, appoggio che spiazzava definitivamente la opposizione del vecchio Comitato di Partito e le vecchie autorità di Shanghai.
Nella grande metropoli, intanto, il 10 gennaio Il “Wenhui Bao” pubblicò un nuovo ammonimento contro la “reviviscenza” dell’ondata economicista, mentre si faceva più serrato l’invio dei gruppi di “ribelli” a sostituire gli scioperanti, il lavoro fu infatti parzialmente ripreso a bordo del rimorchiatore e dei battelli di navigazione fluviale. Il 13 gennaio, Radio Shanghai dovette però ancora annunciare che la metà dei battelli continuava lo sciopero e solo 10 giorni dopo la radio poteva gracchiare che la maggior parte delle navi avevano ripreso la navigazione, rifornendo la città di derrate e materie prime.
Verso la metà del mese veniva soffocato pure lo sciopero dei ferrovieri, con il ricorso massiccio alle Guardie Rosse e all’EPL; anche nelle fabbriche gli operai erano ritornati alla produzione, lo sciopero era finito, e le emittenti radiotelevisive (sotto il controllo diretto dei maoisti) potevano ben rallegrarsi per la sconfitta del “pugno di individui incamminati sulla via del capitalismo” !
Come abbiamo già visto per gli avvenimenti significativi e clamorosi di Shanghai, anche nella maggior parte delle altre principali città sarà l’EPL a giocare un ruolo essenziale nella “presa del potere” da parte dei maoisti. La catena dei fatti lo mostra a chiare lettere.
Proprio mentre aveva inizio la virulenta campagna contro l’economicismo, l’11 gennaio 1967, l’EPL si assumeva il compito di presidiare tutte le banche e le stazioni radio dell’immensa nazione, e se per le prime si faceva riferimento a dettami schiettamente economici (impedire il ritiro di denari che potevano servire a corrompere i lavoratori con “proiettili cosparsi di zucchero”), per le seconde lo scopo era chiaramente militare: impedire la diffusione di ordini e comunicati che non fossero di stretta osservanza maoista. Nello stesso giorno si ebbe anche la riorganizzazione del Gruppo della Rivoluzione Culturale nell’EPL: il maresciallo Xu Xiangqian sostituiva Liu Wenzhen, e Jiang Qing entrava a far parte dei 16 consiglieri fra i quali spiccavano i generali Xiao Hua e Chengwu, stelle che fra breve subiranno una impietosa caduta e che saranno ambedue riabilitate pur avendo contribuito notevolmente alle fortune iniziali della Rivoluzione Culturale.
La riorganizzazione di questo gruppo, dette il là a tutta una serie di misure che militarizzarono ulteriormente l’intera nazione unita ormai solo dai fucili delle truppe. Tre giorni dopo, infatti, il CC emise un nuovo importante regolamento di 6 punti per il rafforzamento del regime di pubblica sicurezza, misure che erano il termometro di quanto cruda e senza esclusione di colpi si facesse la lotta fra le diverse fazioni:
«1) Coloro che commettono crimini
come assassinio, furto, incendio doloso, confusione nei
trasporti, informazioni a paesi stranieri, sottrazione di
segreti di Stato e coloro che commettono atti distruttivi saranno
severamente puniti in base alla legge;
«2) Coloro che affiggono giornali
murali che attaccano o offendono il presidente Mao e il Ministro della
Difesa Lin, saranno puniti in base alla legge;
«3) Le masse rivoluzionarie e le loro
organizzazioni saranno protette e la lotta armata sarà bandita.
Atti
come quelli di attaccare le organizzazioni rivoluzionarie e le masse
saranno considerati come violazione della legge e le persone che
commettono questi atti saranno severamente punite;
«5) Coloro che fanno osservazioni
reazionarie approfittando del fatto che con la Rivoluzione Culturale
tutti possono criticare, saranno messi a confronto con le masse;
«6) Se coloro che lavorano nel
partito, nel Governo, negli organismi militari e nella Pubblica
Sicurezza ricorrono ad azioni oppressive contro le masse
rivoluzionarie, distorcendo le regole e i fatti, saranno puniti in base
alla legge».
Come se non bastasse, queste vere e proprie misure da stato d’assedio erano accompagnate da una direttiva del CC che invitava l’EPL ad istituire corsi di addestramento politico militare per gli studenti, nei mesi a venire.
Con un vero e proprio crescendo, il 23 gennaio, i giornali murali riportavano l’ordine di Mao all’EPL di intervenire nella Rivoluzione Culturale laddove le necessità lo imponevano, l’episodio di Shanghai doveva essere generalizzato:
«È necessario mandare l’esercito
ad aiutare l’ala sinistra e le masse rivoluzionarie. L’esercito deve
dare il suo aiuto dovunque ci siano veri rivoluzionari qualsiasi cosa
essi chiedano. La cosiddetta non ingerenza è in realtà
una falsa non
ingerenza, da tempo essa è diventata una vera e propria
ingerenza.
Perciò io chiedo che venga emanato un nuovo ordine che annulli
il
precedente (...) le misure più importanti emanate sono:
«a) l’ordine che l’esercito non
debba prendere parte alle manifestazioni rivoluzionarie è
revocato;
«b) l’esercito deve inviare truppe
per aiutare ogni organizzazione rivoluzionaria che ne abbia bisogno;
«c) l’esercito deve attaccare ogni
elemento controrivoluzionario che ricorra alle armi;
«d) l’esercito non deve diventare “scudo” per questi
elementi
controrivoluzionari».
L’ordine di Mao veniva prontamente e pienamente ripreso dal “Quotidiano dell’Esercito” che, due giorni dopo, con l’editoriale: “L’EPL sostiene fermamente i rivoluzionari proletari” affermava che i militari dovevano non solo intervenire ma nettamente schierarsi contro i conservatori, i destri e le organizzazioni controrivoluzionarie, sostenendo con entusiasmo e senza ambiguità alcuna i “ribelli rivoluzionari” sebbene questi possano essere tutt’ora una minoranza.
Il 26 gennaio, un’ordinanza del Consiglio di Stato e della Commissione Militare del CC enunciava che l’EPL aveva assunto il controllo di tutte le linee aeree civili, sia interne che esterne, che proteggeva aeroporti, uffici e scuole di aviazione. Il quadro fu completato il 28 gennaio, sempre la Commissione Militare emanava una importante direttiva in otto punti che ufficializzava la fine della non ingerenza dell’EPL nello svolgersi della Rivoluzione Culturale; l’importante primo punto scandiva:
«L’esercito deve sostenere i veri rivoluzionari proletari, impadronirsi della maggioranza, unirsi ad essa, opporsi ai destri, prendere un atteggiamento dittatoriale nei confronti delle organizzazioni e degli elementi controrivoluzionari».
Ma ormai anche questa decisa intromissione dell’EPL nella Rivoluzione Culturale non poteva risolvere la contesa perché non si trattava solamente di antagonismi fra il Centro di Pechino ed i vari governi locali, fra i partigiani di Mao e di Lin Biao e quelli di Liu e Deng, ma – la stessa cronaca, lacunosa quanto istruttiva dei disordini e degli scontri, lo rivela chiaramente – di antagonismi e scontri sociali.
Nello Shanxi, il 12 gennaio, un comando locale di “ribelli” si impadronì degli organismi locali del Partito e dell’Amministrazione ed il suo primo problema che dovette affrontare fu quello di convincere gli operai, i contadini ed i quadri a “fare la rivoluzione e a sostenere la produzione”; battuti i “destri” controrivoluzionari si ordinò la ripresa delle regolari attività produttive e fu bloccato il prelevamento da parte delle imprese dei fondi di riserva, rivendicati a viva forza dagli scioperanti. Gli scontri fra quest’ultimi ed i “ribelli” maoisti, affrontati e impegnati seriamente da 10.000 operai armati alla meglio, ebbero fine con l’intervento dell’EPL, unica autorità funzionante ed in grado di far ritornare l’ordine.
Nella città industriale di Harbin, nella provincia dell’Heilongjiang, si era formata invece una “organizzazione reazionaria” chiamata Esercito degli Inabili e degli Smobilitati che più volte si scontrò con milizie maoiste. Questi continui scontri, la sparizione di notevoli quantità di derrate dai magazzini statali, la distribuzione di terre e la formazione spontanea di milizie Contadine nelle campagne, spinse infine l’EPL ad intervenire con determinazione il 23 gennaio e ad assumersi l’onere di reggere un nuovo governo civile locale.
Nella povera provincia del Guizhou invece, il 25 gennaio, il “Comando generale della rivolta proletaria” si impadronì di tutti gli organismi locali, fino ad allora in mano ai “destri” che permettevano la restaurazione dell’economia individuale nelle campagne (tendenza questa che, come abbiamo visto, era in tutta la Cina e che non dipendeva dai voleri di nessuno) ed incoraggiavano l’ “economicismo”. La “presa del potere” fu preceduta dall’intervento della ferma mano dell’EPL che si prese la briga di arrestare e castigare come “controrivoluzionari attivi» i vecchi quadri locali del PCC e del Governo.
Nello Shandong fu innanzitutto il grande porto di Qingdao a vedere la “presa del potere” dei ribelli maoisti, il 22 gennaio, esempio che fu prontamente imitato a Tianjin.
Ma se questi fatti furono fragorosamente pubblicizzati come vittorie contro i “revisionisti” ed i “controrivoluzionari”, la lunga catena dei disordini – con crude e feroci cronache, poco o niente si prestava ai ditirambi propagandistici inneggianti all’infallibilità ed invincibilità del pensiero e dei sostenitori di Mao; l’entrata in scena degli operai ebbe anche questo compito, di costringere la colorita Rivoluzione Culturale sul prosaico terreno degli scontri di classe.
Negli ultimi giorni del mese (23-26 gennaio) violenti scontri si ebbero nelle provincie del Kirin e dell’Anhui (le truppe alfine non esitarono ad aprire il fuoco su gruppi di Guardie Rosse, comportamento sconfessato da Pechino ben due mesi dopo !); in tutta la provincia dello Shandong (20-30 gennaio); nel porto di Qingdao il 28 gennaio; nelle provincie del Xinjiang, della Mongolia Interna, dell’Henan e dell’Hunan nelle capitali Zhengzhou e Changsha; all’inizio di febbraio nella capitale del Tibet, Lhasa, con un deciso intervento delle truppe (comandate dal generale Zhang Guohua pure primo segretario del PCC locale) contro i tanti gruppi di Guardie Rosse; infine, nella grande città di Canton, il 27 febbraio ed il 13 marzo.
Particolarmente cruenti e brutali furono gli incidenti della Mongolia Interna e del Xinjiang, a Shilhotze dove su ordine del satrapo locale, il riabilitato generale Wang Enmao, come il collega Zhang Guohua era comandante della regione militare e primo segretario del PCC, un reggimento di artiglieria si servì di armi pesanti e di bombe a mano per sedare gli scontri fra Guardie Rosse, con decine di morti e centinaia di dispersi. La gravità di questi incidenti, che ebbero come proseguimento lo scioglimento e la repressione da parte delle autorità militari di un organismo schiettamente maoista, “Il Quartiere Generale della Unione insurrezionale rivoluzionaria” appoggiato dal vice segretario Chen Weida, non impedì alla capitale Pechino, per evidenti ragioni di superiori interessi nazionali, di far buon viso a cattiva sorte lasciando al loro destino le malcapitate Guardie Rosse. Infatti, nonostante le continue denunce delle Guardie Rosse di Pechino contro il generale Wang Enmao, l’11 febbraio, il CC, il Consiglio di Stato e la Commissione Militare, ordinavano che nella Regione del Xinjiang la Rivoluzione Culturale doveva svolgersi sotto lo stretto controllo dei militari, il che stava perfettamente a dimostrare come lo svolgersi del “grande movimento di critica” stava cominciando a determinare un chiaro allentamento della autorità di Pechino capitale e del decimato CC fedele a Mao ed a Lin Biao, e che le provincie e le regioni, con i loro potenti capi militari, non erano più disposte a seguire, subito e senza discutere, i voleri ed i desideri della lontana Capitale.
Eppure, questi incidenti non erano altro che un assaggio, rispetto a quelli, ben più gravi, dell’estate.
Come abbiamo già visto, il disegno dei sostenitori della Rivoluzione Culturale aveva come punto fermo quello di epurare dai loro numerosi ed importanti posti di responsabilità, i “destri” ed i “controrivoluzionari”, cioè coloro i quali si rifacevano alle direttive di indirizzo politico, sociale e economico di quello schieramento di massimi dirigenti che andava da Liu Shaoqi a Deng Xiaoping. Ora, questo “bombardamento degli Stati maggiori”, che avrebbe dovuto limitarsi ad una semplice epurazione interna, non si svolse secondo le previsioni dei maoisti.
Se per i maoisti era stato relativamente facile abbattere il sindaco di Pechino, Peng Zhen, ed i suoi più stretti collaboratori, come anche battere nel CC sia Liu Shaoqi e Deng Xiaoping, la struttura del Partito e dello Stato aveva risposto con vigore alle Guardie Rosse, gettandosi a corpo morto nello scontro.
Il carisma dell’ascetico e modesto Shaoqi era quindi pari a quello del sanguigno ed arrogante Mao ? Se così fosse l’unico sconfitto sarebbe il materialismo storico e dialettico, nostro metodo di indagine ! Il carisma di Mao, che era il carisma di una rivoluzione nazionale trionfatrice e con il fucile ancora caldo nelle mani, valeva cento volte il carisma del fedele esecutore Shaoqi espressione della prosaica e non romantica accumulazione di capitale nazionale, ma altri fattori determinarono la reazione dell’apparato burocratico contro le Guardie Rosse il cui incedere minacciava oggettivamente di indebolire il Partito-Stato già scottato dalle esperienze dei Cento fiori e del Balzo in Avanti, ambedue volute e insistentemente difese da Mao; l’apparato, con evidente istinto di classe, di difesa dei compiti borghesi a cui era votato, era pronto a proteggere il ricostruito centralismo su cui solo poteva poggiare il futuro progresso borghese della Cina.
Questa reazione e l’entrata in scena della classe lavoratrice, su posizione alfine autonoma dai due schieramenti politici, fece precipitare la difficile situazione della nazione cinese che vide la propria unità statale quasi sgretolarsi per la sparizione di ogni reale potere centrale, salvo quello importantissimo della struttura militare, un EPL fra l’altro legato a filo doppio alla vita interna del Partito, non fosse altro perché il Commissario politico di una Regione o di un Distretto militare era nello stesso tempo il Segretario di Partito locale.
Se questa particolare situazione dei rapporti fra il Partito-Stato e l’Esercito aveva originariamente determinato una relativa “non ingerenza” dell’EPL nei primi disordini della Rivoluzione Culturale, nel gennaio ormai l’unica carta che il regime poteva giocare, per mantenere integra la stessa unità statale, era quella dei militari.
Fu infatti sui militari che Pechino fece affidamento per la creazione e l’affermarsi dei Comitati Rivoluzionari che avrebbero dovuto assumere nelle loro mani le funzioni degli antichi Governi e Comitati di Partito Regionali e Provinciali e Distrettuali. I Comitati Rivoluzionari dovevano essere l’espressione della “triplice alleanza” fra Esercito, quadri e masse e segnarono il primo tentativo di Pechino di “istituzionalizzare” le Guardie Rosse, mesi prima suscitate ed incoraggiate ma che ora, con i disordini estesi agli operai di fabbrica, andavano limitate nel loro agire, perlomeno in molti dei loro eccessi passati.
Così la rivista teorica “Bandiera Rossa”, il 30 gennaio 1967, segnava l’aggiustamento, lanciando significativi segnali alle “masse” perché la anarchia non dilagasse:
«Deve essere data sufficiente importanza al ruolo dei quadri rivoluzionari nella lotta per la presa del potere. I quadri dirigenti che hanno appoggiato la linea proletaria sono la ricchezza del Partito (...) È sbagliato non credere in tutti solo perché hanno autorità (...) Quando i quadri dirigenti rivoluzionari si pongono a fianco delle masse nella lotta per la presa del potere dalle mani di coloro che hanno autorità all’interno del Partito e che hanno imboccato la via capitalistica, le organizzazioni di massa rivoluzionarie devono appoggiarle (...) L’esperienza ha dimostrato che nel corso della lotta per la presa del potere,i responsabili delle organizzazioni rivoluzionarie di massa, i dirigenti delle locali unità militari e i quadri dirigenti rivoluzionari devono, attraverso studi e consultazioni, creare un organo di potere provvisorio che diriga la lotta per la presa del potere. L’organo del potere provvisorio deve fare la rivoluzione con fermezza, incrementare la produzione, fare in modo che il sistema produttivo funzioni normalmente».
Ma il fatto era che l’esperienza non aveva dimostrato un bel niente di quello che era enunciato nell’articolo dell’allora famosa rivista, nella realtà le tre componenti della “triplice alleanza” tiravano ognuna per conto proprio, guardando con sospetto le altre, la produzione crollava per gli scioperi e più che lo studio poteva il fucile rimettere in riga classi e strati sociali, la forza non il ragionamento era chiamata alla risoluzione della difficile situazione !
Dopo gli avvenimenti di Shanghai, i “quadri” guardavano con sospetto e malumore crescenti l’incedere della Rivoluzione Culturale, ed anche quelli che avevano inizialmente appoggiato Mao e Lin Biao ebbero ingenui moti di protesta per la vastità dell’epurazione. Se ne fece portavoce lo stesso Tan Zhenlin che, nel gennaio, disse ad una riunione del Politburo:
«Avete ancora bisogno della direzione del Partito ? Volete distruggere tutti i vecchi quadri ? Parlo qui in nome di tutti i veterani della rivoluzione, e preferisco essere decapitato o gettato in prigione piuttosto che assistere impassibile all’umiliazione di tanti nostri vecchi compagni !»,
Il deciso intervento dell’anziano Tan Zhenlin ebbe un immediato riscontro nella cooptazione – sotto l’ala protettrice dei militari – di molti quadri di primissimo piano e più volte contestati, nei nascenti Comitati Rivoluzionari nei quali i navigati burocrati si destreggiavano abilmente con i giovani rappresentanti delle “masse”. Tan Zhenlin sarà successivamente accusato di essere il responsabile di questa puntata a “destra” della Rivoluzione Culturale chiamata coloritamente “controcorrente di febbraio” e che ebbe l’imprimatur dal CC con la direttiva del 1° marzo:
«Si deve ammettere che la maggior parte dei quadri sono buoni, e che i nemici di classe infiltratisi nelle file dei quadri sono molto pochi (...) Rifiutarsi di fare un’analisi di classe delle persone che detengono il potere, e invece sospettarle, rinnegarle e abbatterle indiscriminatamente è una posizione anarchica».
Lasciamo perdere l’anarchia, cosa seria in dati tempi e luoghi, in Cina anno 1967 mese di gennaio, si aveva ben altro: i contrasti politici erano sfociati in lotte sociali e di classe, pericolose e condannate da tutti, ed ecco che i maoisti devono porgere, al fine di neutralizzare quelle lotte e quei moti, la mano ai loro “avversari” politici, i burocrati di Liu e Deng nei quali riconoscevano, in fondo, i propri fratelli di classe con i quali già avevano condiviso interessi e speranze !
Da parte dell’EPL, l’ordine del 28 gennaio, che ne disponeva l’intervento per “sostenere gli elementi di sinistra”, fu compreso ed applicato secondo le circostanze. In un primo momento l’EPL si limitò a cercare di limitare i disordini ed anche ad evitare la sconfitta dei sostenitori della Rivoluzione Culturale, spesso incalzati dalla popolazione e dagli operai; ma successivamente, con il moltiplicarsi delle tendenze e fazioni locali, con l’incrudirsi delle lotte fra queste, con il crollo delle amministrazioni civili, l’esercito diverrà prima arbitro delle divergenze, poi unico tramite della capitale Pechino con le province, poi ancora dovette assumere di fatto ogni potere sotto la copertura dei Comitati Rivoluzionari, primo ramoscello di olivo alla burocrazia di Partito.
Questo passaggio di autorità nelle mani dei militari fu relativamente rapido nelle regioni di frontiera popolate da minoranze nazionali (Xinjiang, Tibet e Mongolia Interna) per evidenti ragioni di sovranità nazionale e di sicurezza esterna, mentre in genere nelle altre province e regioni avvenne alla fine di un processo lungo e complesso, sia per il proliferare di organizzazioni di “massa” (a fine gennaio, Shanghai ne contava ben 111; la città di Wuhan arrivava a 54 e la provincia dello Jiangxi solo 87 !), sia perché l’allentamento del potere centrale di Pechino aveva dato la stura a mille problemi economici e politici e militari locali che rendevano difficile scegliere degli elementi fedeli (ma a chi ?) ed accettati dalle varie classi e strati sociali, rotta irrimediabilmente ogni solidarietà comune e nazionale.
Il primo Comitato Rivoluzionario fu costituito nella provincia di frontiera dell’Heilongjiang ed era presieduto da Pan Fusheng primo segretario del PCC locale, la vice presidenza era toccata al comandante militare del Distretto, Wang Jiadao, mentre le “masse” erano rappresentate dai delegati del “Quartiere generale congiunto dei ribelli rossi di Harbin” che aveva battuto le organizzazioni concorrenti. Il 3 febbraio fu la volta del Comitato Rivoluzionario della provincia dello Shandong ed anche qui i posti di presidente e primo vice furono appannaggio della struttura dell’EPL: Wang Xiao-yu, primo commissario politico della regione militare dell’Jinan, era il capofila mentre il secondo era Yang De-Zhi, comandante della stessa regione militare. Il 13 febbraio si costituì invece il Comitato Rivoluzionario della provincia del Guizhou che seguì ad un deciso intervento dell’EPL a favore di una organizzazione di Guardie Rosse e contro le sue concorrenti; il 24 febbraio, tocca invece alla Municipalità di Shanghai; il 18 marzo, si costituisce il Comitato Rivoluzionario della provincia dello Shanxi, ed il 20 aprile quello della capitale Pechino che sarà presieduto dal Ministro di Pubblica Sicurezza, generale Xie Fuzhi, il quale già dall’11 febbraio era responsabile dell’ “ordine” nella grande città posta sotto il diretto controllo dell’EPL.
Tutti questi Comitati rivoluzionari nella loro direzione contavano forti percentuali di ufficiali e commissari politici dell’esercito, un po’ poco come risultato di un anno di Rivoluzione Culturale che avrebbe dovuto “sburocratizzare” l’amministrazione, lo Stato ed il Partito, e nel contempo restituire alle masse l’antico vigore ed entusiasmo !
Il “Programma in 16 punti” dell’8 agosto 1966 prevedeva che le Guardie Rosse non intervenissero nelle campagne dove doveva invece continuare il Movimento di Educazione Socialista, da anni assolutamente fallimentare in tutti i suoi scopi. Del resto, immobili e sordi agli appelli i contadini, le Guardie Rosse erano troppo scarse numericamente per poter svolgere un’azione estesa e profonda nel disperso ed immenso mondo contadino, la cui preoccupazione principale rimaneva quella di produrre per le proprie elementari necessità e per il miglioramento delle durissime condizioni di esistenza. L’uomo dei campi rimaneva più che mai legato al suolo, suo unico e pretenzioso rifugio.
Solo dopo il buon raccolto dell’autunno 1966, e soprattutto a partire dal dicembre, i disordini incominciarono a interessare certe zone rurali, in special modo quelle limitrofe alle grandi città industriali. In generale si ebbe che i contadini approfittarono della maggior libertà, derivante dall’indebolimento dell’autorità centrale e dallo smarrimento dei quadri locali, per mollare gli obblighi collettivi, tornando ad una conduzione familiare dei terreni con l’uso privato di strumenti e bestiame, aumentando, a discapito dei mercati delle città, i propri prelievi sui raccolti, prima ripartiti a fine anno. In alcune zone, i contadini si divisero capitali e riserve, reclamarono i pochi depositi bancari, altri abbandonarono le campagne e, unitisi agli studenti inviati anni prima d’imperio nelle campagne, si diressero nelle vicine e lontane città.
Si aveva infatti che, per l’allentamento del controllo statale, i giovani “volontari” a migliaia ripresero la strada di casa lasciando alle spalle la dura vita dei campi alla quale poco si erano adattati. La migrazione, che di migrazione si trattò (lo Xinjiang nel mese di dicembre contò 60 mila partenze), toccò il culmine dopo il fatidico raccolto dell’autunno ed alla fine del 1966 cominciò a preoccupare gli stessi maoisti: il 25 dicembre, una circolare del CC annunciava che il Centro stava studiando il fenomeno, che presto sarebbero state varate delle precise direttive e che nel frattempo le autorità locali dovevano dissuadere i giovani dall’intraprendere il ritorno alle città d’origine.
Questi differenti fatti concorsero senz’altro ad una prima generica dichiarazione che la Rivoluzione Culturale avrebbe toccato le campagne, era l’editoriale del “Jenmin Jihpao” del 1° gennaio 1967 che coincise beffardamente con un’accresciuta migrazione dei giovani dalle campagne alle città e con i primi numerosi disordini fra contadini e Guardie Rosse.
Era un’altra dimostrazione del fallimento della Rivoluzione Culturale rispetto alle tendenze “individuali e private” non di Liu o di Deng, ma proprie della famiglia-azienda contadina.
Agli occhi dei contadini infatti la Rivoluzione Culturale appariva unicamente come la distruttrice delle tavolette ancestrali, di altri oggetti sacri, di credenze e pratiche antiche, per poi passare, in caso di successo, all’attacco dei pilastri portanti della povera e misera proprietà familiare, gli appezzamenti privati, i volatili, i maiali, pericoli questi che provocarono la più aspra possibile resistenza, crescente quasi di giorno in giorno, con la creazione spontanea di milizie contadine che si scontravano con le Guardie Rosse, impedivano l’ammassamento delle tasse e delle vendite obbligatorie, saccheggiavano talvolta i silos governativi di granaglie.
Nel gennaio-febbraio, i continui scontri e disordini, particolarmente gravi nella provincia dell’Heilongjiang in cui la Commissione Militare del CC decise di inviare nelle campagne le truppe per ristabilire l’ordine e salvare il prossimo raccolto di primavera, fecero sì che la manutenzione delle opere di irrigazione, di drenaggio e gli altri tradizionali lavori invernali fossero trascurati o del tutto abbandonati, sorte che ugualmente toccò alle piccole fabbriche delle Comuni, chiuse per mancanza di materie prime o per quella – straordinaria per la Cina – di mano d’opera, in tutt’altre faccende occupata.
Mentre i maoisti continuarono ad incolpare i “destri economicisti” di suscitare la rivolta dei contadini contro le “proprietà ed i beni collettivi” di Comuni, Brigate e Squadre, nel febbraio-marzo, con l’avvicinarsi dei raccolti primaverili, il regime di Pechino cercò di far ritornare l’ordine nelle campagne. Il 20 febbraio il CC fece pubblicare un suo “Messaggio ai contadini poveri e contadini medio poveri”, esortandoli a «mobilitare tutte le forze e a lavorare immediatamente per portare a buon fine i lavori di primavera»; l’EPL veniva inviato, per difendere la Rivoluzione Culturale e soprattutto per sostenere l’indispensabile produzione agricola, ad aiutare il lavoro necessario ai raccolti primaverili, il cui richiamo ebbe come risultato di far diminuire prima e placare poi l’irosa resistenza dei contadini nei confronti delle Guardie Rosse; non più molestati i rurali bonariamente ritornarono ai loro irrimandabili lavori stagionali.
Di più difficile risoluzione fu invece il problema dei giovani che avevano abbandonato le campagne e che erano clandestinamente ritornati nelle città; la circolare dell’11 gennaio del CC contro l’ “economicismo”, accusava i destri di questa fuga verso le zone urbane e del fatto che i fuggitivi avanzavano “rivendicazioni economiche irragionevoli”, quando dovevano invece essere «paghi del lavoro agricolo prendendo parte alla Rivoluzione Culturale nelle campagne senza pretendere nessuna elargizione non prevista dalle norme».
La circolare,come anche altri appelli futuri, rimase allo stato delle buone intenzioni: infatti, il 17 febbraio, il CC stilò un “appello urgente” che chiedeva ai giovani di “rientrare immediatamente” nelle loro sedi di campagna e di sciogliere, senza eccezione, “gli organi di collegamento” fra i vari organismi di fuggiaschi presenti in quasi tutte le principali città, minacciando i “cattivi elementi” che provocavano danno allo Stato, agivano illegalmente e turbavano la pace sociale, di incorrere nei rigori della legge. Minacce perfettamente uguali a quelle indirizzate verso gli operai scioperanti e che corrispondevano al reale spirito della Rivoluzione Culturale, movimento interessante la sfera “politica” e “culturale” e non quella quotidiana e volgare dell’ “economia” !
I tre mesi seguenti il tumultuoso gennaio con gli avvenimenti di Shanghai che furono la più pura dimostrazione di quanto indebolitosi fosse il potere centrale di Pechino e nel contempo, del rifiuto delle classi contadina e operaia a farsi manovrare da una qualsiasi delle fazioni dell’apparato in lotta, videro, come risultato del grande spavento, il regime cercare di disciplinare, arginare e controllare i laceranti contrasti di classe ormai alla luce del sole.
Abbiamo già visto gli appelli di Pechino nei confronti dell’iroso mondo contadino e quelli altrettanto “urgenti” per l’anarchismo e l’economicismo che stava dilagando nelle aziende e nelle fabbriche, e anche come il regime dovette, nel tentativo di ristabilire l’ordine, giocare la sua ultima e pericolosa carta, l’EPL, la cui gerarchia aveva piano piano allentato buona parte degli originari stretti vincoli con la capitale e cominciava ad osservare con un certo sospetto i dirigenti fedeli a Mao perché la Rivoluzione Culturale aveva via via messo alla berlina Peng Dehuai, Luo Ruiqing e, ultimo, He Long, due Marescialli e un Generale popolari ed influenti; soprattutto le gerarchie militari erano oltremodo risentite per gli eccessi delle Guardie Rosse e dei loro avversari che avevano a più riprese invaso le caserme e saccheggiato gli arsenali.
Per queste ragioni, l’EPL, l’unica àncora di Pechino, presentò un conto salato per il suo deciso e capillare intervento; colmò sì il vuoto creatosi con la frantumazione della struttura del Partito rimpiazzando la sua mastodontica burocrazia, assunse sì l’amministrazione e il controllo delle fabbriche (per prevenire sabotaggi, sprechi o saccheggi e soprattutto per costringere gli operai a tornare al loro posto di lavoro) supervisionando i trasporti e gli organi di propaganda, ma, d’altra parte, pretese ed ottenne i posti più importanti nei nascituri Comitati Rivoluzionari, pretese ed ottenne che fossero fatti tutti i possibili tentativi per mettere al passo le Guardie Rosse ed i loro avversari.
I tentativi di “normalizzazione” non si fecero attendere. Il 3 febbraio, il Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale invitava i giovani ad interrompere le lunghe marce verso i luoghi storici della Rivoluzione ed a ritornare alle loro scuole e alle loro fabbriche; il 4 febbraio, fu annunciata la riapertura delle scuole per il 1° marzo precisando che tutti gli insegnanti, sia i criticati sia i buoni, erano tenuti ad essere ai loro posti; nello stesso giorno, una direttiva poneva fine agli “scambi di esperienza” in tutte le fabbriche di interesse nazionale; il 12, si ammonì masse e Guardie Rosse che «non hanno il diritto di bruciare le tessere dei membri del Partito, essendo la disciplina del Partito di competenza del Partito stesso»; il 17, stesso mese, il CC stilava una “direttiva” che ordinava lo scioglimento di tutte le organizzazioni con estensione nazionale, di qualunque tendenza fossero, in particolare quelle dei soldati congedati e degli apprendisti; il 18 febbraio si ha uno dei primi provvedimenti del Comitato Rivoluzionario dello Shandong che mette fuori legge otto organizzazioni di Guardie Rosse fra le quali spiccano organizzazioni di operai, contadini e ex-soldati; il 19, il CC ordina la riapertura delle scuole medie per il 1° marzo che avviene invece il 6, salutata da radio e stampa; il 7 marzo, infine, nuovo ordine del CC: gli studenti universitari sono invitati a ritornare ai propri istituti entro due settimane; le “esperienze viaggianti”, uno dei primi cavalli di battaglia della Rivoluzione Culturale, erano chiuse.
Fu in questa opera di normalizzazione che nuovamente primeggiò il diplomatico Zhou Enlai. È il Primo Ministro infatti a presiedere il 22 febbraio, un’assemblea di Guardie Rosse della capitale nella cui dichiarazione finale si può leggere: «Noi Guardie Rosse siamo le riserve risolute e fidate dell’EPL», già leit motiv dei suoi discorsi nel settembre passato; è Zhou ad ammonire, il 24 febbraio, le Guardie Rosse che per “prendere il potere” nei Ministeri era necessaria l’approvazione del CC:
«Non tutti i Ministeri sono nelle mani di coloro che hanno imboccato la via capitalistica, i ribelli possono “controllare” i funzionari ministeriali, ma non sono in grado di svolgere i compiti dei funzionari»; è sempre lui a presiedere le riunioni preparatorie per la costituzione del Comitato Rivoluzionario di Pechino, con i delegati dei contadini poveri e medio poveri (19 marzo), degli operai (22 marzo) e delle Guardie Rosse delle scuole medie inferiori (26 marzo).
Ed era ancora l’infaticabile formica Zhou Enlai ad assumersi la responsabilità di una importante direttiva che, era la fine di febbraio, aveva lo scopo di porre fine ai crescenti disordini e scontri armati nella provincia dell’Henan, direttiva che istituzionalmente avrebbe dovuto essere di competenza del Ministro della difesa, maresciallo Lin Biao, e che costituì un’ennesima importante investitura al ruolo di arbitro all’EPL. La direttiva ordinava infatti: 1) di far intervenire l’EPL a dirimere i conflitti fra i diversi gruppi di Guardie Rosse; 2) di affidare all’EPL la direzione del giornale “Il Quotidiano dell’Henan”; 3) di sospendere momentaneamente l’uscita del giornale; 4) di convocare i rappresentanti dei gruppi di Guardie Rosse a Pechino.
Fu in questo clima di ricerca della moderazione che, il 18 marzo, il CC indirizzava una lettera ai quadri rivoluzionari e agli operai delle fabbriche delle miniere per ritornare al lavoro:
«Dovete, secondo le raccomandazioni del CC, continuare a lavorare otto ore giornalmente ed a dedicare alla Rivoluzione Culturale il tempo che eccede le ore di lavoro. Non è permesso abbandonare la produzione e i posti di lavoro su propria iniziativa durante le otto ore. Si deve combattere contro qualsiasi pericolosa tendenza all’assenteismo e ad un atteggiamento superficiale verso il lavoro (...) Si deve combattere contro qualsiasi pericolosa tendenza a non badare alla qualità del prodotto e a sprecare i fondi pubblici ed i materiali. Tutto il personale delle fabbriche e delle miniere deve, durante la grande Rivoluzione Culturale proletaria, studiare l’esperienza della riduzione delle spese e dell’amministrazione semplificata. È necessario sia ridurre di molto il personale eccedente che aumentare l’efficienza nel lavoro. Bisogna fare attenzione a economizzare nella realizzazione della Rivoluzione Culturale».
Lettera conciliante, seppure piena di consigli e di attenzioni, la classica carota che seguiva l’altrettanto classico bastone: tre giorni prima un articolo del giornale di Shanghai, “Wenhui Bao”, titolato “Screditiamo il corporativismo” annunciava lo scioglimento, nella grande città proletaria, delle “associazioni professionali” che si erano spontaneamente formate dopo lo scioglimento, nel dicembre, dei Sindacati.
Il giornale scriveva: «La tendenza feudale di queste associazioni, formate non sulla base di classi ma di mestieri, è rivelata dai loro obbiettivi di lotta parziali ed immediati, propri degli operai che esercitano questi mestieri», giudizio che riprende pari pari l’atteggiamento della Rivoluzione francese del 1791, la rivoluzione borghese per eccellenza, sulle prime organizzazioni sindacali operaie e che serve magnificamente a demistificare il carattere socialista del regime di Pechino !
Nel mese di aprile, il regime raccolse i frutti degli appelli alla moderazione e normalizzazione dei mesi precedenti, infatti proprio mentre divampava nuovamente una artificiosa e costruita virulenta campagna contro Liu Shaoqi, rifacendosi addirittura ad un film di 18 anni prima (“Storia segreta della corte dei Qing”) che probabilmente il buon Liu non aveva neanche visto, ed al suo libro “Per essere un buon comunista” del 1939 (!), diminuirono e si placarono gli scioperi nelle fabbriche e anche se continuarono i contrasti fra gruppi di Guardie Rosse quasi mai questi richiesero l’intervento risolutore dell’EPL. Tutti i vari protagonisti, classi, apparati e uomini, tirarono il fiato dopo lo svolgersi tumultuoso degli accadimenti nei primi mesi dell’anno, prima di quello ancor più caotico e drammatico della prossima estate.
Il regime maoista, sfruttando il momento di calma, si permise quindi una clamorosa iniziativa ad effetto propagandistico, organizzando all’Università Qinghua, il 10 aprile, un’assemblea pubblica: le fabbriche furono chiuse e circa 200 mila lavoratori furono irreggimentati ad assistere all’umiliazione ed al processo del “Quartier Generale» borghese, Wang Guangmei, Jiang Nanxiang, Lu Dingyi, Peng Zhen e Bo Yibo.
Ma ormai, a parte le iniziative folcloristiche contro la sconfitta “banda nera” e contro i seguaci più sfortunati di Liu Shaoqi e Deng Xiaoping, il cui schieramento si era vieppiù indebolito dopo l’estromissione di Tao Zhu nel gennaio dalle sue funzioni al vertice del Partito e dello Stato, erano i difficili rapporti fra EPL e Guardie Rosse e quindi fra EPL e Pechino ad essere il punto critico dell’intera Rivoluzione Culturale.
Il 10 aprile, un articolo del “Quotidiano dell’Esercito” cercava di chiarire i ricorrenti dubbi delle gerarchie militari di fronte al pullulare di organizzazioni ed al vero e proprio caos regnante nelle fabbriche e che, imperativo nazionale, doveva in un modo o nell’altro avere termine.
«Fra le organizzazioni rivoluzionarie non dovremo arbitrariamente appoggiare una sezione nel reprimerne un’altra. Per quanto riguarda la loro differenza di opinione, dobbiamo aiutarli ad unificarsi sulla base di un orientamento comune generale attraverso la rettifica, l’autorettifica, e discussioni e dibattiti normali. (...) Quanto a noi, EPL, ci muoviamo in appoggio alla sinistra (...) Ci impegniamo a unirci alle grandi masse della sinistra ed a combattere e a vincere le battaglie insieme con loro».
L’articolo faceva seguito ad un dazibao
della Commissione Militare del CC in cui, era il 6 aprile, si avvertiva
che l’EPL non doveva reprimere le organizzazioni di Guardie Rosse senza
il permesso del CC, non doveva procedere ad arresti di massa né
infliggere pene fisiche agli arrestati né costringerli a
confessare,
tutte azioni che in abbondanza si erano avute nei mesi passati e che
adesso il regime cercava di minimizzare sforzandosi di ricostruire quel
blocco di classi e di apparati che era stato alla base delle fortune
iniziali della Repubblica Popolare.
Questo sforzo continuò per tutto l’aprile 1967 e fu suggellato dalla stessa rivista teorica “Bandiera Rossa” che nel suo editoriale della fine del mese:
«Rispondiamo calorosamente all’appello “Sostenere l’EPL e amare il popolo”» doveva prima ribadire che «L’EPL è il pilastro della dittatura del proletariato e le masse rivoluzionarie devono avere contatti diretti con l’EPL prestandoci il proprio appoggio», per poi concludere che le masse dovevano mettersi con modestia alla sua scuola: «In nessuna occasione o circostanza, la punta avanzata della lotta deve essere diretta contro l’EPL». Il conciliante editoriale si auspicava, con uno sbotto di ottimismo fuori luogo, che: «Per quanto riguarda alcune delle manchevolezze ed errori compiuti dalle masse rivoluzionarie in questo movimento, i Comandanti ed i soldati dell’EPL dovrebbero aiutarli entusiasticamente a superarli e correggerli».
L’auspicio fu clamorosamente sconfessato dagli avvenimenti a venire che si sbarazzarono totalmente delle speranze di normalizzazione che il regime aveva frettolosamente coltivato nell’aprile, l’intera Nazione, ancor più che nel gennaio, piomberà nel caos più completo minacciata ad un certo punto la stessa unità statale, risultato questo non voluto né previsto dagli epuratori maoisti come dagli epurati liuisti.
Schieramenti e personaggi illustri saranno trascinati da una impetuosa corrente di eventi che vedranno nuovamente masse enormi di uomini, dimentichi dei consigli sciocchi di critica ed autocritica, che si muoveranno e lotteranno ubbidendo a determinazioni proprie.
Si impone una marxistica riflessione: se giusto l’anarchismo ed il maoismo, le masse possono assurgere ad azione e coscienza di classe, ebbene nessun palcoscenico né circostanza è stata e probabilmente sarà più favorevole della Rivoluzione Culturale cinese, ma questa è, lo vediamo continuamente con lo svolgersi del lavoro, infine aperta sconfessione di tali teorie e tesi in quanto si ha che, nonostante il movimento e l’azione di masse sterminate di uomini, l’assenza di una pur minima sedimentazione di coscienza di classe: classi e uomini, grandi e piccoli, rimangono abbagliati e confusi dalle loro stesse illusioni e dai loro stessi partiti fantastici che ad un certo punto li dominano.
Nettamente si scaglia all’orizzonte la controtesi nostra: non le masse, non la classe, non l’uomo è capace di teoria e coscienza ma l’impersonale ed anonimo Partito, grande o piccolo che sia niente importa !
Le celebrazioni nell’immensa Piazza Tian’anmen di Pechino del maggio 1967 furono il naturale epilogo della politica conciliatrice della “triplice alleanza” che il regime aveva tenuto nei mesi precedenti. In ordine rigorosamente gerarchico, alla cerimonia con fuochi d’artificio assistevano dirigenti in auge spalla a spalla con quelli contestati e criticati dalle Guardie Rosse. Oltre a Mao Zedong e Lin Biao, coppia ormai deificata, l’Agenzia Nuova Cina allineava Zhou Enlai, Chen Boda, Kang Sheng, Zhu De, Li Fuzhun, Chen Yun, Dong Biwu, Chen Yi, Li Xiannian, Tan Zhenlin, Xu Xiangqian, Nie Rongzhen, Ye Jianying, Liu Ningyi, Xiao Hua, Yang Chengwu, Su Yu e Jiang Qing; ed era soprattutto la presenza scocciante di Chen Yun e Chen Yi, più che l’assenza di Peng Zhen, Liu Shaoqi e Deng Xiaoping, a mostrare come i maoisti cominciavano a scontare l’entità stessa dell’epurazione: i grandi sconfitti ed i loro più stretti collaboratori avevano lasciato nella struttura statale un vuoto difficilmente colmabile e i resti del CC e del Politburo erano stritolati dall’ancora efficiente struttura militare che i fatti chiamavano sempre più ad entrare in scena.
Il mese di maggio vide infatti di nuovo divampare gravissimi disordini nelle Province, tanto gravi che la nuova politica della “triplice alleanza” precocemente invecchiò, per niente adatta alla bisogna. Gli scontri più prolungati e cruenti delle prime settimane di maggio furono nella Provincia del Sichuan, dove, come abbiamo visto negli altri casi, la lotta fra sostenitori ed avversari della Rivoluzione Culturale si sommava e si sovrapponeva a quella che contemporaneamente vedeva operai e contadini, un po’ contro gli uni, un po’ contro gli altri.
L’avversario primo della Rivoluzione Culturale era il segretario del Partito della Regione del Sud-Ovest e membro del Politburo dopo il Plenum di Lushun, Li Jingquan, che era direttamente appoggiato dall’EPL della Regione Militare di Chengdu (comandante il generale Huang Xinting e commissario politico Guo Lin-xiang, ambedue riabilitati) e soprattutto dalla LIV Armata.
Operai, Guardie Rosse e militari si scontrarono ripetutamente e sanguinosamente in battaglie ancora oggi avvolte da molti misteri. I giornali delle Guardie Rosse riferirono, il 9 maggio, di 100 morti e 200 feriti a Chengdu durante la prima settimana del mese; altri rapporti delle Guardie Rosse si limitavano invece a contare in 2500 i feriti di cui 700 gravi. Lo studioso Guillermaz nei suoi scritti ricostruisce una cronologia ben più drammatica: 1.000 fra morti e feriti negli incidenti fra Guardie Rosse e gli operai dello stabilimento tessile n. 1 di Chengdu, il 4 maggio, e scontri ancora più feroci sempre fra Guardie Rosse e operai tessili.
Concordanti le varie fonti, i militari nei loro interventi usarono bombe e mitragliatrici, mentre solo Guillermaz riporta la notizia che, il 19 maggio, il raggruppamento operaio “Esercito industriale”, rifugiatosi nelle campagne dopo essersi impadronito di 400 fucili ed armi automatiche, fa prigioniere 1800 Guardie Rosse e ne decapita 34.
A Li Jingquan verranno revocate le cariche da un ordine del CC che lo accuserà di aver voluto trasformare la Provincia del Sichuan in un “regno indipendente”, accusa che rivelava non tanto le reali intenzioni di Li, ma come l’originario centralismo di Pechino fosse alla fine dei suoi giorni. Lo sostituì un militare, il generale Zhang Guohua, fino ad allora comandante della Regione Militare del Tibet che con decisione aveva impedito alle Guardie Rosse di turbare la tranquillità dell’ascetica regione. Mutamento si ebbe anche per il comando militare che passò da Huang Xinting a Liang Xiangchu, un commissario politico della Regione Militare di Canton. Perso ogni appoggio da parte dell’EPL, Li Jingquan dovette fuggire precipitosamente per essere arrestato mesi dopo.
Il rimpasto al vertice del governo della Provincia, non impedì nuovi gravi disordini, questa volta a Chongqing, il 5 ed il 7 giugno, con un raggruppamento maoista che ebbe 170 morti. Il mese di maggio fu oltremodo burrascoso per la Provincia dell’Henan dove da mesi si fronteggiavano avversari e partigiani della Rivoluzione Culturale, i primi organizzati nella “Comune di Sicurezza Pubblica” ed i secondi nella “Comune 7 febbraio”, con l’EPL neutrale di fronte alla contesa.
I due gruppi, forti di circa 100 mila effettivi reclutati sia fra gli operai sia fra gli studenti, si affrontarono dai primi di maggio in una vera lotta armata. La capitale della Provincia, Zhengzhou, le città di Kaifeng e Luoyang furono teatro di continui scontri, particolarmente feroci negli ultimi giorni del mese, e che culminarono nell’assalto delle truppe della “Comune di Sicurezza Pubblica” alla Filatura di Stato n. 6 di Zhengzhou con episodi di antica crudeltà tipica delle guerre contadine (decapitazioni, mutilazioni terribili, arsi vivi).
Secondo le tragiche cronache, sembra che nell’Henan, al contrario di tante altre Provincie, la lotta contro l’economicismo, costantemente evocata da Pechino, avrebbe avuto nelle Guardie Rosse i più tenaci oppositori, ed invece nei gruppi che sostenevano il vecchio locale Comitato di Partito i fedeli esecutori dei voleri della Capitale.
Fu la stessa Stazione radio di Zhengzhou, il 26 maggio, quando maggiormente estesi si facevano i disordini, ad avvertire gli operai dell’Henan a non assentarsi dal lavoro senza ragione, di non seguire quel pugno di persone che istigavano a scioperare rendendo parzialmente inattivo l’importante nodo ferroviario di Zhengzhou, a saccheggiare e distruggere. Giudizio che, passata per un attimo la bufera, sarà ripreso negli stessi termini, il 6 giugno, dal “Quotidiano dell’Henan” che denunciò “una minoranza di teppisti controrivoluzionari”, la quale «colpiva furiosamente le persone, saccheggiava e distruggeva le proprietà» ed aveva instaurato una atmosfera di terrore causando infine scioperi ed interruzioni di lavoro.
Questa diversa configurazione della lotta contro l’economicismo (nelle altre Provincie come abbiamo visto era stata appannaggio sicuro dei maoisti e delle loro Guardie Rosse) non deve sorprenderci perché, come stiamo vedendo, i due schieramenti, uniti nell’aspirazione di un vigoroso e giovanile nazionalismo, non si erano mai sostanzialmente differenziati di fronte al problema del miglioramento delle condizioni materiali di lavoro e di esistenza della classe lavoratrice che tutti e due gli schieramenti volevano subordinata alle superiori esigenze dello Stato e dell’economia nazionale: il malcontento accumulato nei decenni nella classe lavoratrice vagava senza meta fra i due schieramenti avversi. Solo particolarissime ragioni dello svolgersi dei fatti faceva si che questo minaccioso malcontento fosse attratto dall’uno anziché dall’altro schieramento, che questo anziché quello fosse costretto ad appoggiare il naturale “tradunionismo” della classe lavoratrice, mentre l’altro automaticamente si assumeva il compito di contrastarlo e di combatterlo.
Classe operaia senza coscienza ? Certo, nel senso che mai automaticamente dalla sua azione di difesa economica scaturisce coscienza e programma comunista, visione questa populista, anarchica e maoista insieme. Da marxisti ci basta rilevare la potenza delle determinazioni materiali, le sole che spingono la classe lavoratrice a scendere in lotta usando, insieme alle illusioni che ronzano nell’aria, le tradizionali armi della lotta di classe; ecco tutta la coscienza possibile, ecco l’inizio dell’arduo cammino che vedrà un giorno il ricongiungimento della classe proletaria, cinese e no, con il suo Partito !
Gravi disordini avevano interessato anche le Provincie del Nord-Est: la capitale del Jilin, Changchun, vide lo sciopero dei 20.000 operai delle fabbriche automobilistiche e duri scontri fra gli scioperanti e le Guardie Rosse; nel vicino Heilongjiang che aveva visto costituirsi il primo Comitato Rivoluzionario, Radio Harbin riferì che Pan Fusheng dovette arringare, il 9 maggio, 200 mila persone per metterle in guardia contro una minoranza che «fa del suo meglio» per suscitare scontri armati, «disintegrare i ranghi dei rivoluzionari e minare la politica di stimolare la produzione». L’arringa di Pan Fusheng seguì duri scontri, con vere battaglie campali, fra operai, contadini e Guardie Rosse maoiste più volte sconfitte, scontri che, con gli stessi protagonisti e gli stessi risultati, si ebbero nuovamente dall’11 al 14 agosto.
Scendendo verso il Sud, la stessa Provincia dello Shandong, una roccaforte delle Guardie Rosse pechinesi, vide il nuovo potere del Comitato Rivoluzionario traballare vistosamente: l’11 maggio, Radio Jinan annunciava infatti che un furioso contrattacco da parte delle minoranze era stato stroncato dopo due giorni di violenta lotta con un fermo intervento delle unità dell’EPL; repressione che, 13 anni dopo, è una delle poche ad essere stata citata nel processo alla Banda dei Quattro come prova dei crimini di Zhang Chunqiao e Yao Wenyuan contro le masse, per il loro appoggio a Wang Xiao Yu, l’allora Presidente del Comitato Rivoluzionario locale e responsabile diretto degli incidenti.
Altre battaglie campali si ebbero presso la città di Guiyang nel Guizhou (seconda quindicina di aprile); nella città di Kunming nello Yunnan (fine maggio-inizio giugno) dove, il 3 luglio, si recarono in una missione pacificatrice, Xie Fuzhi e Wang Li, riuscendo a far cessare gli scontri fra le Guardie Rosse; nella città di Changsha nell’Hunan con decine di morti, l’8 giugno; ancora sommosse e scontri si estendevano un po’ in tutta la Mongolia Interna dopo la destituzione dai suoi incarichi del Primo Segretario e membro del Politburo, Ulanhu.
Questa nuova ondata di scontri e di disordini nelle Province stava determinando nuovamente il sanguinoso intervento dell’EPL e dette come risultato,oltre naturalmente un grande numero di morti e feriti, di raffreddare di molto l’entusiasmo dei quadri per la politica della “triplice alleanza”. Nel mese di maggio infatti non si ebbe nessuna costituzione di nuovi Comitati Rivoluzionari, tutto pesava sull’EPL, tanto che il “Jenmin Jihpao” poteva tranquillamente scrivere, il 12 maggio, che il destino della Rivoluzione Culturale era interamente nelle mani dell’Esercito, fatto innegabile che significava il tramonto delle speranze di “normalizzazione» dal regime precipitosamente coltivate nei due mesi precedenti.
La stessa capitale Pechino era di nuovo nell’occhio del ciclone, con l’azione delle Guardie Rosse che aveva ripreso vigore. All’inizio del mese di maggio, mentre proliferavano dazibao contro Zhou Enlai, si riebbero spedizioni di Guardie Rosse al saccheggio degli archivi segreti dei vari Ministeri (il 13 maggio le Guardie Rosse entrarono nel Ministero degli Esteri ma furono subito sgombrate dall’EPL) e soprattutto nuovi violenti scontri fra i diversi gruppi; nei primi dieci giorni del mese, secondo il discorso del Ministro di Pubblica Sicurezza, Xie Fuzhi, tenuto il 14 maggio al Comitato Rivoluzionario, si ebbero in Pechino ben 113 fra battaglie ed incidenti con circa 63.000 fra morti e feriti più o meno gravi..
Fu due giorni dopo il discorso di Xie che comparve a Pechino il gruppo di Guardie Rosse denominato “Corpo d’armata 16 maggio” il quale, riprendendo tutti gli slogan della “Circolare del CC” di un anno prima, avrebbe attaccato tutti i responsabili sostenendo che il presidente Mao aveva parlato di “individui del genere Kruscev” al plurale e che conseguentemente la Rivoluzione Culturale non poteva limitarsi “alla sola persona del più alto responsabile impegnato nella via capitalistica”; la frecciata di quei maoisti della prima ora era certamente diretta al coriaceo Zhou Enlai ed a tutti quei dirigenti e funzionari che lo sostenevano nel suo sforzo di circoscrivere l’epurazione, di modo che a questa non ne seguisse la rovina dell’intero edificio statale quanto mai traballante.
L’estremista “Corpo d’armata 16 maggio” che diresse il 29 maggio l’assalto e l’occupazione delle Guardie Rosse al Ministero degli Esteri che in quella occasione portarono via tutto quello che gli capitava sotto mano, era forse un raggruppamento marxista ? Il quesito vale anche per tanti altri gruppi, anche più “radicali”, successivamente accusati di trotskismo dai dirigenti di Pechino quando, fra pochi mesi, se ne sbarazzeranno in maniera brutale. I documenti giunti in occidente non autorizzano a dare una risposta positiva alla domanda, i fatti conosciuti mostrano come nessuno di questi gruppi riuscì a rigettare totalmente il patrimonio maoista della Repubblica Popolare, né a rintracciare, nel passato della storia del PCC, quando e come avvenne la rottura del filo rosso del comunismo internazionale, neanche quando i più decisi estesero le loro critiche a Lin Biao, a Jiang Qing ed allo stesso Mao Zedong.
Sia i disordini nelle Province, sia quelli in Pechino, allarmarono il regime, infatti, il “Jenmin Jihpao” pubblicò, in data 22 maggio, un accalorato editoriale dal titolo “Cessare immediatamente la lotta”, in cui fra l’altro si affermava:
«Di recente, un soffio di vento sinistro, l’uso della forza nella lotta, si è diffuso in alcune aree fra unità ed organizzazioni di massa. Interferisce con il grande movimento della lotta, ostacola il progresso della grande democrazia che si trova nella condizione di dittatura del proletariato, colpisce e distrugge la produzione, sconvolge l’ordinato processo della rivoluzione, distrugge la proprietà dello Stato e minaccia la sicurezza della vita del popolo. Dobbiamo essere decisi a fermare questa pazzia. L’uso della coercizione e della forza nella lotta fra organizzazioni di massa non è in nessun caso un atto rivoluzionario o un’impresa eroica, ma un segno di degenerazione (...) anche su questioni di principio, si deve cercare di raggiungere una soluzione sulla base della verità e della ragione attraverso la procedura normale della discussione e del dibattito. In nessuna circostanza si può permettere ad una parte di insistere nei suoi attacchi, insistere in una guerra civile, creare antagonismi e aumentare l’uso della forza nella lotta».
E ad ulteriore conferma della drammaticità degli avvenimenti, si aveva, il 6 giugno 1967, una “Circolare in 7 punti” estremamente energica dalla firma congiunta del CC, del Consiglio di Stato, del Comitato Militare e del Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale. La Circolare ribadiva che soltanto gli organi statali avevano l’autorità per effettuare arresti e per procedere a perquisizioni, processi e sentenze; la proprietà statale andava protetta nei confronti di chiunque l’attentasse; la violenza era proibita.
Unici garanti e responsabili per l’applicazione di queste misure erano i militari, ai quali quindi non veniva solamente chiesto di “sostenere la sinistra anche se minoritaria” (come nei mesi passati), ma di più: su tutto, contro tutto e tutti, l’unità statale della grande Nazione, ormai precipitata nel caos, andava preservata.
Anche il mese di giugno, che pure rispetto al mese precedente vide diminuiti gli scontri e le battaglie, non portò “nessuna nuova” costituzione di Comitati Rivoluzionari; la propagandata forma di potere della Rivoluzione Culturale segnava il passo.
Mentre la Rivoluzione Culturale stava per entrare nella sua decisiva crisi, il 17 giugno, Pechino annunciò lo scoppio della prima bomba H cinese, nella Regione del Xinjiang.
La propaganda presenterà il notevole exploit scientifico come una vittoria della Rivoluzione Culturale e l’ennesima conferma dell’infallibilità del pensiero di Mao Zedong; poche ciance: il “Programma in sedici punti” della Rivoluzione Culturale esentava, specificatamente, gli specialisti scientifici dal partecipare alla Rivoluzione Culturale, anzi questi erano invitati a continuare tranquillamente a studiare per ogni possibile sviluppo tecnico e militare della Repubblica, alla portata della scienza e della tecnica borghese tanto vituperata allora dalle Guardie Rosse ma non del pensiero dell’idolo Mao !
L’insurrezione di Wuhan possiamo ben dire che fu l’avvenimento decisivo dell’anno 1967, anche per il solo fatto che Wuhan, un agglomerato di tre città: Wuchang, Hankou e Hanyang, con una popolazione complessiva di circa 2 milioni e mezzo di persone, occupa una posizione di vitale importanza sia dal punto di vista economico sia da quello strategico per il regime, cerniera fra il Nord ed il Sud dell’immensa Nazione.
Wuhan era stata potente roccaforte di Tao Zhu, Segretario della Regione del Centro sud, prima della sua rapida ed effimera carriera al vertice della gerarchia quando, nel giugno 1966, aveva sostituito Liu Dingyi al Dipartimento Propaganda, posto che detenne fino alla sua epurazione nel gennaio 1967. Il secondo, Wang Renzhong, da sempre Sindaco di Wuhan e primo Segretario per l’Hubei, aveva sostituito Tao Zhu come Segretario per il Centro sud ed era stato, appena un anno prima, il compagno nuotatore di Mao nella propagandata impresa sportiva.
Con l’epurazione di Tao Zhu anche Wang Renzhong fu oggetto di primi violentissimi attacchi da parte delle Guardie Rosse e, richiamato a Pechino, lasciò la grande vitale città nelle mani dell’unica forza organizzata: l’EPL agli ordini del generale Chen Zaidao. Questi dirigeva fin dal 1955 l’importante Regione Militare di Wuhan che comprendeva le Province dell’Hubei e dell’Henan, e, secondo i sinologhi più seri, faceva parte di quei potenti capi militari regionali (i generali Wang Enmao, Qin Jiwei e Huang Xinting) che per solidarietà con i loro antichi superiori, i Marescialli Peng Dehuai, He Long, Liu Bocheng e Xu Xiangqian, mai erano entrati nella corte del delfino, il Maresciallo Lin Biao, la cui salita era anzi vista con sospetto e rancore.
Dai primi dell’anno 1967, la triplice città era divenuta il teatro di continui scontri fra i 54 ruppi di “ribelli” e di Guardie Rosse locali. Uno di questi, denominato “Il milione di eroi” era appoggiato direttamente dall’EPL, e sembra fosse composto essenzialmente da operai (2 mila stabilimenti e miniere scesero in sciopero il 29-30 aprile ed ingrossarono le sue file), ferrovieri e contadini, più volte scontratisi con le Guardie Rosse maoiste. Dopo i primi cruenti scontri del marzo e dell’aprile (300 morti e più di 1000 arresti) la lotta fra questa milizia operaia e le Guardie Rosse raggiunse il culmine nella seconda quindicina di giugno in cui, oltre al blocco del ponte ferroviario sullo Yangtze, del 14 e del 15, si ebbe una vera battaglia nelle strade della città con un bilancio di 350 morti e 1500 feriti.
Dopo una prima fallimentare visita di Zhou Enlai, il 14 luglio, Pechino inviò, due giorni dopo, tre suoi prestigiosi dirigenti: si trattava di Xie Fuzhi (Ministro di Pubblica Sicurezza e Presidente del Comitato Rivoluzionario di Pechino), di Wang Li (membro del Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale) e di Yu Lijin (Commissario politico dell’Aviazione) per cercare di far cessare gli scontri che vedevano soccombere le Guardie Rosse maoiste. La missione mediatrice dei tre emissari iniziò subito in malo modo: il 17 una manifestazione di maoisti battagliò con una contromanifestazione indetta dal “Milione di eroi”. La notte fra il 19 ed il 20 fu il culmine della crisi: l’unità militare 8.210 (divisione delle forze di sicurezza) appoggiata dalle milizie del “Milione di eroi” occupò l’aeroporto, le stazioni radio televisive, le sponde dello Yangtze ed i principali punti della città, mentre una folla inferocita assaltava la dimora dei tre delegati di Pechino, uccise le guardie del corpo, e Xie, Wang e Yu furono fatti prigionieri: mentre a Xie Fuzhi veniva riservato un trattamento di riguardo, gli altri due furono duramente malmenati dalla folla.
Con la solita prudenza, dirà poi la “Lettera alle autorità della Regione Centrale”:
«Individui responsabili del Distretto Militare di Wuhan, resistendo apertamente alla linea proletaria di Mao Zedong e alle corrette direttive del Comitato Militare del CC, hanno spinto le masse ignoranti a opporsi al CC ed al Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale. Facendo questo, non hanno esitato a mettere in atto procedimenti fascisti e barbari, attacchi, rapimenti e brutalità contro i rappresentanti del CC».
Lo svolgersi degli avvenimenti vide il
precipitoso ritorno a Wuhan di Zhou Enlai per negoziarvi, probabilmente
con lo stesso Chen Zaidao, un’onorevole via di uscita per tutti; il 21
ed il 22, Guardie Rosse e distaccamenti militari sfilarono per
Pechino al grido di “Abbasso Chen Zaidao e Wang Renzhong !
Libertà
per
l’Hubei !”; sempre il 22 luglio sembra che si ha il rilascio dei
tre
delegati frettolosamente inviati a Pechino; il giorno dopo il “Jenmin
Jihpao” poteva celebrare il ritorno della delegazione, il
comunicato
ufficiale ostentatamente si limitava a dire che i tre «erano
gloriosamente ritornati da Wuhan, dove si erano recati per risolvere
alcuni problemi della Rivoluzione Culturale».
Il 24 luglio, Chen Zaidao ed i suoi principali subalterni prendevano la strada di Pechino dove però non subiranno nessuna punizione per l’aperta insubordinazione al potere centrale. Lo stesso giorno, truppe paracadutate disarmavano l’Unità 8.201 e le milizie del “Milione di eroi”, occupavano i principali punti strategici di Wuhan sotto controllo anche da parte di alcune unità navali da guerra che avevano risalito lo Yangtze.
Il 25 luglio, si ebbero organizzate ed imponenti manifestazioni in tutte le principali città per festeggiare lo scampato pericolo e la “liberazione dell’Hubei”; la più importante si svolse naturalmente a Pechino dove, nella solita Piazza Tien’anmen, Guardie Rosse, milizie e soldati (un milione circa di persone) sfilarono di fronte alle autorità ed alle gerarchie militari presiedute da Lin Biao. Una manifestazione quella di Pechino che, secondo gli osservatori, non ebbe niente della baldanza di quelle passate ma che invece, anche negli slogan scanditi tipo: “Difenderemo il presidente Mao, a costo del nostro sangue e della nostra vita”, esprimeva tutta l’inquietudine di chi vede arrivare la resa dei conti e cerca disperatamente di serrare le proprie file, ormai sulla difensiva.
Qual’era infatti il significato profondo dell’intero “incidente di Wuhan” ? Se inizialmente, in blocco, l’EPL aveva favorito la Rivoluzione Culturale dando esempio unico di fedeltà ai dettami ed ai pronunciamenti di Mao Zedong, il procedere della Rivoluzione Culturale l’avevano più volte ed in significative occasioni fatto scontrare con le Guardie Rosse maoiste la cui indisciplinata azione aveva allarmato più di un capo militare. A conclusione di un processo tormentato, l’EPL aveva scelto l’ordine e si era avuto l’aperta sfida ed insurrezione di Wuhan, un’insurrezione che da Pechino non si poté sciogliere con la forza ma attraverso la sottile diplomazia di Zhou Enlai, in questo caso sintomo dell’estrema debolezza del potere centrale. Furono gli accordi di Zhou Enlai a liberare i tre delegati della Capitale ed a prevedere l’impunità del generale Chen Zaidao sostituito con un altro generale (Zeng Siyu, comandante aggiunto della Regione Militare del Zhejiang) nel comando dell’importante piazza di Wuhan e, infine, a permettere, senza colpo ferire, il disarmo degli insorti. Se Chen Zaidao a questo si piegò ricevendo un così magnanimo trattamento, cosa pretese in cambio da parte del debole potere centrale, lui e gli altri capi militari che certo lo appoggiavano, più o meno apertamente ? La cosiddetta ultra-sinistra della Rivoluzione Culturale (Chen Boda, Jiang Qing, Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan, Wang Li, Qi Benyu, ecc.) certo ebbe il sentore di essere stata sacrificata sull’altare della risoluzione di quella difficile crisi, tanto che nell’agosto 1967 crebbe la sua diffidenza e la sua ostilità nei confronti dei militari e si ebbe un suo estremo tentativo di invertire, a proprio favore, il disastroso rapporto di forza che si stava delineando.
Il 26 luglio, si era avuto il primo di questi tentativi. Sullo stesso “Quotidiano dell’Esercito” l’editoriale rilevava la fine dell’incondizionata fiducia della Rivoluzione Culturale nei confronti dell’EPL, fino ad allora al di sopra di ogni sospetto:
«Proteggere il presidente Mao, il vicepresidente Lin, il Quartier Generale supremo del presidente Mao ed il Gruppo per la Rivoluzione Culturale del CC del PCC e appoggiare i rivoluzionari proletari, è il dovere e la responsabilità più sacra del nostro EPL. Chiunque si opponga al presidente Mao, al vicepresidente Lin Biao ed al CC ed opprime i rivoluzionari proletari è un nostro nemico giurato e non potremo mai vivere con lui sotto lo stesso cielo. Lo abbatteremo risolutamente senza alcun riguardo alla sua posizione e alla sua anzianità (...) Facciamo appello alle masse ingannate perché si sollevino e si ribellino. Essere ingannati non è un crimine. Restituire i colpi è un merito (...) Quanto al piccolo gruppo di persone che, stando al vertice del Partito e dell’Esercito, hanno preso la via del capitalismo, dobbiamo trascinarle allo scoperto e screditarle totalmente, cosicché non possano più risollevarsi»,
L’originario aforisma: “il pugno di revisionisti che detengono il potere all’interno del Partito” si estendeva adesso anche all’EPL che sempre più incuteva timore e rispetto, a Mao ed ai suoi stessi partigiani, come unica forza statale organizzata che nessuno osava prendere di petto.
La Rivoluzione Culturale aveva ormai gli artigli spuntati e, significativamente, il “Jenmin Jihpao” del 31 luglio, nell’editoriale “Il proletariato deve tenere fermamente il fucile in mano”, doveva contraddittoriamente sottolineare: «La situazione della Rivoluzione Culturale proletaria in Cina è eccellente, ma la lotta di classe diventa più difficile».
In rapporto più o meno diretto con gli avvenimenti di Wuhan, si ebbero i gravi incidenti e scontri di Canton (Guangzhou), la capitale della Provincia del Guangdong. A Canton, come nelle altre grandi città, le Guardie Rosse iniziarono la loro azione contro i “costumi capitalistici”, nell’agosto 1966 quando la marea dei giovani studenti si richiuse violentemente sul “vecchio” e sullo “stile Hong Kong”. Gli incidenti cominciarono a degenerare nei primi mesi del nuovo anno, con gli avvenimenti di Shanghai e l’entrata nella Rivoluzione Culturale della classe lavoratrice. I “ribelli” maoisti accuseranno successivamente che l’EPL e soprattutto la Pubblica Sicurezza, si daranno a reprimere gli “elementi di sinistra”, denunciandoli, imprigionandoli, umiliandoli e licenziandoli. Nel gennaio, sembra che circa mille persone assaggiarono il fraterno aiuto dei militari su cui si appoggiava il locale Comitato di Partito, presieduto da Deng Sheng.
Come nelle altre città i gruppi delle Guardie Rosse erano divisi in molte fazioni di incerta e mutevole tendenza. Le principali di quelle favorevoli al Gruppo Centrale della Rivoluzione Culturale erano i “Lavoratori della Bandiera Rossa”, il “Corpo del 1° agosto» ed il “Quartier Generale delle Guardie Rosse”, gruppi contrastati dai “Soldati della dottrina”, dai “Contadini poveri dei sobborghi” e dal “Quartier Generale locale delle Guardie Rosse” (Ti-tsung).
Dopo il fallimento di una riunione conciliatrice presieduta dallo stesso Zhou Enlai, il quale soggiornò a Canton dal 18 aprile, gli incidenti si moltiplicarono contemporaneamente all’insurrezione di Wuhan. E il 21 luglio ebbe inizio una vera lotta armata con centinaia di morti e di feriti fra il gruppo “Lavoratori della Bandiera Rossa” ed il “Ti-tsung”. Lotta che coinvolse direttamente unità militari locali e venute dalla vicina Provincia dell’Hunan (XLI, XLII e XLVII armate). Una battaglia campale, il 12 agosto, provocò circa 500 morti e feriti; un’imboscata, il 20 agosto, 150 morti, e dopo una breve pausa dal 27 di agosto i combattimenti ripresero quartiere per quartiere mentre tutta l’intera vita economica della città era bloccata e le prigioni erano state aperte. La vera e propria guerra civile si placò quattro giorni dopo quando una delegazione di dirigenti e militari si diresse a Pechino sotto l’auspicio di una imminente costituzione del Comitato Rivoluzionario cittadino. Il 5 settembre, da Pechino venne ordinato a tutti i gruppi di consegnare le armi, era il primo passo per normalizzare la situazione nella grande città costiera.
A poco più di un anno dall’inizio della Rivoluzione Culturale, le Guardie Rosse di Pechino, mentre i disordini e le violenze coinvolgevano tutte le Province, ebbero il loro ultimo momento di gloria. Già in giugno ed in luglio, si era sviluppata una terza campagna contro Liu Shaoqi ed i suoi collaboratori che dovettero nuovamente adattarsi ad umilianti autocritiche.
La prima settimana di agosto specialmente, vide la cittadella dei funzionari del Governo e del Partito, il quartiere Zhongnanhai,assediata dalle Guardie Rosse che scandivano ossessivamente i “delitti” di cinquantanni di attività di Liu Shaoqi, un Liu che nel difficile frangente con le Guardie Rosse che gli gridavano: “Liu al rogo !”, ebbe la forza di una fine ironia terminando l’interrogatorio del 5 agosto con la sibillina frase che riandava alle spietate lotte nel PCC negli anni Trenta: «Certo io credo nel presidente Mao; se io non vi credessi non sarei vissuto fino ad oggi».
La campagna contro Liu Shaoqi ebbe fine il 7 agosto per intervento di Xie Fuzhi il quale, nella sua duplice e minacciosa figura di Ministro di Pubblica Sicurezza e di Presidente del Comitato Rivoluzionario fece pesare la possibilità di un deciso intervento delle milizie; le accuse delle Guardie Rosse si diressero allora contro Zhou Enlai ed i suoi principali collaboratori: Li Xiannian, Li Fuzhun e specialmente Chen Yi furono oggetto insieme ad alte personalità dell’EPL, di astiosi attacchi ai quali prudentemente non fu risposto.
L’estrema sinistra delle Guardie Rosse si diresse soprattutto contro il Ministero degli Esteri, da sempre diretto da Chen Yi. Il Ministero fu di nuovo occupato dal 3 al 10 agosto e Chen Yi, accusato di “morbidezza” nei confronti del capitalismo e del revisionismo sarà costretto a ben tre autocritiche, il 7, il 10 e l’11 agosto di fronte a 15.000 persone. Il punto estremo dell’azione delle Guardie Rosse fu nella seconda quindicina del mese. Il 20 agosto, Yao Dengshan, il “diplomatico” delle Guardie Rosse fece notificare all’incaricato di affari inglese a Pechino «un’energica e imperativa protesta contro la persecuzione della stampa patriottica cinese da parte delle autorità britanniche a Hong Kong» che ingiungeva al governo di Londra di liberare 19 giornalisti arrestati nella colonia «entro 48 ore, dopo di che ricadeva sulla Gran Bretagna la responsabilità di tutte le conseguenze che ne potranno derivare»; Londra naturalmente ignorò l’ingiunzione e la quasi dichiarazione di guerra di Yao Dengshan.
La conseguenza fu che il 22 agosto, scadute le fatidiche 48 ore, le Guardie Rosse bruciarono l’edificio della legazione inglese e catturarono e bastonarono l’incaricato d’affari D.C. Hopson.
La recrudescenza delle Guardie Rosse di Pechino veniva a complicare ulteriormente il corso della Rivoluzione Culturale, le Province dell’Hubei, l’Hunan, lo Jiangxi, il Sichuan, lo Shanxi, lo Zhejiang, il Guizhou, lo Shandong, lo Heilongjiang e la Mongolia Interna, videro infatti nuovi ed estesi disordini e persino l’apparizione di vere e proprie bande di fuorilegge che approfittavano della debolezza dell’apparato statale per saccheggi e violenze di ogni genere.
L’unità statale della Repubblica Popolare era in pericolo come non mai e significativo delle preoccupazioni del regime di far fronte a questa situazione fu l’incontro del 9 agosto fra Lin Biao, Zhou Enlai, Chen Boda, Kang Sheng, Jiang Qing, Xie Fuzhi, Wang Li, Guang Feng e Qi Benyu con i militari Zeng Siyu e Liu Feng, nuovi responsabili della piazza di Wuhan. Lin Biao tenne un discorso sul legame della periferia al centro che era un esplicito appello alla disciplina ed al centralismo:
«Bisogna seguire completamente le direttive che giungono dal centro del Partito. Bisogna chiedere e ricevere istruzioni dal presidente Mao, dal CC, dal Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale. Non si deve pensare che si è capito tutto da soli e che non c’è bisogno di riferirsi al centro; non si deve pensare che tutto è chiaro e che ciascuno può risolvere tutto per conto suo».
Ma l’unica struttura che poteva assicurare a quel punto dello svolgersi dei fatti l’ordine, la disciplina ed il centralismo, era l’EPL non più un blocco monolitico né a favore della Rivoluzione Culturale, né a favore di tutti i maoisti.
Contraddittoriamente e significativamente insieme, l’8 agosto, Radio Pechino denunciò complotti controrivoluzionari nell’aviazione: «Sin dal giugno-luglio 1966, il pugno di persone responsabili dell’Aviazione dell’EPL che hanno imboccato la via del capitalismo congiurarono per impadronirsi del potere, ma fallirono. Così facendo diressero la punta di lancia del loro attacco contro il Quartier Generale proletario»; mentre quattro giorni dopo, il 12, il “Jenmin Jihpao” scioglieva mille lodi per la formazione del Comitato Rivoluzionario della Provincia del Qinghai con presidente e vice, il comandante e vice comandante del locale Distretto militare, Liu Xianquan e Zhan Jianglin: «Portando in alto la grande bandiera rossa del pensiero di Mao Zedong e beneficiando del potente sostegno e della cooperazione delle unità dell’EPL della Provincia, i rivoluzionari proletari hanno trionfalmente strappato dalle mani del nemico di classe i poteri del Partito e del Governo, il potere finanziario e culturale».
Il prosieguo del mese vide continuare questo alternarsi di rimproveri e di adulazioni da parte di Pechino nei confronti delle gerarchie militari. Prendendo spunto dalla pubblicazione, il 15 agosto, delle deliberazioni contro il maresciallo Peng Dehuai del Plenum di Lushan nel lontano 1959 il “Jenmin Jihpao” iniziò una martellante campagna contro il sempre mitico maresciallo accomunato allo sfortunato generale Luo Ruiqing, campagna che aveva soprattutto lo scopo di stringere intorno al centro di Pechino le gerarchie militari dell’EPL, “pilastro della dittatura del proletariato e della Rivoluzione Culturale”, come era intitolato l’editoriale della rivista “Bandiera Rossa” del 19 agosto.
Alla fine del mese ci fu poi un’importante riunione del Centro del PCC. Secondo le scarse cronache, per giunta apparse mesi dopo sui giornali murali delle Guardie Rosse, Mao Zedong e gli altri decisero la fine di Yao Dengshan («Se Chen Yi non è Ministro, chi lo è ? Chen Yi ha commesso meno errori in 40 anni che i suoi critici in 40 giorni» esclamò il vegliardo), fine che preannunciava la definitiva eclisse della “sinistra” delle Guardie Rosse che aveva spadroneggiato a Pechino nel mese. Sembra che la riunione decretasse anche una vasta epurazione nella Commissione Militare del CC e nel Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale nell’EPL: il giovane generale Xiao Hua, allora della cerchia di Lin Biao ma oggi pienamente riabilitato, perse il suo importante posto di Presidente del Gruppo a favore del generale Wu Faxian futuro processato come congiurato della banda di Lin Biao, mentre la signora Jiang Qing, mal vista dalle gerarchie militari, perdeva il suo posto di consigliere assegnatole nel novembre passato: destituzione che i fatti a venire mostreranno come i primi passi del contorto processo di “normalizzazione” della Rivoluzione Culturale che il potere centrale di Pechino cominciava ad attuare e che si sarebbe rivelato in pieno nei mesi che seguiranno, processo di normalizzazione che inevitabilmente doveva avere come vittime prime le Guardie Rosse, fino ad allora coccolate dai massimi dirigenti.
Il mantenimento dell’unità statale imponeva questo sacrificio e a questo imperativo gli uomini grandi e quelli piccoli si piegarono dolcemente senza curarsi della loro lesa personalità.
L’autunno 1967 che seguì la drammatica estate in cui si ebbero gli incidenti più gravi dall’inizio della Rivoluzione Culturale (Wuhan e Canton), fu nel segno della “normalizzazione”, cioè nell’adozione da parte del regime di una politica di priorità dell’interesse nazionale e del ristabilimento della produzione economica. Questo processo di normalizzazione era di possibile attuazione alla sola condizione che le contese fossero inquadrate e che le “guerre private” terminassero, operazione che poteva essere attuata solamente dalla struttura militare che oramai aveva sulle spalle l’intera responsabilità del mantenimento dell’unità statale della Repubblica Popolare.
Queste importanti preoccupazioni spinsero alla compilazione della “Direttiva del 5 settembre” in cui il CC, il Consiglio di Stato e la Commissione Militare affrontarono di petto l’arduo problema dell’ordine pubblico. Il punto primo proibiva a qualsiasi organizzazione di massa o individuo di sottrarre armi, munizioni, equipaggiamenti, veicoli militari all’EPL, di trafugarli dai treni (era accaduto a quelli russi diretti nel Vietnam), dai veicoli e dalle navi; proibito pure occupare edifici militari. Il punto 3 riguardava invece l’EPL: le unità militari non dovevano consegnare armi, munizioni, equipaggiamenti, veicoli o materiali ad alcuna organizzazione, senza il permesso del CC. Il finale punto 4 ordinava perentoriamente che le armi, le munizioni, gli equipaggiamenti, i veicoli ed i materiali sottratti all’EPL dovevano essere raccolti e riconsegnati alle autorità militari entro un determinato limite di tempo. Dure sanzioni sarebbero state applicate contro chi trasgrediva gli ordini della Direttiva, seguita da quella altrettanto importante, del 13 settembre che invitava le masse rurali a dedicarsi alle messi stagionali e gli operai dei vari stabilimenti ad impegnarsi per raggiungere gli obiettivi produttivi annuali.
Le due Direttive ebbero come contorno un’estesa campagna di stampa che esortava ad una “grande alleanza” fra le tante ed ostili organizzazioni di Guardie Rosse e che, nel contempo, iniziò le ostilità contro l’ ”ultra sinistrismo” accusato di aver rotto l’ “unità” del proletariato («All’interno della classe operaia, non esiste conflitto fondamentale e, pertanto, non v’è motivo che giustifichi il sorgere, al suo interno, di formazioni rivali», scriveva il n. 14 della rivista “Bandiera Rossa”), e di tentare di dividere l’EPL estendendo anche nelle sue file l’epurazione antirevisionista.
La “grande alleanza” era, né più né meno, un tentativo di far cessare i disordini fra le organizzazioni di Guardie Rosse proliferate impetuosamente nei mesi passati, fossero queste “moderate” o “radicali”, “operaie” o “studentesche”, ed anche da parte di Pechino, una mano tesa ai “quadri” bistrattati, silenziosamente in attesa di tempi migliori. La “grande alleanza”, ricostruiamo il filo di ragionamento di Pechino, smorzerà inevitabilmente gli ardori dei gruppi più estremisti che sempre meno influiranno nel costituirsi dei Comitati Rivoluzionari nei quali, sotto l’ala protettrice dei militari, i quadri meno compromessi potevano ricominciare ad apparire in cariche pubbliche ed a pesare nelle decisioni.
La stampa riprenderà con insistenza le passate Direttive e Circolari (quella del 12 febbraio soprattutto che invitava le masse a non processare né punire i membri del Partito), tutte bloccate sulla ormai classica percentuale del 95 % di quadri “buoni” o “relativamente buoni”, sottolineando con forza l’indispensabile unità fra vecchi quadri e quadri usciti dalla Rivoluzione Culturale.
Probabilmente per favorire questo processo di ristabilimento della calma, il vate Mao Zedong si sottopose, dopo il 15 settembre, ad un rapido e spettacolare viaggio-ispezione nelle Province dell’Henan, dell’Hubei, dell’Hunan, del Jiangxi e dello Zhejiang, per ricevere infine il 26 settembre numerosi capi e quadri militari delle diverse Province e Regioni.
Scriveva, il 7 ottobre, Mao Zedong nelle sue note riassuntive sull’ispezione compiuta:
«Vi avevo detto “bombardate il Quartier Generale” non di distruggerlo; abbiamo bisogno anche di chi ha commesso errori, né basterà solo la Rivoluzione Culturale a risolvere i nostri problemi», terminando minacciosamente: «Siamo esattamente al momento in cui i piccoli generali delle Guardie Rosse rischiano di sbagliare; devono educarsi riflettendo sulle esperienze di quelli di noi che hanno commesso nel passato errori».
L’educazione che Mao proponeva come necessaria, per i “piccoli generali” delle Guardie Rosse, in verità si era già chiaramente manifestata, anche se però senza quel carattere di serena autoriflessione cui accennava il vecchio Timoniere. All’inizio di settembre, erano infatti iniziati gli arresti dei capi del raggruppamento di Guardie Rosse “Corpo d’Armata 16 maggio”, di cui ci siamo già occupati. Questo raggruppamento si era dato dai primi di giugno una struttura clandestina nazionale e riprendendo tutti gli iniziali proclami della Rivoluzione Culturale, si era contraddistinto subito per le sue ostinate accuse nei confronti di Zhou Enlai e Chen Yi, poi successivamente, dopo i fatti di Wuhan e di Canton, per le sue continue critiche a molti influenti personaggi militari, tipo il Generale Huang Yongsheng che ferocemente aveva ristabilito l’ordine a Canton.
L’arresto dei capi del “Corpo d’Armata 16 maggio”, fu l’inizio della fine degli esponenti dell’ultrasinistra nel Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale, accusati di essere i veri burattinai del raggruppamento, Wang Li il redattore capo di “Bandiera Rossa” che dopo l’epurazione di Tao Zhu nel gennaio era stato incaricato di dirigere il settore chiave della Propaganda e principale vittima della ribellione di Wuhan, sparì dalla scena pubblica nel mese di settembre, proprio mentre, significativamente, il Generale Chen Zaidao, caporione di quell’insurrezione, era tranquillamente a Pechino a seguire un “corso di studi sul pensiero di Mao Zedong”. La caduta di Wan Li fu seguita da quella di Lin Jie, un redattore sempre della rivista “Bandiera Rossa” e di Mu Xin (tutti e tre membri del Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale) e da quella di Yao Dengshan, il “diplomatico rosso” che intendeva sostituirsi al Maresciallo Chen Yi al Ministero degli Affari Esteri.
Questa epurazione fu senz’altro voluta dalle gerarchie militari come pegno per il loro contributo alla normalizzazione dell’immenso paese, normalizzazione tanto improcrastinabile per la sopravvivenza del regime che anche la sinistra Jiang Qing, a più riprese, dovette schierarsi, per non perire sotto le rovine dell’ultrasinistra, contro il “Corpo d’Armata del 16 maggio” ed in difesa dell’ineffabile Zhou Enlai il cui astro tornava a brillare seppure di luce riflessa, quella delle gerarchie militari.
Dirà Jiang Qing, il 5 settembre: «Il gruppo “16 maggio” è un’organizzazione controrivoluzionaria. Non ha una larga adesione. Sono giovani e questi giovani sono stati fuorviati. Sono una minoranza di elementi borghesi e sono pieni di odio verso di noi, ma sono soltanto individui. La maggioranza sono giovani ed i capi approfittano dell’instabilità dell’ideologia giovanile. I veri manipolatori dietro le quinte sono gente malvagia. “Il gruppo 16 maggio” apparve per la prima volta sotto il travestimento di “estrema sinistra”. concertò le sue accuse contro il Primo Ministro ed infatti raccolse materiali contro di lui allo scopo di spedirli all’estero».
Gli arresti dei capi del “Corpo d’Armata del 16 maggio”, i continui appelli alla calma ed alla consegna delle armi, la repressione della criminalità comune e del mercato nero, tutti questi diversi ma convergenti fatti concorsero alla riuscita della difficile “frenata” da parte del regime che non si peritò di usare l’arma dei processi sommari e delle esecuzioni pubbliche di “elementi controrivoluzionari” (4 ne furono giustiziati a Pechino di fronte a 10 mila persone il 12 settembre e uno a Shanghai il 21).
Così Zhou Enlai, il 20 settembre, ad una riunione del Comitato organizzativo per la festa nazionale del 1° ottobre, descrisse la bufera che il regime stava virilmente affrontando e gli obiettivi che nel futuro si riprometteva di raggiungere:
«Nei mesi di luglio e di agosto, in tutto il paese vi sono stati incidenti consistenti nel sottrarre armi all’EPL, nel saccheggiare arsenali, tendere agguati a treni con aiuti militari per il Vietnam, e persino sottrarre uniformi militari, insegne e berretti dell’esercito. Dopo che furono emessi precisi ordini, la maggior parte delle cose venne restituita, anche se una piccola parte si perse (...) Le masse reagirono benissimo, e una dopo l’altra restituirono le armi, smisero la lotta armata e convinsero i contadini a non venire in città per continuare la lotta armata (...) Le case continuano ad essere saccheggiate, le gente arrestata indiscriminatamente, si tengono tribunali privati, le persone vengono picchiate e gli archivi depredati. Fino a questo momento tutto ciò non ha avuto ancora termine. Consideriamo questo genere di cose come conseguenza di un’azione di elementi controrivoluzionari e non possiamo vederlo come uno sviluppo costruttivo. Le conversazioni telefoniche vengono controllate e i documenti sottratti e copiati. Esistono anche radio segrete e codici segreti (codici relativamente semplici usati da svariate organizzazioni) e queste emittenti segrete possono essere ascoltate all’estero. Queste attività contro-rivoluzionarie sono assolutamente contro la legge e devono cessare immediatamente».
La festa nazionale del 1° ottobre, diciottesimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese, con mezzo milione di persone che parteciparono alla parata, fu un altro piccolo segnale della mutata situazione. Intanto la gerarchia dei dirigenti vedeva saltare il vecchio Tan Zhenlin, a più riprese accusato di sospetta moderatezza, ed il giovane Generale Xiao Hua, allora a capo del Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale nell’EPL: avanzava invece Jiang Qing, che mostrava di non risentire della sconfitta dell’ultrasinistra, e faceva il suo ingresso nella massima gerarchia la moglie di Lin Biao, Ye Qun, fino ad allora emerita sconosciuta ed evidente segno di deteriore nepotismo.
Si aveva soprattutto che, al contrario delle altre occasioni celebrative del passato, non era nominato a parte il Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale, sparito dai resoconti ufficiali. Infine, il discorso principale, tenuto da Lin Biao, pur terminando con l’accalorato grido:
«Sosteniamo risolutamente le lotte rivoluzionarie dei popoli del mondo ! Noi siamo risoluti a liberare Taiwan !», era impregnato fino al midollo di tutte quelle preoccupazioni tipiche di Zhou Enlai fin dai primi momenti della Rivoluzione Culturale, cioè che lo svolgersi della Rivoluzione Culturale dovesse favorire lo sviluppo delle forze produttive e l’intero processo nazionale di accumulazione e non essere invece intralcio alla normale vita produttiva nella Nazione, per il cui splendido destino vigilava adesso l’EPL:
«La nostra Grande Rivoluzione Culturale Proletaria sta riportando delle grandiose vittorie e una situazione eccellente regna nel paese (...) Le larghe masse degli operai e dei contadini, i comandanti e i soldati dell’EPL, le Guardie Rosse come i quadri e gli intellettuali rivoluzionari si sono progressivamente uniti nel corso di questa lotta che dura da un anno (...) La Rivoluzione Culturale ha avuto l’effetto di liberare la crescita delle forze produttive (...) La nostra grande patria non è mai stata così potente come oggi (...) Noi dobbiamo rispondere al grande appello del presidente Mao e rafforzare tra i quadri militari, civili e tra le Guardie Rosse l’educazione ideologica imperniata sulla formula della “lotta contro l’egoismo e critica al revisionismo” (...) Noi dobbiamo rispondere al grande appello del presidente Mao “fare la rivoluzione e stimolare la produzione dando un potente impulso allo sviluppo della nostra produzione industriale e agricola, elevando il livello della nostra scienza e della nostra tecnica. Noi dobbiamo rispondere al grande appello del presidente Mao e lanciare il movimento “sostenere l’EPL e amare il popolo”. Noi dobbiamo rinforzare la dittatura del proletariato e reprimere risolutamente le attività di sabotaggio fatte dai nemici di classe».
Ma nonostante la “situazione eccellente”, nonostante le continue proclamazioni che oramai la Rivoluzione Culturale era giunta al suo termine e raggiunti tutti i suoi obiettivi, la propaganda ufficiale, che poggiava sulla formula di Lin Biao: “combattere l’egoismo e criticare il revisionismo”, non perdeva una battuta per mostrare quanto ancora era necessario “normalizzare”. Il 7 ottobre, il CC emetteva una Direttiva che avvertiva le Guardie Rosse di non intervenire assolutamente contro gli stranieri; il giorno dopo, una Circolare Urgente del CC e della Commissione Militare si interessavano nuovamente dei giovani fuggiti dalle campagne e che risiedevano illegalmente nelle città: gli veniva intimato di rientrare immediatamente nelle campagne e colà “fare la rivoluzione e promuovere la produzione”. Seccamente, la Circolare Urgente invitava i “quadri rivoluzionari” a mobilitare i propri figli perché i giovani ritornassero in campagna; tutte le organizzazioni di fuggiaschi dovevano essere sciolte immediatamente, tutte le residenze illegali dovevano essere annullate e non concesse nuove autorizzazioni di residenza. Misure severe erano minacciate contro i responsabili di azioni criminali, mentre si assicurava che le condizioni di vita e di lavoro dei giovani nelle campagne sarebbero migliorate (salario uguale per uguale lavoro; bandita ogni forma di discriminazione e di persecuzione; distribuzione di sufficienti razioni di cereali, abitazioni migliori, ecc).
Tre giorni dopo, l’11 ottobre, forse propagandisticamente, l’Agenzia Nuova Cina annunciava che numerosi giovani studenti, insieme ai loro dirigenti, erano partiti volontariamente per la Mongolia Interna per lavorare le terre delle Comuni.
Il 14 ottobre, il CC decideva della riapertura degli Istituti di insegnamento superiori, Università comprese; il 17, il CC, il Consiglio di Stato e la Commissione Militare emanarono l’ennesima Direttiva per la formazione dei Comitati Rivoluzionari che avevano segnato il passo nel settembre e nel mese in corso. Altro significativo episodio si ebbe il 24 ottobre con l’arringa di Xie Fuzhi agli insegnanti e agli studenti di Pechino; Xie senza ambagi dissertò sul futuro del PCC scosso ed indebolito dalla bufera della Rivoluzione Culturale: la maggioranza dei membri doveva essere mantenuta per cui si doveva procedere ad una riabilitazione massiccia dei funzionari minori già violentemente criticati. Su questi “riabilitati” e su un gruppo esiguo e disciplinato di dirigenti delle Guardie Rosse, doveva poggiare la ricostruzione del Partito, dei suoi Uffici centrali e provinciali che anni prima erano l’armatura portante della struttura governativa e che adesso avevano passato le proprie funzioni civili ai Comitati Rivoluzionari, retti principalmente dai militari:
«Compagni, il vostro contributo è stato grande. Dalle scuole avete fatto irruzione nella società, da Pechino siete andati in tutto il Paese. Mai si potranno negare i vostri successi. Ma ora il presidente Mao, il CC e il Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale ci annunciano che oggi, un anno e mezzo più tardi, la Rivoluzione Culturale è entrata in un nuovo stadio, e non è più giusto fare irruzione nella società ed andare per tutto il paese. È tempo ora invece di ritornare alle vostre occupazioni. Dovete da un lato frequentare le scuole e dall’altro fare la rivoluzione (...) Voglio parlarvi ora del Partito, dobbiamo riformarlo. Parlando in termini generali, quali sono i passi da intraprendere dalla fine di quest’anno all’anno prossimo ? La maggioranza dei membri del Partito devono essere mantenuti; anche essi hanno progredito (...) ma vi è una minoranza che non vi ha fatto attenzione: una minoranza di membri il cui comportamento alla fine non si è dimostrato buono, dovrà lasciare il Partito (...) Verranno assorbiti nel Partito alcuni dirigenti e alcuni giovani. L’anno prossimo terremo il IX Congresso. Probabilmente le Guardie Rosse parteciperanno al IX Congresso, ma quando dico che le Guardie Rosse vi parteciperanno, intendo dire che vi parteciperanno in qualità di membri del Partito».
L’arringa di Xie Fuzhi ebbe poi un vibrante appello all’Ordine:
«È una assoluta distorsione dei fatti dire che da quando c’è la Rivoluzione Culturale non occorre più la disciplina. Ora nelle fabbriche non vi è disciplina per quel che riguarda gli orari di lavoro. Sono andato una sera in una miniera di carbone nella Pechino Occidentale. Gli operai si recavano al lavoro e lo lasciavano secondo la propria volontà. Se questa è la maniera di fare la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, se questo è il risultato della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, allora, essa è realmente fallita».
Tutto il mese di ottobre aveva poi visto una capillare campagna di propaganda a favore dell’EPL con la formula dei “tre appoggi e dei due compiti” (“san-chici-liang-chun”) che era stata lanciata con la Circolare del 17 ottobre. I tre appoggi riguardavano la sinistra, l’industria e l’agricoltura; i militari dovevano “incoraggiare” le “grandi alleanze”, primo passo per la formazione dei Comitati Rivoluzionari, e soprattutto assicurare il ristabilimento delle normali condizioni produttive nell’industria e nell’agricoltura. I due compiti si riferivano invece alla responsabilità della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico e alla necessità di istruire militarmente e disciplinatamente, i giovani nelle scuole. Proprio mentre la campagna per “sostenere ed amare l’EPL” raggiungeva il suo massimo, si costituì, l’11 novembre, il Comitato Rivoluzionario della Mongolia Interna, così salutato dalla stampa:
«La costituzione del Comitato Rivoluzionario della Regione Autonoma della Mongolia Interna costituisce il completo fallimento del pugno di revisionisti e di separatisti che agivano in Mongolia interna; sono stati recisi i neri tentacoli stesi in questa regione dal padrone occulto, il Kruscev cinese, come i complotti di sovversione degli imperialisti e dei revisionisti sovietici e mongoli sono completamente vinti (...) In un momento critico, l’EPL della Mongolia Interna, si fece audacemente avanti per dare un appoggio risolutivo e vigoroso ai rivoluzionari proletari. Unendosi ai rivoluzionari proletari e combattendo insieme a loro, portò fino alla vittoria la lotta contro il pugno di persone al vertice del Partito nella Mongolia Interna».
Che l’appoggio dell’EPL fosse stato decisivo, si rivelava anche dalla formazione del vertice del Comitato Rivoluzionario; il presidente era infatti Teng Hai Qing, un comandante aggiunto della Regione Militare di Pechino; vice Wu Tao il Commissario politico dell’EPL della Mongolia; altro vice Gao Jin Min, segretario del Comitato di Partito regionale; semplice membro Huo Doayu, delegato “rivoluzionario”.
Novembre vide anche il ritorno sulla scena del Generale Huang Yongsheng, nei mesi passati violentemente accusato di aver ecceduto nella repressione delle Guardie Rosse di Canton. Richiamato a Pechino in settembre, era scomparso per un po’ di tempo, ma clamorosamente, il 9 novembre, si formò a Canton un “Comitato preparatorio per la grande alleanza rivoluzionaria della classe operaia” da lui stesso presieduto. Comitato che seguiva il tentativo di Zhou Enlai (8 novembre) di pacificare le varie fazioni di Guardie Rosse della città.
Il ritorno di Huang a Canton, affiancato da Chen Yu, un segretario dell’Ufficio del Centro Sud, e da due Commissari politici, Kong Shiquan e Che De, fu accompagnato da una spettacolare esecuzione di 4 “controrivoluzionari” di fronte ad una folla di 7 mila persone che facevano da testimoni di accusa; anche questo contribuiva, eccome, alla normalizzazione !
Con l’arrivo dell’inverno, la stampa incominciò ad invitare la popolazione ad una stretta economia di combustibile visto che le razioni di carbone e di legna da ardere erano state drasticamente tagliate, sia per la diminuita estrazione di carbone sia per lo sconquasso del sistema ferroviario che stava appena iniziando a riorganizzarsi dopo il caos dei mesi precedenti. Una riorganizzazione che, si poteva rilevare dalla trasmissione di Radio Chengdu del 10 dicembre, procedeva con l’adozione di rigide e indiscutibili regole militari:
«Al fine di assicurare il
controllo sui trasporti ferroviari, il Quartier Generale della
produzione, con il concorso del Comitato per il Controllo Militare
dell’Ufficio ferroviario, ha il diritto di controllare tutte le
operazioni che si svolgono nell’Ufficio. Nessuno ha il diritto di
rifiutare questo controllo (...) Sono dichiarati non validi i
documenti non approvati dall’Ufficio centrale e che sono stati emanati
dalle varie unità sulle questioni dei gradi, dei salari, e di
riordinamenti previdenziali. Le Unità sono responsabili del
recupero
dei fondi che sono stati elargiti, da restituire anche a rate (...)
Persistete nella lotta con metodi civili e opponetevi alla lotta con
la forza, proibite i pestaggi, gli omicidi, i saccheggi, le contese e
gli arresti illegali. Coloro che occupano con la forza edifici
pubblici, che sabotano l’ordine pubblico, sottraggono il denaro delle
paghe e saccheggiano le finanze devono essere criticati e educati dalle
masse, o altrimenti consegnati agli organi della dittatura del
proletariato per essere trattati secondo la legge».
Il 6 dicembre, intanto, si formò il Comitato Rivoluzionario di
Tientsin
(la terza Municipalità speciale) e il suo vertice esclude
sfacciatamente ogni rappresentante “rivoluzionario”: Xie
Xuegong,
segretario dell’Ufficio del Nord, ne era il presidente mentre i suoi
tre vice erano Xiao Siming (2° Commissario politico del Distretto
Militare dell’Hebei), Zheng Sansheng (Comandante della Guarnigione di
Tientsin) e Jiang Feng (Comandante della Pubblica Sicurezza di
Tientsin), tre militari e poliziotti di prima forza.
Tutti questi inequivocabili episodi
di “militarizzazione”. fecero denunciare ad una minoranza di Guardie
Rosse la liquidazione della Rivoluzione Culturale che, a fine novembre,
si era sbarazzata anche dell’ultrasinistro Guan Feng, accusato di
stretta collaborazione con lo sfortunato Wang Li e di essere
immischiato nell’attività del “Corpo d’Armata 16 maggio”. Guan
Feng, oltre che membro del Gruppo Centrale per la Rivoluzione
Culturale, era il vice-capo redattore della rivista “Bandiera Rossa”
decapitata ormai di tutti i suoi maggiori esponenti.
Certo, la Rivoluzione Culturale stava stritolando i propri figli e
proprio i più entusiasti oltre che più ingenui; il
regime, meglio,
quello che rimaneva del regime, spinto da determinazioni materiali
innegabili (crollo della produzione, crollo dell’autorità
statale,
inizio di una sanguinosa guerra civile) obbedì all’imperiosa
consegna
di preservare innanzitutto la minacciata unità statale. La
decisa
frenata dette una prima dura stretta alle Guardie Rosse che fino ad
allora avevano avuto via libera e che adesso erano messe in riga dai
militari, manovra che certo fu appoggiata, sia resa giustizia, dallo
stesso segaligno Lin Biao, condannato a posteriori di mille malefatte
anche non commesse. Strette e decimate le Guardie Rosse, sotto il
controllo e la protezione dell’EPL, riprendeva fiato la malandata
struttura del Partito, quei burocrati che avevano allora in Zhou Enlai
il loro primo e instancabile e invincibile paladino.
Scriveva il quotidiano di Shanghai, “Wenhui bao”, lo stesso sul
quale Yao Wenyuan aveva a suo tempo dato il via alla lotta contro Peng
Zhen, il 12 dicembre: «Proponiamo una soluzione “tre in
uno”; i membri
del Partito Comunista, rivoluzionari proletari non iscritti al Partito
e larghe masse rivoluzionarie insieme, devono volgere la punta di
lancia della lotta contro il pugno di dirigenti del Partito sulla via
del capitalismo (...) Se la punta di lancia della lotta
sarà
diretta contro i membri ordinari del partito,si ricommetterebbe
un errore estremamente grave».
La burocrazia difendeva se stessa, ma la burocrazia anche se non
è
forza produttiva, concorre ai caratteri delle forme di produzione. Era
il capitalismo cinese che difendeva sé stesso, un capitalismo nazionale
che per poter sviluppare fino in fondo tutto il proprio processo
di accumulazione e riproduzione capitalistico, necessitava e necessita
di un forte Stato e di un saldo Esercito e di una efficiente burocrazia
statale tipo il PCC.
Pertanto, un momento prima dell’abisso il treno della Rivoluzione
Culturale si inchiodava ed invertiva la marcia poi, farsescamente
scandendo gli slogan: «rafforzare la struttura e la
qualità del
Partito, rafforzare l’unità
fra l’esercito e il popolo, rafforzare lo studio delle opere di Mao
Zedong».
La pubblica opinione mondiale intanto, dando un’ulteriore prova di rimbecillimento assoluto, applaudiva il Grande Uomo e la sua presunta vittoria sui burocrati di Liu Shaoqi, che proprio in quel momento vedevano allontanarsi la rumorosa bufera !
All’inizio del 1968 esistevano,
specchio delle mille difficoltà incontrate dal regime, soltanto
sei
Comitati Rivoluzionari sui ventinove previsti. Quelli della Mongolia
Interna e di Tientsin si erano aggiunti a quello del Qinghai (12
agosto) e a quegli “primaverili” di Pechino, Shanxi, Shanghai,
Guizhou, Shandong e Heilongjiang, a distanza di mesi tutt’altro che
funzionanti. Ma appena venne data via libera all’EPL la cui funzione
politica, amministrativa ed educativa si sviluppò ancor
più (recitava
l’editoriale del 1° gennaio del ”Jenmin Jihpao” e del “Quotidiano
dell’Esercito” in “Avanziamo verso la vittoria totale della Grande
Rivoluzione Culturale Proletaria”:
«Nel corso del nuovo anno i compiti che l’EPL dovrà
assolvere
saranno ancor più numerosi e importanti. Le larghe masse
rivoluzionarie
dovranno accordargli una fiducia più grande. Esse dovranno
appoggiarsi
all’EPL, sostenerlo ed amarlo. Esse dovranno ispirarsi al suo esempio,
aiutarlo e dare prova di vigilanza nei riguardi delle provocazioni
degli elementi che cercano di seminare la discordia fra l’Esercito ed
il popolo», ed automaticamente i Comitati Rivoluzionari
incominciarono a proliferare.
Il 5 gennaio si costituì il Comitato Rivoluzionario dello
Jiangxi; il
24 fu il turno di quello del Gansu ed il 27, sempre di gennaio,
toccò a
quello dell’Henan, tutti e tre saldamente in mano ai Comandanti
militari locali o a Commissari politici dell’Esercito.
Come era prevedibile, la costituzione dei Comitati Rivoluzionari che
proseguì ad un ritmo serrato, ratificava, né più
né meno, una
situazione di fatto legittimando, con l’etichetta “rivoluzionaria” e
con la frase “presa del potere”, l’autorità esercitata in
maniera
indiscutibile dai Comandanti militari locali che stavano facendo blocco
con i “quadri” di Partito meno compromessi.
Il 3 febbraio si costituì il Comitato Rivoluzionario dell’Hebei:
alla
presidenza si trovava Li Xuefeng già aspramente criticato
all’inizio
della Rivoluzione Culturale quando, dopo l’epurazione di Peng Zhen,
tenne l’incarico di Segretario del Comitato di Partito della Capitale.
L’Hebei aveva visto, nel dicembre 1967, una vastissima purga che
secondo le recenti rivelazioni, causò poco meno di 3.000
esecuzioni
capitali che certo contribuirono al ritorno alla calma dell’intera
Provincia. Il 5 febbraio si costituì il Comitato Rivoluzionario
dell’Hubei seguito, il 21, da quello del Guangdong: il primo presieduto
dal potente Generale Zhen Siyu ed il secondo nelle mani
dell’altrettanto potente Generale Huang Yongsheng contro cui
inutilmente
si indirizzarono furenti ed insultanti accuse da parte delle decimate
Guardie Rosse di Canton e delle altre città.
Scrisse il “Wenhui bao” di Shanghai, il 15 febbraio: «Spesso
i fattori della faziosità, cioè l’opposizione
alla formazione
dei Comitati Rivoluzionari e l’ostacolare le fusioni o il minare
l’autorità di quelli già costituiti, sono
individui un tempo
distintisi come avanguardie rivoluzionarie nella lotta contro il
revisionismo. Forti dei meriti così acquisiti e inebriati dal
prestigio
raggiunto, si sono fatti arroganti nei confronti delle masse, che hanno
diviso in fazioni fra loro inconciliabili, sabotando la produzione e
indebolendo, pertanto, la causa del proletariato».
Le Guardie Rosse, pertanto, le prime ingenue forze d’urto della
Rivoluzione Culturale stavano velocemente passando dal campo degli eroi
a quello dei criminali, tanto che persero ancora un loro campione: Qi
Benyu, la penna che più si era accanita contro Liu Shaoqi e Deng
Xiaoping. Dal 19 febbraio, accusato di avere appoggiato l’ultrasinistra
e, soprattutto, di essersi opposto a Zhou Enlai (gli stessi capi
d’accusa contro Wang Li, Guan Feng, Mu Xin, Lin Jie e Yao Dengshan),
Qi Benyu sparì improvvisamente e definitivamente dalla scena
pubblica.
I tre Comitati Rivoluzionari che si formarono nel mese di marzo
seguirono lo stesso copione dei precedenti: quello della Provincia del
Jilin (6 marzo) era presieduto dal Comandante dei Distretto Militare,
Wang Hui Xiang; quello del Jiangsu (23 marzo) ebbe come presidente il
Generale Xu Shiyou, già Comandante della Regione Militare di
Nanchino;
il Comitato Rivoluzionario dello Zhejiang (24) marzo aveva al vertice
il Comandante dell’EPL della Provincia Nan Ping.
La fine del mese di marzo vide però la situazione politica farsi
di
nuovo confusa e drammatica insieme. Dal 22 marzo infatti, Pechino fu
attraversata da imponenti manifestazioni contro il revisionismo che,
dal 26, ebbero come bersagli Yang Chengwu (capo di Stato Maggiore), Yu
Lijin (Commissario politico della Aviazione e “vittima”
dell’insurrezione di Wuhan) e Fu Chongbi Comandante della Guarnigione
di Pechino). La loro improvvisa destituzione divenne ufficiale il 27
marzo quando Radio Pechino trasmise il resoconto di una Conferenza di
Mao Zedong e degli altri dirigenti, presenti 10 mila quadri militari,
che culminò con l’annuncio che Yang (come si ricorderà
uno dei
principali appoggi di Mao per il suo ritorno a Pechino, nel luglio
1966) era momentaneamente sostituito con Huang Yongsheng, l’uomo duro
di
Canton.
Allora si disse che i tre destituiti erano più o meno collegati
con
l’ultrasinistra di cui erano un’importante e segreta colonna nell’EPL,
la stessa accusa che aveva determinato la caduta del giovane Generale
Xiao Hua; specialmente Yang Chengwu fu accusato di “sfrenate
ambizioni” e di essersi messo contro Zhou Enlai e Lin Biao, anche se
era noto che la carriera di Yang si era avuta all’ombra del Maresciallo
Lin. Certo è però che i due, anni dopo, sono stati
pienamente
riabilitati, mentre il sostituto di Yang, Huang Yongsheng, è
finito nel
propagandato processo contro la banda. Jiang Qing-Lin Biao come seguace
di quest’ultima, altra rivincita dell’arcigno Deng Xiaoping. Altri
hanno dato spiegazioni molto sottili di quell’improvvisa ed importante
epurazione, spiegazioni per un verso o per l’altro insufficienti;
più
probabilmente e sicuramente, Yang e gli altri furono stritolati dalla
lotta interna fra Lin Biao e Zhou Enlai che in quel frangente verteva
sul ruolo dell’EPL e del Partito nella struttura statale, il primo
favorevole al predominio dell’EPL, il secondo a quello del Partito.
Anche se i Comitati Rivoluzionari erano grandemente in mano ai
militari, la Rivoluzione Culturale, frantumando il Partito, aveva
sciolto i legami dello Stato centrale con l’EPL che, oramai, si muoveva
quasi per “blocchi”, uscite un’altra volta fuori ed armatesi di nuovo
tutte le tendenze centrifughe,
regionali, provinciali e persino individuali. I due acerrimi avversari
avevano quindi molto da lavorare per affermare i loro propositi. Zhou
impegnandosi alla ricostruzione del Partito, Lin cercando di stringere
l’EPL intorno alla propria persona di scarso carisma nonostante
l’alloro di “delfino di Mao”, investitura che era ben lungi
dall’essere accettata dai tanti e potenti capi militari. Yang, forse,
era una pedina di Lin Biao, senz’altro una delle più deboli, e
pagò per
l’avversione di Zhou e quella dei potenti capi militari regionali che
lo sostituirono con uno di loro, Huang Yongsheng, il cui futuro
sarà
altrettanto sfortunato.
La destituzione di Yang e degli altri
fu preceduta da una nuova e disperata fiammata di disordini che
interessò di nuovo l’immenso paese (a Pechino durante gli
scontri del
27 marzo, ad un comizio di Chen Boda, Zhou Enlai e Jiang Qing, fu
ferita la prima eroina della Rivoluzione Culturale Nie Yuanzi),
disordini che, seppure molto minori di quelli passati inquietarono non
poco il regime che accelerò la “normalizzazione” con i militari
e i
“quadri” riabilitati.
Il 30 marzo, infatti, il ”Jenmin Jihpao”, il “Quotidiano
dell’Esercito”
e
la rivista “Bandiera Rossa” che riprendeva le pubblicazioni dopo
settimane di silenzio seguite all’arresto di Qi Benyu, pubblicarono
l’editoriale comune “Il Comitato Rivoluzionario è eccellente” in
cui
veniva
riportata una direttiva di Mao: «L’esperienza fondamentale dei
Comitati Rivoluzionari si riassume in tre punti: sono formati,
anzitutto, dai rappresentanti dei quadri rivoluzionari, in secondo
luogo da quelli dell’EPL e in terzo luogo da quelli delle masse
rivoluzionarie, incarnando così la triplice alleanza
rivoluzionaria».
La scaletta gerarchica di Mao era un altro segnale, tutto cinese, per
dire che il compito delle masse a tutto cambiare era terminato, chiuso,
le masse avevano “educato ed aiutato” i quadri ad evolvere la loro
vecchia e “riformista visione del mondo” ma assolto questo compito
dovevano ritornare al loro posto naturale, in fondo alla scala
gerarchica al cui vertice si apprestavano a ritornare i “riformati”
quadri; direttiva di Mao che suonava ben più di un semplice
avvertimento ma come chiara minaccia.
Nell’aprile, tre furono i Comitati Rivoluzionari che si formarono: l’8,
nella Provincia dell’Hunan, presieduto da un comandante di
un’Unità
militare locale, Li Yuan, e che vedeva come uno dei vice Hua Guofeng
futuro semidio, allora completamente sconosciuto nonostante la sua
carica di Segretario del PCC dell’Hunan; il 10 aprile nella Regione del
Ningxia, presidente il Generale Kang Jianmin, comandante della Regione
militare di Lanzhou; ed infine il 18, nella Provincia dell’Anhui con
presidente un altro generale in possente ascesa, Li Desheng.
Il mese di aprile vide pure il lancio di una campagna frutto
dell’ennesima direttiva di Mao Zedong: la lotta contro i seguaci del
Guo-min-dang ! Poco importò che la Repubblica Popolare
Cinese
fosse
costituita da ben 18 anni e che, come suoi primi atti, non gli avesse
fatto difetto l’uso di sanguinose ed estese epurazioni; lo slogan
“eliminazione di tutti gli agenti del Guo-min-dang”, ossessivamente
scandito, accompagnò sia la formazione dei Comitati
Rivoluzionari sia i
sempre più frequenti processi ed esecuzioni pubbliche di
“controrivoluzionari”, come a Canton il 19 ed a Shanghai il 27 aprile.
Processi ed esecuzioni che cercavano di arginare la proliferazione di
mercato nero ed attività illegali da un lato, e, dall’altro di
sconfiggere del tutto gli ultimi recalcitranti gruppi di Guardie Rosse
che non accettavano la “normalizzazione” e stavano vendendo cara la
pelle. Le Provincie dello Zhejiang, dello Shanxi, del Liaoning e del
Guangdong, furono quelle che ebbero gli scontri più sanguinosi,
non
estesi come quelli dell’anno passato con masse poderose di uomini in
movimento, ma certo disordini e scontri furono più disperati,
visto che
le Guardie Rosse fronteggiavano, il più delle volte, agguerriti
reparti
dell’EPL, ben attrezzati e disciplinati.
Il 1° maggio, la tradizionale parata fu annullata e sostituita da
fuochi pirotecnici. Mao vi assistette assieme a Lin Biao, Zhou Enlai,
Chen Boda, Kang Sheng, Zhu De, Li Fuzhun, Chen Yu, Jiang Qing, Zhang
Chunqiao, Yao Wenyuan, Dong Biwu, Chen Yi, Liu Bocheng, Xie Fuzhi,
Huang Yongsheng, Ye Jianying e Wang Enmao, una pattuglia di appena 20
persone, quello che rimaneva di un CC di 190 persone e del numeroso
Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale, decimazione che era
un’esplicita manifestazione della gravissima crisi che il regime
continuava ad attraversare.
Anche il maggio vide la costituzione di 3 nuovi Comitati Rivoluzionari:
il giorno 1 quello dello Shanxi; il 10 del Liaoning ed il 31 del
Sichuan. Il
Comitato Rivoluzionario dello Shanxi fu presieduto da un “quadro”,
Li
Ruishan, Segretario del PCC locale, mentre gli altri due vedevano al
vertice due militari, il Generale Chen Xilian (Comandante della Regione
militare di Chengdu). Per il resto, l’immensa nazione niente faceva
trapelare all’esterno di quello che stava accadendo al suo interno dove
l’EPL continuava con metodo la sua opera di “normalizzazione”
con le
Guardie Rosse in balia degli eventi dopo essere state abbandonate da
Mao Zedong poi dagli altri, da Chen Boda e Jiang Qing.
Gravi furono i disordini nel mese di giugno, un po’ in tutte le
Provincie e Regioni del Sud, tanto che Pechino (si può rilevarlo
dall’Appello Urgente per la fine immediata dei violenti scontri nella
Provincia dello Shanxi, il 24 giugno) prese persino in considerazione
l’ipotesi, poi scartata, di sospendere il transito di armi sovietiche
verso il Vietnam attraverso il territorio cinese, in treni che erano
regolarmente saccheggiati.
Il regime proseguiva intanto la sua implacabile marcia. Il 3 giugno,
Mao Zedong, Lin Biao, Zhou Enlai, Chen Boda, Kang Sheng, Li Fuzhun, Yao
Wenyuan, Xie Fuzhi, Huang Yongsheng, Jiang Qing e Wang Enmao,
ricevettero ben 20 mila “attivisti” e quadri dell’EPL a Pechino,
per
rinsaldare l’Esercito in previsione della definitiva resa finale delle
Guardie Rosse, Il 4 giugno ci fu la nomina ufficiale di Huang Yongsheng
a capo dello Stato Maggiore, ma soprattutto, si riprese l’invio di
giovani e studenti nelle campagne dove il faticoso regime di vita dei
rurali era capacissimo di sbollire gli animi più infuocati.
La partenza dei giovani “volontari” per il Xinjiang causò
gravi incidenti a Shanghai, il 12 giugno, incidenti che in uguali
circostanze, si ebbero anche a Canton ed in altre città. A
Pechino, più
prudentemente, ci si limitò ad inviare nelle campagne del
Distretto ben
200 mila fra professori e studenti delle medie inferiori e superiori,
per aiutare i contadini nel prossimo raccolto estivo.
Processi ed esecuzioni pubbliche si ebbero nello Jiangxi (giugno e
luglio) e verso la fine del mese e per tutto luglio, le correnti
marine, con macabra regolarità giornaliera, cominciarono a
depositare
sulle spiagge di Hong Kong i corpi mutilati di Guardie Rosse, di operai
e contadini del Guangdong. Altri estesi disordini interessarono la
Regione del Guangxi dove si ebbero ancora assalti ai treni che
convogliavano le armi russe nel Vietnam, tanto estesi che il CC, di
nuovo il 3 luglio 1968, condannò perentoriamente queste
ricorrenti
azioni.
La relativa ripresa di disordini e
battaglie, fece naufragare i primi preparativi di convocazione del IX
Congresso del PCC, mentre la propaganda cominciava a richiedere
immediate misure per miglioramenti organizzativi dei Comitati
Rivoluzionari invitati a portare a termine il lavoro di epurazione ed a
darsi un’efficiente struttura, in modo di «avere un personale
ridotto
e migliore e una amministrazione semplificata» (“Jenmin
Jihpao”
dell’11
luglio).
Ma se da una parte si riteneva necessario un minore personale
amministrativo, dall’altra, l’EPL aumentò di 600 mila
unità il numero
dei propri effettivi, ufficialmente per rispondere alla minacciosa
presenza americana nel Vietnam, ma senz’altro anche perché il
regime
intendeva far di tutto per far ristabilire all’EPL l’ “ordine
pubblico”,
di cui era unico garante la struttura militare.
La seconda quindicina di luglio, vide placarsi gli incidenti ed il
deciso intervento dell’EPL nelle Province del Sud come del Nord nelle
quali l’ordine era assicurato manu militari. Il 23 luglio,
Radio Canton annunciava che un tribunale speciale, comprendente
rappresentanti dell’Esercito e dei Comitati di Difesa Civile, aveva
condannato a severe pene 26 fra “controrivoluzionari e pericolosi
criminali”. Quattro giorni dopo, il 27 luglio, 100 mila fra soldati,
miliziani ed operai inquadrati occuparono l’Università Beida
a
Pechino
dove, dalla fine di aprile, si fronteggiavano due fazioni di Guardie
Rosse con coltelli, bastoni e fionde, scontri che causarono decine e
decine di morti e feriti. Le rimaste Guardie Rosse furono disperse ed
il loro tempio occupato: quelle che erano state le “avanguardie della
rivoluzione” erano diventate delle “teste calde” da rieducare sotto il
controllo dei contadini, degli operai e dei soldati !
L’editoriale del “Jenmin Jihpao” del 31 luglio: “Il fucile
comandato
dal pensiero di Mao Zedong è il pilastro della dittatura del
proletariato”, in cui con forza si ribadiva l’imperiosa
necessità
di obbedire al «Quartiere generale del presidente Mao e del
vice
Lin Biao»; in cui si scandiva ossessivamente che solo
contando
sull’Esercito si poteva raggiungere la «vittoria totale»,
fu
un’altra significativa campana che suonava a morte per le Guardie
Rosse.
Centinaia di migliaia di queste erano state chiamate a rafforzare
numericamente l’EPL ed a contribuire così al ritorno della calma
nelle
città; le altre, educatamente ma anche decisamente, erano
invitate ad
integrarsi nel proletariato e tra i contadini, etichettati dal regime
come le sole e vere forze rivoluzionarie. Le Guardie Rosse vedevano il
loro ruolo iniziale di “avanguardia” riposto per sempre nel
dimenticatoio, come si rilevava dall’editoriale del “Jenmin Jihpao”
il
18 agosto, secondo anniversario della prima grande sfilata,
titolato esplicitamente: “Sviluppiamo fermamente la via della nostra
integrazione fra gli operai, contadini e soldati !”.
Dopo una riunione dei massimi dirigenti con 20.000 quadri dell’EPL e
con i principali responsabili delle Province che ancora erano senza il
proprio Comitato Rivoluzionario, avvenuta l’11 agosto, due giorni dopo
la Provincia dello Yunnan obbediva all’ordine della capitale facendo
presiedere al Generale Tan Fu Ren il proprio; il 19 era la volta del
Fujian che lo affidava al Comandante militare del Distretto, Han
Xianchu; il Guangxi lo costituì il 26 agosto ed il 5 settembre
le altre
due Regioni del Tibet e del Xinjiang, tutti Comitati Rivoluzionari
presieduti dai Comandanti militari locali.
Il 25 agosto si aveva poi, sulla rivista “Bandiera Rossa”, un
clamoroso
articolo dell’iniziatore letterario della Rivoluzione Culturale, Yao
Wenyuan, titolato: ”La classe operaia deve dirigere tutto” che bene
illustrava tutte le preoccupazioni ed intenzioni del regime. La prima
preoccupazione era di sconfiggere i ”regni indipendenti”,
grandi e piccoli, che contrastavano l’autorità del Centro di Mao
e di
Lin Biao; la seconda, di far cessare l’ ”anarchismo”, la ”guerra
civile” fra le masse, causa prima dei danneggiamenti dei beni statali e
della produzione.
Visto che né gli studenti, né gli intellettuali erano
stati capaci di
arginare e battere questi pericoli, ma anzi in fin dei conti li avevano
favoriti con ”le loro chiacchiere senza fine”, gli operai, i
contadini e l’EPL erano chiamati ad una coalizione di emergenza che
doveva “dirigere tutto”. Secondo i voti dell’articolo, non
personale ma chiaramente di regime, le scuole sarebbero state
controllate da “squadre operaie di propaganda”, mentre quadri operai
dovevano rafforzare e semplificare tutti i settori degli organismi
dello Stato e dei Comitati Rivoluzionari. Infine, operai, contadini e
soldati dovevano assolvere al futuro grande compito della Rivoluzione
Culturale: epurare e consolidare gli organismi di partito.
Era il compimento della svolta di “normalizzazione”: le Guardie Rosse e
gli organismi di massa, i cui passati gravi errori erano continuamente
stigmatizzati, dovevano scomparire, essere sciolte, per non ostacolare
l’azione dei Comitati Rivoluzionari e quella delle strutture del
Partito impegnate alla loro ricostruzione, tutto sotto l’insegna del
primato, d’altra parte completamente retorico e ipocrita, della classe
operaia !
Senz’altro, la ricostruzione dell’apparato del Partito sarebbe stata
lunga e difficoltosa, per i tanti guasti e le tante contraddizioni
prodotte dalla Rivoluzione Culturale, ma questo processo era ormai
irrimandabile ed il regime, fra tentennamenti e forzature, si
apprestava alla dura opera intrinsecamente foriera di ulteriori gravi
scontri politici all’interno della ristretta leadership.
Precedute dall’articolo del 12 settembre del “Jenmin Jihpao”:
”Sulla
rieducazione degli intellettuali”, in cui si dichiarava che «gli
intellettuali che accettavano di essere rieducati sotto la direzione
della classe operaia e sono disposti a fondersi con gli operai, i
contadini e i soldati, sono utili alla prospettiva del socialismo»,
scelte citazioni del pensiero di Mao accompagnarono i primi
invii di studenti e di Guardie Rosse nelle campagne, dove saranno di
nuovo malamente accolti dai contadini che, con i nuovi arrivati,
vedevano giungere braccia non abituate alle fatiche ed alle quali
avrebbero dovuto inizialmente a tutto provvedere.
La Rivoluzione Culturale, sconquassando l’apparato dei quadri di partito, aveva in definitiva favorito grandemente gli ”appetiti individuali” dei contadini, appetiti che adesso erano uno dei primi nodi da sciogliere per far riprendere il corso dell’accumulazione capitalistica. I contadini, che non si erano mobilitati né a favore del Movimento di Educazione Socialista come voleva Mao Zedong nel 1963-64, né successivamente a favore delle Guardie Rosse, apertamente osteggiate e aspramente combattute, sfruttarono l’assenza della azione di controllo dei quadri. I villaggi, abbandonati a sé stessi, consumavano il più possibile concedendo allo Stato il meno possibile. Le misure liberali proposte all’inizio degli anni Sessanta da Liu Shaoqi, avevano come necessaria base la fedele ed attenta rete dei quadri, l’unica in grado di assicurare allo Stato il drenaggio delle eccedenze dei prodotti agricoli, delle tasse e degli acquisti obbligati dalle famiglie al potere centrale, che avrebbe in tal modo beneficiato dell’accresciuta produzione agricola da aversi con una relativa libertà di commercio e di vendita. La Rivoluzione Culturale aveva frantumato il solido apparato di Liu ma non l’aveva sostituito con niente, il contadino, minimamente percorso da fremiti rivoluzionari, celebrava i propri fasti individuali e proprietari, la Rivoluzione Culturale immobile ed incapace di reagire poteva solo mirare il suo beffardo sorriso !
Significativamente, fu proprio affidato ai contadini, i sabotatori primi della Rivoluzione Culturale, il compito di calmare e d’ordinare le Guardie Rosse che non erano state disciplinate nelle file dell’EPL, ulteriore beffa per quei giovani entusiasti e ingenui insieme.
Il 1° ottobre 1968 vide la tradizionale sfilata della festa nazionale; le Guardie Rosse erano del tutto scomparse e i militari facevano bella mostra di sé con la folla che scandiva lo slogan di moda: “La classe operaia deve dirigere tutto”. L’Agenzia Nuova Cina pubblicò una nuova lista del gruppo dirigente: Mao era seguito da Lin Biao, Zhou Enlai, Chen Boda, Kang Sheng, Jiang Qing, Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan, Xie Fuzhi, Huang Yongsheng, Wu Faxian, Ye Qun, Wang Dongxin e Wen Yu-cheng, lista che vedeva – rispetto alla stessa occasione dell’anno precedente – scomparsi Zhu De, Li Fuzhun, Chen Yun, Dong Biwu, Chen Yi, Li Xiannian, Xu Xiangqian, Nie Rongzhen e Ye Jianying; tutte personalità oggi riabilitate pienamente ed in maggioranza sulla cresta dell’onda mentre i loro sostituti hanno poi subìto una cruenta sconfitta.
Il 13 ottobre dello stesso anno, si inaugurò a Pechino il XII Plenum del CC dell’VIII Congresso del PCC, allargato ai rimasti membri del Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale, ai principali rappresentanti dei Comitati Rivoluzionari e principali capi militari, presenze che bilanciavano le numerosissime assenze dei membri effettivi e supplenti del CC, il che era nuovamente una chiara infrazione delle regole statutarie del PCC, per la verità mai attaccato a criteri “democratici”.
Il Plenum aveva il preciso compito di saldare finalmente i conti con Liu Shaoqi ed i suoi. Il “grande, glorioso e giusto, Partito diretto dal compagno Mao Zedong”, aveva vinto la sua battaglia contro il Quartier Generale borghese di Liu ed aveva sconfitto il suo tentativo di usurpare il potere. La mobilitazione di milioni di individui con il sostegno decisivo dell’EPL, aveva determinato l’esito della lotta con la vittoria dei “rivoluzionari” che, adesso, dopo le prove della “controcorrente del febbraio 1967” e il “vento sinistro della primavera 1968”, si accingevano ad espellere per sempre dal Partito e dalle sue cariche nello Stato, lo sconfitto Liu Shaoqi. Oramai niente si frapponeva alla convocazione del IX Congresso che avrebbe santificato Rivoluzione Culturale, Mao Zedong e Lin Biao !
Ne sarebbe uscito, rispetto agli anni Sessanta, un Partito che, epurato i “vecchi burocrati”, rigenerato dall’ “afflusso di nuovo sangue proletario” (come era titolato l’editoriale di “Bandiera Rossa” del 16 ottobre), avrebbe preteso di non staccarsi dalle masse per il semplice fatto che ai quadri era imposto l’hobby del lavoro manuale, panacea per prevenire la ricaduta nel revisionismo.
La panacea del lavoro manuale “antirevisionismo”, fu sfruttata appieno per l’invio nelle campagne di giovani, di Guardie Rosse e di quadri del Partito e dello Stato in sovrappiù per il passaggio di molti posti dell’Amministrazione civile nelle mani dei militari. Le direttive di Mao furono per questo puntuali e subito pomposamente riprese dalla stampa che quotidianamente riportava i progressi della parziale ruralizzazione della popolazione urbana. Il 5 ottobre, il “Jenmin Jihpao” riporta un articolo sulle scuole “7 maggio”, con i quadri del Partito e dello Stato che avevano accettato la loro “rieducazione” e si sottoponevano a lavori agricoli e semi-artigianali, fra una seduta e l’altra dei corsi di studio del pensiero di Mao; della loro vecchia posizione (e non era certamente poco !) avevano mantenuto però il loro stipendio, ben superiore a quello dei rurali tout court !L’esodo ebbe il suo massimo nella seconda quindicina del dicembre 1968 che era stata mobilitata da un’altra direttiva di Mao. Non si trattò solamente ed unicamente di un soggiorno temporaneo, seppure senza un preciso termine di scadenza, come era stato per il passato e come era stato anche promesso alle Guardie Rosse in procinto di partire; ma di un vero e proprio tentativo di insediare interi nuclei familiari in zone e province, tipo il Gansu, scarsamente popolate ed in massima parte inospitali per mancanza di infrastrutture. Generalmente furono gli studenti (dai 15 anni in su), gli insegnanti, i medici, i quadri, i disoccupati, gli “indipendenti” (cioè coloro che si ostinavano ad esercitare piccoli mestieri artigianali nelle città), i “controrivoluzionari” e gli ultimi elementi di estrazione borghese, a prendere, volenti o no, le loro scarse carabattole ed a sfidare le dure condizioni di vita delle campagne. Motivazioni sociali ed economiche: risolvere il problema della disoccupazione urbana e quello del rifornimento delle città di prodotti agricoli diminuendo il numero dei consumatori urbani non produttivi, trasformati in lavoratori agricoli; e politiche insieme: frazionare e disperdere i possibili focolai di tensioni sociali, di opposizione e di disordini; concorsero alla grande migrazione che, in pochi mesi, interessò qualche milione di persone, cifra rispettabile anche per la popolatissima Cina.
I primi due mesi del nuovo anno 1969, videro ormai placata la scena politica, i protagonisti di tante battaglie stancamente aspettavano la convocazione del IX Congresso del PCC i cui preparativi fervevano mentre gli appelli alla calma e alla riabilitazione dei quadri si alternavano alla denuncia della “deviazione corrotta del policentrismo”. Timidamente, riapparì, dopo anni ed anni in cui le questioni economiche di “pianificazione” erano viste con sommo sospetto, nell’editoriale del 21 febbraio del “Jenmin Jihpao”: “Fare la rivoluzione, stimolare la produzione e riportare nuove vittorie sul fronte dell’industria”, una chiara allusione ad un Piano Nazionale Unico in cui la priorità veniva data all’industria mineraria, seguita dall’agricoltura, dai trasporti e dalle comunicazioni.
Il mese di marzo vide i sanguinosi scontri fra truppe confinarie russe e cinesi sul corso medio dell’Ussuri. Il 2 marzo 1969, un’imboscata cinese causò 38 morti e 60 feriti ad una pattuglia russa che si era spinta sull’isolotto Zhenbao sull’Ussuri, in quella stagione completamente gelato. L’immediata controffensiva russa, con artiglieria e mezzi corazzati, causerà perdite più o meno simili nel campo avversario.
L’isolotto era incontestabilmente territorio cinese, ma al di là del diritto, l’incidente fu cercato e voluto dai cinesi che lo sfruttarono magnificamente per la preparazione del IX Congresso; servì infatti a rievocare fatti storici dolorosi per l’orgoglio nazionale di Pechino – dal saccheggio russo della Manciuria dopo la disfatta giapponese al brusco ritiro degli aiuti economici nel 1960 fino ai trattati “ineguali” del lontano 1858 con cui la Cina aveva perso a favore di Mosca i territori situati a nord dell’Amur e ad oriente dell’Ussuri, che giustificavano un’estrema lotta ideologica contro i “revisionisti interni” (Liu Shaoqi e soci) e quelli “esterni” soprannominati i “nuovi Zar”.
Il patriottismo – si ebbero immediate manifestazioni in tutte le città cinesi con centinaia di milioni di partecipanti – adornò l’Esercito di una aureola di gloria che lo rendeva praticamente invulnerabile di fronte a qualsiasi critica, proprio in un momento in cui il suo capillare intervento in tutti gli aspetti della vita nazionale stava incominciando a provocare le prime impopolarità. Il patriottismo era poi posto al servizio del pensiero di Mao Zedong di fronte al quale era obbligo inginocchiarsi, il cui “comando unificato” doveva dettare su tutti gli strati sociali, in tutte le province e regioni; giustificava altresì una nuova mobilitazione industriale ed agraria, infatti i contadini e gli operai furono invitati a raddoppiare i loro sforzi lavorativi per la difesa della Patria in pericolo !
Tutto questo prezioso consenso patriottico fu, per Mao e, per il regime, la migliore preparazione possibile che si potesse desiderare per il IX Congresso, ormai prossimo.
Con finalità opposte, cioè il tentativo di aprire crepe e contraddizioni nel regime di Pechino chiaramente indebolito da tutto il procedere della Rivoluzione Culturale, fu invece lo scontro armato del 15 marzo, sfruttato dai russi per scoraggiare qualsiasi futura iniziativa cinese. Ben preparata, un’offensiva russa, nella stessa zona degli scontri precedenti, causò circa 800 morti fra i cinesi e solo 60 perdite fra gli attaccanti, offensiva che rivelò al mondo ed a Pechino la relativa potenza militare della Repubblica Popolare Cinese.
Dopo tredici anni dallo svolgimento dell’VIIl Congresso che aveva visto un Partito tronfio dei successi economici che il regime aveva conseguito, forte e sicuro del proprio luminoso avvenire, un Partito che dispiegò allora tutta la propria forza, dal 1° al 24 aprile 1969 si tenne a Pechino il IX Congresso del PCC che, nell’assoluta segretezza (solo il rapporto politico di Lin Biao del 1° aprile ed il nuovo Statuto del Partito furono ufficialmente resi noti), tirò le conseguenze della Rivoluzione Culturale che si rispecchiarono impietosamente nella composizione del CC e, soprattutto, in quella del Politburo.
I 1512 delegati scelti non per la normale via della “consultazione” dell’apparato, praticamente distrutto, ma dall’alto, nei Comitati Rivoluzionari e con larghezza anche fra individui non iscritti particolarmente meritevoli, elessero un pletorico CC composto da ben 170 titolari e 109 supplenti; un totale quindi di 279 membri contro i 200 circa dell’VIII Congresso, di cui ben 116 non erano riconfermati.
I militari di carriera vi facevano la parte del leone con il 45% degli eletti, percentuale che corrispondeva perfettamente alla situazione politica ed amministrativa che si era determinata nei mesi passati. Le Guardie Rosse contavano appena per l’1%, segno che il tanto declamato “afflusso di sangue proletario” non era stato fornito dai giovani alfieri della Rivoluzione Culturale, ma dalle serie divise dei militari.
Ancora più significativa fu la composizione del Politburo eletto dal I Plenum del CC, il 28 aprile: Mao Zedong, Lin Biao, Chen Boda, Zhou Enlai e Kang Sheng costituivano il Comitato permanente.
Eccezione fatta per Zhou Enlai, sempre abile ad adattarsi alle circostanze, il Comitato permanente del Politburo raccoglieva i teorici ed i grandi protagonisti e beneficiari della Rivoluzione Culturale, mentre il rimanente Politburo era percorso da diverse sottili tendenze. Gli anziani Dong Biwu e Maresciallo Zhu De, ambedue vicepresidenti della Repubblica, erano le due illustri comparse; Jiang Qing, Zhang Chunqiao e Yao Wenyuan, diventato nel frattempo genero di Mao, erano i soli rimasti, insieme a Chen Boda, del Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale, senz’altro voluti ed appoggiati direttamente da Mao che contava ciecamente, oltre che sui tre, anche sul suo ex-gorilla, il Generale Wang Dongxing, comandante della Guardia Presidenziale; il Generale Wu Faxian (comandante dell’Aviazione), Li Zuopeng (primo Commissario politico della Marina) e Qiu Huizuo (intendenza generale dell’EPL) erano i fedelissimi del Maresciallo Lin Biao che aveva portato con sé anche la moglie Ye Qun; al Maresciallo Liu Bocheng facevano invece riferimento i Generali Xu Shiyou, Chen Xilian e Li Desheng, tutti e tre a capo di importanti Regioni e Distretti militari; Zhou Enlai contava sicuramente su Li Xiannian e sul Maresciallo Ye Jianying, mentre Xie Fuzhi (il Generale Ministro della Pubblica Sicurezza), l’altro Generale Huang Yongsheng (Capo di Stato Maggiore), Li Xuefeng e Ji Dengkui fluttuavano fra le correnti principali.
Le forti personalità di un tempo: Liu Shaoqi, Deng Xiaoping, Peng Zhen, Peng Dehuai, He Long, Tan Zhenlin, Chen Yi, Chen Yun, Xu Xiangqian, Li Fuzhun, Li Jingquan, Nie Rongzhen e Tao Zhu, molte delle quali evocavano 30 e più anni di storia del PCC, erano relegate nell’affollatissimo CC o del tutto scomparse, sostituite da un gruppo di figure che, nell’arco di pochi anni, salderanno spietatamente i conti fra di loro.
Aveva voglia il nuovo Statuto di scandire che il pensiero di Mao Zedong era l’unica unitaria base teorica ed ideologica del PCC, «è il marxismo leninismo dell’epoca in cui l’imperialismo sta avviandosi al crollo totale»; aveva voglia di proclamare che il programma del PCC era il «rovesciamento completo di tutta la borghesia e di tutte le altre classi sfruttatrici» e che il suo «obiettivo ultimo è la realizzazione del comunismo»; più modestamente gli Statuti precedenti parlavano di «sviluppare l’economia nazionale in maniera pianificata», di «soddisfare nella più larga misura i bisogni materiali e culturali del popolo», specchio della chiarezza dell’VIII Congresso sui compiti del programma borghese che la Rivoluzione Cinese assolveva.
Undici anni dopo, tali nozioni furono clamorosamente smarrite, la lotta politica aveva dovuto rialzare il simulacro vuoto del pensiero di Mao Zedong come versione nazionale del marxismo-leninismo con il corollario di tutte le illusioni, le demagogie ed i tradimenti propri della stalinista costruzione di capitalismo nazionale, spacciato come dittatura del proletariato e “costruzione” del socialismo; ma i fatti, mai compresi dal praticismo e dal concretismo maoista, i fatti che avevano determinato all’inizio degli anni Sessanta il prevalere del pragmatismo di Liu e di Deng, i fatti si sbarazzeranno dei clamori romantici del IX Congresso. Nell’arco di pochi anni, salterà la base teorica unitaria del pensiero di Mao Zedong, salterà persino il successore di Mao designato dagli Statuti del 1969, verranno riposte le proposizioni di “internazionalismo proletario” e di “rivoluzione continua”. I bisogni materiali non del popolo cinese ma del capitalismo cinese costringeranno il regime ad aprirsi al Mercato mondiale che era, ed è, il Mercato di Sua Maestà il Dollaro; lo sviluppo, pianificato o libero poco importava, dell’economia nazionale lo imponeva e gli uomini dovettero adattarsi a queste superiori esigenze che, come imponevano verso l’esterno l’apertura di Pechino, all’interno richiedevano il ritorno alla centralizzazione statale che vigeva ai tempi di Liu e Deng, con il Partito e lo Stato che dittavano sulla struttura militare.
La Rivoluzione Culturale aveva invece rovesciato questo rapporto, aveva anche favorito, come ultima carta giocata per evitare la disintegrazione della unità statale, un certo “regionalismo” e “localismo”, affidandosi totalmente ai militari; scampato il pericolo, Pechino doveva ricostruire il Partito e lo Stato, riallineare i potenti generali usando, alternativamente, il bastone e la carota.
Il IX Congresso, se concludeva quindi la Rivoluzione Culturale per quanto riguardava la lotta politica all’interno della leadership, apriva contemporaneamente ed automaticamente un altro drammatico capitolo dell’evoluzione borghese della Rivoluzione Cinese.
Il rapporto di Lin Biao, approvato all’unanimità il 14 agosto 1969 e puntigliosamente studiato frase dopo frase dai 1512 delegati, considerato oggi, insieme a tutti gli altri atti del IX Congresso, “del tutto erroneo” dalla dirigenza dengxiaopiana, fu proprio l’espressione di un uomo capace e deciso nell’azione quanto scialbo e confuso come teorico.
La prima parte del rapporto: “Preparazione della grande Rivoluzione Culturale proletaria”, cercava di spiegare la continua lotta fra le due “linee”, la lotta del rivoluzionario Mao contro il revisionismo che rinasceva senza interruzioni, allevato e coccolato da Liu Shaoqi; con violenza l’ex-presidente della Repubblica veniva attaccato, Lin Biao cercò di dimostrare come fin dal 1939 Liu Shaoqi aveva costituito una “cricca” che costantemente aveva contrastato la la linea di Mao riguardo “l’edificazione economica del socialismo”, dissidio che aveva invece riguardato il problema ben più prosaico di come favorire lo sviluppo delle basi di un moderno capitalismo agrario ed industriale, questione che aveva anche visto significative concordanze fra l’indirizzo economico di Mao e quello di Liu.
La parte seconda, “Il corso della grande Rivoluzione Culturale proletaria”, ripercorreva con tono mitico ed epico insieme gli episodi più importanti del ritorno di Mao alla guida del Partito e dello Stato con la sconfitta della “cricca di Liu”; “influssi e riflussi” del movimento, la grave crisi della primavera 1967 e dell’estate 1968 erano velocemente ricordate, più che altro per magnificare la “direzione chiaroveggente di Mao” che tutto sventava.
La parte terza, “Condurre coscientemente a buon fine la lotta-critica-trasformazione”, avvertiva che la riconquista del potere da parte del “Quartier Generale di Mao Zedong” non aveva esaurito la marcia della Rivoluzione Culturale che avrebbe dovuto «proseguire fino in fondo la rivoluzione socialista nel campo della sovrastruttura», individualismo, “policentrismo”, burocratismo, erano indicati come i mostri da combattere per far sì che non rinascesse il potere borghese dei liuisti, in verità mai teneri nei confronti di quei mali non fosse altro perché consci di come l’efficienza e probità dell’apparato del Partito e dello Stato formassero il fattore indispensabile, insieme ad una salda centralizzazione politica ed economica, per il processo di riproduzione ed accumulazione del capitale nazionale cinese, Dio di Liu Shaoqi quanto di Mao Zedong e di Lin Biao.
La parte sei sul “Consolidamento e l’edificazione del Partito”, mostrava come la Rivoluzione Culturale era stata un grande movimento di epurazione ed un deciso tentativo per sconfiggere quei quadri imborghesiti e seguaci di Liu. La successiva parte sulle “Relazioni della Cina con i paesi stranieri” conteneva ancora un attacco simultaneo all’imperialismo di Washington e di Mosca contro i quali veniva invocato un fronte unito di tutti i paesi e popoli vittime del loro intervento e della loro vessazione.
Metallicamente, l’uomo d’azione Lin Biao scandì: «Armati del pensiero di Mao Zedong e temprati dalla grande Rivoluzione Culturale proletaria, il popolo cinese di centinaia di milioni e l’Esercito Popolare di Liberazione, pieni di fiducia nella vittoria, sono decisi a liberare Taiwan, loro sacro territorio e a distruggere risolutamente, radicalmente, integralmente e totalmente ogni aggressore che osasse attaccarci !».
Il grido di battaglia, ingenuo e possente insieme, di Lin Biao, significava che la Cina aveva ancora un giovanile furore borghese giacobino che la portava a proclamare a viva voce la sua intenzione di risolvere, armi alla mano, il problema della completa unificazione nazionale che però, oltre a Taiwan, riguardava anche Macao portoghese e Hong Kong inglese, nemmeno nominate dal guerresco Lin Biao.
Certo, nel periodo 1960-65, sotto il prudente Liu Shaoqi non ci furono di questi ammonimenti anche se, mai come nel ”quinquennio nero”, la Cina fu capace di fare maoisticamente da sé, contando solamente sulle sue forze e trovando il coraggio di accettare la rottura dei rapporti con la Russia e gli altri paesi del blocco sovietico, rottura che ebbe come immediata conseguenza la rapida contrazione dello scambio di materie prime e prodotti agricoli cinesi contro macchinari e prodotti industriali sovietici. Il fatto era che Liu Shaoqi non aveva bisogno di evocare invano passati spiriti guerrieri preso come era a salvare dalla catastrofe economica la Repubblica prostrata dagli effetti del Grande Balzo in Avanti, mentre invece Lin Biao, la cui posizione privilegiata nel regime si basava soprattutto sul mantenimento del ruolo predominante dell’EPL in tutti i settori della vita pubblica, aveva mille e una ragione per mostrare al mondo, bluffando spudoratamente, i fucili e le baionette, digrignando i denti contro Taiwan, contro Mosca e Washington, per ragioni interne più che per intima convinzione.
Lin Biao terminò il suo rapporto inneggiando alla raggiunta unità del ricostruito Partito, ammettendo che, nonostante quel glorioso congresso di “Unità e di vittoria”, la Rivoluzione Culturale, seppure in altre forme, avrebbe continuato a manifestarsi.
Il 24 aprile, il Comunicato finale del IX Congresso del PCC, dovette inscrivere fra i compiti futuri della attività di Partito «liquidare definitivamente l’influenza della linea revisionista e controrivoluzionaria di Liu Shaoqi», «rieducare gli intellettuali», «lottare contro, le tendenze errate di “sinistra” e di “destra”»; dopo tre anni di Rivoluzione Culturale lo scandire questi compiti era un chiarissimo ed inequivocabile segnale che la crisi politica del regime di Pechino, manifestatasi apertamente nel maggio-giugno 1966, era ben lungi dall’essersi risolta ma prometteva anzi nuovi clamorosi ed inattesi avvenimenti.
A commento e conferma del senso da noi dato degli avvenimenti politici, trattati nelle passate puntate della serie che hanno riguardato l’intero corso della Rivoluzione Culturale, aggiorniamo adesso il nostro solito quadro statistico con le produzioni annue di determinati prodotti industriali ed agricoli, con gli aumenti medi annui riguardo i diversi periodi già presi in considerazione.
Questa volta una novità: la serie dell’acciaio, del cemento, dei cereali, del cotone, della popolazione e della disponibilità pro-capite dei cereali è ufficiale per gli anni 1966-69 e sono una anticipazione degli ”Annali delle statistiche della Cina”, apparsa su ”Beijing Information” del 19 marzo u.s.
[ Quadro delle principali Produzioni 1949-77 ]
Come abbiamo già visto, trattando del periodo 1961-65, la
politica
economica “liberista” di Liu Shaoqi poggiava sull’uso discreto di
incentivi e cottimi nel settore industriale e sul permettere una certa
estensione dei liberi mercati e di libero commercio dei prodotti
agricoli (grano e cotone esclusi) ed era riuscita ad invertire
l’inabissarsi economico seguito alla disorganizzazione del Grande Balzo
in Avanti, caratterizzato dalla pressoché totale assenza di
pianificazione e da forsennati ritmi di lavoro che logorarono uomini e
mezzi di produzione. Le produzioni del 1965 (che pure in genere non
riuscirono a raggiungere nel settore industriale, petrolio escluso, i
massimi dell’anno 1960) erano un buon trampolino di lancio per il
3°
piano quinquennale iniziato senza clamore il 1° gennaio 1966 e che
prevedeva un incremento medio annuo dell’11% per l’industria e del 4%
per l’agricoltura.
Vediamo prima di tutto gli effetti della Rivoluzione Culturale
sull’industria facendo riferimento alle nostre caratteristiche
produzioni.
L’anno 1966 ha per tutte le produzioni industriali, significativi
aumenti, dal petrolio (+34,3% rispetto all’anno precedente) alle
macchine utensili (+4,1%); probabilmente, l’insieme dell’industria
cinese rispetta la propria tabella di marcia, ma, come già visto
con la
cronaca della Rivoluzione Culturale, nell’estate-autunno l’immensa
migrazione di Guardie Rosse sconvolse la già insufficiente rete
dei
trasporti ferroviari. Con l’autunno 1966, e in special modo nei primi
mesi del 1967, la classe operaia iniziò la sua “particolare”
partecipazione alla Rivoluzione Culturale. Scontri fra operai e Guardie
Rosse, scontro fra gruppi di operai e fra gruppi di Guardie Rosse delle
diverse tendenze, scontri fra tutti questi e le milizie dell’EPL,
dettero il via ad una strabiliante girandola di scioperi,
rivendicazioni salariali ispirate all’ “economicismo”, assenteismo,
ridotta produttività, danneggiamenti degli impianti e delle
installazioni. Infranta la ferrea disciplina di fabbrica, il potere
decisionale dei quadri, tecnici e direttori di azienda divenne zero e
neanche l’inizio dell’intervento dell’EPL, nella primavera 1967,
riuscì
ad impedire il brusco rinculo di tutte le produzioni industriali che
energia e petrolio a parte, produzioni particolarmente protette,
scesero sotto le quote del 1965.
L’intera produzione industriale scese nell’anno 1967, secondo le attuali statistiche ufficiali, del 14,9% dall’anno precedente, diminuzione che fu di gran lunga più marcata nel settore dell’industria pesante (-21,6% rispetto a quello della industria leggera (-7,9%).
L’azione di Zhou Enlai con i suoi e l’intervento capillare dell’EPL, che direttamente si assunse la responsabilità di settori chiave: acciaio, trasporti, petrolio, energia elettrica, e delle più importanti aziende, riuscirono faticosamente a “frenare” il disastroso corso delle principali produzioni industriali. Ufficialmente nel 1968 la produzione dell’industria leggera indietreggiò del 5,9% e quella pesante dell’8,3%, un buon risultato rispetto all’inabissamento dell’anno precedente..
L’acciaio scese ancora del 12,6%, ritornando a quote della fine degli anni Cinquanta; stessa sorte per la ghisa che presentò un negativo 14,3%; il carbone ebbe un eccellente +8% ma non riuscì ad avvicinare le produzioni degli anni passati; l’energia elettrica con un aumento del 10% ritornò alla quota del 1966; il petrolio superò invece, eccezione, del 4,8% la quota del 1966 e del 1967, vera produzione in possente ascesa. Il cemento, sicuramente scese del 13, 7% ritornando alla quota del 1965, distantissima da quella del 1966. Infine, dati non ufficiali, le macchine utensili ed i tessuti di cotone: le prime aumentarono del 12,5%, ma, anch’esse, non riuscirono a raggiungere né il 1966 né il 1960; i secondi balzarono in avanti con un +55%, exploìt che non bastò per ritornare al 1965-66, solo eguagliato il lontano 1960.
L’anno 1969, con la normalizzazione della situazione nelle principali fabbriche e nei principali settori industriali, fu caratterizzato dal delinearsi di una significativa ripresa dell’intera produzione industriale che rimaneva, nel suo complesso, ancora ben al di sotto della prevista marcia in avanti dell’11% annuo medio.
Secondo gli ultimi dati, infatti, nel 1969 la produzione
dell’industria pesante aumentò del 13,9% ed in generale
ritornò al
livello produttivo del 1966, per l’industria leggera si ebbe invece un
aumento del 21,3% rispetto all’anno precedente, con un +5,1% sul 1966.
I quattro anni 1966-1969, videro l’acciaio aumentare dell’1,5% l’anno; la ghisa di un impercettibile +0,9%, il carbone del 5,5%; l’energia elettrica rispettare la tabella di marcia con l’11,5%; il petrolio avanzare con il buon ritmo del 17,1%; il cemento migliorarsi con un +11,1%; le macchine utensili attestarsi ad un modesto +3,5%; i tessuti di cotone accontentarsi del +1,4% medio annuo. Tutte cifre che ben fanno apprezzare il fallimento di quello che doveva essere il 3° piano quinquennale, spazzato via insieme alla burocrazia di Liu Shaoqi e Deng Xiaoping dall’incedere della Rivoluzione Culturale, cifre che sconfessano altresì una sciocca ed ingenua interpretazione degli accadimenti sociali in Cina, visti unicamente come determinati dallo Stato centrale che per favorire l’industrializzazione avrebbe scientemente scelto di alternare una politica economica con un’altra, opposta riguardo molti aspetti.
Ora, questa interpretazione che si potrebbe dire accademica ed evoluzionista insieme, non ha potuto apprezzare (né lo potrà nel futuro) i moti sociali che si sono avuti e che si hanno nella lontana Repubblica Popolare, interpretazione che finisce per attribuire agli uomini ed anche allo Stato un’intelligenza ed una coscienza che non possono possedere. Abbiamo infatti mostrato come le politiche che, per semplificare, chiamiamo di Liu Shaoqi e di Mao Zedong poggiassero su reali considerazioni economiche e sociali, e come lo Stato della Repubblica Popolare Cinese non scelse freddamente e coscientemente di alternare ora quella ora l’altra politica allo scopo di sviluppare meglio le forze produttive e far procedere l’industrializzazione; sono invece le intime contraddizioni di quel determinato processo di industrializzazione che danno il là a lotte sociali e politiche che, del tutto incoscienti e del tutto “passionali”, pesarono per l’adozione di un indirizzo economico invece di un altro, adozione che non sempre ha corrisposto alle intime necessità del processo di industrializzazione dell’intera Cina. Tesi questa nostra che trova un’indiscutibile conferma nelle cifre dell’ultima colonna del quadro, quella dell’incremento medio annuo per l’intero periodo 1958-69 che fu ben fallimentare rispetto ai risultati del I Piano quinquennale, anni 1953-57.
Lo sterminato e disperso mondo contadino fu quello che meno risentì degli avvenimenti della Rivoluzione Culturale anche se, lo abbiamo mostrato, furono proprio i progressi della produzione agricola, favorita dalle concessioni del 1961-65, a porre nuovamente di fronte al Partito e allo Stato il problema di come drenare plusvalore e plusprodotti dalle campagne per indirizzarli agli investimenti industriali.
Già il Movimento di Educazione Socialista aveva rivelato la decisa inerzia dei contadini rispetto agli appelli maoisti per la lotta di classe e la loro chiara simpatia per le misure “liberali”, introdotte per favorire sia la produzione sia il commercio di certi prodotti agricoli e di allevamento. Il reale fallimento della Rivoluzione Culturale si rivelò, pertanto, fin dall’inizio, quando il Programma in sedici punti previde, ipocritamente, che il Movimento di Educazione Socialista continuasse imperterrito la propria marcia, quando mai era partito !
Poco numerose rispetto alla sterminata popolazione contadina, le Guardie Rosse si guardarono bene dall’attaccare, frontalmente ed in maniera generalizzata, le “tendenze” capitalistiche dei contadini che, per tutto il 1966, continuarono ad attestarsi sulle loro piccole ma significative proprietà. La fondamentale produzione di cereali dai 200 milioni di tonnellate del 1965 passò ai 214 del 1966, aumento che riuscì a ben migliorare la disponibilità pro-capite di cereali (287 Kg).
L’anno successivo, le condizioni atmosferiche furono favorevoli come in nessun altro anno dopo la proclamazione della Repubblica Popolare, il raccolto dei cereali arrivò a 217,8 milioni di tonnellate e la disponibilità pro-capite annua a 285 kg., sempre inferiore alla razione (302 kg.) del 1957, uguale a quella del lontano 1952.
Per questo risultato, invero non del tutto negativo, senz’altro influì il fatto che, anche nell’anno più turbolento della Rivoluzione Culturale, le Guardie Rosse riuscirono solo in maniera minimissima, interessando con la loro azione solamente le zone limitrofe alle principali città, a scuotere dal loro torpore le campagne, per un raggio di circa 50 km.
In alcune regioni, si ebbe anzi che i contadini approfittarono dell’alleggerimento del controllo politico ed amministrativo per dividersi le riserve collettive dei cereali e le semenze accantonate per le terre collettive; per assaltare i depositi statali degli ammassi e dedicare più tempo ai terreni individuali o ad altre attività familiari (dall’allevamento al piccolo artigianato). La Direttiva del 4 dicembre 1967 riconosceva questa difficile situazione e non potette portare niente di nuovo a quelli che furono gli iniziali atteggiamenti della Rivoluzione Culturale rispetto al mondo contadino: proibiva di nuovo “le prese di potere” nelle esistenti Comuni e Brigate; proibiva i conflitti fra le masse e usava la massima prudenza nei confronti dei quadri rurali, immobili e silenziosi. La Direttiva si proponeva, modestamente, di frenare i fenomeni sempre più ricorrenti di “decollettivizzazione” e “privatizzazione” delle terre; le “sei buone tattiche” di Mao Zedong, riprese dallo scritto: “Buona produzione, buon raccolto, buona selezione delle semenze, buon approvvigionamento, buona divisione dei prodotti, buon ammasso”, sensatamente glissavano sulla lotta di classe e sugli appelli alla mobilitazione tipici degli anni Cinquanta, durante la “collettivizzazione”.
Poiché il raccolto era sempre soggetto ai capricci della natura, l’anno 1968 vide retrocedere la produzione cerealicola di ben 8,7 mil. di t. e la quota pro-capite scendere fino a 266 kg, inferiore agli anni precedenti ed anche alla quota del 1957 e del 1952, solo superiore a quella del disastroso anno I960. Le cattive condizioni atmosferiche non furono favorevoli al raccolto invernale dei cereali (in genere la quinta parte della produzione cerealicola totale annua), le inondazioni che colpirono molte regioni rurali nel giugno, danneggiarono il primo raccolto di riso e causarono anche una diminuzione di molti suoli ritardando il trapianto del riso tardivo.
Il 1969 vide aumentare la produzione cerealicola di 1,9 mil. di t., incremento che nemmeno pareggiava l’accresciuta popolazione.
Prendendo in considerazione l’intero periodo dei 4 anni, la produzione cerealicola crebbe dell’1,3% l’anno, aumento che non manteneva il passo della popolazione (+2,7%); la disponibilità annua pro-capite aveva quindi una nuova flessione (-1,4%), diminuzione che vanificava il miglioramento degli anni precedenti la Rivoluzione Culturale, anni che avevano marginalmente influito sulla organizzazione del lavoro agricolo.
L’altra fondamentale produzione agricola, il cotone, presentava un buon incremento annuo nel 1966 (+6,2%), la cui quota fu mantenuta nel 1967 e nel 1968, mentre nel 1969 indietreggiò del 13% arrivando a 2,08 milioni di tonnellate. Nei 4 anni, la produzione di cotone aumentò annualmente del 6,8%, tasso superiore al 4% richiesto dal 3° piano quinquennale per il settore dell’agricoltura.
In generale, il mondo contadino continuò nella sua inerzia ed il valore della produzione agricola aumentò, ufficialmente, del 4,2% rispetto a quello del 1966, aumento inferiore anche nei confronti dell’industria leggera. Anche se i maoisti accusarono a ragione i liuisti di aver ristabilito la produzione agricola con misure liberali (dal considerare la squadra, grosso modo il villaggio, come “unità di base” autonoma finanziariamente e responsabile di vendite, acquisti ed eventuali perdite, alla concessione di terreni privati, all’apertura di liberi mercati per determinati prodotti; dalla concessione delle terre dissodate ai “privati” alla ripartizione delle consegne dei cereali agli ammassi statali per famiglia), né il Movimento di Educazione Socialista né la Rivoluzione Culturale ebbero il coraggio di mettersi contro al mondo rurale il quale, detenendo la chiave magica del possesso dei cereali, aveva la possibilità di affamare le città non consegnandoli, occultandoli o non seminandoli.
I contadini, vera espressione delle tendenze capitalistiche dello Stato cinese, che furono semplicemente invitati a “scambiarsi esperienze”, mantennero tutte le loro conquiste, ed il regime si limitò, durante la primavera 1967, ad inviare le truppe nelle Comuni e nelle Brigate per aiutare i contadini, eufemismo con il quale si nascondeva l’imperiosa necessità di non turbare l’ordine nelle campagne, di modo che i contadini non approfittassero troppo della debolezza dello Stato centrale per dividersi i prodotti e per ridurre le consegne obbligatorie e le imposte.
I terreni privati (fra il 5 ed il 10% delle terre collettive) continuarono ad essere tollerati come anche i “liberi mercati”, il cui numero rimaneva abbastanza limitato e nei quali i contadini vendevano i prodotti agricoli dei terreni privati e dell’allevamento familiare di volatili e suini, permissività che la diceva lunga sulla vittoria tanto strombazzata della Rivoluzione Culturale e del maoismo.
Considerando l’intero periodo 1958-69 gli incrementi medi annui sono ancora più negativi per il regime di Pechino e per la sua progettata industrializzazione. La produzione cerealicola avanzò con il ritmo asfittico dell’0,66% l’anno, ben inferiore al ritmo della popolazione (+2,2% l’anno); la disponibilità pro-capite scese alla media dell’1,2% l’anno, dato tragico che trova conferma nelle continue importazioni di cereali: 5,6 mil. di t. nel 1966; 4,1 ml. di t, nel 1967; 4,4 mil. di t. nel 1968; 3,9 mil. di t. nel 1969, che rappresentarono per il regime di Pechino una perdita considerevole di valuta pregiata altrimenti utilizzabile.
L’impasse della produzione agricola fu, d’altra parte, un
formidabile ammonimento nei confronti di qualsiasi romanticismo;
chiunque detenesse il potere centrale di Pechino e ne determinasse la
politica economica, doveva prosaicamente fare i conti con quella
realtà
e scendere a patti con gli appetiti contadini; altra strada non
esisteva per lo Stato della Repubblica Popolare Cinese: volente o
nolente doveva far dipendere le sorti dell’industria dal mondo rurale
che, anziché essere sventrato e proletarizzato dal procedere
dell’industrializzazione, fu rimpolpato nei suoi già sterminati
effetti
e rassicurato sulla sacralità delle sue piccole proprietà
e dei suoi
miseri appetiti, propri di un mondo da millenni curvo sotto
inenarrabili fatiche.
Il IX Congresso del PCC, aprile 1969, aveva visto la chiara ed estesa influenza e preminenza dell’EPL nell’apparato statale, predominio sul quale aveva infine poggiato il riassetto al vertice del Partito-Stato. Rimaneva invece ancora totalmente da compiersi la ricostruzione del Partito nelle province, nei distretti, nelle Comuni e nelle fabbriche, ricostruzione richiesta da pressanti imperativi economici. Infatti, l’onnipresenza dei militari nei luoghi di lavoro e di produzione, se era stata giustificata dalla assoluta necessità del regime di ristabilire l’ordine, l’autorità e la disciplina, fortemente scossi, non lo era certo per la loro competenza nell’organizzazione della produzione e dello sfruttamento capitalistico, compiti per i quali i burocrati di Liu e Deng erano di buone quattro spanne superiori. Costretto ad un compito al quale non era preparato, l’Esercito, passata la bufera, cominciò a ristabilire nelle loro funzioni i quadri del vecchio apparato.
Imposta da questi imperativi economici la ricostruzione del Partito, dal 1969 al 1972, di nuovo pose al regime di Pechino il problema dell’intero ruolo dell’EPL nella struttura statale e nella società, problema che significativamente si rispecchiava nel sempre più crescente dualismo fra i Comitati Rivoluzionari, in mano ai militari e la cui autorità si fondava unicamente su criteri “politici”, ed i Comitati Provinciali di Partito che cominciarono ad essere ricostruiti nel 1970, con “quadri” e dirigenti che vantavano una lunga esperienza di gestione dell’apparato civile ed economico.
Questo dualismo che in definitiva era un vero e proprio conflitto, non per la sciocca questione del maneggio del potere (questione sempre sfruttata da chi non sa vedere nei contrasti politici il ribollire e lo scontro di forze sociali ed economiche), ma fra le possibili diverse politiche per procedere nella marcia dell’industrializzazione dell’immenso paese, doveva per forza ripercuotersi sul ricostruito vertice dei Partito-Stato di nuovo esposto ad ulteriori lacerazioni.
Ricordiamo che questo “conflitto”, nelle sue linee fondamentali era dagli inizi degli anni Sessanta che si stava svolgendo e vedeva contrapposti due mobili e variabili schieramenti. Il primo, di fronte alle difficoltà del regime di drenare dalle campagne prodotti e plusvalore necessari agli investimenti industriali, sosteneva che questo processo di industrializzazione era impossibile se nelle campagne non si sviluppava un commercio ed un mercato privato dei prodotti, commercio e mercato che avrebbero sì determinato forti differenziazioni sociali ma anche l’aumento globale della produzione agricola a tutto beneficio dello Stato centrale, investitore in campo industriale. L’altro schieramento, di fronte agli identici problemi, propugnava una via opposta, quella di “convincere” i “quadri” in tutti i settori della vita nazionale, che se le masse lavoravano di più e pretendevano di meno, il valore della forza lavoro degli operai e dei contadini si sarebbe ridotto mentre l’intera produzione sarebbe aumentata: sarà questa riduzione e questo aumento a finanziare gli osannati investimenti statali.
All’attento lettore non è sfuggito che la differenza fra i due schieramenti non riguardava i rapporti della Cina con il mercato esterno internazionale, infatti a parte pose propriamente propagandistiche, possiamo ben affermare (lo vedremo precisamente nel seguito del lavoro) che ambedue gli schieramenti non erano né del tutto autarchici né del tutto aperti ma ambedue avevano chiaro che, fatta salva l’indipendenza nazionale economica e finanziaria, il commercio con il mercato mondiale era indispensabile per la grandezza borghese del regime di Pechino.
Questo fondamentale “conflitto” di fronte ai quale sparivano le posizioni intermedie, negli anni fra il IX ed il X Congresso del PCC (il quinquennio 1969-73) si poteva leggere nel dualismo fra i Comitati Rivoluzionari ed i ricostruendi Comitati di Partito e nella contesa fra Lin Biao e Zhou Enlai, allora estremi rappresentanti dei due schieramenti in scontro; il primo forte del prestigio politico conferitogli dal suo titolo ufficiale di successore di Mao, mentre il secondo traeva la sua autorità da innegabili imperativi economici che progressivamente facevano valere il loro peso ed imponevano il ridursi dell’influenza dei militari, spinti al vertice delle gerarchie dalla grave crisi politica e statale della Rivoluzione Culturale.
I mesi che seguirono il IX Congresso, videro il PCC intento nell’opera di ricostruzione delle proprie strutture disperse dalla Rivoluzione Culturale, un’opera che fu accompagnata da tutta una serie di pubblicazioni e “direttive” che attaccavano ora gli “estremisti che stanno al di sopra delle masse” (maggio-giugno 1967), ora gli “anarchici che dubitano di tutto e rifiutano tutto”, ora gli “indifferenti” che avevano abbandonato la lotta, che lasciavano fare, che non osavano né criticare né obbedire.
I quadri che erano stati spazzati via dalla bufera della Rivoluzione Culturale furono invitati a reintegrarsi nelle organizzazioni di Partito e gli appelli all’unità erano sapientemente mischiati alle esortazioni di più stretti legami fra quadri e masse. Scandiva, ingenuamente, il “Jenmin Jihpao” del 20 novembre 1969: «Come una spada arrugginisce se non viene affilata e l’acqua stagnante marcisce, i quadri, una volta che sono stati staccati dal lavoro manuale, cadono nel revisionismo», come se le differenze (che pure esistevano) su questioni fondamentali di politica dello Stato cinese fra Liu Shaoqi e Mao Zedong fossero riconducibili alla partecipazione o meno del silenzioso Liu, le cronache lo indicavano fra l’altro gran faticatore, a qualche lavoretto manuale che qui in occidente sarebbe riconducibile all’hobby del giardinaggio e al quale allora si sottoponevano i nuovi quadri di Mao !
Durante l’autunno-inverno 1969-70 continuarono le assillanti campagne di stampa contro il soggettivismo, il formalismo ed il burocratismo, ma rispetto al passato ormai queste campagne avevano solamente un carattere dottrinario e pedagogico insieme. Dopo la primavera 1970, in cui apparvero i primi segni di ricostruzione del Partito con “elementi avanzati” che venivano distinti dai rimanenti membri dei Comitati Rivoluzionari, l’estate successiva vide iniziare la ricostruzione dei Comitati di Partito a livello di distretto (hsien), ricostruzione che aveva l’egida delle direttive di Mao sull’unità del Partito, del recupero del 95% dei quadri e sulla cessazione delle critiche nei confronti di coloro che avevano ammesso i propri passati errori.
La rivista “Bandiera Rossa”, poteva bellamente e sfrontatamente scrivere nel luglio 1970: «La Rivoluzione Culturale è stata un grande movimento di consolidamento del Partito a porte aperte, di un’ampiezza senza precedenti», giudizi che furono bevuti dai maoisti occidentali assetati di miti, prima di tutti quello del grande Uomo che tutto vede e tutto fa.
Simultaneamente alla ricostruzione del Partito, riapparve la Lega della Gioventù Comunista, totalmente soppiantata dalle Guardie Rosse durante la Rivoluzione Culturale ma che ora si prendeva la sua brava rivincita; la ricostruzione del Partito e della Lega fu accompagnata e facilitata da un costante coatto esodo di milioni di ex Guardie Rosse e di studenti (taluni avanzano la cifra di 30 milioni di persone nel biennio 1969-70) verso le regioni rurali, esodo che vide notevoli resistenze e inizialmente molti tentativi di fuga.
L’avvenimento più importante dell’anno 1970, fu il II Plenum del CC del IX Congresso del PCC, che si svolse dal 23 agosto al 6 settembre a Lushan.
Il comunicato finale, che annunciava una prossima convocazione dell’Assemblea Nazionale Popolare e che per la prima volta dopo anni faceva un riferimento ufficiale ad un “piano economico nazionale”, ambedue segni di normalizzazione e di stabilizzazione, stese un pietoso velo sulle voci di aspri contrasti fra i massimi vertici del Partito e dello Stato (addirittura si ventilò di un “complotto” tentato dal Maresciallo Lin Biao), contrasti che saranno poi confermati dai successivi avvenimenti e da un successivo rapporto ufficioso di Mao Zedong. Secondo questo rapporto, tenuto un anno dopo da Mao durante una riunione con i Segretari provinciali del PCC, il II Plenum vide oscurarsi la stella dei potenti capi militari Generale Huang Yongsheng e Wu Faxian e di Ye Qun, Li Zuopeng e Qiu Huizuo. tutti membri del nuovo Politburo.
Il Plenum segnò anche la precoce eclissi dell’ex-segretario personale di Mao, Chen Boda, il numero 3 della gerarchia di Partito; anche Li Xuefeng, membro supplente del Politburo, ed il Generale Zheng Weishan (dal marzo 1968 comandava la Guarnigione di Pechino) uscirono dall’assise con le ossa rotte e Zheng cedette la sua carica nel dicembre, il che toglieva probabilmente allo schieramento di Lin Biao un’importantissima pedina.
La necessità di affrettare la ricostruzione del Partito prima della convocazione dell’Assemblea Nazionale, che avrebbe dovuto modificare la Costituzione o adottarne una nuova, spinse il regime a dare il via alla formazione di nuovi Comitati provinciali di Partito; quello dell’Hunan sarà il primo a sorgere, il 4 dicembre 1970, l’ultimo invece sarà quello dell’Heilongjiang il 19 agosto 1971, trascorsi appena 8 mesi ben pochi in confronto della lunga gestazione dei Comitati Rivoluzionari.
Più lunga e difficoltosa fu la ricostruzione del Partito al
livello
dei 2.000 distretti iniziata un anno dopo il IX Congresso; senz’altro
fu perché nuovamente il vertice del PCC era scosso da
sotterranee e
potenti tensioni che già avevano sbalzato uno dei grandi
beneficiari
della Rivoluzione Culturale, Chen Boda.
L’anno 1970, vide pure una decisiva evoluzione della politica estera cinese. Con la fine degli scontri armati alla frontiera, era diminuita grandemente la tensione tra Cina e Russia, evento che non poteva certo arrestare di botto le continue campagne di stampa che esortavano il popolo a prepararsi alla “guerra imperialista”, ad intensificare la sua preparazione militare, a costruire rifugi antiaerei ed ad accumulare provviste. In sintonia, il II Plenum aveva ribadito l’imperativo: Libereremo Taiwan e la popolazione continuava ad essere ossessionata dall’imminente guerra ed invasione, sia con i russi che con gli americani. Questa ossessione riposava sulla necessità del regime di ristabilire l’ordine, la coesione e la disciplina in una nazione logorata internamente, per la quale la minaccia dei fucili nemici aveva il potere di rendere più rassicuranti i fucili dell’EPL che dominavano in ogni aspetto della vita sociale.
Ma con il 1970, timidamente ripresero i contatti con Mosca (nell’autunno Cina e URSS reintegrarono i propri ambasciatori) e, nonostante il colpo di Stato filoamericano di Lon Nol in Cambogia il 20 marzo, si stava delineando una soluzione “negoziale” per il Vietnam, visto il diminuito impegno militare di Washington. Sibillinamente Zhou Enlai, nell’agosto 1970, parlando ad un giornalista americano fece intendere che la Cina era disposta a riprendere il dialogo con gli Stati Uniti.
Il 13 ottobre, si ebbe un fatto decisivo: dopo anni di esitazioni e 18 mesi di negoziati, il Canada accettava di riconoscere il Governo di Pechino come il solo Governo legale della Cina e rompeva ogni legame con la Cina nazionalista di Taiwan. Pechino invierà a Ottawa, il suo migliore diplomatico, Huang Hua, futuro Ministro degli Esteri, dando all’avvenimento la massima importanza. La normalizzazione diplomatica con il Canada fu seguita da quella con l’Italia (6 novembre), l’Etiopia (24 novembre) ed il Cile (15 dicembre).
I primi mesi del 1971, videro altri riconoscimenti diplomatici, ma soprattutto continuare il cauto avvicinamento cino-americano. Il 25 febbraio, Nixon dichiarava, con diplomatica allusione alla Cina, che «l’ordine internazionale non può essere assicurato se una grande potenza è tenuta in disparte»; esauritasi velocemente la crisi per la penetrazione dell’esercito sud-vietnamita nel Laos lungo la strada n. 9 (regione di Tchepone), che aveva l’obbiettivo di rendere inservibile la pista di Ho Chi Minh,crisi durante la quale Zhou Enlai e Ye Jianying si precipitarono ad Hanoi dove fra il 5 e l’8 aprile si diedero a bellicose dichiarazioni antiamericane, l’11 aprile arrivò a Pechino una squadra statunitense di tennis da tavolo che il 14 fu addirittura ricevuta da Zhou Enlai che baldanzosamente dichiarò: «Si è aperta una nuova pagina. Un nuovo capitolo si è aperto nelle relazioni fra i nostri due popoli, la vostra rappresentanza apre la porta agli scambi di visite amichevoli fra i due paesi”.
Il mese di aprile vide anche l’importante riunione detta dei «99” nella quale fu confermata la definitiva eclissi di Chen Boda, scomparso dalla vita pubblica dall’agosto precedente. Chen Boda cominciò a divenire bersaglio di violenti attacchi da parte della stampa ufficiale a partire dal 1° maggio, inizialmente nella solita maniera oscura poi in termini perfettamente chiari ed insultanti. L’oscuro segretario, tanto osannato dalla Rivoluzione Culturale veniva così tacciato nell’editoriale comune del “Jenmin Jihpao”, del “Quotidiano dell’Esercito” e della rivista “Bandiera Rossa” del 1° luglio: «un modesto piccolo brav’uomo qualsiasi e che è in realtà un pericoloso ambizioso», insulto che era un minaccioso avvertimento per molti protagonisti della Rivoluzione Culturale giunti ormai e drammaticamente alla fine della loro carriera.
Il 29 giugno, si ebbe l’ultima comparsa pubblica di Lin Biao e, soprattutto, il 15 agosto, il presidente Nixon stupiva la diplomazia internazionale e molti sciocchi seguaci maoisti annunciando che si sarebbe recato in Cina prima del maggio 1972, rivelando anche che già Henry Kissinger aveva effettuato un viaggio segreto di 48 ore a Pechino (9-11 luglio), ultimo atto del lungo e difficoltoso riavvicinamento cino-americano che avrebbe senz’altro influito sulle vicende interne del regime contribuendo al risolversi della contesa politica.
Nel mese di agosto e inizio di settembre, si ebbe un lungo viaggio di Mao per l’intera Cina, durante il quale il vate incontrò i dirigenti civili e militari delle Province. Il viaggio, all’insegna dello slogan: “L’Esercito impara da tutto il popolo”, ebbe come corollario il completarsi della ricostruzione dei Comitati di Partito Provinciali. Sempre secondo il già citato rapporto ufficioso, la visita-ispezione di Mao Zedong riguardò un po’ tutti gli avvenimenti seguenti la Rivoluzione Culturale e segnò la resa dei conti del regime con Lin Biao.
A metà settembre, il 13, furono sospesi, senza spiegazione, tutti i voli commerciali sulla Cina. Qualche giorno dopo un comunicato ufficiale: quest’anno non ci sarà la grande rivista militare nella piazza Tian’anmen a Pechino per l’anniversario della Repubblica; la festa nazionale sarà celebrata nei parchi con canti e danze. Che fosse successo qualcosa di grosso, ufficialmente lo si saprà soltanto un anno più tardi, quando Zhou Enlai dirà (e la versione fu per più versi per niente credibile) che il 13 settembre Lin Biao cercò di fuggire in URSS a bordo di un “Trident” dell’aviazione civile, partito con poco carburante e senza operatore radio; durante la fuga l’aereo sarebbe precipitato nella Mongolia esterna e Lin Biao morto insieme alla moglie Ye Qun, al figlio Lin Liguo (Generale del Comando dell’Aviazione), e Liu Peifeng (altro Generale del Comando dell’Aviazione) ed a un numero imprecisato di complici. Perché erano fuggiti ? L’ineffabile Zhou Enlai mentì spudoratamente: perché erano stati scoperti come “traditori e protagonisti di una cospirazione” contro il divino Mao Zedong.
Prima ancora di svelare gli accadimenti dietro le quinte, il regime di Pechino continuò la sua scalata diplomatica; il 25 ottobre 1971 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò l’ammissione della Cina Popolare e l’esclusione della Cina Nazionalista di Taiwan, ammissione ed esclusione che furono, per onor di firma, contrastati dal delegato americano. Infatti, mesi dopo, il 21 febbraio, il presidente degli Stati Uniti Nixon, accompagnato dal segretario di Stato Rogers e dal suo consigliere Kissinger, arrivò a Pechino rimanendovi fino al 28. Il comunicato finale congiunto, che seguì discussioni con Zhou Enlai ed un incontro con Mao, fu pubblicato il 28 febbraio al termine della visita ed enunciava fra l’altro:
«Il progresso verso la normalizzazione delle relazioni tra Cina e gli Stati Uniti è nell’interesse di tutti i paesi; le due parti desiderano ridurre il rischio di conflitti internazionali; nessuna delle due parti mira all’egemonia nella regione Asia-Pacifico e ciascuna di esse si oppone agli sforzi di qualsiasi altro paese o gruppi di paesi per stabilire tale egemonia».
Veniva così formulata la cosiddetta “clausola antiegemonica”, che acquistava un significato di chiara avversione di Pechino nei confronti del regime di Mosca, anche se in questo, come nei molti altri comunicati internazionali firmati dai cinesi e contenenti questa clausola, l’espressione Unione Sovietica non sarebbe mai stata usata. Sempre il comunicato congiunto doveva rilevare come i punti di “discordanza” fra le due parti fossero ancora ben più numerosi di quelli che le vedevano concordi. Soprattutto il legame di Washington con la Cina Nazionalista impediva la normalizzazione dei rapporti diplomatici, di cui infatti gli abili Zhou Enlai e Kissinger non parlarono neppure; la decisione di mantenere periodici contratti e di sviluppare i rapporti commerciali, oltre a quelli culturali e scientifici che pure erano di notevole importanza, non fecero sfuggire allora agli osservatori più attenti che Washington, non potendo mollare la sicura Formosa, rendeva vigile e sospettoso il regime di Pechino che apriva sì, le sue frontiere alle merci americane ed occidentali, accettando anche un relativo indebitamento immediato, aveva sì, riposto il propagandistico slogan: «Libereremo Taiwan con le armi”, ma rimaneva oltremodo geloso della propria indipendenza nazionale, per il mantenimento della quale aveva già dimostrato di essere capace di enormi rinunce e sacrifici, continuando a pretendere di voler raggiungere la completa unificazione nazionale.
Specialmente la stampa filo moscovita allora insistette sulla proposizione che Pechino si vendeva, mani e piedi legati, a Washington, ma a parte le frasi ad effetto, fu giustamente rilevato solamente dalla nostra piccola compagine come la politica estera cinese abbia sempre camminato sul filo unico della sicurezza dei propri confini e che, prosaicamente, sterza a destra ed a sinistra secondo l’unico fine della potenza borghese del proprio regime. Di questo fatto se ne accorsero gli Stati Uniti nel 1949, costretti allora a seguire la Cina Nazionalista; l’Unione Sovietica nel biennio 1960-61, quando sospese gli aiuti economici sperando di piegare Pechino ed ottenendo invece il risultato opposto; di nuovo se ne accorgeranno gli Stati Uniti negli anni Settanta ed in questi ottanta, nei quali si avranno significative concordanze fra i due Stati, ma anche altrettanti significativi contrasti che hanno avuto il risultato attuale che vede la Cina in una posizione autonoma rispetto allo scontro fra i due blocchi.
La caduta di Lin Biao trascinò con sé parecchi alti esponenti del vertice del Partito e dello Stato, Il ricostruito Politburo del IX Congresso fu quasi dimezzato nei suoi 24 membri fra effettivi e supplenti; in appena due anni e mezzo ben otto non erano più nelle proprie funzioni: oltre a Xie Fuzhi deceduto nel marzo 1971 (sembra per un attentato di membri del disciolto “Corpo d’Armata 16 maggio”), ma che sarà poi inserito nella lista della “malefica banda Lin Biao-Jiang Qing”, era saltato il successore di Mao, il Maresciallo Lin Biao, il numero tre della gerarchia Chen Boda, il numero sei Ye Qun, i Generali Li Zuopeng, Wu Faxian, Qiu Huizuo, Huang Yongsheng e Li Xuefeng, assenze che si sommavano a quelle dei due vecchi Zhu De e Dong Biwu, carichi di gloria e di anni tanto che erano a riposo e quasi mai partecipavano alle sedute del Politburo.
La epurazione anti-Lin Biao fu particolarmente estesa fra le alte gerarchie dell’Aviazione, riguardò un buon numero di presidenti dei Comitati Rivoluzionari e di Commissari politici e sembra che interessò, dal settembre 1971 all’agosto 1973 (X Congresso del PCC), ben 34 mila fra ufficiali e quadri usciti dalla Rivoluzione Culturale di cui 60 alti dirigenti dei Comitati Rivoluzionari.
Questa estesa epurazione accelerò la costante riorganizzazione del Partito e dello Stato, oltre a quello della Lega della Gioventù Comunista che quasi completò la sua struttura negli anni 1972-73, biennio che vide anche la ripresa della attività dei Sindacati che timidamente ripresero le proprie funzioni. Soprattutto, piano piano, in punta di piedi, molte di quelle personalità che erano state destituite durante la Rivoluzione Culturale riapparvero nelle occasioni ufficiali, mentre di converso si aveva l’eclissi di molti sostenitori aperti di Lin Biao.
Il rientro senz’altro più spettacoloso fu, senza dubbio, quello dell’ex-Segretario Generale Deng Xiaoping che il 12 aprile 1973 fece parte del gruppo dei dirigenti che accolse il Principe Sihanouk a Pechino, il che in definitiva valeva pienamente una riabilitazione.
La importantissima riabilitazione di Deng significava che il
regime
stava di nuovo, con mille fatiche attenzioni e prudenze, riprendendo la
strada economica e sociale del 1961-65 cercando di rendere nulli gli
effetti ancora profondi della Rivoluzione Culturale, di cui con
circospezione si incominciava a condannare gli “eccessi” e le
“violenze”.
Le misure di sfoltimento e di “rieducazione” dei burocrati continuavano certo, ma erano indispensabili visto la persistente dura situazione alimentare (nel 1971 il Governo centrale riduceva il proprio personale amministrativo a10 mila unità contro le 60 mila degli anni precedenti e riorganizzava i Ministeri, le Commissioni e gli altri organismi sotto il suo diretto controllo, da 90 a 26); la sospensione dei premi e dei cottimi nelle industrie non veniva rimessa in discussione, ma il regime iniziò una cauta campagna di stampa contro la bassa produttività delle aziende; soprattutto, le Direttive in campo agricolo cominciavano a teorizzare la conciliazione degli interessi collettivi delle squadre con quelli privati dei contadini, denunciando i passati eccessi di destra ma anche quelli più recenti di sinistra; infine, nelle scuole superiori riapparvero di nuovo gli esami “selezionatori” contro cui tanto avevano urlato le giovani Guardie Rosse pochi anni prima.
Il X Congresso del PCC (24-28 agosto 1973), fu un’importante tappa nell’opera di ricostruzione del Partito e dello Stato intrapresa da Zhou Enlai, la cui influenza ne uscì ancor più rafforzata. Riunitosi a Pechino con la partecipazione di 1.249 delegati, il Congresso, presieduto da un silenzioso ed immobile Mao, ruotò intorno al rapporto di Zhou Enlai (presentato il 24 ed approvato il 28 agosto) il quale espresse chiaramente il compromesso avutosi al vertice che aveva preceduto e seguito l’eliminazione di Lin Biao e dei suoi.
Zhou Enlai, etichettò gli sconfitti come una “cricca antipartito” la quale già in occasione del IX Congresso aveva cercato di opporsi al celeste Presidente:
«Prima del IX Congresso, Lin Biao aveva un progetto di rapporto politico in collaborazione con Chen Boda. Essi si opponevano alla continuazione della lotta di classe sotto la dittatura del proletariato, sostenendo che il compito principale dopo il IX Congresso era di sviluppare la produzione. Si trattava di una versione rimaneggiata, nelle nuove condizioni, dello stesso ciarpame revisionistico che Liu Shaoqi e Chen Boda avevano introdotto di soppiatto nella risoluzione dell’VIII Congresso, in cui si pretendeva che la contraddizione principale nel nostro paese non era la contraddizione tra proletariato e borghesia, ma quella «tra sistema socialista avanzato e forze produttive arretrate della società. Naturalmente, questo progetto di rapporto di Lin Biao fu respinto dal Comitato centrale. Lin Biao segretamente appoggiava Chen Boda nell’aperta opposizione di questi al rapporto politico stilato sotto la guida del presidente Mao e soltanto dopo che i suoi tentativi furono frustrati, Lin Biao accettò con riluttanza la linea politica del Comitato centrale e ne lesse il rapporto politico al Congresso. Ma durante e dopo il IX Congresso, Lin Biao continua con la cospirazione e il sabotaggio, nonostante gli ammonimenti e le critiche e gli sforzi compiuti per salvarlo da parte del presidente Mao».
Zhou, sfacciatamente, con lo stesso sistema usato nei confronti di Liu Shaoqi 4 anni prima, scandì che «non da un decennio soltanto ma da parecchi decenni Lin Biao, questo carrierista borghese, cospiratore e doppiogiochista, era impegnato in una macchinazione all’interno del nostro Partito», ma, a parte le accuse sciocche e false a Lin Biao che l’attonita ed imbonita assemblea richiedeva, quella più clamorosa lo spacciava come un «capitolazionista di fronte al socialimperialismo revisionista sovietico» e come un propugnatore dell’alleanza della Cina con l’imperialismo. Zhou Enlai si guardò bene da riproporre per le «future inevitabili lotte tra le due linee all’interno del Partito» esperienze traumatiche e drammatiche per la stessa unità statale, tipo la Rivoluzione culturale.
Il grande movimento di pochi anni prima fu accuratamente dimenticato dal prudente Primo Ministro, anzi Zhou Enlai, dopo essersi lasciato sfuggire che la “cricca di Lin Biao” deteneva «il controllo della direzione centrale, locale e dell’EPL», sanzionò che, nei prossimi anni se non mesi, di nuovo il Partito doveva riprendere il pieno controllo dello Stato e dell’EPL che continuava ancora, attraverso i propri uomini e sotto diversi titoli: capo di Regione Militare, Primo Segretario provinciale, ecc, a dirigere più dei due terzi delle Province: «Noi dobbiamo ulteriormente rafforzare la direzione centralizzata del Partito». Dei sette settori, industria, agricoltura, commercio, cultura e educazione, esercito, governo e partito, è il Partito che esercita la direzione su tutto. I comitati di partito a tutti i livelli devono studiare «sul rafforzamento del sistema dei comitati di partito», «metodi di lavoro dei comitati di partito come anche gli altri scritti del presidente Mao Zedong, fare il bilancio della propria esperienza e rafforzare ulteriormente la direzione centralizzata del Partito ideologicamente, organizzativamente e per quanto riguarda i regolamenti».
Il deciso ed inequivocabile passo di Zhou Enlai era un preciso ammonimento a quello che rimaneva della Rivoluzione Culturale: lo Stato ed il Partito stavano completando la loro ricostruzione ed una volta che questa fosse giunta a compimento, lo Stato-Partito avrebbe nuovamente assolto all’immenso compito di centralizzare l’intera vita economica dell’ancora arretrata Nazione. Questo compito centralizzatore era impossibile da attuare senza una fedele e disciplinata burocrazia la quale, passate le irrimandabili necessità dell’ordine pubblico, avrebbe fatto valere la propria maggiore esperienza di conduzione dello Stato sullo stesso EPL, come del resto già aveva fatto nel passato.
Eliminato Lin Biao ed i suoi, che oggettivamente erano per il predominio dell’EPL nella struttura statale rifacendosi ai modelli maoisti di sviluppo economico fondato sulla mobilitazione sociale e militaresca di tutta la popolazione (mobilitazione possibile solo se il regime reimpugnava la logora bandiera dello spirito di sacrificio e dell’egualitarismo, negli anni Trenta le stesse dell’intera Armata del PCC), l’ammonimento di Zhou Enlai era diretto ai reduci della Rivoluzione Culturale: Jiang Qing, Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan. e Wang Hongwen che conservavano sì tutti i loro importanti posti al vertice del PCC, migliorandoli anche, ma vedevano oramai ridursi di molto il loro spazio, di manovra e costretti alla difensiva.
Il Congresso oltre a procedere all’approvazione di nuovi statuti diversi da quelli del 1969 in definitiva solamente per l’esclusione del paragrafo riguardante Lin Biao quattro anni prima investito come successore di Mao Zedong, elesse un CC composto da 195 membri effettivi e da 124 membri supplenti ed in cui riapparivano alcune fra le figure più criticate e accusate dalla Rivoluzione Culturale, certamente ripescate dall’abile Zhou Enlai.
Oltre al grande accusato e beffeggiato, Deng Xiaoping, da pochi mesi riabilitato, il CC faceva posto a Tan Zhenlin ed al mongolo Ulanhu, ambedue ex-membri del Politburo dell’VIII Congresso e aspramente criticati dalle Guardie Rosse sei anni prima; anche Li Baohua (ex-Segretariato per la Cina dell’Est), Liao Chengzhi (ex-presidente dell’Associazione di Amicizia cino-giapponese) e Wang Jiaxiang (ex-ambasciatore a Mosca) erano ripescati clamorosamente e trovavano un posto nel CC, poco per le loro ex-cariche ma molto considerando la loro totale e drammatica eclissi durante la Rivoluzione Culturale.
Il rimpasto del Politburo, eletto il 10 settembre dal l° Plenum del nuovo CC, fu particolarmente complesso. I fatti, antecedenti e susseguenti la scomparsa di Lin Biao, avevano infatti determinato l’estromissione dal vertice del Partito di ben 8 membri effettivi su 22 e di un supplente sui 4 designati. Il Comitato permanente del Politburo passava dai 5 membri del IX Congresso a ben 9, il che esprimeva, più che una “conduzione collegiale” del Partito-Stato, l’instabilità relativa del nuovo equilibrio raggiunto: Mao Zedong era affiancato da Zhou Enlai, Wang Hongwen, Kang Sheng, Ye Jianying, Li Desheng, Zhan Chunqiao, Zhu De e Dong Biwu. Non considerando i vecchi e quasi inabili Mao Zedong, Zhu De e Dong Biwu, due schieramenti si contrapponevano: da una parte Zhou Enlai spalleggiato da Ye Jianying (il vecchio e potente Maresciallo che presiedeva come Vice Presidente la Commissione Militare del CC, carica “militarmente” la più importante visto che quelle di Ministro della Difesa e di Capo di Stato Maggiore erano vacanti da quasi due anni) e dal Generale Li Desheng, potente capo militare; dall’altra, Wang Hongwen (35 anni, ex-operaio tessile di Shanghai) in rapida ascesa rafforzava Kang Sheng (manteneva il comando dei Servizi Segreti) e Zhang Chunqiao, punta di diamante di quello che era stato il potente Gruppo Centrale per la Rivoluzione Culturale.
Se aritmeticamente gli schieramenti erano pari, era però evidente che quello di Zhou Enlai era in chiara ascesa e si disponeva ad occupare i posti più importanti dello Stato; mentre l’altro contrapposto, doveva troppo alla protezione benevola del vecchio Mao Zedong visto che né il temuto poliziotto Kang Sheng, né il giovane Wang Hongwen, né il teorico Zhang Chunqiao erano ben visti dalle alte strutture del PCC dello Stato e dell’Esercito le quali, fuori gioco oramai le Guardie Rosse e di nuovo sotto controllo la massa contadina e gli operai di fabbrica, avevano nelle mani la possibilità di finalmente dirimere, anche se con un lungo e cauto processo, la contesa fra i due gruppi e le due “politiche”, decidendo per l’affermazione dell’economicismo di Liu Shaoqi, personalmente sconfitto ma la cui impostazione era l’unica in grado di raccogliere le spinte e le esigenze borghesi del maoismo.
Oltre ai nove sopracitati, il Politburo comprendeva come membri: il Maresciallo Liu Bocheng, i Generali Xu Shiyou e Chen Xilian e l’ex-Ministro Li Xiannian, tutti e quattro più o meno vicini allo schieramento di Zhou Enlai; Jiang Qing, Yao Wenyuan e Wang Dongxing (comandante della Guardia presidenziale e supplente nel vecchio Politburo) erano i validi appoggi dello schieramento avverso a Zhou. Gli altri, Ji Dengkui (vice-presidente del Comitato Rivoluzionario dell’Henan e supplente del vecchio Politburo), Hua Guofeng (vice-presidente del Comitato Rivoluzionario dell’Hunan e dal 1972 Commissario Politico della Regione Militare di Canton), Wu De (presidente del Comitato Rivoluzionario di Pechino dopo la morte di Xie Fuzhi), Wei Guoqing (Generale e presidente del Comitato Rivoluzionario del Guangxi) e Chen Yonggui (contadino, segretario della Brigata modello di Dazhai) erano i classici vasi di coccio fra vasi di ferro, situazione che permise fra l’altro all’anonimo e sciapo Hua Guofeng di assurgere, nell’arco di pochi anni, al massimo vertice della Repubblica Popolare. I quattro supplenti erano Wu Kuei-hsien (operaia tessile dello Shanxi), Su Zhenhua (generale, comandante aggiunto della Marina), Ni Zhifu (altro contadino modello) e Seypidin (un responsabile dell’importante regione del Xinjiang), tutte personalità modeste, quasi di contorno al momentaneo equilibrio che sarà, a breve scadenza, turbato dal ritorno di Deng Xiaoping nelle sue principali funzioni nel Partito e nello Stato, ritorno concomitante al rapido declino fisico di Mao Zedong e di Zhou Enlai, la morte dei quali, tre anni dopo, avrebbe di nuovo gravemente scosso l’apparato statale, scatenando una violenta fiammata di lotte politiche che avranno come risultato inevitabile affossare definitivamente gli ultimi resti della Rivoluzione Culturale.
Come abbiamo già visto trattando dello sviluppo economico nel periodo della Rivoluzione Culturale, 1966-69, quello che doveva essere il 3° piano quinquennale e che sarebbe dovuto terminare nel 1970, praticamente nacque morto travolto dagli accadimenti politici e sociali che scompaginarono piani e programmi. Il 4° piano quinquennale, aveva come anno di inizio il 1971 e di termine il 1975, ma per l’assoluta mancanza di dati ufficiali, sia riguardo gli obiettivi che si proponevano i “pianificatori” cinesi, sia riguardo le quote realmente raggiunte, per la nostra indagine va bene seguire il corso degli avvenimenti politici (IX-X Congresso del PCC, anni 1969-73), anziché quello dei “piani” che sono “spezzati” dall’indagine.
Il primo riaccenno ad un “piano economico nazionale” fu del II Plenum del CC, agosto-settembre 1970, accenno che non fu accompagnato da lumi sulle realizzazioni del 3° piano quinquennale in scadenza, né, tanto meno, sulle previsioni del 4° prossimo a partire. Nessun sinologo, né agente dello spionaggio, riuscì a carpire notizie ufficiali, probabilmente, più che per la reticenza ed il riserbo dei dirigenti delle varie fabbriche o delle varie branche produttive, perché il piano quinquennale non esisteva o era solo sulla carta. L’Amministrazione centrale era, nel 1970-71, in piena riorganizzazione dei propri Ministeri e delle proprie Commissioni, stava riducendo drasticamente il proprio personale e incominciando l’opera di reintegrazione di molti quadri e funzionari criticati ed epurati durante la Rivoluzione Culturale. Ad uno di questi, Yu Qiuli, ex-Ministro dell’industria petrolifera, fu affidata la direzione della “Commissione di Piano dello Stato”, succedendo a Li Fuzhun che, passato indenne dalla Rivoluzione Culturale per l’accorta protezione di Zhou Enlai, da anni non svolgeva più un ruolo attivo nel Governo per ragioni di età e salute.
Sembra che la “Commissione di Piano dello Stato”, a cui partecipavano i rappresentanti dei Ministeri economici e delle Provincie e Regioni, formulava a grandi linee gli orientamenti fondamentali dell’agricoltura e dell’industria, e che poi fossero le Provincie, i Distretti e le singole imprese ad essere responsabili degli obbiettivi indicati dalla “Commissione” che, comunque, non erano né intoccabili né imperativi. Anzi, secondo le scarse testimonianze, per i relativamente deboli collegamenti di Pechino con i Governi provinciali e il caos che continuava a regnare nell’Amministrazione statale, gli “obiettivi” della “Commissione di Piano” erano un semplice riferimento per le Provincie, i Distretti e per le imprese che, velocemente, vedevano la conduzione dei militari passare la mano a quella di dirigenti civili.
La “Commissione” fu ancora più elastica per il settore agricolo, non pianificato anche negli anni migliori dell’Amministrazione centrale di Pechino.
La “Commissione” pianificò soltanto le quote delle consegne obbligatorie di cereali e cotone, misura che, più che risultato della forza di Pechino, era un chiaro cedimento alle pretese delle famiglie contadine.
Questi diversissimi ma convergenti motivi, facevano sì che per Pechino non era più possibile attuare quella “pianificazione” centrale come era stato per il 1° piano quinquennale; rispetto al periodo 1953-57, in cui le poche centinaia di grandi aziende o gruppi di aziende del settore industriale potevano essere seguite e collegate le une con le altre, i 15 anni che erano trascorsi avevano diversificato ed ingrandito l’industria cinese che poteva contare anche sulla nutrita schiera di piccole fabbriche ed imprese che dipendevano dalle Comuni e dalle Brigate. In questa determinata situazione, il “piano” cinese, nonostante i periodici appelli perché «l’iniziativa locale si sottometta alla direzione unificata e centralizzata del Governo centrale» (marzo 1970), doveva limitarsi ad una descrizione complessiva,con tassi annuali per i grandi settori, senza indicazioni precise di avanzamento, lasciando alle singole imprese un’ampia autonomia nella conduzione della produzione.
Avevano voglia di strillare i filo-cinesi di un decennio fa, che in Cina si aveva finalmente il binomio Libertà-Socialismo trionfatore sull’Idra del burocratismo. La realtà era un’altra, era che, per la Cina post-Rivoluzione Culturale anche una pianificazione centralizzata modello URSS (pianificazione che poi ha sempre subìto i contraccolpi del mercato mondiale non riuscendo a governare una società basata sullo scambio mercantile e sulla produzione per aziende), rimaneva una meta lontana ed irraggiungibile. Pechino doveva fare di necessità virtù e lasciare a milioni di famiglie contadine e a centinaia di migliaia di aziende la possibilità di produrre in piena libertà di quantità e qualità. Lo Stato centrale poteva maneggiare con sicurezza solo determinate produzioni (energia elettrica, petrolio e, in gran parte, acciaio, carbone e cemento) e tentare di porre un freno all’inevitabile totale anarchia produttiva tenendo fermo e manovrando sul livello dei prezzi e dei salari, un po’ poco per una società che pretendeva veleggiare a tutta forza verso il socialismo.
Da sempre praticamente bloccati i prezzi dei prodotti di consumo, blocco da 20 anni accompagnato ad un severo razionamento dei prodotti alimentari e di consumo, in questi anni il regime di Pechino propagandò insistentemente una “sana gestione” delle aziende, richiamo che rimaneva l’unico imperativo del potere centrale di Pechino. Insieme all’economicismo, veniva denunciato l’eccesso inverso dell’ultrasinistra che sfociava nell’anarchia: denunce di anarchismo, di mancanza di regole e di responsabilità, erano accompagnate ad inviti ad utilizzare, nel migliore dei modi, le capacità dei quadri e dei tecnici, acquietate, nel 1970-71, le categorie peggio pagate con un lieve ritocco salariale, che compensava l’abolizione di premi e di cottimi. Tutte queste misure, queste denunce ed inviti, avevano come scopo dichiarato quello del buon andamento del bilancio aziendale e dell’aumento della produzione, come significativamente scriveva il “Jenmin Jihpao” il 19 ottobre 1970: «La nostra economia socialista è un’economia pianificata, e in quanto economia socialista non ha come unico scopo il profitto, ma anche l’aumento della produzione», compiti sui quali stragiurerebbe un borghesissimo borghese occidentale con i suoi dei di Patria, Profitto ed Azienda !
Prendendo in esame la tabella che riporta l’andamento, anno per anno, delle principali produzioni industriali, i quattro anni, che vanno dal IX al X Congresso del PCC, presentano incrementi medi annui ben superiori a quelli dell’intero periodo 1958-69, periodo nel quale l’intera economia cinese aveva risentito di tutti i drammatici avvenimenti già descritti. Per talune produzioni (petrolio +28%,tessuti di cotone +7,9% e cemento +19,5% l’anno), l’incremento medio del periodo è persino migliore rispetto ai risultati del I piano quinquennale, quando l’intera produzione industriale celebrò i suoi fasti; la ragione fu, per il petrolio, nel fatto che l’estrazione dell’oro nero fu particolarmente seguita e protetta per tutti gli anni Sessanta, dopo le prime perforazioni ed installazioni del periodo precedente; e per i tessuti di cotone, per il fatto che la produzione era ed è strettamente legata al buon andamento della produzione agricola. Rimarchevoli anche gli avanzamenti della ghisa (+17,8% l’anno), dell’acciaio (+17,3% l’anno), e dell’energia elettrica (+15,3%); poco più in basso le macchine utensili (+11,5% l’anno), tutti alti tassi che testimoniano di come l’intera economia cinese beneficiasse del placarsi delle cruente lotte politiche e sociali che l’avevano sconvolta negli anni precedenti. Con rinnovato vigore riprendeva la crescita capitalistica della gialla Repubblica.
Altri dati. Secondo gli “Annali statistici” di Pechino, il valore della produzione dell’industria pesante passò dagli 82,8 miliardi di yuan del 1969 ai 155,2 del 1973, con un balzo dell’87,4%, in media il 17% l’anno. Di gran lunga più fiacco l’andamento della produzione dell’industria leggera: dagli 83,7 miliardi di yuan del 1969 fu raggiunto 118,9 miliardi nel 1973, aumento del 42% con una media annua del 9,2%. Risultati ancora più scarsi per il settore dell’agricoltura di cui fra breve ci occuperemo: il valore della produzione agricola del 1969 era di 94,8 miliardi di yuan, maggiore quindi di quello dell’industria leggera e di quella pesante; nel 1973 siamo appena a 122,6 miliardi di yuan, aumento scarsissimo del 29,3, in media il 6,6% l’anno.
Anche se le cifre fornite da Pechino si riferiscono ai prezzi nominali dei singoli anni, i primi quattro anni degli anni 70 vedono il valore della produzione dell’industria pesante sopravanzare sia quello dell’industria leggera sia quello della produzione agricola, che dal primo posto della graduatoria scivola al secondo.
Socialismo ? No, perdio, ma ripresa dell’accumulazione capitalistica !
[ Quadro delle principali Produzioni 1949-77 ]
I quattro anni che seguirono la Rivoluzione Culturale, videro il regime mantenere la passata politica in campo agrario: niente verrà innovato, tutto rimarrà immobile, il che era chiara dimostrazione dell’impossibilità di Pechino di poter influire sul quadro sociale ed economico determinatosi nelle campagne negli anni precedenti.
Le campagne assorbirono, senza battere ciglio, i milioni di studenti e di giovani che immigrarono dalle città che, senza mezzi ed esperienze di lavoro, riuscirono ad influenzare solo in misura minima le arretrate condizioni tecniche di produzione, componenti essenziali del resto della certosina agricoltura cinese, per lo meno per quanto riguarda la Cina “antica”; questi nuovi immigrati furono soprattutto un ulteriore peso per i contadini i quali dovettero provvedere a mantenere braccia non autosufficienti.
La “Direttiva del CC sui problemi della distribuzione nelle Comuni popolari agricole” del 26 dicembre 1971 fu l’unico ed importante documento di questi quattro anni, in cui erano riassunti tutti i termini della politica agraria del regime di Pechino e della situazione sociale nelle campagne. La “direttiva” doveva, prima di tutto, prendere atto che il “collettivismo” nelle campagne non aveva fatto un passo avanti rispetto agli anni precedenti, che, nonostante le litanie contro gli “imbroglioni tipo Liu Shaoqi”, si manteneva la struttura precedente con la squadra di produzione (il più delle volte equivaleva al villaggio) pienamente responsabile dei propri profitti e delle proprie perdite, che acquistava e vendeva servizi e prodotti alle Brigate e alle Comuni, semplici organi amministrativi ai quali era precluso imporre piani e quote di produzione ma che dovevano concordare sia questi che quelli con le squadre; solo per particolari grandi lavori le Brigate e le Comuni potevano richiedere alle squadre il lavoro gratuito da parte dei loro membri, guardandosi però bene da ogni pericoloso eccesso, come nel 1971 quando, secondo i dati della stampa cinese, più di 90 milioni di persone parteciparono con le loro fatiche alla “costruzione di impianti per l’agricoltura” e di impianti di irrigazione e di bonifica, con enorme ma anche poco efficace dispendio di lavoro umano che causò un’artificiosa mancanza di forza lavoro nei villaggi; le squadre vedevano continuare a scendere l’imposta agricola, in quanto lo Stato centrale ancora una volta non rivalutò le quote di cereali da consegnare, sotto forma di tasse, agli ammassi: l’imposta, che toccava la percentuale del 13,2% sull’intera produzione lorda nel 1952, nel 1970 oscillava fra il 5-6% e continuava a scendere; lo Stato, fissava anche per 5 anni le quote degli acquisti obbligatori di cereali e di cotone, assicurando che le consegne eccedenti sarebbero state pagate a prezzi superiori, misura che, insieme a quella della diminuzione dell’imposta agricola, voleva evitare che i contadini nascondessero o mangiassero tutti i loro prodotti, prendendo per pretesti i buoni raccolti, così si lamentavano i resoconti ufficiali, per fare feste, celebrare matrimoni e costruire nuove case; sempre come misura per favorire la circolazione dei prodotti e quindi, in definitiva, un drenaggio di plusvalore dalle campagne alle città furono preservati i terreni privati (circa il 10% della superficie coltivata) e le attività economiche private dei contadini («La produzione privata rappresenta un supplemento necessario dell’economia socialista» dichiarerà Radio Pechino il 16 marzo1973), con i piccoli orti ed i piccoli allevamenti di animali da cortile e di maiali dai quali le famiglie contadine traevano il 15-20% del loro intero reddito; infine, veniva riaffermato il sistema a “punti” di retribuzione delle squadre, riposta ogni aspirazione ad una assoluta eguaglianza fra i membri della squadra. Rispetto al passato, era quindi sparito, un po’ poco visto le aspirazioni della Rivoluzione Culturale, ogni meccanismo di contratto di lavoro fra famiglie contadine e la squadra per la coltivazione delle terre collettive, meccanismo che, nemmeno nei fatidici anni 1961 era riuscito ad andare oltre qualche limitata sperimentazione.
La continuazione di queste misure liberal, proprie del periodo del riaggiustamento di Liu Shaoqi, senz’altro contribuirono ad aumentare sia il reddito dei contadini (taluni calcolarono che rispetto al decennio precedente, nei primi anni Settanta crebbe del 70%) sia le fondamentali produzioni di cereali e di cotone che, lo vediamo nella tabella segnarono dei relativamente buoni tassi medi annui di incremento (+5,8% per i cereali, +5,5% per il cotone). Ma, come possiamo ben vedere, anche se la produzione di cereali era riuscita a sopravanzare l’aumento della popolazione nei quattro anni che prendiamo in esame, la disponibilità annua pro-capite di cereali segnava ancora clamorosamente il passo. Certo, la disponibilità pro-capite del 1973 era superiore rispetto a quella del 1957, praticamente quasi uguale a quella del lontano 1952, anno di inizio del l piano quinquennale; con questa situazione, seppur relativamente modeste, continuarono le importazioni di cereali (4,6 mil. di t. nel 1970, 3 mil. nel 1971 e 4,8 mil. nel 1972) che nel 1973 toccarono il record di 7,7 mil. di t., in parte per ricostruire le riserve bruciate dal cattivo raccolto del 1972, in parte per approfittare di una congiuntura favorevole del mercato internazionale, furono infatti esportati quasi 2 mil. di t. di riso.
Questi dati drammatici pesavano enormemente sull’intera politica agraria di Pechino che doveva continuare a considerare intoccabile il detto “prendere l’agricoltura come base e l’industria come fattore dominante nell’organizzazione dell’economia nazionale secondo l’ordine di priorità: agricoltura, industria leggera, industria pesante”. La prudente scaletta, letta senza lasciarsi abbagliare dalle baggianate sul modello cinese di sviluppo economico di uscita dal sottosviluppo, va così decifrata: io, Stato centrale di Pechino non sono ancora riuscito a scrollarmi di dosso il problema della introduzione di moderno capitalismo nelle campagne, la produttività rimane bassa, la produzione di prodotti alimentari segue appena la crescita della popolazione, e le campagne non forniscono eccedenti bastanti di prodotti alimentari per la popolazione urbana né per gli investimenti industriali.
Se l’industria viaggia troppo svelta e richiama dalle campagne
nuova
forza lavoro, gli ammassi statali non saranno sufficienti a sfamare gli
inurbati, per cui un’industrializzazione troppo veloce, non
consideriamo qui la disponibilità di capitali, avrebbe come
conseguenza
nuovi terribili tensioni sociali. Io, Stato centrale, sono quindi
costretto ad interessarmi, prima di tutto, dei redditi dei contadini,
di quelli delle famiglie e di quelli delle squadre: se i contadini,
invece di mangiare tutti i loro prodotti, in parte li portano sul
mercato e li scambiano con prodotti industriali di consumo o mezzi di
produzione commercializzati dal sottoscritto Stato centrale, il mercato
interno prospererà e l’industrializzazione, lentamente ma
sicuramente,
avanzerà. Nelle campagne la produttività dovrà
aumentare per lo sforzo
dei contadini e, con questa prospettiva viene continuato il sistema
delle piccole “industrie locali” che, sotto la responsabilità
delle
Brigate e delle squadre, devono assorbire la mano d’opera sottoccupata
e non, come nel 1971-72 per un ampliamento eccessivo,
«aumentare il peso che grava sull’agricoltura e influire
negativamente
sullo sviluppo della produzione agricola»; io, Stato centrale, mi
rivolgerò invece, soprattutto alle grandi fattorie statali del
Nord-Ovest, lì opererò i miei investimenti in campo
agricolo.
Ad un certo momento io, Stato centrale, potrò anche incominciare a rivolgermi al mercato internazionale, ricco sia di capitali che di mezzi di produzione, dominato dalla potenza del dollaro nei confronti della quale la “moneta del popolo” (lo yuan) poco o niente pesava e pesa. Una cauta e calcolata apertura, apporterà sicuri benefici alla produzione agricola, a questo miravano le prime trattative ed i primi acquisti di questi anni di interi e moderni impianti per la produzione di fertilizzanti, e la sferragliante macchina dell’industrializzazione avrebbe continuato la propria marcia.
Sia reso atto a Pechino che, borghesemente, il ragionamento non faceva una grinza e che l’assolvimento di questo enorme compito storico che è l’introduzione del capitalismo nelle campagne e la proletarizzazione di quello sterminato mondo contadino, è un compito da giganti che fa girare in avanti la ruota della storia; ma se di tradimento si deve parlare, è di spacciare questa opera come edificazione di socialismo, questo non sarà un’edificazione ma una distruzione di barriere e di forme di proprietà, insieme agli idoli della Produzione e del Mercato che Pechino è costretto ad innalzare per immanenti compiti storici che travalicano le grandezze e le miserie degli uomini.
Il X Congresso del PCC dell’agosto 1973, perlomeno al massimo vertice, liquidò ufficialmente il liuismo: Lin Biao e i suoi più stretti collaboratori, tutti alti ufficiali, furono ricoperti di insulti per lo più gratuiti e sostituiti o da provati burocrati (Hua Guofeng) o da illustri sconosciuti (il contadino Chen Yonggui) o da Generali (Wei Guoqing) che avevano anche decisamente osteggiato il corso della Rivoluzione Culturale.
Certamente, il X Congresso del PCC allontanò il pericolo di un Partito affittato e colonizzato dalle alte gerarchie militari, pericolo che con l’evidente declino fisico di Mao Zedong era divenuto via via più evidente e che era stato infine battuto da un vasto schieramento di forze e di uomini ubbidienti a precisi imperativi economici, in parte già illustrati.
Dopo il Congresso, il regime doveva con prudenza e tatto trasportare i risultati raggiunti al vertice nella totalità della struttura del Partito e dello Stato, opera che conveniva effettuare senza discreditare nel suo insieme l’EPL, il cui prestigio aveva subìto un duro colpo dall’ “affare Lin Biao” ma che purtuttavia rimaneva il pilastro portante della Repubblica. L’EPL non solo continuava a mantenere posti importantissimi nei Comitati Rivoluzionari e nei ricostruiti Comitati Provinciali del Partito, ma aveva tutto sommato accettato senza apprezzabili reazioni gli avvenimenti del settembre 1971 e, senza dubbio alcuno, la possente ascesa di Zhou Enlai aveva trovato nelle stesse file dell’EPL vari e potenti appoggi (probabilmente i Generali Comandanti Regionali) decisivi per la caduta di Lin Biao e dei suoi.
Il X Congresso contava ancora, però, circa il 30% del suo CC composto da militari, percentuale sempre ragguardevole seppure ben inferiore al 45% di quello del IX Congresso; stesso rinculo si aveva per i militari che cumulavano la carica di responsabili dei Comitati di Partito nelle 29 Provincie, Regioni e Municipalità speciali: dal 1971 all’agosto 1973 scesero da 21 a 13, riflusso che continuò anche per tutto il 1974.
Il 2 gennaio 1974, per rinsaldare il potere centrale di Pechino e rafforzare il ruolo del Partito nella struttura statale a discapito di quello dei militari, fu reso pubblico un vasto rimpasto che coinvolse i Comandanti Regionali di importanti guarnigioni stanati dalle loro potenti roccaforti. Il Generale Li Desheng, commissario politico dell’EPL, sostituiva a capo della Regione Militare del Shenyang il Generale Chen Xilian che passava, a sua volta, al comando della guarnigione di Pechino (vacante dal dicembre 1970); il Generale Xu Shiyou (comandante della Regione Militare di Nanchino) si scambiava con il Generale Ting Shen, comandante della guarnigione di Canton; il Generale Yang Dezhi, comandante della guarnigione di Wuhan, vicendevolmente si scambiavano le cariche; stessa sorte per i Generali Pi Ting-tschung e Han Hsien-tschu, il primo comandante della guarnigione di Lanzhou, il secondo comandante del Fronte del Fujian; tutti allontanati dai loro “regni” che con la loro potenza intralciavano il richiamo centralista della capitale.
Parallelamente a questo processo di ritirata dell’EPL, con i risultali del X Congresso che cominciavano appena ad essere noti, per reazione all’ascesa di Zhou Enlai incominciò una campagna di stampa battezzata “pi Lin, pi Kun” che, come per l’ormai lontano giugno 1966, coinvolse le Università. La campagna di critica a Lin Biao ed a Confucio doveva avere come obiettivo quello di «riprendere la lotta contro ogni tendenza feudale, borghese, capitalista e revisionista» per consolidare «la dittatura del proletariato», campagna che, anticipiamo, non vedrà però né articoli né epurazioni storiche.
Il movimento di “critica” ebbe come i suoi ispiratori ed iniziatori in Jiang Qing e Zhang Chunqiao che speravano di colpire indirettamente, attraverso la figura di Confucio, quella ben più reale dell’enigmatico e diplomatico Primo Ministro, Zhou Enlai, che raccolse la sfida e fu all’altezza della sua fama. La campagna fu infatti subito presa e condotta dalle strutture del Partito che organizzò e guidò riunioni di massa le quali, partendo dal filosofo Confucio e dal militare Lin Biao, avevano come finale un’aspra critica ad ogni tendenza contraria al “centralismo democratico”, che non riconosceva il potere assoluto del Partito su tutta la società civile (EPL compreso), bollando di tradimento ogni formazione di cricche, di conduzione personale del potere, ogni liberalismo e l’indiscriminato ricorso agli “stimoli materiali” per assicurare lo sviluppo dell’economia e dello Stato.
Anche se la campagna “pi Lin, pi Kun” fu talvolta pomposamente presentata come la continuazione della Rivoluzione Culturale, ad esempio il 1° gennaio il “Jenmin Jihpao” scriveva nel suo editoriale: «All’interno come all’esterno del paese, una piccola cricca di nemici di classe, attacca la grande Rivoluzione Culturale proletaria (...) Noi dobbiamo persistere per portare a termine la rivoluzione socialista nel campo della cultura», gli avvenimenti succedutisi avevano profondamente mutato gli atteggiamenti delle classi e degli strati sociali. Proprio il mondo della cultura e dell’intellighenzia, che aveva costituito la vasta e cieca riserva dei maoisti, era stato successivamente il più colpito dalla repressione della struttura poliziesca e militare del regime, come del resto già era accaduto con il movimento dei “Cento fiori” nel 1957 quando, per determinazioni diverse, furono volutamente suscitate critiche al regime unico del PCC. La repressione poliziesca e militare, il continuo e vasto esodo di giovani e studenti nelle campagne, l’ultimo si ebbe il 22 gennaio 1974 quando, dopo i festeggiamenti dell’anno lunare, più di 32.000 studenti lasciarono Shanghai per andare nelle regioni rurali, rendevano difficile mobilitare, da parte di chicchessia, gli studenti ed i professori, strati medi da sempre sfruttati come carne da cannone nelle varie contese dal regime di Pechino, un regime che, dopo i drammatici avvenimenti della Rivoluzione Culturale, era vieppiù sospettoso e guardingo.
La campagna maoista “pi Lin, pi Kun” per riuscire avrebbe dovuto allora interessare le vaste truppe operaie e contadine, un mondo però che per obiettivi diversi, non si lasciava abbacinare da spiritualismi e da rivoluzioni letterarie; come la Rivoluzione Culturale aveva indiscutibilmente mostrato alle attonite Guardie Rosse, contadini e operai si muovevano per prosaici interessi materiali ben più potenti di mille e mille discorsi “antiriformisti” ed “antirevisionisti”. Senza base sociale su cui poggiare, la campagna “pi Lin, pi Kun” rimase una misera contesa all’interno del regime in cui i diversi protagonisti misuravano gesti e parole, preoccupati soprattutto di non uscire allo scoperto, cautela che oggettivamente favorì la difesa di Zhou Enlai che sfruttò l’occasione per far ribadire a chiare lettere il centralismo di Pechino e del Partito su tutto, predominio che era il migliore antidoto per qualsiasi speranza di Jiang Qing e Zhang Chunqiao e dei suoi di scalfire il ricostruito apparato burocratico.
La campagna “pi Lin, pi Kun” ebbe un leggero sussulto nei mesi di maggio, giugno e luglio, quando nelle principali città apparvero dazibao contro i governi locali ed in cui venivano denunciati arresti arbitrari, torture della polizia, carenze di servizi sanitari, insufficienza delle norme di protezione negli stabilimenti industriali e corruzione dei funzionari; secondo i giornali murali di Pechino, in certe città e provincie ci furono anche degli scioperi operai e “scontri fra gruppi” che, nel Jiangxi, fra il 10 e il 18 giugno, avrebbero causato circa 200 vittime.
Questa relativa radicalizzazione della campagna, che nell’agosto si placò del tutto, fu, forse, una risposta all’impetuosa risalita di Deng Xiaoping. Deng all’inizio dell’aprile aveva guidato la delegazione cinese all’Assemblea generale straordinaria dell’ONU sul problema delle “materie prime e dello sviluppo”, pronunciando, il 9, un discorso che nessuno mostrò di capire e che meglio fu spiegato dallo stesso Deng quattro anni più tardi, dopo la sua seconda destituzione e la sua seconda riabilitazione. Era la “teoria dei tre mondi” il cui punto centrale era una politica estera che mirasse a rompere il bipolarismo USA-URSS, il cui peso era denunciato come causa prima dell’arretratezza del “terzo mondo” in cui Deng collocava anche la Cina.
A parte i molti aspetti puramente propagandistici, sibillinamente Deng fece intendere che i due grossi mostri statali dovevano fare i conti con la gialla Repubblica il cui commercio era prepotentemente in ascesa con tutto il mondo, un partner commerciale vieppiù importante che richiedeva e pretendeva un ruolo preciso nell’intera diplomazia internazionale, non accettando l’isolamento del decennio precedente e sentendosi abbastanza forte da scendere autonomamente nell’arena borghese.
Fu in quell’occasione che Qiao Guanhua, membro della delegazione di Deng che il prossimo 15 novembre avrebbe preso il posto di Ji Pengfei al Ministero degli Esteri, diede un cortese consiglio ai paesi arabi: perché non usare il petrolio come arma politica ? Nel luglio ci fu il primo aumento del prezzo mondiale del petrolio che da 2,28 dollari al barile passò a 2,74 per arrivare nel gennaio 1975 a ben 11,65 dollari; le esportazioni cinesi di petrolio ne trassero un immediato beneficio ed il consiglio di Qiao Guanhua ben servì all’accumulazione interna !
L’ascesa di Deng Xiaoping pareggiava l’aggravarsi della malattia di Zhou Enlai, resa ufficiale nel luglio, ma, aggiungiamo, la menomazione fisica del Primo Ministro riprometteva di scatenare di nuovo e violentemente le lotte politiche momentaneamente acquietatesi con il compromesso, avutosi al vertice del Partito con il X Congresso, fra le varie fazioni rimaste.
Questo clima di compromesso, con colpi bassi e cauti, forse determinò la riabilitazione di due importanti capi militari in disgrazia dal lontano marzo 1968. Il 31 luglio 1974, alla cerimonia celebrativa per l’anniversario della costituzione dell’EPL, riapparvero il Generale Yang Chengwu, ex-capo di Stato Maggiore, e Yu Lijin, ex-Commissario Politico dell’Aviazione, epurati sei anni prima per l’accusa di “sinistrismo”, probabili vittime dell’ascesa nella disastrata struttura statale dei diversi e potenti Comandanti Regionali. Quali che fossero state le ragioni di quell’improvvisa destituzione, la loro riabilitazione doveva attribuirsi alla necessità del Partito-Stato, proprio quando si stavano delineando nuovi scontri politici, di non irretire la struttura militare che, dopo aver costituito l’unica ciambella di salvataggio del regime, dopo aver subìto duri colpi al suo prestigio ed a molti dei suoi uomini, stava accettando, nonostante i tanti articoli declamatori (il “Jenmin Jihpao” dell’8 maggio, ad esempio, aveva scritto: «L’EPL (...) è il saldo pilastro della dittatura del proletariato; costituisce una garanzia per prevenire una restaurazione del capitalismo; è una muraglia di acciaio per proteggere la patria socialista», un chiaro ridimensionamento della propria importanza e del proprio ruolo all’interno dello Stato.
Il quarto trimestre del 1974 vide gli ultimi preparativi per quello che sarebbe stato l’avvenimento più importante del nuovo anno, la convocazione della IV Assemblea Nazionale Popolare, già annunciata con il II Plenum del CC del IX Congresso, agosto 1970. Riunioni di Comitati di Partito delle Provincie, delle Regioni e delle Municipalità, riunioni di Comitati Rivoluzionari, di associazioni di operai, di contadini e di donne, tutto convergeva verso l’avvenimento fatidico.
In tutta segretezza, le “masse” seppero della convocazione solo a cose fatte con un comunicato stampa che rivelava l’assenza di Mao all’importante riunione, la IV Assemblea Nazionale Popolare si tenne a Pechino dal 13 al 17 gennaio 1975, erano passati ben 10 anni dall’unica sessione della III (21 dicembre 1964 - 5 gennaio 1965) che secondo le leggi doveva rimanere in carica solo 5 anni; l’Assemblea fu preceduta dal II Plenum del X CC. del PCC, 5-11 gennaio, che in realtà svolse l’intero lavoro ratificato dai parlamentari, chiara dimostrazione di come le istanze totalitarie non conoscano confini e si impongono in tutti gli scenari nazionali. Fu il II Plenum, quindi, ad approvare la coesistenza dei due disomogenei documenti presentati: il rapporto sulla “Revisione della Costituzione”, redatto e presentato da Zhang Chunqiao, ed il “Rapporto sulle attività del Governo”, redatto e presentato da Zhou Enlai.
Il primo costituiva la presentazione della nuova Costituzione, destinata a sostituire quella del 1954; il secondo, ben più importante, era invece la chiara presentazione di una “linea di sviluppo economico accelerato” che, se ben rispondeva alle intime esigenze del processo di accumulazione dell’intero capitalismo cinese, sarebbe anche stato, di lì a poco, il fronte di battaglia dello scontro politico dominante il periodo immediatamente precedente e immediatamente seguente la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong.
Entrambi i rapporti apparivano formalmente tributari e direttamente collegati a quello che era stata la Rivoluzione Culturale, fu anzi Zhou Enlai a richiamarsi con la maggiore enfasi alla “Grande Rivoluzione Culturale proletaria” ed a spacciarla come la madrina di una Cina moderna e potente.
Il figlio di un mandarino, Zhou Enlai, sapeva bene la millenaria arte della politica cinese, in cui una questione non condivisa viene verbalmente accentuata per inficiarne la sostanza. Zhou non si limitò a lodare la passata Rivoluzione Culturale, ma ebbe anche la sagacia di ribadire la necessità di continuare senza deflettere la campagna contro “Lin Biao e Confucio”, il “gran maestro del doppio gioco”, il “perfetto partigiano della via di mezzo e del compromesso”, il “soave mentitore dai gusti raffinati”, figura che malamente celava sé stesso, eterno Primo Ministro.
Elogi e ammiccamenti abili non impedirono a Zhou Enlai, già gravemente ammalato, di lanciare un possente appello per lo sviluppo della Cina, appello destinato a quei “quadri” che tanto tenacemente aveva prima difeso poi rimessi in sella. Saranno questi “quadri” a dovere, una volta per tutte, fare i conti con i resti dell’originario maoismo, rappresentato nella IV Assemblea dal fiacco discorso di Zhang Chunqiao contro cui oramai si ergeva la minacciosa figura dell’arguto Deng Xiaoping che da vice Primo Ministro (aprile 1973) era promosso, dal II Plenum del CC, anche vice Presidente del CC e membro dell’Ufficio Permanente del Politburo.
Questa nomina, che coronava quasi due anni d’intensa e rinnovata partecipazione di Deng alla vita dello Stato cinese, assumeva tutte le caratteristiche di una investitura da parte di Zhou Enlai (dopo la IV Assemblea non farà più alcun intervento pubblico fino alla morte avvenuta a distanza di un anno), investitura che aveva come compito primo la realizzazione del programma di modernizzazione complessiva della Cina, entro l’anno 2000.
Ma vediamo ora alcuni punti essenziali del “Rapporto sulle attività del Governo”, presentato da Zhou ma alla cui redazione, secondo il rapporto di Hua Guofeng alla V Assemblea del febbraio-marzo 1978, contribuì lo stesso Deng Xiaoping.
Prima di tutto veniva riassunta la situazione economica della Repubblica all’inizio del 1975, cioè alla fine di quello che voleva il IV piano quinquennale: «In contrasto con lo scompiglio economico e l’inflazione del mondo capitalistico, noi abbiamo mantenuto un equilibrio tra le entrate e le spese del nostro bilancio, e non abbiamo contratto debiti esterni né interni, i prezzi sono rimasti stabili, le condizioni di vita del popolo sono migliorate costantemente e la costruzione del socialismo ha prosperato».
I risultati dell’economia venivano così sintetizzati da Zhou: «Il valore totale della produzione agricola del 1974 è del 51% più alto di quello del 1964 (...) Mentre la popolazione è aumentata del 60% dall’epoca della liberazione del paese, i cereali sono aumentati del 140% e il cotone è aumentato del 70%». E Zhou proseguiva indicando i successi ma nello stesso tempo rivelandone le caratteristiche di primo passo (solo di primo passo !) per la soluzione del difficile problema della costruzione di una potente Cina borghese: «In un paese come il nostro con una popolazione di circa ottocento milioni (la cifra indicata da Zhou era ben inferiore a quella reale) noi siamo riusciti ad assicurare al popolo il suo fabbisogno fondamentale per quanto riguarda il cibo e il vestiario».
L’orgoglio di Zhou per il soddisfacimento dei soli bisogni primari della sterminata popolazione, niente concedeva alle pose maoiste e falsamente estreme della creatività e della soggettività delle masse, masse che pure, lo abbiamo visto con un’accurata cronaca della Rivoluzione Culturale, furono bellamente giocate ed utilizzate dai vertici e dirigenti sempre pronti a tessere le lodi della “democrazia diretta”. Zhou Enlai non conosceva il volontarismo sciocco di Mao e dei suoi, campione della burocrazia non amava disegni mirabili quanto inattuabili e tutto gettò sull’impegno borghese di sviluppo delle forze produttive. Era l’impegno di Liu Shaoqi e dell’VIII Congresso del PCC nel lontano 1957 che prepotentemente riaffiorava, per la prima volta dalla Rivoluzione Culturale, in un’importante manifestazione del regime in cui non veniva innalzata sull’altare la “politica”, in cui non si faceva cenno alla “lotta di classe” come momento fondamentale del processo produttivo, ma si ritornava a ribadire che il processo economico era solamente possibile con l’impiego razionale di tutte le forze produttive, ritorno che sfacciatamente veniva presentato con l’imprimatur del nome di Mao:
«Su indicazione del presidente Mao, nel Rapporto sul lavoro del governo alla III Assemblea Nazionale del Popolo venne suggerito che avremmo potuto prendere lo sviluppo della nostra economia nazionale in due fasi a cominciare dal III Piano quinquennale: la prima fase consiste nel costruire un sistema industriale ed economico indipendente e relativamente completo in quindici anni, cioè prima del 1980; la seconda fase consiste nel realizzare una completa modernizzazione dell’agricoltura, industria, difesa nazionale, e scienza e tecnologia prima della fine del secolo, affinché la nostra economia nazionale progredisca nelle prime file del mondo. Dobbiamo completare o superare il IV Piano quinquennale nel 1975 al fine di rafforzare le basi per completare la prima fase prima del 1980 come era previsto».
Dunque, nella valutazione di Zhou e del gruppo dirigente a lui vicino, i pur notevoli risultati fin lì conseguiti per strappare la Cina dalla disgregazione e dall’arretratezza alla quale era stata condannata dall’imperialismo e dal naufragio della rivoluzione nazionale di Sun Yat-sen e dal “fascismo” di Jiang Jieshi e dei “signori della guerra”, costituivano ancora soltanto un avvio di soluzione del problema dello sviluppo capitalistico della Cina, dalle immense potenzialità umane ed economiche.
Ma come passare dal completamento della “prima fase” alla messa in moto della seconda ? Sarà proprio qui che si accenderà lo scontro che non potrà più avere Zhou come protagonista, ma i cui contorni già si intravedevano: «Alla luce della situazione in patria e all’estero, i prossimi dieci anni saranno cruciali per completare quanto è stato previsto per le due fasi».
Il rapporto di Zhou altro non diceva e su quello che sarà uno dei punti centrali dello scontro imminente, e cioè il rapporto con le economie e le tecnologie dei paesi stranieri industrializzati, si limitò ad affiancare due considerazioni non del tutto omogenee. La prima suonava così: «Dobbiamo criticare a fondo il revisionismo, criticare le tendenze capitalistiche e criticare idee e stili di lavoro sbagliati come il servilismo verso le cose straniere». La seconda era una citazione di Mao: «Fare assegnamento principalmente sui nostri propri sforzi prendendo l’assistenza esterna come sussidiaria, abbattere la cieca fede, dedicarsi all’industria, all’agricoltura e alle rivoluzioni tecnica e culturale indipendentemente, eliminare il servilismo, seppellire il dogmatismo, imparare coscienziosamente dalla buona esperienza di altri paesi, ma studiare anche la loro cattiva esperienza per trarne insegnamenti. Questa è la nostra linea».
Su questa base, i 2.885 deputati dell’Assemblea approvarono all’unanimità, il 17 gennaio 1975 in chiusura dei lavori, una risoluzione che, dopo un indiretto ma notevolissimo elogio a Zhou Enlai: «Dopo la III Assemblea Nazionale (...) il Consiglio degli Affari di Stato, sotto la direzione del CC dei PCC con alla testa Mao Zedong (...) ha ottenuto dei successi considerevoli nei diversi settori di attività sia esterna che interna”, si concludeva solennemente con queste parole: «I deputati partecipanti alla sessione sono profondamente convinti che noi possiamo certamente trasformare la Cina in un paese socialista moderno e potente in questi poco più che vent’anni che ci separano dalla fine del secolo».
Sempre il 17 gennaio, l’Assemblea approvò il rapporto presentato da Zhang Chunqiao sulla revisione della Costituzione e promulgò il nuovo testo costituzionale. Il rapporto di Zhang solo marginalmente poté toccare gli assillanti problemi economici, ma come lo fece, la distanza con Zhou Enlai fu evidente, non solo per l’accenno a «risultati maggiori, più rapidi, migliori e più economici» ma anche per una decisa affermazione: «il nostro sistema socialista è ancora molto giovane, è nato nella lotta e può soltanto crescere nella lotta».
Come abbiamo visto con il lavoro fin qui svolto, non si trattava di qualsivoglia socialismo ma delle dolorose doglie del capitalismo industriale ed agrario cinese, capitalismo che per crescere non abbisognava di lotta ma di aprirsi al mercato mondiale, prospettiva che ancora timidamente Zhou Enlai aveva lanciato agli astanti e che avrà come conseguenza di far cadere nel vuoto il richiamo allo scontro di Zhang Chunqiao.
Il testo della nuova Costituzione era costituito da 30 brevi articoli, contro i più di 100 di quella del 1954. La Repubblica Popolare è uno «Stato socialista di dittatura del proletariato» (art. 1), «il PCC è il nucleo dirigente» e «il pensiero di Mao Zedong» è la guida dello Stato (art. 2); con un semplice decreto era sparito lo Stato di Nuova Democrazia ed i suoi compiti di «sviluppo delle forze produttive». Si dichiarava raggiunto il socialismo con un bluff smaccatamente evidente ma, perlomeno, i primi due articoli della nuova Costituzione avevano il pregio di ratificare la trentennale situazione con il PCC che subito si era identificato con lo Stato, che subito aveva accentrato il potere statale non dividendolo con nessun altro; non di dittatura del proletariato si trattava e si tratta, ma di quella del PCC fatto deterministicamente inevitabile per le fortune dell’accumulazione capitalista della Repubblica, l’ipocrita velo del 1954 era caduto e l’art. 26 poteva scandire che per i singoli cittadini sostenere il PCC ed osservare la Costituzione e le leggi sono irrimandabili doveri, schiaffone all’ideologia democratica.
Gli articoli dal 5 al 9, più prosaicamente riguardavano le «proprietà», quelle statali (le industrie), quelle di tutto il popolo (acque, foreste e terre incolte) e quelle individuali (redditi da lavoro, risparmi e case), articoli che ben potrebbero essere inseriti in una qualsiasi delle storiche dichiarazioni di principi e diritti borghesi. Rispetto alla Costituzione del 1954, completamente nuovo era l’articolo 7 che trattava delle Comuni, allora inesistenti; l’art. 7 ratificava la proprietà collettiva dei contadini ma anche la scala determinatasi: Comune, Brigata e Squadra, «unità contabile di base»; pure gli appezzamenti privati, le attività sussidiarie domestiche (allevamento di maiali e volatili) erano inseriti nel testo, vittoria aperta degli appetiti contadini di fronte ai quali lo Stato si inchinava ed accettava di considerarli inalienabili.
L’articolo 13 autorizzava dazibao e dibattiti ma avvertiva che ogni «libera espressione di opinioni» doveva contribuire al consolidamento del PCC e dello Stato. L’articolo 15, altra estrema misura dittatoriale, metteva sotto il comando del presidente del CC del PCC le forze armate, quando nella precedente Costituzione erano dirette dal Presidente della Repubblica, carica che, vacante dalla destituzione di Liu Shaoqi, veniva abolita e le cui funzioni erano assunte dal Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale Popolare.
Gli articoli dal 16 al 25, trattavano della struttura dello Stato, dell’Assemblea Nazionale Popolare: «organo supremo del potere statale» ma «posto sotto la direzione del PCC», subordinazione che non esisteva nella Costituzione precedente; infine, trattavano del Consiglio degli Affari di Stato, delle Assemblee popolari e dei Comitati Rivoluzionari locali, delle Regioni autonome e degli organi giudiziari.
L’articolo 28, riguardava invece la libertà, di parola, di corrispondenza, di riunione, di associazione, di corteo, di manifestazione e di sciopero: tutte “libertà” già comprese nella Costituzione del 1954, esclusa quella di sciopero, “diritto” che i cruenti avvenimenti della Rivoluzione Culturale facevano adesso formalmente riconoscere alla macchina statale, una macchina che sostanzialmente lo avrebbe sempre duramente represso.
La IV Assemblea Nazionale procedette anche alla nomina del nuovo Governo: Zhou Enlai era confermato Primo Ministro del Consiglio degli Affari di Stato ed era affiancato da ben undici vice; nell’ordine: Deng Xiaoping, Zhang Chunqiao, Li Xiannian, Ji Dengkui, Hua Guofeng, Chen Yonggui, Wu Kuei-hsen, Wan Zhen, Yu Qiuli, Gu Mu e Sun Chien. Fra i ministri, importanti le nomine di Qiao Guanhua agli Affari Esteri, del Maresciallo Ye Jianying alla Difesa, di Hua Guofeng alla Sicurezza Pubblica, importantissimo e vitale Ministero, di Yu Qiuli alla Commissione del Piano di Stato, di Li Chiang al Commercio Estero e di Fang Yi alle Relazioni Economiche con l’Estero. Fra i ventinove ministri, riapparivano due vittime illustri della Rivoluzione Culturale: Wan Li, Ministro delle Ferrovie, ex Segretario del Comitato di Partito a Pechino al tempo di Peng Zhen, e Yeh Fei alle Comunicazioni, ex Segretario del PCC della Provincia del Fujian, tutte designazioni che ingrossavano le file dei sostenitori di Zhou Enlai ancora lontani da una definitiva vittoria.
Il Plenum del CC che aveva anticipato la IV Assemblea Nazionale decise infatti, per non scontentare nessuno, due simultanee nomine: prima, la nomina del destrissimo Deng Xiaoping a Capo di Stato Maggiore al posto di Chen Xilian che manteneva l’importante carica di comandante della Regione Militare di Pechino; seconda, la nomina del sinistrissimo Zhang Chunqiao a Primo Commissario Politico dell’EPL, Deng e Zhang essendo anche membri dell’Ufficio Permanente del Politburo, unici si trovavano ai vertici delle massime tre istituzioni del potere: Partito, Stato ed Esercito. Questa momentanea coabitazione era destinata inevitabilmente ad essere infranta dalle potenti forze in movimento.
Come abbiamo visto, la IV Assemblea Nazionale Popolare aveva sì gettato audaci ponti verso una politica di accelerata industrializzazione e modernizzazione, ma era anche terminata con cedimento nei confronti degli esponenti radicali che pareggiarono il prepotente ritorno di Deng Xiaoping con l’elezione di Zhang Chunqiao a Primo commissario politico dell’EPL. Zhou Enlai aveva ripescato e reinserito quasi tutti i vecchi quadri estromessi dagli avvenimenti della Rivoluzione Culturale, ma,forse per prudenza e per evitare che di nuovo il regime ripiombasse nel caos, nel prospettare la strada dell’industrializzazione, si era limitato a porre spinose domande più che a dare sicure risposte, cosa del resto oltremodo complicata.
Inevitabilmente, chiusi i battenti dell’Assemblea Nazionale con l’importante rapporto di Zhou incentrato sulla tesi che lo sviluppo economico del paese doveva procedere senza le “interferenze ideologiche” del passato e secondo le direttrici di una organica pianificazione, tesi osteggiata apertamente dalla “sinistra” maoista, le diverse fazioni incominciarono una contorta schermaglia, tutta incentrata sul come praticamente realizzare l’imperativo lanciato da Zhou Enlai.
La rivista teorica “Bandiera Rossa” del 1° febbraio 1975, ad esempio, scriverà: «Alcuni non vedono l’attivismo e la forza creativa delle masse e posano gli occhi solo sull’importanza della tecnica e degli impianti stranieri, riflettendo così la filosofia altre volte condannata del servilismo verso gli stranieri, una filosofia sbagliata che vede solo le cose ignorando l’uomo e che nega la superiorità del sistema socialista».
Ora, come abbiamo mostrato, il problema non era semplicemente quello di aprire o no le chiuse al commercio internazionale con il mercato mondiale, ma riguardava l’intero modo di intendere il processo di riproduzione ed accumulazione del giovane capitalismo cinese che, dalle regioni costiere, dalla Manciuria e dalle grandi città, doveva intraprendere la strada che deve portare a sottomettere l’intera sconfinata campagna dall’immensa popolazione.
I “quadri” che allora si raggruppavano intorno a Deng Xiaoping, gli stessi che avevano seguito Liu Shaoqi e che erano poi stati salvati da Zhou Enlai, non avevano fiducia nell’attivismo e nella forza creativa delle masse, non credevano a nuovi Grandi Balzi in Avanti, ma, di grazia, ci credevano le masse contadine ed operaie? Abbiamo mostrato che, indiscutibilmente, le masse contadine erano attaccate alle loro proprietà e senza nessuno spirito “attivista” e “creativo”; abbiamo mostrato che neanche gli operai erano propensi a faticare come bestie in nome di un ipotetico e lontano socialismo da raggiungere e che, infine, le loro simpatie erano per il soddisfacimento economico delle loro necessità, per l’ “economicismo” insomma. Considerando questi importanti fattori che sono gli atteggiamenti delle classi e considerando le intime necessità dell’accumulazione capitalistica, l’originario maoismo aveva la sua sorte segnata e l’apertura commerciale delle frontiere, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro per l’aumento della produttività e della disponibilità di prodotti agricoli ed industriali di consumo, minacciavano le loro roccaforti alimentate dalla tradizione ascetica e puritana del Partito, dell’Esercito e dello Stato, tradizioni che per le masse operaie e contadine volevano dire una relativa eguaglianza sociale ed economica, che certamente un capitalismo sviluppantesi a gran carriera avrebbe dolorosamente infranto.
Nello stesso numero di “Bandiera Rossa”, già citato, si aveva l’articolo «Studiare la dittatura del proletariato» che, prendendo lo spunto dall’ultima direttiva di Mao Zedong: «Limitare i diritti borghesi con la dittatura del proletariato», doveva confessare che nella società cinese vigevano pienamente diritti e categorie borghesi che sopravvivevano accanto alla “proprietà socialista” (cioè statale). L’articolo scandiva: «Dobbiamo ben comprendere che la dittatura del proletariato deve non solo reprimere la resistenza delle classi già rovesciate, ma lottare anche contro la nuova borghesia continuamente generata dal diritto borghese e vincere l’opera di corruzione e le influenze delle vecchie abitudini».
L’articolo bluffava: non si trattava di vincere corruzioni e abitudini nefaste, ma di rapporti sociali che crescevano impetuosamente nutriti dalla linfa vitale di rapporti di produzione e di scambio pienamente borghesi !
E se questi potenti rapporti sociali era impossibile scalfire, ecco che la “sinistra” maoista si rifugiava nella facile lotta contro le “corruzioni e le abitudini borghesi”. Le campagne fecero di nuovo le spese delle pensate dei vertici; la fine del febbraio ed il marzo videro una campagna contro i “germi del capitalismo” nelle zone rurali che, per non turbare i delicati ed importanti lavori primaverili nei campi, interessarono barbieri, carpentieri e simili, accusati di guadagni illeciti, tutto nel nome pomposo della dittatura del proletariato; per ridurre “le differenze gerarchiche”, per circoscrivere “i fenomeni di polarizzazione sociale”. «Incoraggiate da “incentivi materiali”, le idee capitalistiche di ricerca della ricchezza, della fama e del guadagno personale dilagheranno; la proprietà pubblica si trasformerà in proprietà privata, aumenteranno concussione, il furto e la corruzione. Il principio capitalistico dello scambio delle merci si introdurrà nella vita politica ed anche nella vita di partito, disgregando l’economia socialista pianificata».
La campagna della “sinistra” continuò con il numero seguente della rivista “Bandiera Rossa”, il 1° marzo 1975, che pubblicò l’articolo di Yao Wenyuan: “La base sociale della cricca antipartito di Lin Biao”. La penna che, nove anni prima, aveva dato il via alla Rivoluzione Culturale di cui il segaligno Maresciallo Ministro della Difesa era stato un importantissimo campione, se la prendeva con inusitato vigore con il “diritto borghese” (cioè quel diritto “uguale” per persone “ineguali” che è la trave portante dello sfruttamento capitalistico) tuttora pienamente esistente in Cina, Yao si appellava alla dittatura del proletariato per ridurre «le differenze gerarchiche», per circoscrivere i «fenomeni di polarizzazione sociale»: «Incoraggiate da “incentivi materiali”, le idee capitalistiche di ricerca della ricchezza, della fama e del guadagno personale dilagheranno; la proprietà pubblica si trasformerà in proprietà privata, aumenteranno la concussione, il furto e la corruzione. Il principio capitalistico dello scambio delle merci si introdurrà nella vita politica ed anche nella vita di partito, disgregando l’economia socialista pianificata».
Il quadro di Yao Wenyuan era fallace in più punti. Gli incentivi materiali, che erano inevitabili se si voleva aumentare la produzione e lo scambio di merci, prospettiva aperta dei destri e malamente camuffata dei sinistri, erano il risultato non di idee ma di determinati rapporti sociali (quelli capitalistici) che non si sarebbero volatilizzati se, aboliti gli incentivi come nel periodo 1958-60, il regime fosse ritornato all’originaria economia di guerra in cui non si poteva avere scambi di merci in quanto totalmente razionate centralmente, in cui non si aveva lavoro salariato in quanto tutti gli uomini validi disponibili erano comandati in continue corvée gratuite, in cui niente era “proprietà privata” in quanto tutto era per la fisica sopravvivenza di ognuno e di tutti. Deng avrà gioco facile a rispondere, più in avanti, che proprio una economia pianificata ha bisogno di incentivi materiali, che solo basandosi su questi sarebbe stato possibile passare da una estorsione assoluta di plusvalore (alba del capitalismo) ad una estorsione relativa di plusvalore, aumentando la produttività dell’intera economia (investimenti pianificati). Solo questo processo, borghesemente ineccepibile, dirà Deng, potrà difendere e sviluppare la proprietà statale dell’industria, potrà quindi far precipitare l’economia dei rurali nel generale processo sociale di produzione e minerà le chiuse economie private delle squadre e delle famiglie contadine.
La sinistra maoista aveva paura di prendere il toro inferocito dell’industrializzazione per le corna, si rifugiava in declamazioni sulla dittatura del proletariato e nel far questo faceva un’importante ammissione: dopo 26 anni dalla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, etichettata come socialista, «esistevano ancora le classi e la lotta di classe come anche il terreno e le condizioni che generano il capitalismo». Il socialismo, per loro, era confinato nella proprietà statale che temevano in pericolo per il procedere del processo di riproduzione ed accumulazione. Noi dobbiamo aggiungere solo che né il settore dell’industria statale né l’economia privata delle squadre e delle famiglie contadine, avevano niente di socialista ma erano solamente aspetti del difficile processo di industrializzazione, processo in cui l’industria statale e l’economia privata e contadina potevano sussistere e compenetrarsi, a tutto vantaggio del capitale.
Liu Shaoqi e Deng Xiaoping, mai teneri nei confronti degli sprechi e della corruzione di funzionari e burocrati, questo l’avevano capito e senza cercare fama e ricchezze personali, sempre difendendo la centralizzazione economica, rigettarono i principi autarchici dell’originario maoismo, per predisporre la Cina al commercio con il mercato capitalistico mondiale, oggettivo passo in avanti della Rivoluzione Comunista internazionale che avrà un efficace aiuto dal numeroso e giovane proletariato cinese.
Il 1° aprile, sempre sulla rivista “Bandiera Rossa” che era ritornata ad essere la fedele portavoce delle tesi della “sinistra” si pubblicò l’articolo di Zhang Chunqiao:
“Esercitare la dittatura sulla borghesia”; Zhang non svolse tesi nuove ma riassunse tutti i suoi leit motiv. Come Yao Wenyuan additò nella “forza dell’abitudine” la iattura della patria socialista, ma, in più di Yao, ebbe la forza di dirigere i suoi strali anche nei confronti della “piccola produzione”. Più acutamente, Zhang dovette notare che, in quella determinata situazione, «la produzione delle merci, lo scambio attraverso la moneta e la distribuzione “a ciascuno secondo il suo lavoro” saranno inevitabili» e che quindi «lo sviluppo di fattori capitalistici sia nelle città che nelle campagne continueranno ad essere inevitabili». Il suo, fu un ingenuo grido d’allarme: «Se non si pongono loro dei limiti, il capitalismo e la borghesia si svilupperanno ancor più rapidamente». L’abbaglio di Zhang era in altra direzione; lanciava l’accusa, il suo dito si indirizzava non ai “rapporti economici e sociali” (così facendo l’occhialuto Zhang avrebbe potuto anche capire che questi né si idolatrano né si addomesticano con belle o terribili parole, essendo le loro radici ben attaccate nei rapporti di produzione dati ed inevitabili secondo il determinato livello dello sviluppo delle forze produttive), ma, come Yao, al facile quanto falso obbiettivo delle abitudini e delle idee degli uomini: «È innegabile che certi nostri compagni hanno aderito al Partito Comunista solo sul piano organizzativo ma non dal punto di vista ideologico», tuonava Zhang Chunqiao indirizzando la frecciata certamente a Deng Xiaoping che non mostrava nessun imbarazzo.
Lo stesso numero della rivista conteneva un articolo commemorativo delle campagne dei “tre e cinque anti” (“san e wu fan”) che avevano caratterizzato i primi tre anni della Repubblica Popolare ed in cui, con giovanile vigore, corruzione, spreco, burocratismo, frode, evasione fiscale, sottrazione dei beni dello Stato erano stati violentemente repressi dal regime con misure che – a parte le apologie di rito – furono manifestazioni della dittatura del nascente Stato borghese, e non di un impensabile Stato proletario !
I fuochi d’artificio dei famosi Yao Wenyuan e Zhang Chunqiao non ottennero però che minimissimi risultati; come la campagna “contro Lin Biao e contro Confucio” non aveva scalfito le posizioni del prudente Zhou Enlai, così la campagna “per la dittatura del proletariato” dovette limitarsi a semplici invettive giornalistiche e scivolò sulle roccheforti dell’arguto Deng Xiaoping, il quale, nel mese di luglio, condusse a più riprese riunioni con quadri e ufficiali dell’EPL che, il 30 luglio, celebrava l’anniversario della sua fondazione. Dirà Deng, senza rigiri di parole:
«Il lavoro nel campo militare ha in realtà due compiti (...) il primo è che l’Esercito deve essere riportato all’ordine; il secondo riguarda l’equipaggiamento (...) il lavoro di ammodernare l’Esercito deve essere portato avanti in modo pianificato, e per poter realizzare questo compito la ricerca scientifica deve essere messa al primo posto».
Deng, dimenticando volutamente di accennare alla “lotta ideologica” e tutto puntando sull’ammodernamento materiale dell’EPL, da aversi con il ricorso al lavoro degli “esperti”, riandava alle tesi sostenute alla fine degli anni Cinquanta dallo sfortunato Maresciallo Peng Dehuai, dando così un preciso colpo alle tesi maoiste di un Esercito forte del suo legame con le “masse”, invincibile perché “popolare”, “integerrimo” e “fedele”, tesi che erano state clamorosamente sconfessate anche dal procedere della Rivoluzione Culturale, con l’Esercito che aveva dovuto reprimere a più riprese e con durezza le “masse”. Deng, senza tentennamenti, denunciò l’allentamento disciplinare e la scarsità dell’equipaggiamento e dei mezzi a disposizione dell’EPL, scarsità ed insufficienza che erano state brutalmente messe in evidenza con lo scontro fra truppe confinarie russe e cinesi nella primavera 1969.
Ma nel far questo, Deng andava oltre, mirava all’intera conduzione dell’economia, che infatti fu oggetto di due suoi importanti documenti: “Alcuni problemi riguardanti l’accelerazione dello sviluppo industriale” e “Sul programma generale delle varie attività di tutto il partito e tutto il paese”, documenti che, terminati nell’agosto e mai ufficialmente resi pubblici, incominciarono a circolare nella struttura dello Stato e del Partito, presentando in maniera esplicita il programma dell’instancabile vice-primo ministro.
Nel primo di questi documenti, Deng Xiaoping si rifaceva alla direttiva della IV Assemblea Nazionale Popolare di costruire entro il 1980 un sistema industriale ed economico indipendente ed abbastanza completo, per denunciare immediatamente «i vecchi e nuovi elementi borghesi» che «praticano la corruzione, il furto e la speculazione», che «sabotano il piano statale, si dedicano alla libera produzione, alle attività illegali del libero scambio», E se in questo non si differenziava da Zhang Chunqiao, l’aspra critica alla «faziosità borghese» ed al «disordine amministrativo» fu la base di una chiara rivendicazione propria di Deng ma, a suo tempo, anche di Liu Shaoqi: «Senza un potente sviluppo delle forze produttive sociali, il sistema socialista non potrà essere pienamente consolidato; non si può assolutamente criticare come “teoria delle forze produttive” e “specializzazione al posto di comando” se, guidati dalla rivoluzione, si fa bene la produzione».
Deng propose una serie di rettifiche che dovevano interessare i Comitati di Partito delle imprese, gli operai, i tecnici ed i quadri, rettifiche per cambiare il sistema di gestione delle imprese: «Attraverso la rettifica occorre trasformare i Comitati di Partito affetti da “mollezza, disperazione e pigrizia” riorganizzare quelli nei quali il potere è nelle mani dei piccoli intellettuali che non si sono riformati e togliere il potere ai cattivi elementi che lo hanno usurpato (...) A nove anni dalla Rivoluzione Culturale è sbagliato tracciare all’interno della classe operaia delle linee di demarcazione sulla base dei cosiddetti conservatori e dei cosiddetti ribelli (...) Bisogna vedere contro quale classe ci si ribella, contro quale tipo di corrente ci si oppone, bisogna essere particolarmente vigilanti nei confronti di un piccolo numero di elementi che, col pretesto di “ribellarsi” e di “andare contro corrente” compiono attività di sabotaggio (...) A partire dalle condizioni reali occorre istituire e rendere operativi i seguenti importanti sistemi di gestione della produzione: 1) sistema di responsabilità sul posto di lavoro; 2) sistema di controllo della disciplina; 3) regolamento per le operazioni tecniche; 4) sistema di controllo della qualità; 5) sistema di gestione e manutenzione degli impianti; 6) sistemi di sicurezza sul lavoro; 7) sistemi del calcolo economico».
Deng, spezzò più di una lancia contro il caos che regnava nelle imprese, per il ritorno a precisi «sistemi di responsabilità per ogni tipo di lavoro, per ogni posto di lavoro devono esserci responsabilità precise; ogni operaio, ogni tecnico, devono avere responsabilità precise», misure indispensabili per il ritorno ad una pianificazione unica statale che si sbarazzasse, una volta per tutte, delle improvvisazioni maoiste: «La definizione del piano unico statale deve avere basi oggettive, dare sicurezza pure lasciando un pieno margine all’iniziativa. Il Piano deve avere un carattere molto rigoroso, una volta approvato dal Centro e trasmesso alle istanze inferiori deve essere decisamente eseguito dai vari settori, dalle varie regioni e imprese. Occorre lottare contro metodi errati che consistono nel non curare l’insieme, non applicare il piano statale, nel lavorare secondo le proprie concezioni. Nel riaggiustamento del piano, è necessario seguire i regolamenti e le procedure, e sottoporlo all’approvazione».
Il documento di Deng Xiaoping si riassumeva in uno sui punti finali: «Attualmente, sotto molti aspetti, la disciplina è allentata, l’influenza è molto negativa, i danni considerevoli; occorre rafforzare la disciplina, lottare contro ogni tentativo di opporsi alle misure politiche, di trasgredire i regolamenti, il piano unico, di infrangere la disciplina economica e finanziaria, di trasgredire la disciplina di lavoro», misure che pedissequamente richiedevano ordine e disciplina in ogni campo ed aspetto della vita produttiva !
Da qui Deng si aspettava la sconfitta della “pigrizia” e della “corruzione” ! L’ordine e la disciplina erano stati scossi dagli avvenimenti della Rivoluzione Culturale che avevano indebolito la struttura del Partito e dello Stato tanto che il regime di fabbrica, duro e spietato negli anni Cinquanta e nella prima metà di quelli Sessanta, era stato infranto: senza il ritorno ad un tale regime qualsiasi pianificazione economica statale dell’intero processo d’industrializzazione era destinata a cocenti insuccessi.
Le continue mobilitazioni dei maoisti della prima ora non potevano dirigere questo enorme processo di riproduzione ed accumulazione capitalistico perché non si trattava più di procedere ad estensive mobilitazioni di forza lavoro, non si trattava più di aumentare a dismisura l’estorsione di plusvalore assoluto facendo leva su enormi corvée di lavoro gratuito pretese dallo Stato centrale, ma d’introdurre capitalismo, d’introdurre macchine e mezzi di produzione, di far valere il gioco della concorrenza e dell’estorsione di plusvalore relativo. Di fronte a questo compito gigantesco e rivoluzionario per la gialla repubblica il beffardo Deng rispondeva “presente !” e si disponeva a servire le potenti forze sociali del capitalismo (che altro è la “base materiale” del socialismo ?) che con lui parlavano e pretendevano.
In maniera più stringata, anche il secondo documento riprendeva gli stessi temi: corruzione, speculazioni, sabotaggi, aumento della produzione, regolamenti rigorosi, pianificazione unica statale, predominio del Partito, ogni singola questione convergeva nello schema di Deng Xiaoping nella “costruzione del socialismo” e nella “liberazione delle forze produttive” per il cui sviluppo tutto e tutti dovevano sottomettersi, tesi che coerentemente Deng difendeva dal 1949.
Senz’altro, per contrastare la diffusa influenza di Deng, il 4 settembre la stampa ufficiale lanciò la campagna contro il “capitolazionismo”, cioè contro coloro i quali si infiltrano nelle file rivoluzionarie fino ad usurparne il comando e a portarle alla capitolazione ed al tradimento dei loro ideali. Lo spunto era preso da un romanzo classico che descriveva una insurrezione contadina avvenuta tra il X e l’XI secolo. La campagna, fiacca quanto pomposa, non scosse Deng Xiaoping contro cui era diretta e, soprattutto, non scosse le masse che la “sinistra” maoista voleva mobilitare.
Con queste premesse, si svolse prima a Dazhai e poi a Pechino dal 15 settembre al 19 ottobre 1975, la “I Conferenza Nazionale Agricola: Imparare da Dazhai”. Qui avvenne un aperto scontro tra Deng Xiaoping e il suo gruppo, da una parte, ed il gruppo di Shanghai, in quell’occasione autorevolmente rappresentato da Jiang Qing in persona, dall’altra, in posizione mediana, Hua Guofeng appoggiato – a quanto risulta – da Chen Yonggui (il dirigente contadino di Dazhai, vice primo ministro dal gennaio e incaricato del coordinamento della politica agricola) e da altri dirigenti di settore.
I particolari dello scontro, voci insistenti parlarono di scontri fisici tra i delegati della Conferenza, non furono né allora né in seguito resi noti; in ogni caso l’unica relazione riferita dalla stampa fu quella conclusiva di Hua, mentre niente si seppe dell’ “importante discorso” di Jiang Qing e dell’ “importante rapporto” di Deng Xiaoping.
La relazione finale di Hua Guofeng – costruita con un sapiente eclettismo – assunse diversi elementi formali delle posizioni dei quattro ed in particolare il “rilancio” delle Comuni Popolari sul modello Dazhai Brigata di una povera regione che si era sempre contraddistinta per l’alto tasso di accumulazione, per il rispetto ed anche il miglioramento delle norme fissate per la vendita di cereali allo Stato. A Dazhai, vero regno del capitalismo, le attività private delle famiglie non esistevano e, collettivamente, tutto era impiegato per l’accumulazione nonostante le condizioni di vita fossero ben inferiori alla dura normalità delle campagne.
Il rilancio delle Comuni Popolari sul modello Dazhai voleva dire portare la distribuzione e la proprietà delle attrezzature al livello delle Brigate e delle Comuni a detrimento delle proprietà delle Squadre e delle singole famiglie; prudentemente, Hua Guofeng scandì però che questo passaggio veniva rinviato a quando “le condizioni saranno mature”, che non si trattava poi di scatenare un nuovo movimento di lotta di classe nelle campagne (e chi si muoveva !) e che, pertanto, era il Comitato di Partito del distretto a dover essere il protagonista di questo processo. Il primato del Comitato di Partito del distretto era da riaffermare subito, come subito doveva iniziare una intensa meccanizzazione delle campagne cinesi. Non si trattava, evidentemente, di una esplicita adesione alle posizioni di Deng Xiaoping che certo si sarebbe richiamato a imperativi di efficienza, di concorrenza e di produttività, sia per le Squadre che per le singole famiglie contadine, ma certamente il richiamo al primato del Comitato di Partito soddisfaceva il suo richiamo centralista e soprattutto non aveva niente a che vedere con le proposte del gruppo di Jiang Qing, sconfitte più che dalla forza oratoria degli uomini dalla stessa evidente rovina del collettivismo passato, molto passato, delle Comuni, delle Brigate e delle Squadre.
Dirà Hua: «Bisogna risolvere, attraverso la persuasione e l’educazione, la critica e l’autocritica, conformemente alla politica del partito, diversi problemi riguardanti il consolidamento e lo sviluppo dell’economia collettiva. Per esempio, recuperare quella parte di mano d’opera che ha abbandonato la Comune Popolare per impiegarsi altrove a titolo individuale; organizzare gli artigiani sparsi che lavorano individualmente; recuperare al collettivo quegli appezzamenti individuali e terreni incolti dei quali si sono impossessati i membri della Comune superando i limiti della politica del Partito; correggere nel settore della ripartizione la tendenza sbagliata a non accumulare fondi pubblici e a ripartire tutto tra i membri».
E come il “collettivismo” stava ormai indietreggiando sempre più incalzato dall’egoismo familiare ed individuale dei contadini, anche quando il regime inneggiava alla Brigata Dazhai, ugualmente nell’anno 1976 che vedrà di nuovo dirompere una aperta lotta politica, si avrà la definitiva sconfitta della “sinistra” maoista che crollerà clamorosamente proprio quando sembrava battuto il suo primo ed irriducibile avversario, Deng Xiaoping.
L’anno 1976 fu realmente un punto chiave della recente e moderna storia cinese; scomparvero infatti ben quattro dirigenti storici (dopo Kang Sheng, responsabile fin dai tempi di Yan’an dei Servizi di sicurezza e importante pedina della Rivoluzione Culturale, morto il 16 dicembre 1975, l’8 gennaio 1976 morì l’inaffondabile Zhou Enlai; il 6 giugno moriva il maresciallo Zhu De, il condottiero della Lunga Marcia; il 9 settembre sarà la volta dell’inabile ed immobile Mao Zedong), fatto che aprì una serie di crisi e scontri politici violentissimi destinati a durare fino ai primi mesi dell’anno successivo e nel corso dei quali si delineò un nuovo vertice del Partito e dello Stato ed un nuovo indirizzo economico.
La morte di Zhou fu, in un certo senso, il primo catalizzatore: l’ondata fortissima di cordoglio popolare, nonostante il tentativo del gruppo della “sinistra” maoista di soffocarlo, dette la sensazione ai “moderati” (Deng in primo luogo), che si apprestavano a raccogliere l’eredità politica del defunto Primo Ministro, di poter disporre, oltre che di potenti centri nel Partito e nell’Esercito, di un vasto appoggio popolaresco. Deng Xiaoping – appena reduce dagli incontri politici con il presidente americano Ford recatosi a Pechino nel dicembre con il segretario Kissinger – pronunciò il 15 gennaio l’elogio funebre e sembrò, nonostante l’intensificarsi della campagna contro il “vento deviazionista di destra”, in grado di poter assumere la successione.
Ma la grande capacità di Zhou Enlai era stata di perseguire il suo destino di fedele ed integerrimo servitore del regime senza urtare ed irritare gli altri dirigenti, di lui ben più passionali ma meno abili. Deng sapeva sì interpretare e farsi portavoce di enormi forze sociali, che alla fine gli avrebbero dato ragione, ma era incapace di assumere le sembianze della maschera di Zhou e di condurre il suo paziente lavoro. Il troppo moderato Deng, che pure aveva svolto le funzioni di Zhou Enlai durante la sua malattia, era assolutamente inviso alla “sinistra” e in quel momento anche all’inebetito Mao Zedong. Il regime, per non incorrere in una nuova gravissima crisi, fra il destro Deng Xiaoping ed il sinistro Zhang Chunqiao, su cui pesava il voto negativo dell’EPL, scelse una figura mediana e scialba, destinata a gloria breve ed effimera.
Il 7 febbraio Hua Guofeng (dal gennaio 1975 Ministro della Pubblica Sicurezza e sesto tra dodici vice primi ministri) riceverà alcuni diplomatici stranieri in veste di acting Premier, facente funzioni di Primo Ministro, vera e propria investitura. Passarono dieci giorni, ed il 18 febbraio anche il “Jenmin Jihpao” lanciò un violento attacco ai “fautori del ritorno al capitalismo”; l’articolo non faceva ancora il nome di Deng Xiaoping ma lo si leggeva chiaramente tra le righe, per la minuziosa descrizione della sua politica. Meno rispettosi, dazibao affissi nelle maggiori Università di Pechino e di Shanghai, fin dal 12 febbraio etichettarono Deng Xiaoping come il “secondo Kruscev cinese” e come il maggior rappresentante del “revisionismo e del capitolazionismo”. Scelte citazioni e dichiarazioni di Mao, alimentarono per tutto il mese di marzo una martellante campagna di stampa contro il potente vice Primo Ministro.
Fu proprio durante questa campagna contro Deng Xiaoping che, con la ricorrenza cinese dei “Qing Ming”, la festa dei morti, si ebbero i “cosiddetti incidenti” di piazza Tian’anmen, dei quali (con una prassi assolutamente insolita negli organi di informazione cinese) l’agenzia Nuova Cina fornì – dopo che la risoluzione del CC ebbe sancito la destituzione di Deng da tutte le cariche e, parallelamente la nomina di Hua a primo vice presidente del CC (e cioè dopo Mao) e a Primo Ministro – un dettagliato resoconto.
Il dispaccio diffuso dall’Agenzia Nuova Cina l’8 aprile, “Gli incidenti controrivoluzionari di piazza Tian’anmen”, conteneva questi significativi passi: «Un pugno di nemici di classe, sotto il pretesto di onorare il defunto Primo Ministro Zhou, ha escogitato ed organizzato, premeditato e pianificato un incidente politico controrivoluzionario sulla piazza Tian’anmen nella capitale. Essi hanno flagrantemente fatto discorsi reazionari, affisso poesie e si sono dati da fare per la creazione di organizzazioni controrivoluzionarie (...) Innalzando apertamente l’insegna di appoggiare Deng Xiaoping, essi hanno forsennatamente diretto la loro punta di lancia contro il nostro grande dirigente il presidente Mao, hanno tentato di dividere il Comitato Centrale del Partito con alla testa il presidente Mao, hanno cercato di cambiare l’orientamento generale della lotta in corso per criticare Deng Xiaoping e contrattaccare il vento deviazionista di destra, di rovesciare le giuste decisioni e si sono impegnati in attività controrivoluzionarie (...) Nel momento di maggiore assembramento la folla sulla piazza era di circa centomila persone. Fatta eccezione per un pugno di pochissimi elementi intenzionati a creare disturbo, la maggioranza era costituita da persone accorse a vedere cosa stesse succedendo (...) I pessimi elementi esclamavano: “chi può controllare questa situazione ? Non lo può nessuno del Comitato Centrale. Chiunque venisse oggi non sarebbe in grado di tornare via”. Chi si opponeva veniva trascinato al monumento degli Eroi del Popolo e costretto ad inginocchiarsi e confessare i propri crimini».
Seguiva la descrizione di come «alcuni pessimi elementi con i capelli tagliati a zero proclamavano la costituzione di un Comitato del popolo della capitale per commemorare il Primo Ministro. Un pessimo elemento con gli occhiali aveva l’impudenza di annunciare che l’Ufficio di Pubblica Sicurezza doveva dare la risposta entro dieci minuti». Il dispaccio paragonava poi Deng al Primo Ministro ungherese Nagy e affermava che i dimostranti di Pechino avrebbero voluto fargli svolgere lo stesso ruolo reazionario di Nagy nella insurrezione di Budapest del 1956. Nella notte, fra il 5 ed il 6 aprile, «su ordine del Comitato Rivoluzionario della municipalità di Pechino decine di migliaia di operai della milizia popolare – in coordinamento con la polizia popolare e i soldati dell’EPL – prendevano misure risolute e applicavano la dittatura del proletariato».
Insomma, i dimostranti furono decisamente bastonati dalla milizia della capitale inquadrata militarmente e armata di bastoni e scudi per il combattimento corpo a corpo. Una bastonatura che era stata preceduta da assalti dei dimostranti a caserme della polizia ed a singoli poliziotti e che ebbe come risultato finale moltissimi feriti e arrestati fra i dimostranti che sembra, ebbero anche alcuni morti.
Fu una manifestazione “spontanea” ? Non possiamo rispondere a questa domanda. Certo, la morte di Zhou Enlai aveva sortito un vasto cordoglio popolare che, con le fortune di Deng Xiaoping in declino, si indirizzò violentemente contro la stessa figura di Mao Zedong (paragonato alla figura dell’imperatore Qin Shi Huang, autocrate repressore degli intellettuali confuciani, fondatore nel III secolo a.C. della Dinastia Qin) e dei suoi stretti collaboratori, contro cui ancora si scagliava la figura del defunto Zhou con le sue scomode ed impellenti “modernizzazioni”. Così recitava una poesia offerta dai manifestanti alla memoria dell’enigmatico Primo Ministro:
«I demoni ululano mentre noi versiamo il nostro dolore; noi piangiamo ma i lupi ridono, versiamo il nostro sangue in memoria dell’eroe, sollevando le nostre sopracciglia sfoderiamo le nostre spade. La Cina non è più avvolta in completa ignoranza. È finita per sempre la società feudale di Qin Shi Huang. Noi crediamo nel marxismo leninismo. Al diavolo gli studiosi che evirano il marxismo leninismo. Non temiamo di versare il nostro sangue e di dare la nostra vita, il giorno in cui sarà realizzata la modernizzazione dei quattro settori, torneremo a offrire libagioni e sacrifici».
Probabilmente, i seguaci di Deng Xiaoping dettero il loro indispensabile contributo alla riuscita della manifestazione antimaoista, allo scopo di ribaltare gli equilibri che andavano realizzandosi al vertice del PCC, nel clima sempre più oscuro e concitato che divideva la Cina dalla morte fisica di Mao. Di fatto, con successo, la cruenta manifestazione che per un po’ le autorità lasciarono andare avanti e svilupparsi, fu sfruttata per vibrare un colpo basso a Deng che risultò vittima di tutta una serie di fattori e forze ben diverse e ben più potenti dei manifestanti, miliziani e poliziotti della piazza Tian’anmen. Il 7 aprile, una riunione del Politburo in sessione straordinaria approvò due risoluzioni; nomina a Primo Ministro e vice presidente del CC del PCC di Hua Guofeng e destituzione di Deng Xiaoping dalle sue tre cariche, vice primo ministro, vice presidente del CC e Capo di Stato Maggiore dell’EPL.
Mentre con Hua Guofeng la burocrazia del Partito, dello Stato e dell’Esercito, senza la presenza dell’ingombrante e mai domo Deng, si apprestava a giocare la partita finale che con la morte biologica imminente di Mao si sarebbe avuta inevitabilmente, quella che fra breve sarà etichettata “Banda dei quattro”, incapace di mettere in piedi un reale movimento di massa da far valere in un eventuale confronto (erano lontani gli inizi della Rivoluzione Culturale) ed impossibilitata di estendere proprie e salde alleanze al vertice del Partito e soprattutto dell’Esercito, riprese i fili delle campagne anti-denghiane già avviate fin dai primi mesi del 1975. Una di queste, come abbiamo visto, era partita da Mao stesso ed era stata poi sviluppata e ampliata da Yao Wenyuan e da Zhang Chunqiao: sotto accusa fu messo il sistema di distribuzione, con particolare riferimento al sistema salariale su livelli vigenti nelle fabbriche cinesi (e Zhang Chunqiao si domanderà retoricamente nel suo scritto se in presenza di siffatto sistema la Cina possa considerarsi socialista); l’altra campagna fu quella, direttamente legata alla prima, contro il cosiddetto “diritto borghese” (cioè il diritto uguale per persone ineguali, trave portante del dichiarato sfruttamento capitalistico), tutte campagne che, non volendo, mostravano l’insufficiente sviluppo capitalistico della Cina e l’arretrato regime di proprietà e di conduzione dell’agricoltura.
Lo scopo di queste campagne era ripetere il successo ottenuto, dopo Tian’anmen, contro Deng, nella misura più ampia possibile ai danni dei quadri centrali e periferici che si riconoscevano nelle sue posizioni. Le campagne si trascinarono stancamente per tutta l’estate e culmineranno penosamente con il tragico terremoto di Tangshan del 28 luglio 1976 nel quale moriranno oltre mezzo milione di persone. Anche il terremoto, evento naturale che l’uomo potrà un giorno con sicurezza prevenire, ebbe il suo significativo peso negli avvenimenti politici. Mentre Hua Guofeng con intelligente tempestività si recò sul posto e diresse le iniziative di soccorso e di prima ricostruzione, Jiang Qing non trovò di meglio che indirizzare alle vittime un telegramma (“Jenmin Jihpao”, 30 luglio 1976) nel quale cinismo e imbecillità si mischiarono e possono anche spiegare sia il relativo isolamento della Banda dei Quattro sia la virulenza delle manifestazioni contro di loro dopo il loro arresto: «Studiate coscienziosamente le importanti direttive del presidente Mao, approfondite e sviluppate la critica della linea revisionista controrivoluzionaria di Deng Xiaoping».
La morte di Mao Zedong avvenne dopo poco più di un mese, il 9
settembre – nella simbolista e tradizionalista Cina molti
avevano visto
nel terremoto e in altre calamità naturali il segno che il
“Mandato del
Cielo” stava per scadere – e finalmente dette il via alla
violenta
chiarificazione dei contrasti politici al vertice del Partito e dello
Stato.
Come in una commedia, all’indomani della morte dell’infallibile presidente, battuto di gran lunga da Zhou Enlai in quanto a cordoglio suscitato, il vertice del PCC fece mostra di compattezza e unità, tutti i maggiori membri del CC parteciparono alle cerimonie in memoria dello scomparso che si tennero dall’11 al 18 settembre sotto la presidenza del giovane Wang Hongwen. Il 18, Hua Guofeng prese la parola e riaffermò i temi fondamentali della linea maoista, ricordò l’esistenza delle classi e delle contraddizioni di classe durante tutta la “transizione socialista”, riaffermò la tesi della particolarità della lotta di classe durante la “transizione”, tutti rigiri di parole per giustificare come dal 1949 la Cina cosiddetta socialista continuava ad essere teatro di enormi lotte sociali e politiche. Citò pedissequamente la formula con cui Mao caratterizzava Deng Xiaoping ed i suoi: «Si fa la rivoluzione socialista, e non si sa nemmeno dov’è la borghesia; ora nel partito esiste: sono i responsabili avviati sulla via capitalistica, che non hanno mai smesso di seguirla».
Nello stesso discorso, Hua Guofeng dichiarò anche che la Rivoluzione Culturale «ha spezzato i complotti di restaurazione orditi da Liu Shaoqi, Lin Biao e Deng Xiaoping, e sottoposto a critica la loro linea revisionista».
Ma gli improperi contro Liu, Lin e Deng erano un cemento che non poteva bastare a mantenere unito il rimasto vertice del Partito che, con la scomparsa di Zhou Enlai e del suo bilancino, doveva, dopo aver accantonato momentaneamente il moderato Deng, gettare la zavorra delle posizioni estreme della sinistra maoista.
Quasi alla scadenza dei 30 giorni di lutto indetti, nella notte fra il 6 e il 7 ottobre, Jiang Qing, Zhang Chunqiao, Wang Hongwen e Yao Wenyuan furono arrestati da un distaccamento della Guardia Speciale addetta al CC comandato da Wang Dongxing, personaggio che allora si guadagnò la poco nobile fama di spalleggiatore del vincitore di turno, e probabilmente dallo stesso Hua Guofeng e da Ye Jianying e Li Xiannian, personaggi che anche secondo le recenti dichiarazioni ebbero un ruolo importante nella disgrazia dei Quattro.
Secondo la cronologia ufficiale, Hua Guofeng l’8 ottobre fu nominato presidente del CC e della Commissione militare del CC, cariche che sommava a quella di Primo Ministro. Lo stesso giorno fu annunciata la costruzione di un mausoleo dove sarebbero state deposte le spoglie di Mao e fu resa pubblica la decisione di stampare il V volume delle Opere Scelte di Mao che comprendevano gli scritti tra il 1949 ed il 1957, evidente mossa del vertice per legittimare il suo nuovo assetto rifacendosi all’autorità ed al prestigio di Mao e mostrandosi come il suo unico depositario ed interprete.
Solo il 15 ottobre, iniziò a Pechino, un po’ in sordina, una campagna di dazibao contro i “crimini della cricca anti-partito dei Quattro”. Non era che l’inizio: se sulle prime la nomina di Hua al massimo vertice del Partito fu annunciata discretamente sulla stampa, il 21 ottobre, ben organizzate in tutte le principali città, imponenti manifestazioni (un milione e mezzo a Pechino) acclamarono la scalata di Hua Guofeng e ufficialmente fu ammessa la sconfitta della “cricca anti-partito dei Quattro”, Jiang Qing, Zhang Chunqiao, Wang Hongwen e Yao Wenyuan furono accusati dei crimini più infami: cospirazione contro il Partito, falsificazione delle parole di Mao, opposizione all’idea di conservare la salma del defunto in un sarcofago di cristallo. Il 22 altro annuncio ufficiale; un “complotto contro i poteri della Repubblica” era stato sventato e gli autori del tentato colpo di Stato, oramai denominati “Banda dei Quattro”, erano stati “liquidati”. Altre dimostrazioni di approvazione furono organizzate in tutte le grandi città. Il 24 ottobre a Pechino, nella piazza Tian’anmen, una enorme folla acclamò Hua Guofeng: “Viva il presidente Hua, che viva mille anni”. Il 25 ottobre, con la destituzione dei Quattro da tutte le loro funzioni, si compiva un altro atto della commedia cinese, una commedia in cui molti inani personaggi hanno dovuto perire sotto le forze sociali da loro stesse evocate.
Come sempre è avvenuto in Cina, quel regolamento dei conti al vertice, incruento quanto verbalmente eclatante, dette il via ad una fase di repressione sanguinosa a danno dei quadri e dei seguaci dei “Quattro” sparsi un po’ in tutto il paese. Nonostante il “Quotidiano dell’Esercito” intitolasse l’editoriale del 29 ottobre: “Il compagno Hua Guofeng è il capo incontestabile del nostro Partito”, questo era ben lungi dall’essere ancora scontato. Una vera e spietata purga iniziò negli ultimi mesi del 1976 e durò per tutto il 1977, coinvolgendo circa un terzo del totale dei quadri del PCC, in maggioranza quelli formatisi dopo la Rivoluzione Culturale; arresti e numerosissime fucilazioni (il cui numero è impossibile valutare) si ebbero per tutto l’immenso paese che in questo modo si apprestava ad accogliere un nuovo clamoroso ritorno del moderato e duro Deng Xiaoping.
La prima importante questione che il nuovo vertice si preoccupò di affrontare, fu la politica agricola che, dopo il burrascoso fallimento della “I Conferenza Nazionale Agricola: Imparare da Dazhai” su cui ci siamo velocemente soffermati, non era stata più riaffrontata e che, pertanto, era una ghiotta occasione per incensare il nuovo capo Hua Guofeng. Ed è appunto poco più di un anno dopo (dal 10 al 27 dicembre 1976), passati appena due mesi dall’arresto dei Quattro, che il “nuovo” gruppo dirigente convocò una “II Conferenza nazionale agraria: Imparare da Dazhai” il cui scopo era appunto quello di dare un “quadro di riferimento politico-programmatico univoco”, intenzione parecchio pretenziosa; alla ribalta furono soprattutto, e non a caso, lo stesso Hua e Chen Yonggui, cioè i due veri mattatori della I Conferenza.
La relazione di Hua si limitò a fare un richiamo conclusivo al rapporto, presentato a nome del CC, da Chen Yonggui e si soffermò a lungo sulla necessità di “esporre i crimini” e portare avanti la critica alla Banda dei Quattro; lo scopo principale sul quale insistette fu l’appello a ricostruire l’unità del Partito intorno al proprio gruppo, secondo i principi enunciati da Mao al tempo della “deviazione” di Zhang Guotao: «Dobbiamo riaffermare la disciplina del partito e particolarmente: 1) L’individuo è subordinato all’organizzazione; 2) La minoranza è subordinata alla maggioranza; 3) L’istanza inferiore è subordinata a quella superiore; 4) Tutti i membri sono subordinati al CC».
Dopo questa premessa, la cui durezza burocratica era perentoria quanto brutale, Hua fece alcune affermazioni di buone intenzioni riguardo la spinosa questione della politica agraria del regime, questione molto più difficile da definire rispetto al fare l’elenco dei “crimini dei Quattro”: «I quadri dirigenti a tutti i livelli devono continuare a prendere parte al lavoro produttivo e mangiare, vivere e lavorare insieme ai lavoratori e ai contadini. Dobbiamo prestare attenzione al benessere delle masse e innalzare il tenore di vita del popolo passo a passo sulla base dell’aumentata produzione».
Più strettamente incentrato sulla situazione nelle campagne e sulle possibili politiche del regime, fu il rapporto di Chen Yonggui che, prima di tutto, dovette descrivere precisi fenomeni in atto nelle campagne cinesi attribuiti, del tutto convenzionalmente, all’“influenza della Banda dei Quattro”: «È riemersa la polarizzazione tra contadini ricchi e poveri, in alcune province il mercato nero fiorisce e l’economia collettiva è polverizzata (...) I quadri sono attaccati come coloro che perseguono la via capitalistica».
Tra i fenomeni, Chen segnalò che: «Fino a tutto il 1975, il 90% delle Comuni e il 60% delle Brigate ha edificato imprese ausiliarie e di trasformazione, per il numero complessivo di 800 mila, contando sulle proprie forze (...) Tranne il caso di eccezionali calamità naturali, dobbiamo constatare che, in presenza dell’accresciuta produzione, il 90% dei membri delle cooperative ha avuto un qualche incremento di reddito».
Chen Yonggui tentò anche di spiegare le posizioni dei Quattro sulla politica agraria, cercando di mantenere le distanze dalle tesi dichiaratamente “produttivistiche” ed “economiste di Deng”, contro il quale da quasi un anno venivano dirette infamanti accuse: «Essi ponevano la politica contro l’economia, la rivoluzione contro la produzione, le relazioni contro le forze produttive e la sovrastruttura contro la base economica, in completa violazione del pensiero di Mao Zedong. Il presidente Mao ha precisato: “Non c’è assolutamente dubbio intorno all’unità di politica ed economia, l’unità di politica e tecnica. Ciò è vero adesso e sarà vero sempre (...) Il lavoro ideologico e il lavoro politico sono la garanzia per compiere il lavoro economico e quello tecnico, e servono la base economica. L’ideologia e la politica sono il comando, l’anima”».
Chen così proseguiva: «Noi critichiamo la tendenza erronea di non affermare la lotta di classe, di non preoccuparsi della politica e di non prendere la via socialista. Certamente, non critichiamo gli sforzi volti ad aumentare la produzione socialista».
Questo tentativo di posizione “mediana” da parte di Chen Yonggui, portavoce in questo caso anche di Hua Guofeng, se momentaneamente ebbe gli onori della cronaca era chiaramente destinato ad un rapido e definitivo insuccesso; aveva voglia Chen di sottolineare la necessità di mantenere un “giusto equilibrio tra consumo ed accumulazione” e che i membri delle Comuni Popolari avrebbero ubbidito all’eterna triade: “Lo Stato, il collettivo e l’individuo” in questo ordine; la meccanizzazione, tanto invocata da Zhou Enlai e contro cui nessuno osava apertamente scagliarsi contro, stava letteralmente minando Dazhai che piano piano, con l’introduzione di macchine da lavoro vedeva saltare i terrazzamenti costruiti con immensi sacrifici per spianare le superfici e renderle adatte all’impiego delle macchine, fatto che doveva contribuire a logorare lo «spirito di sacrificio” e le tante virtù morali maoiste per sostituirle con dichiarati criteri mercantili e produttivi.
Lo Stato, il collettivo di Chen Yonggui, dovevano finalmente totalmente dipendere dalle leggi imperiose ed indiscutibili del modo di produzione capitalistico, dipendenza che per il mondo rurale cinese è enorme passo in avanti rivoluzionario.
Il finale del rapporto di Chen Yonggui merita di essere rilevato: come nella precedente Conferenza, il “ruolo dirigente” dell’intero processo di meccanizzazione veniva affidato ai Comitati di Partito ed ai loro Segretari, altro sgarbo alle tanto blandite masse; in più, minacciosamente, veniva “promesso” che la purga di vertice si sarebbe estesa ai quadri periferici minori, promessa che fu pienamente mantenuta.
Ben più complesso fu il procedere del nuovo vertice per quanto riguardava la “politica industriale”. Il problema primo era quello delle fabbriche che, dopo anni e anni di lotte politiche e di purghe che avevano interessato gran parte dei quadri di partito, dei dirigenti e dei tecnici, avevano totalmente infranto la disciplina, ed insubordinazione e assenteismo erano divenuti efficaci armi dei lavoratori per non farsi schiacciare dalle esigenze dell’accumulazione capitalistica. Già nel 1975, l’importantissimo settore dei trasporti ferroviari aveva visto un’estesa azione rivendicativa e conflittuale i cui effetti a catena si ripercossero in altri importanti settori industriali, tipo la siderurgia, che, per la sua dipendenza dai trasporti ferroviari e per un certo contagio rivendicativo, vide prima ristagnare poi rinculare l’importantissima produzione di acciaio. Nell’agosto 1975, ci furono i violenti scioperi dei ferrovieri di Hankou (una delle tre parti della città di Wuhan) che, in rispetto dell’assioma maoista Produzione=Socialismo, assioma mille volte ribadito anche dalla Rivoluzione Culturale, furono decisamente repressi dall’EPL sotto l’attenta direzione di Deng Xiaoping e di Wang Hongwen, un super destro ed un super sinistro che in quel frangente si trovarono insieme a battersi contro l’ “epidemia anarchica”. Ancor più estesi furono le agitazioni e gli scioperi dei ferrovieri di Zhengzhou, nodo sulla linea Pechino-Wuhan-Canton (ottobre 1976); anche in questo caso ci fu l’intervento risolutore dell’EPL che, pur tuttavia, ebbe bisogno di diversi mesi per arginare prima e soffocare poi la “contestazione” operaia, operazione ben più dura dell’epurazione a “palazzo” compiuta contro i Quattro, accusati, a torto, di essere gli ispiratori degli scioperi e delle agitazioni.
Dopo la caduta dei Quattro, il regime di Hua Guofeng, riprendendo senza nominarle le richieste di Deng Xiaoping sul ritorno a precisi “regolamenti”, disciplina e responsabilità nelle fabbriche, cominciò a moltiplicare sempre più pressanti richiami all’ordine e alla disciplina. Il “Jenmin Jihpao” ed il “Quotidiano dell’Esercito” dal novembre iniziarono la pubblicazione di parole d’ordine produttivistiche e ad annunciare la decisione di ristabilire nelle fabbriche “regole e regolamenti razionali”, tutto condito con accuse sempre più puerili contro il sabotaggio della Banda dei Quattro.
Il mese del gennaio 1977 iniziò subito con manifestazioni e dazibao che reclamavano il ritorno di Deng. L’8 gennaio, primo anniversario della morte di Zhou Enlai, decine di migliaia di persone invasero di nuovo la piazza Tian’anmen e inneggiando allo scomparso Zhou finirono per richiedere il ritiro dell’epurazione di Deng, firmata da Mao nell’aprile 1976 e controfirmata dall’incolpevole Hua Guofeng. Nel febbraio altro importante segnale: il 7 riapparve in pubblico la figura minore di Deng Ken, fratello del tenace Deng Xiaoping, che aveva seguito il suo più focoso consanguineo dietro le quinte della turbolenta scena politica.
Già il 17 marzo, secondo indiscrezioni ufficiose, una riunione del Politburo allargata a molti membri del CC, dirigenti statali e alti ufficiali dell’EPL, decise un rapido ritorno a tutte le sue cariche di Deng, a favore del quale giocavano, potenti forze sociali.
Due giorni dopo, il 19, dazibao affissi a Pechino annunciarono la liberazione dei manifestanti arrestati durante gli incidenti del 5-6 aprile di un anno prima, proprio mentre altri dazibao scandivano il ritmo feroce di esecuzioni pubbliche di partigiani dell’esecrata Banda dei Quattro.
Il marzo vide pure dispiegarsi una capillare campagna per l’ “emulazione socialista” nella produzione e l’intensificarsi di Conferenze nazionali dei settori industriali, tutte incentrate sulla lotta contro il “sabotaggio dei Quattro” e con il dichiarato proposito di aumentare l’efficienza e la produzione. Per tutte, la risoluzione finale della Conferenza ferroviaria, tenutasi a Pechino a fine febbraio:
«Per riportare il grande ordine in tutto il paese e accelerare la produzione industriale e agricola, dobbiamo assicurare che i treni trasportino di più e più velocemente, in sicurezza e in orario, sviluppando la propria funzione di avanguardia. Soltanto incrementando il trasporto ferroviario si può espandere velocemente l’insieme dell’economia nazionale. Perciò l’intero partito deve essere mobilitato e il partito, il governo, l’esercito e il popolo devono coordinare i propri sforzi e fare tutto ciò che è in loro potere per migliorare il trasporto ferroviario e recuperare le perdite causate dall’interferenza e dal sabotaggio della Banda dei Quattro».
In queste Conferenze settoriali cominciarono a delinearsi due posizioni non propriamente identiche, l’una impersonata da dirigenti vicini a Deng Xiaoping quali Li Xiannian e Yu Qiuli, l’altra con a capo il super presidente Hua Guofeng. La prima introdusse cautamente (soprattutto nelle riunioni preparatorie della Conferenza finale ed in particolare nella Conferenza dedicata all’Amministrazione Contabile e Finanziaria) “nuovi” concetti di autonomia delle imprese per spingerle a “investimenti produttivi”, ritornando così a concetti già svolti all’inizio degli anni Sessanta dall’economista Sun Yehfang; l’altra apparve invece più preoccupata di mantenere e conservare certi aspetti di continuità: tipico nei discorsi di Hua era infatti il liturgico richiamo alle «acute lotte tra due classi, due vie e due linee”. L’una e l’altra si ricomponevano su due questioni centrali; ristabilire la disciplina di fabbrica e rilanciare la produzione drasticamente calata durante tutto il 1976.
Per la prima questione, cioè l’organizzazione del lavoro in fabbrica, la Conferenza finale: «Imparare da Daqing”, l’importantissimo campo petrolifero della Manciuria che per lunghi anni ed in parte anche dopo la messa in opera dei pozzi è stato un campo di lavoro forzato, tutti gli oratori insistettero sulla necessità di reintrodurre “regolamenti razionali”, da osservare scrupolosamente.
Ma il problema dei regolamenti, che era poi quello di domare completamente la classe operaia cinese, non poteva certo essere risolto da una Conferenza che al più lo poteva mostrare ed esorcizzare. Si trattava di ben altro, si trattava di rapporti di forza, della capacità materiale del regime di usare sapientemente carota e bastone, unico modo di sconfiggere “anarchia e insubordinazione”.
Scriverà il “Jenmin Jihpao” del 19 luglio 1977, nell’articolo: “Ancora sul cosiddetto controllo e repressione”: «Bisogna non solo opporsi all’anarchismo diffuso dalla Banda dei Quattro, ma anche alla linea revisionista di Liu Shaoqi (...) È erroneo parlare indiscriminatamente di “controllo e repressione” ma ciò non vuol dire che la posizione di Liu Shaoqi era corretta. I regolamenti razionali devono essere rispettati e quelli irrazionali devono essere trasformati. Liu Shaoqi legava mani e piedi agli operai, la Banda dei Quattro voleva abolire tutti i regolamenti, ma noi dobbiamo avere mani e piedi degli operai liberi entro i limiti della legge, o, in altre parole, dobbiamo far sì che mani e piedi della gente siano liberi nei limiti dei regolamenti».
L’articolo, più in là, continuava: «Quando si passa alla grande produzione, che è quella in cui il piccolo produttore diventa classe operaia, è necessaria l’organizzazione e la disciplina. Parallelamente allo sviluppo del movimento per imparare da Daqing nell’industria, sorgerà una nuova generazione di figli e figlie eroiche di Daqing. Senza alcuna sottomissione servile, essi non si piegano davanti a nessun mito. Nei confronti dei nemici di classe, come la Banda dei Quattro, la gente di Daqing ha osato sempre tener loro testa e non si è mai sottomessa. D’altra parte hanno potuto, malgrado l’interferenza dell’anarchismo, mantenersi nei limiti rigorosi della disciplina rivoluzionaria e sottomettersi coscienziosamente all’autorità proletaria. Gli operai di Daqing servano da esempio alla classe operaia».
Come si legge, ogni ragionamento finiva in gloria, cioè in un assillante appello all’ordine e alla disciplina, etichettato come anarchismo ogni opposizione, ogni tentativo della classe operaia cinese di non cedere alle interne necessità dell’accumulazione capitalistica, opposizione e tentativi che dovevano adesso cozzare con il mito del campo petrolifero di Daqing, cresciuto 5 volte dal 1956 al 1977 ma al prezzo di spaventosi sacrifici umani in una delle plaghe più desolate dell’intera Cina. Eppure, era con la disciplina, con l’ordine, con i regolamenti, con l’emulazione socialista che tutti gli ispirati oratori della Conferenza dell’industria intendevano finalmente arrivare ad un aumento spettacolare della produzione industriale, giusta la consegna testamentaria di Zhou Enlai sulle “quattro modernizzazioni”.
Velocissima e facile nostra chiusa: Emulazione ed esaltazione produttiva = confesso capitalismo !
Possiamo ben dire che la breve opera di Hua Guofeng al vertice del PCC e dello Stato cinese ebbe come unico risultato, non poteva del resto essere altrimenti, di rimettere in moto forze sociali che si riconoscevano non in lui ma in Deng Xiaoping, unico dirigente in grado di proseguire senza tentennamenti sulla strada delle “modernizzazioni” indicate da Zhou Enlai, e che certamente poteva contare anche su vasti favori nella potente struttura dell’EPL.
Con il III Plenum del X CC (16-21 luglio 1977), Deng Xiaoping fu reinsediato in tutte le sue passate cariche, all’unanimità così come all’unanimità il Politburo di 15 mesi prima l’aveva esonerato. Il Plenum sanzionò pure la conferma di Hua Guofeng alla presidenza del CC e, soprattutto, ribadì la totale eclissi dell’insultata Banda dei Quattro, estromessa dalle sue cariche ed espulsa dal PCC. Il Plenum infine annunciò l’imminente convocazione dell’XI Congresso del PCC che, come per i due precedenti, si sarebbe svolto con il massimo organo dirigente, il Politburo, quasi dimezzato dei suoi effettivi. Dall’agosto 1973, mese di svolgimento del X Congresso, erano infatti deceduti Mao Zedong, Zhou Enlai, Kang Sheng, Zhu De e Dong Biwu, tutti e cinque membri del Comitato permanente del Politburo, organo che aveva perso anche gli sconfitti Wang Hongwen e Zhang Chunqiao; oltre a questi la lotta politica aveva determinato il tramonto di Jiang Qing e Yao Wenyuan per cui il totale dei membri del Politburo «bruciati” nei quattro anni era di ben 9 su 22 effettivi e 4 supplenti di partenza. Questa situazione necessitava pertanto di un rimpasto altrettanto vasto come quello operato dal IX e dal X Congresso, il primo che seguiva la Rivoluzione Culturale, il secondo l’epurazione di Lin Biao.
L’XI Congresso del PCC si svolse a Pechino dal 12 al 18 agosto 1977 ed ebbe l’evidente funzione di “normalizzare il Partito” e di ratificare i nuovi equilibri determinatisi. Il Congresso ruotò intorno a due scarni e freddi documenti: la relazione di Hua Guofeng, in cui fu ricostruita nella solita maniera agiografica la “vittoriosa lotta contro l’undicesima deviazione in seno al partito”, ed il rapporto per la revisione dello Statuto del Partito, presentato da Ye Jianying.
La relazione di Hua Guofeng quasi per la sua metà si preoccupò di rovesciare sui “Quattro” insolenti accuse: «I Quattro formavano una banda sinistra di controrivoluzionari, di vecchio e nuovo tipo, che si erano infiltrati nel nostro partito. Erano i tipici rappresentanti dei proprietari fondiari, dei contadini ricchi, dei controrivoluzionari e dei cattivi elementi ed elementi borghesi vecchi e nuovi, essi incarnavano l’aspirazione dei nemici di classe dell’interno e dell’esterno di restaurare il capitalismo nel nostro paese».
La lista dei loro crimini fu spropositatamente lunga: Hua Guofeng dopo averli definiti di “estrema destra” (i veri cinesi si sono sempre burlati delle facili etichettature, al contrario dei filocinesi occidentali, oggi quasi del tutto scomparsi), così riassunse la loro azione: «Pretendendo di opporsi alla “teoria delle forze produttive”, i Quattro hanno attaccato i quadri dirigenti che persistevano nel fare la rivoluzione e sviluppare la produzione tacciandoli di “responsabili avviati sulla via capitalistica”. Hanno accusato i quadri, gli operai e i contadini che, rimasti al loro posto, si dedicavano alla produzione per l’edificazione socialista, di “sostenere i responsabili avviati sulla via capitalistica” incitando così ad arrestare il lavoro e la produzione, a sabotare l’economia nazionale. I Quattro tentavano, ma invano, di dirigere la punta di lancia degli organi di dittatura del proletariato contro il Partito, gridando che bisognava “reprimere” e “fucilare” coloro che venivano qualificati come “democratici” o “responsabili avviati sulla via capitalistica”. Inoltre predicavano apertamente la soppressione del nostro partito per sostituirvi le loro “organizzazioni di massa”. Brandendo le bandiere della lotta contro i responsabili avviati sulla via capitalistica tramavano complotti, lavoravano per la scissione e si opponevano al Partito e all’Esercito, nella vana speranza di gettare il paese nel caos».
Ora, a parte le declamazioni di Hua Guofeng, era dal 1966 che l’immenso paese era nel caos, con interi gruppi dei massimi dirigenti che scomparivano e che in parte riapparivano, per l’effetto di immense lotte sociali sulle quali si dispiegava una spietata quanto bugiarda lotta politica. Se i Quattro erano contro la “teoria delle forze produttive” (abbiamo già ampiamente mostrato cosa intendessero i massimi dirigenti della Repubblica con questa espressione), Hua clamorosamente glissava sul fatto che il primo ispiratore di questa avversione era stato lo stesso defunto Mao Zedong. Altro falso era che i Quattro volevano il sabotaggio dell’economia nazionale, anzi erano i genuini interpreti dell’imperativo economico: “fare la rivoluzione e promuovere la produzione” che volevano vedere impazientemente crescere per il duro e gratuito lavoro delle masse operaie e contadine, masse che andavano convinte che così facendo avrebbero raggiunto un «integrale comunismo”. Falso che mirassero alla scissione del Partito e dello Stato, pure loro erano per un potente Partito ed un potente Stato centralizzato solo che, naturalmente, erano convinti dei loro disegni (anche Deng lo era !) e per una Cina potente e borghesemente ugualitaria erano pronti ad affossare i loro avversari con i loro programmi, avversari che erano nel Partito e nello Stato. Sconfitti da immense forze sociali che inevitabilmente, deterministicamente si indirizzarono verso l’economicismo, cioè verso la formazione di capitali e di differenziazioni sodali in tutta la società cinese, i Quattro subirono la sorte che avevano riservato ai loro primi avversari Liu Shaoqi e gli altri, lotta che va descritta per quella che è e che dimostra come per la stessa borghesia, quando si predispone alla realizzazione di vere tappe storiche, il mito dell’Unità sia vuoto simulacro a cui si inneggia ma di cui non si tiene conto, lezione che il proletariato di tutti i continenti dovrà finalmente apprendere.
Nel finale di questa parte della relazione, Hua Guofeng si lasciò sfuggire tre brevi espressioni che molto peseranno sul suo oscuro futuro destino: «L’annientamento della Banda dei Quattro è stato una nuova splendida vittoria della grande Rivoluzione Culturale proletaria (...) Con l’annientamento della Banda dei Quattro, è proclamata la fine vittoriosa della prima grande Rivoluzione Culturale proletaria del nostro paese che è durata undici anni (...) Una grande rivoluzione politica del tipo della grande Rivoluzione Culturale proletaria sarà condotta a più riprese».
Zhou Enlai, quattro anni prima, non si era pronunciato sulla fine della Rivoluzione Culturale ma, nemmeno, aveva proclamato che futuri sconvolgimenti (che di sconvolgimenti si trattava !) avrebbero interessato la macchina del Partito-Stato. Il capitalismo cinese, per spiccare il volo nel mercato mondiale aveva bisogno di “calma” interna, una “calma” che Hua Guofeng, pur proclamando la fine della prima Rivoluzione Culturale, non promise. Il grigissimo burocrate non reggerà all’urto delle forze di Deng Xiaoping che erano poi le forze di Liu Shaoqi e di Chen Yun che pretendevano la sconfessione aperta e dichiarata della Rivoluzione Culturale che aveva avuto come principali protagonisti Chen Boda, Lin Biao, i Quattro e Mao Zedong stesso. Hua Guofeng questo non lo comprese ed insieme alla condanna senza appello della Rivoluzione Culturale verrà anche la sua veloce eclisse.
La relazione di Hua aveva poi una seconda parte titolata: “La situazione e i nostri compiti”, parte che non presentava novità, né piccole né grandi. La politica estera rimaneva immutata con Russia e Stati Uniti come imperialismi appaiati e pericolosi (ci sarebbe voluto ancora un anno perché l’estate e autunno 1978 segnassero una vera e propria offensiva diplomatica cinese: Hua in Jugoslavia, Romania e Iran e Deng in Giappone, Thailandia e Nepal); la politica interna era invece confermata nelle direttive tracciate dalle due Conferenze nazionali, quella agricola “Imparare da Dazhai” e quella della industria “Imparare da Daqing”.
Hua Guofeng ripresentò cose note: «Dare un grande slancio all’economia nazionale significa applicare coscienziosamente la linea generale che consiste nell’edificare il socialismo secondo i principi: adoperare appieno tutte le energie; mirare in alto; quantità, rapidità, qualità ed economia, come la serie di misure politiche per camminare su due gambe significa avviare l’insieme dell’economia nazionale sulla via socialista di uno sviluppo pianificato, proporzionale e rapido; significa prendere l’agricoltura come base e l’industria come fattore guida; significa assicurare uno sviluppo armonioso dell’agricoltura, dell’industria leggera, di quella pesante e degli altri settori dell’economia; significa realizzare un grande balzo in avanti in tutti i campi».
Hua, presentando questi principi andava sul sicuro perché dagli anni Sessanta tutti vi giuravano sopra per poi non trovare un accordo su come praticamente percorrere la difficile strada della riproduzione ed accumulazione capitalistica dell’intera Cina, strada che doveva superare il difficilissimo ostacolo di una sterminata popolazione dedita a lavori agricoli.
Hua riconosceva la vecchia tesi di Deng che “le forze produttive costituiscono il fattore più rivoluzionario che ci sia”, verità del materialismo per l’arretrato mondo contadino cinese, ma per troppa prudenza enunciò il problema senza nemmeno tentare di dare la soluzione, incapacità grave dopo gli undici anni di Rivoluzione Culturale che avevano portato all’XI Congresso del PCC, undici anni in cui vinti e vincitori si erano scontrati proprio alla ricerca della risoluzione di questi difficili quesiti: come introdurre capitalismo nelle campagne senza che le città scoppino travolgendo Partito e Stato ?
Hua Guofeng fece una sola affermazione positiva quando constatò che: «La ricerca scientifica deve guidare l’edificazione economica. Ciò nonostante, essa è oggi in arretrato, essendo stata gravemente colpita dal sabotaggio della Banda dei Quattro. Bisogna risolvere con la serietà dovuta questo problema che implica l’insieme dell’edificazione socialista, per annunciare una prossima conferenza su “scienza e tecnologia”».
Questa seconda parte della relazione di Hua aveva anche altri capitoletti, sul “consolidamento del Partito e dello Stato”. Inchieste, rettifiche, epurazioni tutto doveva servire a disciplinare il numeroso PCC che aveva visto le sue tradizionali e principali caratteristiche di probità, fedeltà e senso delle gerarchie sgretolarsi di fronte agli avvenimenti. Ricompattato il Partito sarebbe poi toccato allo Stato centrale il cui apparato, oltre che disciplinato e reso più efficiente, andava potenziato ed esteso soprattutto per quanto riguardava il suo braccio armato, l’Esercito, questioni queste che erano la struttura del rapporto di Ye Jianying sulla revisione dello Statuto del PCC.
Il vecchio Maresciallo, ancora oggi uno dei massimi dirigenti della Repubblica Popolare Cinese, dovette anche lui iniziare con un rude attacco alle posizioni dei Quattro: «La Banda dei Quattro e i suoi accoliti proclamavano rumorosamente che bisognava “sostituire al partito delle organizzazioni di massa”; in altri termini bisognava sostituire il partito con la loro fazione. Se il loro complotto fosse interamente riuscito il nostro partito avrebbe completamente cambiato colore, sarebbe diventato un partito borghese, fascista, la Cina avrebbe conosciuto una profonda scissione e il caos più assoluto, e sarebbe stata riportata allo stato di paese semi-coloniale e semi-feudale».
Ma a parte le proclamazioni ad effetto per la platea, a parte gli sperticati elogi al defunto Mao, ripresi ed inseriti nello Statuto, Ye presentò tutta una serie di modifiche statutarie per rinsaldare la scassata organizzazione del Partito che doveva riprendere il ruolo che gli competeva nella struttura statale. La denuncia delle “attività settarie e scissioniste”, gli appelli contro gli “intriganti e i cospiratori” che “calpestano l’unità del Partito e attentano la causa rivoluzionaria del proletariato”, ogni singola questione convergeva in precise norme organizzative in cui, per battere “faziosità e anarchismo” si codificava la regoletta super-burocratica e super... democratica già in parte enunciata da Hua Guofeng: «tutto il partito deve sottomettersi alle regole di disciplina del centralismo democratico: l’individuo è sottomesso all’organizzazione, la minoranza alla maggioranza, il livello inferiore al livello superiore, l’insieme del partito al CC», regoletta che, nonostante i tanti elogi che ancora la Rivoluzione Culturale suscitava, mirava proprio ad impedire simili rivolgimenti.
Ye fece approvare l’istituzione di commissioni di controllo e di disciplina, dal CC alle sezioni locali del PCC, ma, soprattutto, per fronteggiare «il serio grado di impurità sul piano ideologico, organizzativo e dello stile di lavoro» determinato dall’ «azione di reclutamento di traditori e di rinnegati» da parte dei Quattro, non ebbe paura a lanciare direttive di «espulsione dei cattivi dementi infiltrati», sull’educazione dei rimasti e per l’introduzione di norme più severe per l’iscrizione ad un Partito che contava allora ben 35 milioni di membri, dei quali quasi la metà iscritti durante la Rivoluzione Culturale e con più di 7 milioni dopo il X Congresso nell’agosto 1973.
Le correzioni di Ye Jianying programmaticamente non apportavano novità sostanziali, era solo una manifestazione importantissima del rinsaldarsi dell’organizzazione del PCC e quindi dello Stato, riorganizzazione che andava nel senso delle “modernizzazioni” a suo tempo evocate dal malato Zhou Enlai.
Non fu quindi un caso che l’allocuzione di chiusura del Congresso, il 18 agosto, fosse affidata al redivivo Deng Xiaoping che in una breve comunicazione diede altri colpi agli sconfitti. Deng accusò che il “buon stile di lavoro del partito” era completamente saltato e dette semplici ricette per ristabilirlo: «Dobbiamo avere realmente fiducia nelle masse e appoggiarci senza riserve su di esse, prestare molta attenzione alle loro voci, preoccuparci delle loro difficoltà e mai rompere con esse, nemmeno per un istante (...) Comportarsi onestamente negli atti come nelle parole, è il requisito minimo di un comunista. Dobbiamo far concordare i nostri atti con le parole, lottare contro il falso splendore e ogni sorta di millanteria, dire meno parole vuote e lavorare di più, con serietà e tenacia».
Le semplici ricette di Deng accusavano che gli undici anni di Rivoluzione Culturale avevano perlomeno incrinato i legami del grande Partito con la massa ancora più enorme dei contadini e degli operai, era un grido di allarme che si concluse con queste parole, quasi letteralmente mutuate dal rapporto di Zhou Enlai alla IV Assemblea del 1975: «Tutto il Partito, tutto l’Esercito e il popolo di tutte le nostre nazionalità (...) mobiliteranno tutti i fattori positivi nel seno del Partito e fuori di esso, all’interno del paese e all’esterno, lotteranno per applicare questa politica d’importanza strategica, basare tutto il lavoro sulla lotta di classe perché l’ordine regni nel paese, consolidare la dittatura del proletariato, fare del nostro paese, prima della fine del secolo, un grande Stato socialista potente e moderno, apportando così un grande contributo all’umanità».
Un rilievo si impone: l’ordine di Deng dell’agosto 1977 “Fare della Cina una nazione socialista potente e moderna” non riprendeva solo quello lanciato da Zhou Enlai nel gennaio 1975, ma riandava ancora più indietro e precisamente al lontano e quasi dimenticato VIII Congresso del settembre 1956. Allora il Congresso terminò con la parola d’ordine: “Edificare la potenza economica cinese” ed aveva avuto come principali relatori Zhou Enlai e Deng Xiaoping appunto. I due congressi pertanto si ricongiungevano, dopo venti anni di virate, di inabissate e risalite, venti anni che pure avevano visto l’economia cinese crescere e svilupparsi, nonostante tutto; il ricongiungimento non era degli uomini anche se molti di allora ressero al tempo e agli eventi ma, di più, il ricongiungimento era di metodi e programmi. L’VIII Congresso aveva avuto la chiarezza di iniziare ad affrontare i difficili quesiti dell’introduzione di capitale nelle campagne e dei ritmi di sviluppo dell’industria, quesiti che negli anni lacerarono però il PCC e lo Stato cinese che subirono i contraccolpi di giganteschi antagonismi economici e sociali. Dopo un lungo arco di lotte sociali, economiche e politiche che ebbero come risultato di scremare il PCC e lo Stato di gran parte dell’originario maoismo, adatto alla formazione dello Stato e ad una primordiale accumulazione primitiva ma non all’industrializzazione dell’immenso paese, si ritornò pertanto agli imperativi dell’VIII Congresso che questa volta vedevano un Partito ed uno Stato decisi a procedere sulla strada di una moderna industrializzazione senza tema di far sviluppare nella società cinese aperte e chiare differenziazioni sociali.
Da questo storico risultato oramai la Cina non poteva più tornare indietro, oramai doveva sviluppare il moderno rapporto di antagonismo fra lavoro salariato e capitale senza mistificarlo con il catechismo maoista.
I 1.510 delegati del Congresso elessero un CC numerosissimo di ben 333 membri di cui 201 effettivi e 132 supplenti che, riunitisi nel loro 1° Plenum il 9 agosto, elessero il Politburo che raccoglieva la difficile eredità di 11 anni di sconvolgimenti sociali e politici.
Membri del Comitato Permanente erano designati Hua Guofeng, Ye Jianying, Deng Xiaoping, Li Xiannian e Wang Dongxing. I cinque erano affiancati da oltre 18 membri effettivi. Il potente gruppo dei militari comprendeva i due Marescialli Liu Bocheng e Xu Xiangqian (quest’ultimo ex Ministro della Difesa e ripescato dal Politburo dell’VIII Congresso); i Generali Xu Shiyou, Chen Xilian, Li Desheng, Wei Guoqing e Su Zhenhua (già eletti nel passato Politburo) erano affiancati da Zhang Tingfa, Generale e comandante dell’Aviazione; i confermati Ji Dengkui, Chen Yonggui e Ni Zhifu venivano affiancati da Yu Qiuli (vice primo ministro e direttore della “Commissione di Piano di Stato”), Fang Yi (presidente dell’Accademia delle Scienze e Ministro delle Relazioni economiche con l’estero), Geng Biao (specialista delle relazioni cino-giapponesi e direttore del dipartimento Affari Esteri del CC), Ulanhu (membro del Politburo dell’VIII Congresso e una delle grandi vittime della Rivoluzione Culturale), Wu De (Sindaco di Pechino) e Peng Chong (segretario del Comitato di Partito di Shanghai). Fra i supplenti, il confermato Seypidin aveva come colleghi Zhao Ziyang (Segretario della Provincia del Sichuan e Commissario politico della Regione Militare di Chengdu) e la signora Chen Muhua (una vice di Fang Yi).
I cinque anni a venire che porteranno al XII Congresso del PCC (settembre 1982) naturalmente vedranno una parte di questi uomini retrocedere (Hua Guofeng e Wang Dongxing) o anche sparire (Chen Yonggui e Ni Zhifu, i due contadini modello) mentre altri manterranno e miglioreranno le proprie posizioni, ma, particolare importante, il vertice dell’XI Congresso non conoscerà brutali cadute con infamanti accuse né improvvise risalite.
Come già detto, con l’XI Congresso si chiude un ciclo e se ne apre un altro in cui non potevano accadere clamorosi avvenimenti ma in cui prosaicamente il regime avrebbe più che altro tirato le lezioni, borghesi s’intende, di tutto il burrascoso periodo precedente.
Saranno anni di aggiustamenti e di rettifiche, lievi rispetto ai bruschi salti degli anni Sessanta e di buona parte di quelli settanta, anni in cui il vero padrino della potenza borghese della Cina, Deng Xiaoping, non avrà bisogno di gesti clamorosi per dar via libera allo sferragliante convoglio dell’accumulazione e industrializzazione capitalistica.
Prima di affrontare l’andamento dell’economia in generale e prima di stilare le conclusioni di questo lavoro, invero spesso difficoltoso e niente affatto sintetico, tratteremo del commercio estero cinese, settore trascurato dalla nostra indagine e che avrebbe meritato ben altro spazio ed approfondimento. Se così fosse stato sarebbe risultato, fin dall’inizio, una complementarietà della politica seguita nel campo del commercio estero dal regime di Pechino e l’intero corso delle lotte politiche e sociali succedutesi nell’immenso paese, questo anche se le grandezze dell’intero commercio estero cinese sono sempre state relativamente modeste, infatti, dal 1949 in nessun anno ha superato il 5-6% del PNL, né è mai stato superiore al 2% del totale delle esportazioni mondiali. Il capitoletto darà pertanto un’ulteriore prova della giustezza delle tesi fin qui sostenute dal lavoro.
Un passo indietro. Nel XIX secolo il Celeste Impero dovette subire il vittorioso assalto dei fucili, dei cannoni, delle navi europee e nordamericane che violentemente aprirono alle merci occidentali quel nuovo immenso mercato.
Il trattato di Nanchino del 1842, nonché tutta una serie di altri trattati imposero il diktat occidentale sui porti commerciali, privarono la Cina dei diritti sovrani in campo doganale e di tutto quello che aveva attinenza con il commercio estero: le banche, i controlli statali delle merci, le assicurazioni, il trasporto marittimo, i depositi. Insomma, impossibilitate da evidenti ragioni materiali a conquistare l’interno dell’immenso paese, fino al 1949, le potenze occidentali monopolizzarono il commercio estero cinese.
L’orgogliosa civilizzazione “unica” ed “avanzata” della società cinese fu infranta dall’imperialismo che sviluppò commerci e ruberie e anche enclave industriali in cui si formò un giovane, concentrato e combattivo proletariato industriale ancora piccola minoranza rispetto all’immenso mondo rurale. Per determinate ragioni, la cui indagine esula dalla nostra già lunga trattazione, non si ebbe però un processo di accelerata modernizzazione produttiva-industriale come, ad esempio, si svolse nel Giappone col “governo illuminato” del regno del Meiji.
L’incapacità del decadente regno dei Manciù, l’impotenza della prima Repubblica del 1912, la corruzione del regime di Jiang Jieshi, tutto concorse non solo ad impedire lo svilupparsi di moderni ed estesi rapporti di produzione borghesi e mercantili che erano ben lungi da conquistare l’arretratissima e popolatissima regione rurale con un’economia chiusa in sé, ma anche a determinare una vera diaspora dei giovani dell’intelligenza che, fin dai primi del Novecento si recarono nell’occidente capitalistico (Francia, Germania, Inghilterra) ed in Giappone a studiare discipline scientifiche, ingegneria e medicina in testa, per appropriarsi della “tecnica” occidentale che, da strumento di sottomissione della Nazione Cina, doveva diventare, per quei giovani borghesi, una potente arma per la sua redenzione.
Lo stesso Sun Yat-sen non a caso compì questa esperienza e, sincero quanto ingenuo borghese, iscrisse nel suo programma di sviluppo e crescita capitalistica del decadente Impero di Mezzo precisi riferimenti al «capitalismo estero”, da utilizzare da parte di un’integerrima macchina statale che, non impaurita di fronte ai moderni ritrovati della scienza e della tecnica, sarebbe riuscita a fare della Cina una grande potenza.
Solamente con il 1950, immediatamente dopo la proclamazione della Repubblica Popolare, il nuovo governo cinese abolì gli enormi privilegi concessi alle potenze occidentali e riprese il completo controllo sul commercio estero, monopolio statale, che inevitabilmente si diresse quasi totalmente verso la Russia stalinista. La strombazzata “amicizia russo-cinese” risolse temporaneamente il quesito sull’apporto esterno da utilizzare per la costruzione di una Cina moderna ed industriale; l’apporto esterno fu quello del fratello di Mosca.
La rottura ed il ritiro dei tecnici da parte di Mosca nel 1960, fu per il regime di Pechino uno shock che dette ulteriore fiato a tutte le motivazioni e le componenti, del resto giustificate, di autosufficienza e mobilitazione pressoché esclusiva delle risorse interne, posizioni queste che ebbero allora nel mite Liu Shaoqi un gran bel campione che seppe accettare quel duro isolamento senza battere ciglio, avendo la forza, in piena coesistenza pacifica, di tenere l’enorme paese, affamato di merci e capitali, in silenziosa disparte.
Certo fu la rottura con Mosca a convincere i dirigenti cinesi, temporaneamente obbligati ad erigere lo slogan: “contare sulle proprie forze”, a mai più affidarsi ad un unico partner commerciale per il reperimento di macchinari e tecnologia avanzata, unico modo per sanare la terribile arretratezza delle campagne e dell’industria cinese.
Un commento alla nostra tabella. Dal 1950 al 1960 le importazioni aumentarono in media il 14,7% l’anno, le esportazioni un po’ meno, il 13,6% l’anno; l’intero periodo vide quindi un deficit di ben 640 milioni di dollari che andava a sommarsi ai forti prestiti da restituire a Mosca. La rottura dei rapporti russo-cinesi vide crollare il commercio fra i due paesi ed anche l’intero commercio estero di Pechino: da 4.290 milioni di dollari del 1959 si scese nel 1960 a 3.990, a 3.015 nel 1961, a 2.675 nel 1962, minimo dell’intero decennio.
Una stretta autarchica permise alla Cina di accumulare, dal 1961 al 1970 (anno in cui il totale del commercio raggiunse il valore del lontano 1959 e anno anche di deficit dopo l’eccezione del disastroso 1967) un saldo positivo di ben 1.555 milioni di dollari.
Senza nessun debito con la Russia, orgogliosamente onorati da Pechino fin dal 1965, il regime cinese aveva accumulato un piccolo gruzzolo da spendere sul mercato internazionale. Una prima svolta si ebbe bruscamente con i primissimi anni Settanta quando il nuovo boom dell’economia cinese, uscita dai rivolgimenti della Rivoluzione Culturale cominciò a trovare disponibili, in accanita concorrenza, tutta una schiera di partner commerciali, di paesi che decidevano di stabilire con la Repubblica Popolare normali rapporti politici ed economici.
Con il fioccare dei riconoscimenti diplomatici, ebbero come
momento
culminante l’ingresso della Cina nelle Nazioni Unite, l’annoso problema
“contare sulle proprie forze”, utilizzare l’apporto esterno, ridivenne
da questione astrattamente teorica questione reale d’indirizzo di
politica esterna ed interna che, pur rimanendo fisso lo zenit di fare
della Cina una grande potenza, ammetteva variegati atteggiamenti e
soluzioni la cui definitiva risoluzione avrebbe demandato nuove lotte
politiche.
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L’apertura cinese ebbe come suggello il viaggio, febbraio 1972,di Nixon in Cina e il comunicato cino-americano di Shanghai che pur essendo ancora lontano dal pieno ristabilimento diplomatico dei rapporti fra i due paesi, stabiliva che:
«Entrambe le parti considerano il commercio bilaterale come un’area dalla quale possono essere tratti reciproci benefici, e concordano che le relazioni economiche basate sull’eguaglianza e sul mutuo beneficio sono nell’interesse dei popoli dei due paesi».
Fu un indubbio successo diplomatico di Zhou Enlai il quale approfittando di rapporti internazionali oramai propizi, inseriva la Cina nell’immensa ed insidiosa palude del mercato mondiale; la Cina, dopo poco più di venti anni dalla proclamazione della Repubblica Popolare, in cui con certosina pazienza aveva accumulato forze e capitali, si apprestava a nuovi “balzi in avanti”, meno romantici di quelli del passato maoista ma certo più “redditizi”, con il chiaro scopo di migliorare ed incrementare tutto il suo sistema produttivo, in particolare, inizialmente quello industriale.
Il “contare sulle proprie forze” incominciava ad essere sinonimo di commercio con l’estero e la Cina tentava di rompere il bipolarismo imperante presentandosi come solido partner commerciale e decisa figura politica e militare.
Come possiamo vedere dalla tabella riportata, l’intero commercio estero cinese dai 4.290 milioni di dollari del 1970 passò ai 9.870 del 1973 e ai 15.055 del 1977, una salita vertiginosa che travalicò l’aspro scontro politico di quegli anni, scontro che avrebbe infine raccordato tutte le prese di posizione teoriche con l’intera evoluzione commerciale del grande paese, irreversibile.
Si è detto raccordare, infatti, l’apertura internazionale della Cina a partire dal 1970 e lo sviluppo sempre più rapido delle sue relazioni commerciali con l’esterno non poteva andare di pari passo, all’unisono, con la generalità delle posizioni dei vertici molti dei quali, rifacendosi a motivazioni di “mobilitazione sociale” sulle quali tante volte ci siamo soffermati, insistevano nel voler mantenere circoscritto l’impatto del commercio estero sullo sviluppo dell’economia e continuavano a ribadire la necessità della sua autosufficienza.
Se da un lato i responsabili del commercio estero (che altro non facevano che applicare le direttive politiche del Governo, cioè di Zhou Enlai e, dall’aprile 1973, del suo vice, Deng Xiaoping) si adoperavano per incrementare tanto le importazioni quanto le esportazioni, determinando nel quadriennio 1970-73 una crescita dell’interscambio del 53% di fronte ad un aumento del 21% del PNL, dall’altro, contemporaneamente, prese di posizione di organi ufficiali di informazione continuavano a mettere in guardia il regime contro questo fenomeno, plaudivano sì al commercio ma aggiungevano subito che doveva «permettere di essere più autonomi, di contare soprattutto sulle proprie forze nella costruzione del socialismo».
Nonostante questi allarmi, l’anno 1973 vide notevoli cambiamenti nel settore del commercio estero: non solo la Cina firmò contratti per impianti completi per un valore sei volte superiore al totale degli acquisti fino ad allora fatti dal 1960 in poi, ma anche le stesse modalità di pagamento registravano delle novità. La Cina che nel 1973 firmò ben 22 contratti di impianti completi per un valore di 1.246 milioni di dollari, accettò di pagarne una parte, per un valore di 815 milioni, nelle forme di pagamento dilazionato in un periodo di 5 anni e, infine, accettò il ricorso ad alcune forme di credito interbancario.
In piena espansione dell’interscambio commerciale della Cina con il resto del mondo, Deng Xiaoping dette altri colpi alle tesi di autosufficienza e di autarchia intervenendo alla sessione straordinaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dedicata ai problemi delle materie prime e dello sviluppo, il 10 aprile 1974.
Deng, non intimorito dall’ancora vasta influenza dei fautori della Rivoluzione Culturale e della mobilitazione sociale, dopo aver indicato nel peggioramento delle ragioni di scambio, nell’indebitamento, nel neocapitalismo, i motivi del sottosviluppo di gran parte del mondo, fenomeni nella loro sostanza e con altra chiarezza già indagati dal marxismo classico, propose la creazione di accordi politico-economici quali quello, additato ad esempio, sul petrolio per stabilire prezzi “razionali” delle materie prime, in una soluzione che non ha certo scalfito l’enorme corazza dell’imperialismo occidentale sotto cui gemeva e geme buona parte dell’umanità.
Ma tant’è; dopo una scoccata a Mosca:«Questa ha l’abitudine di vendere impianti tecnologicamente superati e armamenti di scarto a prezzi enormi, in cambio di materie prime di importanza strategica e di prodotti agricoli», Deng presentò il suo piano: «Contare sulle proprie forze non significa affatto “ripiegarsi su se stessi” e rifiutare l’aiuto esterno. Noi riteniamo da sempre che è benefico e necessario per lo sviluppo dell’economia nazionale dei diversi paesi di procedere – sulla base del rispetto della sovranità di ciascuno Stato, dell’eguaglianza e dei vantaggi reciproci come pure in funzione dei bisogni di ciascuno – a degli scambi economici e tecnici allo scopo di completarsi reciprocamente».
Deng passò poi ad elencare quali dovevano essere le pre-condizioni politiche dell’aiuto: il rispetto dei “cinque principi della coesistenza pacifica” (enunciati da Zhou Enlai alla Conferenza afro-asiatica di Bandung nel 1955) e la rinuncia a collegare all’apporto esterno “alcuna condizione politica e militare”, cosa relativamente facile da realizzare per la vasta e popolosa Cina ed invece altamente difficile per, mettiamo, il minuscolo Stato africano del Burundi !
Sul problema dei debiti Deng chiese una proroga od un annullamento e che i nuovi crediti fossero concessi senza interesse o a bassissimo tasso, insomma Deng chiedeva al capitalismo occidentale “buona volontà” e metodi umani nel condurre i propri commerci. Lasciando però da parte la facile critica al suo utopismo propagandistico, il fatto importante era un altro: la Cina nel mercato mondiale ci stava e non aveva intenzione di lasciarlo per cui tentava in ogni maniera di ottenere migliori condizioni di esportazione e migliori condizioni di pagamento delle importazioni !
L’anno 1974, come per l’anno precedente, vide le importazioni aumentare sensibilmente più delle esportazioni e dal deficit di 80 milioni di dollari del 1973 si passò a quello ben più consistente di 1.625, deficit che fu mantenuto anche nell’anno successivo con un meno 985 milioni. Il minore deficit del 1975 fu soprattutto per la forte crescita delle esportazioni di petrolio che, indirettamente, beneficiarono della crisi petrolifera internazionale (il Giappone, principale acquirente, ne importò per un miliardo di dollari). Seppure in misura minore rispetto all’anno 1973, nel biennio 1974-75 continuarono gli acquisti di impianti industriali completi: 12 per 747 milioni nel 1974 e 11 per 824 nell’anno successivo. Le fabbriche di urea (fertilizzante essenziale) acquistate nei tre decisivi anni furono ben tredici, altro smacco per la passata e condannata politica di voler dotare ogni Comune Popolare di una piccola e propria fabbrica di fertilizzanti.
Questi tre anni di forte espansione dell’interscambio commerciale con il resto del mondo, anni in cui il Giappone diventò il principale partner commerciale di Pechino, furono anche tre anni di continuo deficit commerciale e posero il problema di come aumentare le esportazioni, di come cioè Pechino poteva finanziare l’acquisto degli indispensabili macchinari ed impianti, indispensabili per realizzare le “quattro modernizzazioni” annunciate da Zhou Enlai alla IV Assemblea Nazionale Popolare del gennaio 1975.
Fu Deng Xiaoping ad affrontare direttamente anche questo problema. Il suo documento: “Alcuni problemi riguardanti l’accelerazione dello sviluppo industriale”, preparato e discusso tra l’agosto ed il settembre 1975, forniva le direttive dei “moderati” per realizzare il programma delle “quattro modernizzazioni”: «Per accrescere le importazioni di tecnologie avanzate straniere, le esportazioni devono essere aumentate e in particolare dobbiamo aumentare al più presto la percentuale di prodotti industriali e minerari esportati».
Deng intendeva quindi ridurre la percentuale di prodotti alimentari nel totale delle esportazioni che erano il 25% nel 1966 e il 20% nel 1974 e erano altresì indispensabili per elevare il bassissimo livello di vita delle popolazioni. Continuava il documento: «Ogni Ministero dell’Industria deve studiare la domanda del mercato internazionale e ricercare attivamente di accrescere la produzione dei prodotti che possono assicurare valuta straniera (...) Per accelerare lo sfruttamento dei giacimenti di carbone e di petrolio possiamo, a condizioni di vantaggio reciproco, considerare l’adozione di certe procedure correnti nelle transazioni internazionali, quali i crediti a lungo termine e contratti, sempre a lungo termine. In certi settori produttivi possiamo importare da paesi stranieri impianti completi da ripagare con la nostra produzione di petrolio e carbone» (come del resto accadde dal 1978 in poi).
La proposta di Deng era chiara e non sciocca, al capitalismo occidentale, Giappone compreso, chiedeva capitali e macchinari moderni e non disponendo di divise a sufficienza né accettando un cronico indebitamento, prometteva in pagamento futuri prodotti da estrarre proprio con quegl’impianti e quei macchinari da importare. La potente Cina, con la sua rete di protezione del monopolio statale del commercio estero, poteva borghesemente e mercantilmente proporre al capitalismo mondiale la sua proposta che la crisi produttiva e commerciale, che allora si stava già delineando, rendeva molto appetibile, e qui il furbo Deng mostrava di aver, a suo tempo, masticato materialismo e marxismo in misura maggiore di Mao e dei suoi. Lo Stato cinese aveva ed ha come compito di sviluppare capitalismo, tappa storica in quella parte dell’Asia, Deng Xiaoping di questo ne era cosciente, il suo tradimento del marxismo rivoluzionario era già avvenuto e si era consumato in altri campi che in quello “economico”.
Altro rilievo. Deng Xiaoping, come nella tradizione della Repubblica Popolare, per il reperimento delle divise necessarie al finanziamento delle importazioni puntò sempre all’espansione delle esportazioni, considerando il ricorso alle varie forme di credito (di fornitori o di banche) come uno strumento meramente congiunturale, favorito in questo dalle dimensioni relativamente modeste dell’intero commercio cinese.
Dopo la morte di Zhou Enlai e la nuova destituzione di Deng Xiaoping, le pubblicazioni dei Quattro si fecero alfiere e paladine di una pretesa sovranità nazionale offesa. Una per tutte: la rivista di Shanghai “Studio e critica”, giugno 1976, così argomentava per mezzo di un ipotetico “gruppo operaio”: «Per elemosinare dai capitalisti stranieri tecnologie avanzate e impianti, Deng Xiaoping non esita a offrire in cambio le preziose risorse del nostro paese; è un atteggiamento spregevole di servilismo, una perdita di sovranità e un’onta per il paese, noi operai eravamo sul punto di esplodere dalla collera (...) Attenendosi a questa “grande politica” avremmo dovuto importare senza limiti le cose che possiamo produrre, e viceversa esportare a tutto spiano le cose di cui abbiamo bisogno. Di questo passo, il nostro paese non sarebbe forse diventato, per l’imperialismo, un mercato di sbocco, un fornitore di materie prime, un’officina di riparazione e montaggio, una sede di investimenti di capitale ? E noi operai non saremmo forse diventati lavoratori salariati dei capitalisti stranieri ?».
Concludeva la rivista: «I capitalisti stranieri forniscono le tecnologie e gli impianti, utilizzando le risorse minerarie e manodopera cinese, si fanno arricchire i padroni stranieri (...) Quella che ha visto i padroni stranieri arricchirsi col sangue e il sudore di noialtri operai è una pagina di storia che non dimenticheremo mai. Perduta l’indipendenza sul piano economico, non si può essere autonomi su quello politico. Questa “grande politica” di Deng in realtà voleva dire una grande capitolazione di fronte all’imperialismo e al socialimperialismo, una grande svendita della sovranità nazionale. Noi della classe operaia non possiamo assolutamente permettere questo !».
Gli ultimi sussulti dei quattro ebbero bellicose dichiarazioni: «Riponendo fiducia nella saggezza delle masse tutti i miracoli sono possibili. Molte cose che nel passato erano considerate impossibili, senza servirsi degli impianti stranieri, sono state realizzate dalle masse contando soltanto sulle proprie forze, le masse operaie della Cina percorreranno nuove strade sconosciute allo stesso proletariato occidentale» (“Bandiera Rossa”, aprile 1976).
Ma l’apertura cinese non poteva certo essere arrestata da articoli e da appelli. Risultato di vere forze economiche e sociali continuò imperterrita nonostante la nuova tornata di scontri politici del 1976-77, anni che nuovamente videro ritornare attiva la bilancia commerciale (di 75 mil. di dollari il primo anno, di 855 il secondo), risultato che si ebbe non certo per il ritorno a tesi di autosufficienza e di “contare sulle proprie forze” ma per un semplice rallentamento delle importazioni e per la massiccia esportazione di petrolio verso il Giappone. Il commercio cinese prendeva solamente fiato, ricostruite sufficientemente le riserve granarie e quindi bloccate le importazioni alimentari, il sistema economico produttivo doveva inserire “redditivamente” nel proprio tessuto, i costanti e notevoli acquisti di impianti e macchinari fatti dal 1973 al 1975, la strada dell’apertura era senza ritorno !
Gli stessi “interessi nazionali” che erano invocati dai Quattro, pretendevano questa apertura, richiedendo oltre a capitali per l’industria e l’agricoltura, una modernizzazione del pletorico EPL, capace baluardo interno della centralizzazione statale, ma meno che niente nei confronti dei potenti eserciti russi ed americani ed anche nord vietnamiti. La potente gerarchia militare pretendeva un esercito moderno ed efficiente (fattore indispensabile per il ristabilimento della tradizionale influenza cinese in tutto il sud-est asiatico) ed i suoi desideri combaciavano con quelli di coloro che propugnavano una accelerazione del processo di modernizzazione dell’intera economia.
Questi fattori si sommavano all’atteggiamento della classe operaia, che per vent’anni era chiamata alla realizzazione di “miracoli” ed a percorrere “nuove strade”, che in realtà altro non erano che l’estensione gratuita dello sforzo lavorativo, con una continua estorsione di sangue e sudore proletario per innalzare, con l’impiego di macchie spesse volte tanto “rivoluzionarie” quanto inutili, il vuoto simulacro di una potente Cina borghese. A parte i sussulti della rivista di Shanghai, gli operai cinesi non furono percorsi da fremiti di collera per le proposte di Deng né si strapparono i capelli per il carbone ed il petrolio offerti in cambio di investimenti esteri; la classe operaia, abituata a inenarrabili fatiche durante i venti e più anni di autarchia ed autosufficienza, si aspettava anzi con l’arrivo di capitali esteri di migliorare, seppur di poco, le proprie dure condizioni di esistenza e di fronte a questo materialissimo fatto, niente potevano le diane nazionaliste di coloro i quali, durante la Rivoluzione Culturale, si erano battuti con inusitata energia contro l’ “economicismo” e le rivendicazioni operaie.
Giunta alla fine del loro ciclo che era il ciclo dell’originario maoismo e che ha dato tutto quello che borghesemente prometteva, i Quattro si ritrovarono soli, sospesi in aria, ed il loro sempre più accentuato radicale verbalismo non riuscì ad impedire il netto crollo.
Significativamente, l’anno 1977, primo anno del dopo Mao, vide un nuovo “balzo in avanti” del commercio cinese con un più 26% rispetto all’anno precedente, per il record delle esportazioni (7.955 milioni di dollari, +32% rispetto al 1976) e per la risalita delle importazioni (7.100 milioni di dollari, +18,1%).
La strada del mercato mondiale, una strada che porterà il giovane capitalismo cinese ad una sempre maggiore vulnerabilità alle periodiche crisi economiche mondiali, e quindi ad un suo completo coinvolgimento in tutti gli eventi del capitalismo internazionale, richiesta imperiosamente dalla forza sociale del giovane capitalismo cinese una volta imboccata doveva essere percorsa fino in fondo, senza ripensamenti e tentennamenti.
Questo complesso processo, di cui abbiamo dato le caratteristiche fondamentali, doveva sbarazzarsi del libretto rosso delle Guardie Rosse, del volontarismo di Mao e dell’enfasi verbale dei Quattro, e lo faceva stritolando figure un momento prima situate nell’olimpo degli eroi spingendo sulla scena nei ruoli dei protagonisti nuovi-vecchi attori, grandi fessi quando pretendono di esporre personali tesi, ed anonimi agenti dell’accumulazione capitalistica quando ripongono nel cassetto la propria personalità e accettano di fare da semplici amplificatori delle potenti forze sociali che agiscono nel sottosuolo economico.
Ci sia concesso dire che, in questo anonimato, Liu Shaoqi, Zhou Enlai e Deng Xiaoping sopravanzano di una spanna Mao Zedong e avanzare un augurio: che dopo questi potenti campioni di forze sociali borghesi, anche il proletariato cinese si ridia il proprio campione, il Partito Comunista Rivoluzionario, rintracciando nelle sue tradizioni di lotte il filo rosso del marxismo, aprendo, dopo il ciclo borghese glorioso e tragico insieme, il ciclo proletario che finirà con il comunismo, certezza di scienza !
Trattando dello sviluppo della produzione agricola nel periodo 1969-73, rilevammo come il regime di Pechino, di fronte allo sterminato mondo rurale, detentore dei cereali e quindi della chiave fondamentale dell’alimentazione, fosse stato costretto alla più completa inazione e, riposte le iniziative ed il volontarismo degli anni 50, avesse infine accettato ciò che si era determinato nelle campagne. Ricordiamolo velocemente: la Squadra di produzione (il villaggio, in genere) era pienamente responsabile dei propri profitti e delle proprie perdite; le Brigate e le Comuni, pur con funzioni diverse, erano divenute semplici organi amministrativi che poco, pochissimo, potevano riguardo i “piani produttivi” delle Squadre; le Squadre vedevano diminuite le imposte ed anche gli acquisti obbligati di cereali e cotone da parte dello Stato; lo Stato ammetteva e proteggeva gli appezzamenti privati (inseriti anche nella Costituzione del gennaio 1975), le attività private delle famiglie contadine e i mercati liberi rurali dove si vendevano gli importantissimi prodotti agricoli sussidiari (polli, uova, maiali, prodotti ortofrutticoli). Sintetizzando: “collettivismo” al minimo livello e continuazione ed estensione delle misure liberali di inizio anni Sessanta, affermatesi dopo il fallimento del Grande Balzo in Avanti.
Il periodo 1974-77, fu anch’esso di uno zero assoluto riguardo la politica agraria del regime, zero che era nettamente risaltato con le due Conferenze Nazionali “Imparare da Dazhai” che, seppure a distanza di un anno l’una dall’altra (15 settembre - 19 ottobre 1975 e 10-27 dicembre 1976), si erano dovute limitare a descrivere e denunciare i tanti episodi di “polarizzazione sociale” e di corruzione nelle campagne ed a riaffermare il ruolo di unica guida del Comitato di Partito nella direzione delle Comuni e delle Brigate. Un po’ poco per due Conferenze dalle tante pretese bloccate dal liturgico e simultaneo richiamo al “produttivismo” e alla “lotta di classe” che le portò a dare nessunissima direttiva.
Lasciato a sé stesso ed ai suoi modesti ma incessanti traffici, purtroppo totalmente ignorati da ogni rilevamento statistico, il mondo contadino, che imperterrito aveva assorbito, senza nulla mutare, prima le Guardie Rosse poi le continue immigrazioni di giovani dalle città, ebbe però la forza di aumentare ancora la produzione e di assicurare alla crescente popolazione quote pro-capite annue di cereali praticamente immutate, con una relativamente modesta importazione di cereali (7 milioni di tonnellate nel 1974; 3,3 nel 1975; 2 nel 1976; 4 nel 1977). Lo vediamo benissimo dalla nostra tabella con i 299 chili pro-capite del 1977, due in più rispetto al 1973 e tre in meno rispetto al lontano 1957, dati statistici confermati dalle colonne degli aumenti medi annui, per tutti e due i periodi (ultime due colonne).
Neanche per la produzione, altrettanto importante, del cotone i risultati furono particolarmente brillanti. Il periodo 1974-77 vede anzi la quota scendere da 2,6 milioni di tonnellate del 1973 a 2,07 del 1977, con una diminuzione media annua del 5,7%, regresso che vanificava il miglioramento avutosi nel periodo precedente e che riportava la produzione del cotone al livello di quella del 1969, persino un po’ maggiore. Considerando il lungo periodo 1958-77, la produzione di cotone cresce alla media annua dell’1,3%, inferiore alla crescita della popolazione.
In generale, quindi, la produzione del mondo rurale era ben lontana dai relativi successi di quella industriale; cotone e cereali, produzioni il cui commercio era assicurato legalmente totalmente dallo Stato, erano produzioni che battevano la fiacca, schiacciate dalla mancanza di capitali da impiegare da parte dello Stato nel mondo rurale e dal peso della popolazione delle campagne accresciutasi anche per la politica del regime di spegnere le tensioni sociali nelle città inviando i giovani nelle campagne.
Produzioni agricole che forse prosperavano, ma i cui dati ci sono a noi preclusi, erano quelle attività sussidiarie private dei contadini (animali da cortile e prodotti ortofrutticoli), produzioni che, se aumentavano di qualcosa il bassissimo livello di vita dei contadini, contribuendo anche ad un illegale rifornimento delle città, erano, d’altronde, una ragione della stabilità sociale delle campagne e della loro staticità.
[ Quadro delle principali Produzioni 1949-77 ]
Rimaneva il fatto, tuttavia, che seppure a bassi livelli erano mantenute le quote di cereali disponibili pro-capite, vero successo perché di fronte alla sempre crescente popolazione (646 milioni nel 1957, più 300 milioni nel 1977) la estensione di terre coltivate era rimasta praticamente uguale ai 110 mil. di ettari del 1957, terre difficili e per buona parte sfruttate da millenni, terre bisognose di attentissime e pazienti cure.
Certo, dal 1957 al 1977, il regime era riuscito, attraverso il duro lavoro dei contadini, ad aumentare da 35 a 55 milioni di ettari le superfici irrigate, ma, evidentemente, questo non poteva bastare per dotare la Cina di un’agricoltura moderna, obiettivo che abbisognava di una massiccia ed estesa meccanizzazione, oltre che ad un maggior utilizzo di fertilizzanti a cui miravano gli acquisti di intere fabbriche di urea.
Sarà dopo l’XI Congresso, che segna però la fine della nostra attuale trattazione, che il regime di Pechino, dopo anni ed anni di sostanziale laissez faire nel campo della politica agricola, inizierà a reinteressarsi del destino rurale dell’immenso paese, cercando di favorire la completa adozione di schietti criteri mercantili e produttivistici nella conduzione delle Squadre, delle Brigate e delle Comuni, processo che sarebbe andato di pari passo con la “meccanizzazione agricola”, una delle quattro modernizzazioni lanciate da Zhou Enlai.
Nei capitoli precedenti riguardanti gli avvenimenti politici ed il commercio estero, abbiamo dato significativi accenni alle direttive del regime di Pechino in campo economico e al generale andamento dell’economia cinese nel periodo compreso dal X all’XI Congresso del PCC (agosto 1973 e agosto 1977), anni a cavallo del 4° piano (1971-75) e del 5° piano quinquennale (1976-80) ambedue rimasti segreti nella loro stesura.
Incominciamo dalle produzioni industriali con la nostra semplice e consueta tabella. Riappaiono dei segni negativi di regresso: l’acciaio e la ghisa retrocedono nel quadriennio in media dell’1,5% e dello 0,9% l’anno, un periodo che vede ben due anni neri, il 1974 (-16,3% per l’acciaio, -7,7% per la ghisa rispetto al 1973) ed il 1976 (-14,2% per l’acciaio, -11,8% per la ghisa rispetto al 1975), anni di notevoli indietreggiamenti. Più fortunate le altre produzioni che presentano un andamento positivo che però solo per le macchine utensili (+23,7% medio anno) e l’energia elettrica (+18,1% medio l’anno) presentano un tasso d’incremento superiore a quello del periodo precedente, di continua e superba ascesa, e rispetto anche al lungo periodo 1958-69, anni di continui sobbalzi positivi e negativi.
L’ultima colonna degli incrementi medi annui riporta i dati riferiti all’intero periodo 1958-77 ed hanno come base di partenza l’ultimo anno di attendibili statistiche ufficiali (1957), prima del silenzio di Pechino, e come quella di arrivo il primo anno (1977) in cui riapparvero completi dati economici. Il periodo è lungo, giusto vent’anni, ed è il periodo di giganteschi e contraddittori sommovimenti economici, sociali e politici come mai la Repubblica Popolare aveva conosciuto. Nonostante questo, le singole produzioni sfoggiano buone medie di avanzamento, dal 3,5% medio l’anno per i tessuti di cotone (vecchia, importante e sviluppata produzione cinese) al 23,1% del petrolio, produzione simbolo della crescita industriale della Repubblica.
A parte queste brute ma importanti cifre che saranno indispensabili per la compilazione del quadro sui “raffronti internazionali”, bisogna spendere qualche parola su altre questioni collegate al riaggiustamento economico a cui si era votato il regime per raggiungere l’obiettivo indicato da Zhou Enlai nel gennaio 1975, quello cioè di una Cina potente e borghese.
Pianificazione e centralizzazione: nei quattro anni era stata ristabilita l’autorità della “Commissione di Piano dello Stato” che aveva cominciato la sua opera di formulazione del “piano nazionale”. Come abbiamo già detto, non si trattava di una vera e propria pianificazione centralizzata perché il Governo centrale di Pechino poteva direttamente controllare, nonostante la totale nazionalizzazione dell’industria, solo determinati settori chiave e produzioni strategiche; per buona parte dei settori e delle produzioni industriali e per buona parte dell’intera economia nazionale, il piano era, più che altro, un piano di riferimento o, secondo un’altra definizione, un “piano unificato” in quanto il piano nazionale unificava, sommandoli, i vari piani delle varie unità produttive, delle Provincie e delle Regioni. Pertanto, pure nell’industria nazionalizzata vigevano criteri schiettamente aziendali, altro che socialismo !
La Conferenza Nazionale dell’Industria: “Imparare da Daqing”, restaurò invece la dizione di pianificazione centralizzata e ridette importanti compiti al Dipartimento Centrale della Commissione di Piano dello Stato che, direttamente o indirettamente attraverso i Governi locali, estendeva la sua autorità su tutte le singole unità produttive.
Si trattò di un vero giro di vite. Yu Qiuli, che non a caso stese il rapporto principale alla Conferenza Nazionale dell’Industria, il 4 maggio 1977, disse che andavano denunciate le imprese che si permettevano di violare il piano statale, che non tenevano conto dei contratti di approvvigionamento e di vendita o che producevano a loro piacimento per quantità e qualità.
Questo ritorno ad una pianificazione centrale, che nel 1977 era ancora ai suoi primi passi,fu naturalmente accompagnata da tutta una serie di misure per estendere la capacità di controllo di Pechino. Hua Guofeng, nella stessa Conferenza, pretese che fosse stabilito un “sistema rigoroso di responsabilità” in modo che il potere centrale potesse vegliare sull’esecuzione e il rispetto del piano nazionale in ogni Provincia, Regione, settore e unità produttiva. Dirà ancora Hua: “Rafforzare la direzione centralizzata: le autorità centrali devono controllare interamente i settori economici, le autorità locali possono regolare i problemi nel dettaglio”.
Yu Qiuli ebbe il compito di tradurre in direttive operative l’appello di Hua Guofeng. Prima di tutto fu stabilita la divisione amministrativa dell’immensa nazione in 6 grandi Regioni economiche (Nord-Est, Nord, Est, Centro-Sud, Sud- Ovest e Nord-Est), divisione che, al contrario degli imperativi economici del passato basati sul principio dell’autosufficienza locale, dovevano esaltare la “specializzazione” di ogni singola Regione; queste, a loro volta, soprattutto per l’importante industria pesante e per le materie prime, erano coordinate centralmente secondo il superiore piano nazionale. Yu Qiuli, nella solita maniera contorta dei cinesi, così descrisse la “riforma”: «Bisogna stabilire nelle sei grandi Regioni amministrative dei sistemi economici di diverso livello, ciascuno con le proprie caratteristiche, regioni strettamente coordinate con una agricoltura, un’industria leggera e un’industria pesante armoniosamente sviluppate».
La necessità d’integrare nel piano nazionale i piani di sviluppo di ogni unità produttiva, integrazione che voleva dire anche una totale dipendenza della singola unità produttiva agli ordini del centro, diminuì grandemente il potere di iniziative delle singole unità, e in agricoltura, fece di nuovo ritornare a galla una passata posizione di Liu Shaoqi. Le Squadre di contadini persero infatti buona parte della loro iniziativa perché, pur rimanendo proprietarie di gran parte delle macchine agricole che usavano per i lavori nei campi, vedevano queste “raggruppate” in Stazioni Macchine di Brigata per poi essere utilizzate secondo un piano unico in cui i “quadri” distrettuali avevano un’importante voce in capitolo. Ora Liu, nel 1962, aveva sì detto arricchitevi ai contadini, di capitali soprattutto, ma nello stesso tempo (centralista !) si era opposto alla libera decisione delle Squadre, equivalente di villaggio, a gestire le proprie macchine, comprate con i propri guadagni, secondo una libera volontà !
Altra questione strettamente collegata alla precedente era quella della direzione e gestione delle unità produttive. Come per ognuna delle sei Regioni amministrative, le singole unità dovevano essere strettamente legate fra sé secondo il piano unico nazionale, legame che voleva dire scambio di prodotti.
Come doveva avvenire questo scambio ? Nei nostri studi sull’economia russa abbiamo già scritto che anche il socialismo conoscerà piani ma che questi, non mirando alla realizzazione di profitti, non saranno mercantili-contabili e che nel libro mastro delle imprese e dei settori economici non si avrà una contabilità in denaro ma in quantità fisiche: la miniera A darà all’acciaieria B tante tonnellate di carbone e di pirite; l’acciaieria B girerà il suo acciaio alla fabbrica di biciclette C (siamo in Cina !) che sfornerà centinaia di velocipedi indistruttibili e silenziosi !
La contabilità fisica vorrà dire che la legge del valore, che è la sottomissione del lavoro salariato al capitale, che è l’estorsione di plusvalore ai fini dell’accumulazione capitalistica, è riposta in soffitta insieme ai falsi miti del mercantilismo e dell’aziendalismo (bestia mai doma), assolto il suo compito storico di sviluppo delle forze produttive.
In Cina, e come poteva non essere, la legge del valore pienamente vigeva ed anzi era talvolta passo in avanti rispetto alla mancanza di contabilità tipica del romanticismo maoista e delle sue richieste di lavoro gratuito tipiche del Grande Balzo in Avanti !
E una contabilità mercantile ha senso se la determinazione dei “prezzi di produzione”, alla cui formazione concorre il costo della forza lavoro e la sua produttività, è esatta, calcolata con i criteri del bottegaio, mai fesso e metafisico quando si tratta di prezzi.
Yu Qiuli non si limitò a richiedere l’ «applicazione di regolamenti finanziari ed economici per regolare il problema della pianificazione e del funzionamento del circuito produzione-approvvigionamento-vendita», ma avanzò precise direttive che il regime si impegnò prontamente a realizzare.
Primo: la scelta dei principali responsabili di un’impresa, qualunque fossero le sue dimensioni e importanza, doveva essere decisa dal Comitato di Partito della Provincia, Regione o Municipalità dalla quale dipendeva territorialmente la impresa. Il Comitato di Partito del distretto o della Comune Popolare era confinato nella gestione del funzionamento quotidiano delle imprese che, per quanto riguardava il rispetto del piano produttivo e dei contratti di approvvigionamento e di vendita, dipendevano oramai direttamente dal potere centrale attraverso suoi organi predisposti.
Tutte queste misure di più accentuato controllo ebbero come conseguenza la totale e definitiva scomparsa dei Comitati Rivoluzionari, da anni confinati ad una stentatissima esistenza. Nell’anno 1977, continuamente accusati di sindacalismo, anarchismo e individualismo, sparirono del tutto e nelle imprese fu ristabilito il ruolo di direttore, figura vittima della Rivoluzione Culturale. Altra diretta conseguenza: le imprese, che negli ultimi anni avevano subìto improvvisi scioperi e agitazioni e un rallentamento nei ritmi di lavoro, vedevano ristabiliti precisi e duri regolamenti, bastone che era accompagnato con la carota di campagne di emulazione e la consegna ai meritevoli, di insegne dell’operaio modello.
Come esplicitamente dirà Radio Pechino, il 14 luglio 1977: «Le norme e i regolamenti non dovranno mai essere eliminati. Anzi, con lo sviluppo della produzione e delle tecniche, norme e regolamenti diverranno più rigidi, e bisognerà seguirli alla lettera».
Tutte queste importanti rettifiche sfociavano nel punto finale che riguardava il “profitto”. Scrisse il numero di luglio della rivista “Bandiera Rossa”, commentando la Conferenza dell’Industria svoltasi settimane prima: «Ogni impresa deve avere a cuore di migliorare la qualità dei suoi prodotti, di ridurre il suo consumo di materie prime e i suoi costi, di accrescere la sua accumulazione (...) la crescita della produzione e dei profitti è il criterio più importante per giudicare il successo o lo scacco di una rivoluzione», e perché non ci fosse dubbio alcuno, l’editoriale del 27 agosto successivo del “Jenmin Jihpao” scrisse, rincarando la dose: «È una gloriosa responsabilità delle aziende socialiste lavorare duro in modo di accrescere l’accumulazione per lo Stato e realizzare maggiori profitti. Nelle condizioni del socialismo, quello che un’azienda guadagna è, per essenza, diverso dal profitto capitalistico. I guadagni di un’azienda socialista sono una manifestazione dello sforzo cosciente compiuto dagli operai per creare ricchezze materiali, fornire fondi per il consumo, accumulare capitali per l’edificazione del socialismo. È una cosa del tutto diversa dallo sfruttamento capitalistico del plusvalore».
Le tesi sostenute, se lette, farebbero stropicciare le mani di soddisfazione ad un dichiarato capitalista europeo che certo non si lascerebbe fregare dall’attributo socialista e riconoscerebbe nelle categorie economiche del profitto, dei guadagni, dell’accumulazione, la natura fenomenica del regime del capitale, tout court, giallo o bianco che sia poco importa !
Ma tant’è ! La traditrice mistificazione serviva benissimo al regime di Pechino per invitare la classe operaia a “lavorare duro”, a essere disciplinata, a “obbedire agli ordini e ai regolamenti”, da una parte, e dall’altra, per mettere in riga le industrie locali molte volte facenti gli stessi prodotti a costi elevati che il regime non intendeva più accollarsi. Ogni impresa doveva somigliare al campo petrolifero di Daqing, miniera di oro nero e di profitti ed infatti, in questo senso, Yu Qiuli lanciò la sua sfida nella già citata Conferenza dell’Industria: «Dal 1977 al 1980, bisogna trasformare ogni anno in media più di 400 imprese di grandi e medie dimensioni in imprese di tipo Daqing», sfida che più propriamente era la sfida del capitalismo cinese al suo enorme ed arretrato retroterra agricolo, al suo poco efficiente settore industriale e, per finire, all’esigente ed esoso mercato mondiale; era la sfida formulata due anni prima dall’ineffabile Zhou Enlai, quella di una Cina potente e moderna nonostante il deficitario livello produttivo di partenza, lo spropositato peso della popolazione e le pretese imperialiste di Russia e Usa di domare il gigante giallo.
Una sfida che per concludersi avrà bisogno come scenario della palude del mercato mondiale dove eruttano i vulcani produttivi, a meno che la crescita capitalistica della Repubblica Popolare di Pechino non risvegli il giovane e radicale proletariato cinese che. ritrovando la via del suo Partito e della Rivoluzione, si ricongiunga all’intero proletariato mondiale, come Lenin sperò nei fiammeggianti anni del Comintern.
Al termine della trattazione, prima di stilare le conclusioni che riassumeranno le principali tesi esposte per esteso via via che l’indagine affrontava i vari periodi ed episodi del lungo arco di tempo che corre dalla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 al recente anno 1977, prolunghiamo il raffronto internazionale per le principali produzioni industriali tra la Cina, la Russia, gli USA, la Repubblica Federale Tedesca, il Giappone, l’Italia e l’India, quadro già esposto nel lontano numero 89 quando il raffronto contava soltanto l’anno 1952 (anno che precedette il varo del primo piano quinquennale cinese) e l’anno 1957 (anno conclusivo del primo piano quinquennale); adesso, naturalmente, il raffronto è esteso al 1977 e copre quindi l’arco di 25 anni di cui i primi cinque furono per tutti i paesi di forte crescita mentre i rimanenti venti videro per determinati paesi e determinate produzioni (ad esempio gli USA per l’acciaio) ed in parte per tutti i paesi europei e per le principali produzioni, segni evidenti di crisi, tanto che in certi casi i “massimi” produttivi furono toccati intorno al 1973 e successivamente le quote diminuiscono più o meno sensibilmente. L’anno 1977 per la Cina è invece in genere favorevole e solo acciaio e ghisa avevano toccato precedentemente – nel 1973 – quote maggiori. Del resto, se i paesi capitalistici negli anni Settanta incominciarono a denunciare i primi sintomi di crisi economica e produttiva, è anche vero che questi seguivano quasi vent’anni di rapida e sicura crescita e che nessun paese aveva conosciuto le inabissate e le risalite che caratterizzarono l’economia cinese dal 1958 al 1977; il raffronto non è pertanto favorevole alla Cina ed a maggior ragione risulteranno certi suoi indubbi risultati.
- ACCIAIO
La Cina era 16° produttore mondiale nel 1952, passò al 9° posto nel 1957, sopravanzata da USA, Russia, RFT, Inghilterra, Francia, Giappone, Italia e Belgio, ed è al 5° nel 1977 quando le gerarchie assolute subirono un potente rivolgimento: Russia, USA, Giappone, RFT sono in fila seguite dalla Cina che sorpassa Francia ed Inghilterra (ambedue già in crisi profonda) e l’Italietta sempre in crescita. Dei paesi in esame, eccezionale l’incremento giapponese, che per i 20 anni dal 1957 al 1977 viaggiò con un +11% medio annuo, seguito dall’India (+9,2%, sempre però a bassi livelli), dalla Cina (+7,7%), dall’Italia (+6,3%), dalla Russia (+5,4%), dalla RFT (+1,6%) e, ultimi, dagli USA con un impercettibile +0,5% che in verità già nascondeva la diminuzione della produzione siderurgica americana negli anni Settanta, già scavalcata come quota assoluta da quella russa ed in procinto di esserlo da quella giapponese.
Riguardo le disponibilità pro-capite, la Cina quinto produttore mondiale, rimane un’assoluta nullità ed i suoi 25,1 kg. pro-capite incutono rispetto solamente alla squinternata India; per il resto sono poco più di un terzo della disponibilità pro-capite dell’Italia del 1952, dopo i primi anni di ricostruzione. Capitalismo in ritardo quindi ma capitalismo, perdio !
- GHISA
La Cina era 11° produttore mondiale nel 1952, 7° nel 1957 e 5° nel 1977 sopravanzata dagli stessi paesi che la battevano per la produzione di acciaio, di diverso solo lo scambio di posto fra USA e Giappone.
Riguardo gli incrementi medi annui, come per l’acciaio il Giappone è l’unico paese a superare il 10%, per 20 anni riuscì a marciare con un +13,4% medio annuo, seguito dall’Italia e dall’India (+5,7%) e dalla RFT (+1,3%); gli USA praticamente sono fermi al palo e dal primo posto di produttore mondiale nel 1957, passano al terzo posto nel 1977, superati in tromba dai russi e dai giapponesi. Dei paesi non esposti nel quadro, ancora peggio per l’Inghilterra che, 4° produttore mondiale nel 1957, dopo vent’anni era in netto rinculo, vecchio capitalismo senza vitalità produttiva.
Nella disponibilità pro-capite, come per l’acciaio, ancora evidente il ritardo cinese rispetto agli altri paesi, India esclusa. I 26,5 kg. dei cinesi superano solo i 16,0 kg. dell’India e sono solo pari ai 25,4 kg. dell’Italia del 1952 che nel 1977 era alla rispettabile quota di 206,6 kg, pro-capite, pur essendo “solo” 8° produttore mondiale avvicinato dall’arretrata India.
- CARBONE
Il carbone è tradizionale prodotto cinese ed infatti la crescita della Repubblica è da tanto di cappello: 7° produttore mondiale nel 1952, 5° produttore nel 1957, dopo 20 anni è al 2° posto assoluto ed insegue il gigante statunitense. La rapida crescita si rivela con l’incremento medio annuo: il suo +7,5% medio annuo è primato; distante l’India con un +4,2%, seguita dalla Russia (+2,1%) e dagli USA (+1,3%). I venti anni dal 1957 al 1977 vedono scomparire la modestissima produzione italiana ed anche l’estrazione carbonifera giapponese subisce un chiaro ridimensionamento passando dai 52 milioni di tonnellate del 1957 ai 18 del 1977 con un -5,2% medio annuo; la quota sarà però mantenuta negli anni a venire. Anche la RFT abbandona giacimenti troppo sfruttati e poco redditizi e dai 151 milioni di tonnellate del 1957 scende ai 91 del 1977 con un -2,5% medio annuo, sempre meglio dell’inabissarsi della produzione carbonifera inglese che nel 1952, con 230 milioni resta sopravanzata solo dagli USA; nel 1977 la perfida Albione era precipitata a 122 milioni, tracollo netto che le faceva perdere, sempre rispetto al 1952, due posti nella graduatoria mondiale.
Nella disponibilità pro-capite, l’immensa popolazione fa valere il solito handicap. Nel quadro la Cina è superata dalla RFT, dalla Russia e dagli USA. sempre in ritardo questi ultimi rispetto alla quota stratosferica del 1952. I 581 kg. pro-capite dei cinesi nel 1977 sono ben distanti dai 1.487 kg. dei tedeschi federali, dai 1.929 kg. dei russi e dai 2.757 degli americani, e possono vantare di superare solo quelli del Giappone e dell’India, paese però dal clima molto meno rigido.
- ENERGIA ELETTRICA
Come già avvertimmo, la produzione di energia elettrica, oltre ad essere essenziale per l’intera produzione industriale ed agricola, è indice molto attendibile per misurare il grado generale dello sviluppo delle forze produttive. La Cina è 22° produttore mondiale nel 1952, 13° nel 1957, rimontando ben 9 posti, e 7° nel 1977 quando è superata, in ordine crescente, da Inghilterra, Canada, RFT, Giappone, Russia e USA.
L’incremento medio annuo cinese è il maggiore fra quelli dei paesi confrontati: +13,8% contro il 9,9% dell’India, il 9,8% del Giappone, il 7% dell’Italia, il 6,5% della RFT, il 5,8% degli USA e il 5% della Russia, ma nonostante il buon risultato come kwh pro-capite la Cina è appena a 271 kwh annui, superiori soltanto ai minimi 146 kwh dell’India. Distantissimi tutti gli altri paesi a capitalismo maturo: gli USA sono a ben 10.039 kwh annui pro-capite, la RFT è a 5.461 kwh, seguita dal Giappone che sale a 4.678 kwh, dalla Russia a 4.440 kwh e dall’Italia attestata a 2.950 kwh annui pro-capite.
Come per l’anno 1957, il ritardo cinese è nettissimo e di gran lunga maggiore rispetto alle altre produzioni, tanto che il risultato pesa sull’intera economia. Lenin aveva propagandisticamente affermato che il socialismo era uguale ai soviet più l’elettrificazione, formula che riassumeva i termini complessi di potere politico proletario, che oggi in Russia non esiste neanche a cercarlo con il lanternino, e l’industrializzazione inserita nel piano unico statale. In Cina ambedue i termini non sussistono ed il giovane capitalismo cinese è solo alle prese con il compito di gettare le basi materiali del proprio modo di produzione: la Cina ricca di materie prime come pochi paesi al mondo, ricca di uomini come nessun altro, non ha che poche strade, poche ferrovie, poca energia elettrica e l’immensa popolosa campagna rimane “isolata”, quasi ai margini del ciclo mercantile, alba del capitalismo !
- CEMENTO
Decimo produttore mondiale nel 1952, la Cina passa all’8° posto nel 1957 per giungere al 4° dopo un ventennio, preceduta solo da Russia, USA (paese in cui si fa largo uso del legno per le costruzioni civili) e dal Giappone. Pure per questa produzione l’incremento medio annuo cinese è il migliore con un +11%, seguito dal Giappone (+8,2%), dalla Russia (+7,7%), dall’India (+6,3%), dall’Italia (+6%), dalla RFT (+2,6%) e dai lenti USA (+1%) che, nonostante i grattacieli, perdono il primo posto assoluto del 1957 che consentiva loro di guardare tutti dall’alto in basso.
Pure in questo caso, la Cina per i chilogrammi disponibili pro-capite l’anno (58,8 kg.) supera solo l’India mentre gli altri cinque paesi sono tutti assai lontani con alla testa l’Italia dai tanti scandali e speculazioni edilizie: i suoi 676,7 kg. sono avvicinati solo dal Giappone e gli altri giganti industriali sono ben indietro.
- ACIDO SOLFORICO
Produzione base dell’industria chimica, la produzione di acido solforico è stata inserita nel confronto perché essenziale anche nella produzione di concimi chimici.
La Cina era 15° produttore mondiale nel 1952, passa al 12° nel 1957 per migliorarsi al 4° nel 1977. Buono l’incremento medio annuo cinese (+11,6%), superato solo da quello dell’India (+12,2%). Gli altri sono staccati di diversi punti: la Russia segue con il +7,9% medio annuo e via via gli altri, dagli USA (+3,8%) alla RFT (+2,8%), al Giappone (+2,5%), all’Italia (+1,6%).
Come disponibilità pro-capite il quadro per la Cina è scuro, molto scuro: siamo appena a 5,7 kg. e tenendo conto che l’80% della sterminata popolazione direttamente si sostiene con i faticosi lavori agricoli, il dato bruto mostra cristallinamente la difficile situazione agricola di un paese-continente che da millenni è costretto ad un’agricoltura intensiva per lo sfavorevole sempre più sfavorevole, rapporto fra popolazione e terre coltivabili ed a considerare il letame come vera e propria ricchezza il cui apporto è ancora oggi essenziale. Il dato bruto rimanda altresì al difficile e contraddittorio rapporto tra il settore della produzione agricola e quello della produzione industriale che ha intessuto tutte le vicende sociali e politiche della Repubblica Popolare Cinese, come siamo andati via via mostrando.
Nello stilare le conclusioni di questo lungo lavoro, ci vogliamo prima di tutto rifare ad un brano di un nostro vecchio articolo del lontano 1953, “Malenkov-Stalin: Toppa non tappa”:
«L’ardente Trotski, il tribuno
della
rivoluzione in permanenza,
in un discorso indimenticabile sulla Cina traspose a questa il famoso
vaticinio: la rivoluzione russa sarà socialista, o non
sarà. Meno
letteraria è la nostra odierna posizione: la rivoluzione russa
è stata
capitalista ma è stata. La rivoluzione socialista
dovrà essere
non russa né cinese, ma universale. Domani potrà essere
anche russa,
anche cinese.
«I fatti storici di cui la Cina è
stata teatro
nell’ultimo
trentennio sono di portata formidabile, non inferiori a quelli del
periodo Napoleonico che saldò la fine del secolo 18° e
il
principio del 19°, ed umiliò per sempre le
momentanee
restaurazioni europee».
La nostra scuola, nell’indagare l’evolversi delle lotte sociali e politiche nell’Impero di Mezzo che, fondato nel 221 A.C. era ancora vivo alle soglie del 19° secolo e fu culla di civiltà e filosofie antiche e moderne nei cui confronti l’Occidente deve abbassare rispettoso la testa, ha sempre tenuto fermo su due essenziali capisaldi. Il primo, che da quando l’Ottobre russo, come vittoria proletaria internazionale, è stato spento dall’ondata controrivoluzionaria di nazionalismo grande russo, il fatto più rivoluzionario della storia contemporanea è stata la rottura della tradizionale immobilità economica e sociale dell’Asia, evento al quale la rivoluzione cinese, con le sue alterne vicende di avanzamenti e rinculi, ha grandemente contribuito. Il secondo è nel respingere la tesi falsamente sinistra che non attribuiva alcuna possibilità di scioglimento al dramma che si svolgeva nel grande teatro geografico cinese, perché il destino di quelli che definimmo “popoli colorati” avrebbe dovuto attendersi solo dal ripresentarsi sulla scena storica, come figura autonoma del proletariato. In Occidente invece, per il temporaneo assestarsi delle forze capitalistiche e per effetto della terza devastante ondata di opportunismo, si assistette ad una gelatinosa e vergognosa collaborazione di classe.
Il ciclo della rivoluzione borghese cinese fu aperto dalla rivoluzione democratica di Sun Yat-sen nel 1911, quando prevalsero i borghesi della nascente industria e del commercio, con il loro abituale codazzo di intellettuali, studenti e... militari. Si trattò, come più volte scrivemmo, di una rivoluzione incompiuta ed altre se ne dovevano verificare. L’intervento, nella fase successiva, del giovane proletariato indigeno, si intrecciò e fu infine determinato, nel suo doloroso epilogo, dalle vicende sfortunate e sinistre della rivoluzione russa ed europea, dopo la prima grande guerra mondiale e il costituirsi del Comintern.
La cocente, sanguinosa e feroce sconfitta del proletariato cinese nel biennio 1927-28; le vicende interne del Comintern, fatti sui quali già tante volte il Partito si è soffermato nei suoi studi per ribadire l’intangibilità del suo programma rivoluzionario, tutto concorse a spingere il PCC ad abbracciare un programma populista e piccolo borghese mentre il Guo-min-dang spostò sempre più i suoi atteggiamenti e programmi verso destra patteggiando con l’invasore giapponese, mille volte preferibile alle Comuni di Shanghai e di Canton.
I decenni che seguirono e che portarono alla vittoria delle armate contadine maoiste su quelle nazionaliste, videro il PCC vantare vittorie militari notevoli sui giapponesi e sui nazionalisti di Chiang-Kai-Shek ma nel contempo abbracciare il programma di partenza del Guo-min-dang e di Sun Yat-sen, cioè di una Cina borghese di sinistra che naturalmente rinunciava al passaggio ad una rivoluzione socialista, spacciando per socialiste schiette forme e rapporti di produzione mercantili e borghesi.
Come per la Russia, la rivoluzione cinese è stata capitalistica ma è stata, e fin dall’inizio dovette assolvere al suo compito storico di favorire capitalismo, di favorire il commercio e l’industrializzazione dell’immenso paese, dallo sconfinato ed arretrato mondo rurale, serbatoio e nerbo delle armate del PCC nei lunghi anni di guerra civile.
Primo importante atto della Repubblica Popolare Cinese, fu la Legge Agraria del giugno 1950, legge prudente e relativamente “liberale” che molto lasciò alla spontanea interpretazione dei contadini nella definizione delle categorie dei proprietari fondiari, dei contadini ricchi, medi e poveri. La “riforma” durò praticamente quattro lunghi anni, scosse fin alle fondamenta il mondo rurale cinese
pure abituato a tante jacquerie a carattere tra il sociale e il religioso, e su milioni di morti sembrò realizzarsi il sogno millenario di una ripartizione uguale delle terre. Lo Stato si appropriò subito del monopolio del commercio dei cereali, regolamentò i prezzi delle derrate alimentari tramite acquisti e vendite del monopolio di Stato, richiese corvée gratuite per la regolamentazione dei corsi d’acqua e stese nelle campagne la sua rete di “quadri”, funzionari per inquadrare, dirigere e sorvegliare le masse contadine, immensa risorsa di forza lavoro, fino nel più sperduto villaggio.
Le terribili condizioni di arretratezza non permisero al mondo rurale di fornire alle città plusvalore e eccedenze di prodotti agricoli necessari all’industrializzazione ed a sfamare un accresciuto esercito di proletari. Lo Stato borghese batté cassa, le campagne non solo non risposero ma videro riapparire significativi segni di polarizzazione sociale con compra-vendita di terre, usura ecc. L’industrializzazione veniva frenata dalla campagna arretrata, senza macchine e capitali, e, sia per ovviare a questi sfavorevoli dati materiali, sia per timore di non domare le differenze sociali che si manifestavano nelle campagne, il regime accelerò bruscamente a sinistra, lanciò il movimento delle cooperative e delle Comuni, estrema razio del volontarismo plebeo di Mao.
Queste gigantesche campagne di massa infransero la tradizione
familiare e di villaggio, prepotentemente riaffermò principi
totalitari
che in Cina sono antichi quanto moderni: la collettività
è superiore
all’individuo e la supremazia incontestabile spetta allo Stato
centrale. Sferzato da Mao Zedong che vide negli ottocento milioni di
uomini la vera ricchezza della Cina, paradosso tragico per una Nazione
da sempre tiranneggiata dalla sua alta demografia, il regime di
Pechino, che per il cui costituirsi molto doveva allo spirito di
sacrificio e di abnegazione alla disciplina e energia delle masse
contadine, chiese ai rurali di assolvere ad un nuovo immenso compito:
non di fornire allo Stato centrale plusvalore e maggiori derrate – compito
che del resto avevano fallito – ma di procedere loro stessi
all’industrializzazione dell’immenso paese. Se il ragionamento partiva
dalla giusta ed ovvia constatazione che lo Stato centrale non poteva,
per mancanza di capitali, finanziare l’industrializzazione accelerata
del paese ma solo limitarsi a pochi e costosi
progetti,
era oltremodo sciocco e illusorio il procedere del ragionamento; le
fatiche dei contadini, inenarrabili, non produssero capitali ma
disastri che sommati a cattive condizioni meteorologiche e climatiche,
portarono ad un enorme disastro produttivo, nuova fame e nuova miseria.
Le forze produttive non si fecero dominare dagli uomini con le loro
volontà e personalità più o meno grandi, imposero
il loro passo ed un
brusco contraccolpo scosse un regime che fino ad allora aveva fatto
sfoggio di mille e mille sicurezze.
In effetti il PCC aveva ricostruito l’unità politica dell’orgoglioso Impero di Mezzo, da decenni dilaniato da mille e mille particolarismi e localismi; recuperando le grandi tradizioni imperiali, con il terrore e purghe aveva reso in pochi anni efficiente e proba la macchina statale ereditata dal corrotto Governo nazionalista. Un solido sistema di amministratori gerarchizzati, muniti di un forte potere discrezionale conferito loro dal Governo centrale, era la struttura dell’intera vita civile che si svolgeva all’insegna dell’assoluta probità, della purezza e dell’austerità dei costumi, del civismo, dello spirito di sacrificio, del patriottismo e di una coscienza nazionale esaltata per la raggiunta unità nazionale e per la vicina guerra di Corea.
Questi traguardi, borghesi ma non da dozzina, erano di quelli che possono ben dare sicurezza e spavalderia ad un regime che, senza complessi di inferiorità, si apprestava alla trasformazione di un paese arretrato e dalle dimensioni enormi, con una vecchissima società agraria parsimoniosa ma scarsissima di mezzi e animali da lavoro, senza tecnici, senza specialisti, senza un numeroso e disciplinato proletariato, senza capitali e con una borghesia inetta e vile, in gran parte formata dagli avanzi di classi già scomparse o in via di estinzione; con queste condizioni materiali non fu solo per un amore verso le tradizioni imperiali passate o per la forza dell’esempio russo che il regime del PCC dovette far ricorso a piene mani al dirigismo e all’interventismo statale che, in pochi anni, vero affamato Moloch, dovette espropriare le ultime figure (industriali e commercianti) della “borghesia industriale”, poco prima definita una delle classi fondamentali dello Stato di Nuova Democrazia.
Il fallimento del Grande Balzo in Avanti e del movimento delle Comuni, ebbe come conseguenza una prima aspra crisi nel regime monolitico di Pechino che però, forse ancora per la forza d’inerzia della grande vittoria di un decennio prima, riuscì a mantenere integra e salda la propria struttura di Partito e di Stato. Se il rude e mitico Maresciallo Peng Dehuai conobbe l’onta della polvere e sconfitto fu costretto a lasciare il Ministero della Difesa al segaligno Lin Biao, anche il sempre incensato Mao Zedong dovette lasciare la carica di Presidente della Repubblica al mite Liu Shaoqi, il che era non semplice passaggio di uomini, altrimenti il determinismo economico mostrerebbe la corda, ma di più, era l’inizio di un vero ribollire e scontro di enormi forze sociali che per quasi vent’anni, con vicende più o meno cruenti e spettacolari, parlando per bocca di protagonisti più o meno grandi, avrebbe percorso gli immensi spazi della gialla Repubblica.
Il fallimento della mobilitazione maoista, estensiva e disperata della forza lavoro, ridette forza alle tesi già prospettate, con diverse sfumature da Chen Yun e Li Xiannian all’VIII Congresso del PCC nel settembre 1956, tesi che sinteticamente abbiamo chiamato liberali e che laggiù furono etichettate come “economiciste”; molto sintetizzando, non potendo lo Stato finanziare l’introduzione di capitale nelle campagne che in misura del tutto insufficiente, Chen Yun e Li Xiannian dissero che a questo compito storico vi dovevano assolvere i contadini stessi, ma arricchendosi di terre, macchine e capitali. Commerciate, arricchitevi dissero i due, che lo Stato borghese centralizzato ne trarrà beneficio con tasse ed imposte, irrobustendo il suo apparato di polizia e mantenendo nelle sue mani le formidabili leve del monopolio del commercio dei cereali e dei permessi di residenza e di spostamento della popolazione per impedire eccessive ed incontrollate urbanizzazioni, Queste tesi erano per molti versi l’esatto contrario di quelle messe in atto con il Grande Balzo in Avanti che intendeva raggiungere lo stesso traguardo dell’industrializzazione attraverso mobilitazioni forzate e gratuite di forza lavoro, mobilitazioni che richiedevano, non per pose estetiche ma per intima necessità, una società fortemente egualitaria e assolutamente collettiva che doveva battere la minima polarizzazione sociale e il minimo individualismo.
La disastrosa situazione produttiva e alimentare dell’inizio degli anni Sessanta, crisi resa più drammatica dal ritiro da parte di Mosca degli aiuti economici, costrinsero la Cina a “fare da sé” ed insieme ad una stretta autarchia ed autosufficienza, il regime adottò una chiara politica liberale nei confronti dei contadini. Era l’unico modo per frenare l’esodo clandestino dei rurali nelle città, unico modo per riattivare un minimo di commercio delle derrate dalle campagne allo Stato e poi alle popolazioni urbane, unico modo perché lo Stato mantenesse il monopolio del commercio dei cereali che, per la mancanza di regolatori economici, si basava soprattutto sulla libera e volontaria accettazione di imposte e tasse da parte dello sterminato mondo contadino, altrimenti irraggiungibile da parte di uno Stato centrale che nel tragico biennio 1959-60 aveva giocato buona parte della fiducia di cui disponeva mostrandosi insufficiente nel tradizionale compito della regolamentazione delle acque, questione di vita e di morte per l’agricoltura cinese.
Questo primo abbandono di politica di mobilitazione sociale da parte del regime, che altro non era che il riflesso della chiusura del mondo rurale e dell’attaccamento del contadino alle sue piccole proprietà: la casa, l’orto, i propri animali da cortile, non poteva che influire sulle strutture dello Stato, del Partito e dell’Esercito, strutture che non ebbero l’agilità di seguire subitamente gli scarti dei fatti economici, né di adeguarsi alle “nuove” esigenze del processo di industrializzazione e della marcia del Capitale nelle campagne. Con i contadini fermi ed immobili, attestati nella difesa dei loro traffici e della loro proprietà, dopo decenni di stasi di nuovo le città furono teatro principale degli avvenimenti e delle lotte politiche che assunsero l’aspetto folcloristico di lotta fra la linea rossa ed il Quartiere proletario di Mao Zedong e la linea nera ed il Quartiere borghese di Liu Shaoqi.
Fedele alla mitologia maoista, la Rivoluzione Culturale inizialmente si mosse sul terreno delle “lotte fra correnti di idee”, nel mondo rarefatto dell’ideologia, della morale, del costume, del comportamento onesto o disonesto, illibato o corrotto, ma quel che per Mao ed i suoi doveva limitarsi ad una semplice manovra di polizia e di epurazione interna, ben presto andò oltre le intenzioni dei suoi partigiani. Non solo l’apparato dello Stato e del Partito mostrarono come l’accettazione della “politica economicità” aveva conquistato oramai la maggioranza dei funzionari e dirigenti che solo costretti accettarono il ritorno di Mao Zedong ai vertici massimi, imposto più che altro dalle gerarchie militari; nel succedersi caotico degli avvenimenti il sordo malcontento del vasto apparato periferico del PCC sfociò in aperte battaglie di strada fra le Guardie Rosse e la popolazione e gli operai, inizialmente mobilitati dai Comitati di Partito. Non rifacciamo qui la cronaca della Rivoluzione Culturale, sulla quale in esteso ci siamo soffermati, ricordiamo che la classe operaia cinese, dopo iniziali titubanze, approfittando dell’indebolimento del potere centrale scese in campo e pure prendendo come bandiera ora tesi maoiste ora tesi liuiste, ebbe la forza di attestarsi sulla autonoma difesa delle proprie condizioni di esistenza, dando ulteriori scosse ad un potere centrale sempre più traballante.
La Rivoluzione Culturale, spia di immense tensioni sociali, indubbiamente infranse il mito dell’unità del PCC che vedeva buona parte dei suoi dirigenti sconfessati e miseramente trascinati nella polvere dopo essere stati un attimo prima nell’Olimpo e, infine, come in tutte le crisi politiche dei regimi cinesi, l’indebolimento del potere centrale ridiede forza al particolarismo locale, alla parcellazione dei poteri. Il regime si affidò all’esercito che impose il suo ordine, rimise al vertice Mao ed i suoi ma non prima di aver schiacciato le Guardie Rosse, atto primo del cauto ritorno, in tutte le loro funzioni, degli uomini di Liu Shaoqi e Deng Xiaoping, tenuti in caldo dal duttile Zhou Enlai vero vestale della continuità ed integrità del potere statale centrale.
Dopo la Rivoluzione Culturale il regime soffrì del cedimento dell’autorità e del discredito del Partito, tanto che mentre si manteneva solo per la sua forma di dittatura militare autoritaria e poliziesca, dovette subito intraprendere la ricostruzione del Partito, vera spina dorsale dello Stato unitario. Con capacità minime di “dirigere” e “controllare” l’economia rurale, il regime dovette continuare una politica liberale nelle campagne e predisporsi a soddisfare le sempre più impellenti necessità di ristabilire disciplina e regolamenti nelle fabbriche. Nei lunghi anni in cui si svolgeva questa opera di ritorno all’Ordine, uno ad uno gli eroi della Rivoluzione Culturale scendevano dal loro piedistallo e in un ciclo di otto anni (1969-77) si aveva la lunga marcia di Deng Xiaoping al vertice dello Stato e del Partito, con gli eventi trattati negli ultimi capitoli del lavoro.
La risalita di Deng Xiaoping, definitiva con l’XI Congresso dell’agosto 1977, concludeva le pagine romantiche della rivoluzione nazionale cinese che per oltre 60 anni ha scosso l’immenso paese, innescando e facendo esplodere le mille contraddizioni proprie del nascere e del crescere di un giovane capitalismo, stretto nella morsa di un imperialismo mondiale senile e putrescente. Si aprirono allora, per la Cina, pagine ben più pragmatiche e prosaiche, riposti i miti, le illusioni e le pose popolaresche, si affermò il solo imperativo categorico del produrre di più, dello sviluppo delle forze produttive, della riduzione dei tempi e dei costi di produzione, dell’estensione costante e sicura del capitale nel mondo rurale, immenso e per buona parte da proletarizzare. Queste pagine sono compiti progressivi, sono un capitolo del lungo ciclo della rottura di rapporti di produzione e forme di proprietà pre-capitalistiche ostacolo ad un ulteriore sviluppo delle forze produttive; è un tragitto doloroso e grondante di sangue per le generazioni proletarie che lo subiscono, ma non altrimenti evitabile nelle aree geopolitiche dette con linguaggio da predoni “sottosviluppate”, perdurando l’attuale assenza, alla scala mondiale, di un consistente movimento proletario attestato sugli immutati capisaldi rivoluzionari.
Dal rigoroso razionamento successivo alla vittoria su Jiang Jieshi al prezzo di gigantesche campagne di utilizzo della forza lavoro gratuita dei contadini; con una sofferta e contraddittoria accumulazione di capitale nel mondo rurale, che deve scontare terribili condizioni di partenza e che ha esitato di fronte all’espropriazione su vasta scala di un contadiname, messosi in moto per liquidare i vecchi legami pre-borghesi rafforzati dallo imperialismo; contro i primi passi dell’industrializzazione che subito ha urtato contro un’infrastruttura, nei trasporti, soprattutto, paurosamente carente e che quindi impose immediatamente dure condizioni di lavoro nelle fabbriche, la Cina si avvia a conquistare un posto fra le grandi potenze pur facendo ancora sussistere, accanto ad un grande capitalismo industriale, un micro-capitalismo agrario sempre più inserito nei vortici dello scambio mercantile.
Questo epilogo borghese della rivoluzione cinese, come è titolato il lavoro noi l’abbiamo tratto dallo studio dell’intero corso storico con gli strumenti propri dell’indagine marxista, capace di leggere il futuro alla sola condizione di affondare il bisturi della critica negli strati del passato, con previsioni tanto, più sicure quanto più si è avuto la forza e la pazienza di riandare indietro, rifuggendo fretta ed attualismo, malattie di questo secolo.
Allineando i dati del passato «la rivoluzione francese e la rivoluzione cinese sono serie di fatti storici che esprimono la stessa sequenza di leggi storiche della classe, e sono quelle scoperte e scolpite in modo insuperabile nei classici di Marx» (“Le lotte di classi e di Stati nel mondo dei popoli non bianchi storico campo vitale per la critica rivoluzionaria marxista”, 1958).
La serie di fatti storici cinesi ha visto in uno dei suoi primi atti il proletariato cinese schiacciato nei suoi ingenui e possenti assalti al cielo; poi, ora, grandeggiare uno Stato di dittatura borghese, che un giorno subirà nuove minacce e nuovi assalti, e avverrà quando il ciclo della controrivoluzione sarà infranto, in Europa, in Asia e nel resto del mondo. Controrivoluzione che, come nell’ottocento indagato da Marx e dai pionieri del comunismo, ha dovuto innalzare i miti falsi ed ingannevoli di Libertà, Progresso, Patria, Nazione, per impedire che la classe proletaria si organizzasse in un autonomo inquadramento di partito, condizione prima per aggiogarla a compiti schiettamente borghesi, in opere di “edificazione nazionale”. Ma espropriando masse contadine e formando nuovi eserciti proletari, tessono al capitalismo mondiale il suo lenzuolo funebre proprio quando il mito borghese celebra i propri saturnali:
«Dialetticamente questo ci insegna che anche la strada della rivoluzione è unica nel mondo. Ed è condizionata da un programma in tappe inseparabili, in cui ad una ad una, coi loro partiti, e malgrado in date fasi il loro potenziale rivoluzionario sia stato utilizzato dalla storia che avanza, dovranno saggiare il peso della dittatura proletaria e del terrore rosso, e soccombere le classi transitoriamente rivoluzionarie della grande borghesia industriale, commerciale o agraria, della piccola borghesia artigiana e contadina, e tutto il ceto servitore di impiegati ed intellettuali sempre accodato alla sinistra delle città. E questo dovrà essere annunziato e sostenuto nelle proclamazioni del partito comunista anche nei tempi in cui si rovesciano quelle classi, perché “corrano la loro frazione” lungo la china tormentata della storia» (“Le lotte di classi e di Stati nel mondo dei popoli non bianchi...”).