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I bombardamenti della Nato contro quello che è rimasto della Iugoslavia, si susseguono ormai senza interruzioni da quasi tre settimane in un crescendo di intensità, anche se limitati per adesso alle sole armi aereo‑navali.
Dopo gli obbiettivi militari, dopo le infrastrutture e i centri di direzione, le bombe si sono dirette sulle fabbriche, sui quartieri operai, seguendo una strategia usata massicciamente durante la II guerra mondiale. Contemporaneamente, con un’azione parallela, preordinata e forse coordinata, l’esercito jugoslavo, appoggiato da milizie irregolari, ha iniziato la "pulizia etnica" del Kosovo, cacciando la popolazione di origine albanese dai villaggi, bruciando le case, terrorizzando con arresti e esecuzioni sommarie.
Mentre il Kosovo brucia sotto i colpi dei cannoni serbi e delle bombe Nato, decine di migliaia di persone in fuga si sono rifugiate in Macedonia e soprattutto in Albania, turbando gli equilibri sociali su cui si reggono questi piccoli paesi.
Questa tragedia, prevedibile, era stata prevista; le grida all’emergenza, con l’immancabile pelosa richiesta di ‘carità’ per il soccorso ai profughi, fanno parte della propaganda di guerra e dimostrano il cinismo dei governi occidentali che con una mano bombardano e con l’altra offrono alle loro vittime un piatto di minestra. Una ben orchestrata campagna sulla "ferocia atavica" del nemico, serve, come in ogni conflitto, a convincere ad usare la stessa ferocia, a giustificare l’ulteriore intensificarsi della guerra.
Questo nuovo episodio della lotta per la spartizione del cadavere iugoslavo è diretta conseguenza della prima guerra iugoslava che ha portato alla formazione di Stati “etnici”, Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina ed Ex Iugoslavia, per spezzare ogni possibilità di solidarietà di classe. Quella guerra si concluse con una “pace americana”, come la definimmo, con gli accordi di Dayton che erano forieri di nuovi scontri, di una nuova guerra. Quasi due milioni di profughi, di tutte le etnie, cacciati dalle loro case e impossibilitati a farvi rientro, restavano infatti sistemati in immensi campi; il potere nei vari Staterelli consegnato ai peggiori arnesi del nazionalismo, pronti a porsi al servizio dei Grandi pur di mantenere un simulacro di potere.
La ferma volontà degli Stati Uniti di creare un “casus belli” per l’intervento diretto contro la Serbia è apparsa durante le trattative di Rambouillet: quei colloqui, lungi dal cercare un’impossibile soluzione pacifica all’intricata questione del Kosovo, dovevano servire al contrario a gettare la responsabilità della guerra sul governo iugoslavo. Lo stesso ministro Dini ha ammesso che i colloqui sono stati una trappola per la Iugoslavia che è stata messa al muro dalla possente macchina mediatica degli Usa e dei loro alleati.
Il vero problema per gli Stati Uniti era infatti proprio quello degli alleati e Rambouillet è servita a stringere e a costringere tutti a dare l’assenso all’intervento Nato, rinunciando allo straccetto coprivergogne che nella guerra contro l’Iraq era stato rappresentato dall’ONU, stavolta impossibilitata ad approvare i bombardamenti dato che la Russia non avrebbe mai dato il suo benestare. I deboli balbettii di dissenso di alcuni sono stati spazzati via dal boato dei missili lanciati dalle navi della flotta statunitense in Adriatico.
Per togliere al governo iugoslavo ogni possibilità di trattativa, proprio durante i colloqui di Rambouillet la commissione d’arbitrato internazionale, controllata dagli USA, che doveva dare applicazione ad una parte degli accordi di Dayton, ha deciso di togliere ai serbi il controllo del corridoio di Brko, in Bosnia, unico legame tra i territori serbi di quello Stato, Pale da una parte e Banja Luka dall’altra; un vero atto di guerra, anche se passato in secondo piano.
Giustificare l’intervento, come in un primo momento ha fatto il segretario di Stato statunitense Albraith, con la motivazione che una buona strigliata a base di bombe avrebbe costretto Milosevic a più miti consigli, è assurdo. Il regime iugoslavo, come a suo tempo quello iracheno, con questa guerra si è indubbiamente rafforzato; la popolazione costretta a subire i bombardamenti, ben difficilmente può resistere al richiamo nazionalista, lo stato di guerra permette inoltre, anche negli Stati più democratici, di sospendere ogni ‘libertà’ individuale e di gruppo. Richiamati tutti gli uomini validi, sospesi gli scioperi e ogni manifestazione di ostilità al regime, mentre si rafforza la propaganda dei partiti nazionalisti e bellicisti e della chiesa, sempre schierata con lo Stato.
A dimostrazione di questo il fatto è che centinaia di intellettuali e studenti di Belgrado si prestano ogni sera a fare da scudi umani sui ponti del Danubio per impedire agli aerei di abbatterli, mentre decine di operai della fabbrica Zastava sono stati gravemente feriti dallo scoppio di missili mentre cercavano, esponendosi direttamente, di impedirne il bombardamento della “loro” fabbrica.
Nell’ultimo numero del giornale, uscito qualche giorno prima dell’inizio dei “raids”, giudicavamo improbabile questa scelta di guerra, considerando che i soli bombardamenti, slegati da una occupazione dei territori con truppe di terra avrebbe forse potuto ottenere anche l’affondamento del regime di Milosevic, ma lasciando un vuoto di potere che avrebbe reso il controllo dell’area ancora più difficoltoso per le stesse forze imperialiste; d’altronde ipotizzare un’invasione della Iugoslavia con forze di terra poneva notevoli problemi logistici (si parlava allora di una forza di 40.000 uomini, oggi si parla di 200.000 addirittura), con la possibilità che la vittoria costasse troppo, nonostante la superiorità numerica e di armamento, con pericolose conseguenze sociali, in Europa ma anche negli stessi Stati Uniti.
Alla luce di queste valide considerazioni la scelta di Washington di ricorrere all’azione militare, ignorando le profferte russe per una trattativa e le indecisioni di buona parte degli alleati europei lascia pochi dubbi sulle reali intenzioni dei Signori del Mondo. Persa la loro predominanza economica a livello mondiale, mantenuta per più di mezzo secolo, dal primo dopoguerra fino agli anni Ottanta, gli Stati Uniti mantengono incontestabilmente la loro incontrastata superiorità militare; abbiamo definito questa loro preponderanza ‘Imperialismo delle portaerei’, un imperialismo capace di proiettare, tramite appunto una formidabile flotta, la propria potenza militare in ogni parte del mondo e non solo sui territori confinanti dell’impero come era invece per il rivale russo. Washington vuole servirsi oggi di questa superiorità per impedire che i suoi avversari, sul piano economico, divengano minacciosi; recenti documenti ufficiali della Casa Bianca ribadiscono la volontà “di mantenere in Europa circa 100.000 militari per contribuire alla stabilità regionale, sostenere i nostri vitali legami transatlantici e conservare la leadership degli Stati Uniti nella Nato” e per dare credito alle loro intenzioni, la spesa militare ha raggiunto nel 1999 i 280 miliardi di dollari (contro i 30 della Francia e i 26 della Germania) ed è previsto un suo costante aumento fino a raggiungere i 330 miliardi nel 2005.
Nella regione balcanica la Nato dispone di 30.000 uomini stanziati in Bosnia Erzegovina, di cui 8.000 statunitensi, di 12.000 in Macedonia e di altrettanti in Ungheria, nonostante il suo passaggio sotto la cappa della Nato sia recentissimo; la crisi in Kossovo ha permesso, in un colpo solo, di trasformare l’intera Albania in una immensa base per la Nato: proprio mentre scriviamo è giunta infatti notizia che il governo albanese (fragile vaso di coccio) ha messo a disposizione della Nato i porti, gli aereoporti, le basi militari ecc. senza alcun limite; presto vi si trasferirà un primo contingente di 8.000 uomini e 48 elicotteri apache; andranno ad aggiungersi alla costituenda forza che dovrebbe occupare il Kossovo.
Gli Stati uniti hanno dimostrato di volere fortemente l’intervento di terra e stanno lavorando per questo sia sul fronte interno che nei confronti degli alleati; più restia l’Europa, che combatte sul suo territorio, che non ha più combattuto dopo la II Guerra Mondiale (con l’esclusione di Francia e Gran Bretagna), che non vuole inimicarsi la Russia, suo naturale partner economico.
La Russia, impotente a rispondere sul piano militare ad una azione che certamente punta anche al suo accerchiamento dopo l’estensione della Nato all’Ungheria, alla Repubblica Ceca e alla Polonia; prostrata dalla crisi economica, ha ricevuto dopo lunga attesa, nei primi giorni di bombardamenti, 8 miliardi di dollari dal FMI. Essa non può spingersi oltre le dichiarazioni di dissenso e un’intensa attività diplomatica rivolta soprattutto verso gli Stati europei per arrivare ad una soluzione negoziale. La flotta inviata in Adriatico, priva di copertura aerea, non sembra infatti rappresentare un pericolo per la ben più agguerrita flotta statunitense, anche se certamente rappresenta un aperto atto di solidarietà con Belgrado. Ben altra potrebbe essere la funzione dell’ancora possente armata russa se arrivasse un segnale da Berlino, ma la Germania che, al momento partecipa però alla spartizione del cadavere a fianco degli USA, non sembra dolersi più di tanto della sua posizione di secondo piano, pur di arraffare una parte della preda.
In questo scenario che sicuramente avvicina il formarsi degli schieramenti per il terzo macello mondiale il proletariato di tutti i paesi non ha da schierarsi su alcun fronte; in questa guerra non c’è da considerare chi sia l’aggressore e chi l’aggredito, da che parte stia il monopolio della ferocia, da quale parte il “diritto internazionale”; questa guerra è una guerra imperialistica su entrambe i fronti anche se a livelli diversi: da una parte l’imperialismo “da cortile di casa” dello Stato jugoslavo, (ma non si deve dimenticare che alle sue spalle c’è la Russia e la Cina), dall’altra l’arrogante imperialismo dei padroni del mondo con, a rimorchio, l’Europa.
La classe operaia non ha da scegliere uno dei due fronti; ha, come
nel
1914, da organizzarsi per riuscire a contrapporre alla mobilitazione
per
la guerra imperialista, la sua mobilitazione sul piano di classe; ha da
mobilitarsi per ricostituire, nella dura lotta contro il regime del
Capitale,
i suoi organi di combattimento, un sindacato di classe, il partito
comunista
rivoluzionario e internazionale.
Una delle tesi che da sempre il comunismo di sinistra contesta alla propaganda borghese è che gli Stati di tradizioni e di governo democratico sarebbero tendenzialmente pacifici, più resistenti, grazie alla libera rappresentanza popolare, al militarismo e alla aggresività guerriera. A smentire tragicamente l’associazione Democrazia-Ragione-Pace venne una prima guerra mondiale, poi una seconda nelle quali si comprovò come l’illusione democratica, che maschera il reale dominio politico della classe borghese, sia grimaldello perfetto per far penetrare le menzogne della xenofobia fra le classi sottomesse allo scopo della ubriacatura nazionalista, per far loro rispondere alla mobilitazione, farle combattere, e vincere, le guerre come se fossero “per la patria”.
Il comando unico dello Stato borghese e tutto il traffico capitalistico che trae profitti incalcolabili dalle carneficine guerresche non sono per niente intaccati dall’apparenza dialogante dei vari partiti ed opinioni; al contrario, quest’apparenza è del tutto fatta propria dalle istituzioni borghesi che la manovrano e sventolano davanti agli occhi dei lavoratori allo scopo di rafforzare ulteriormente quel comando e il monopolio spregiudicato dittatoriale assoluto e impermeabile del potere di classe. Ebbero da sbraitare e da metter sù ghigni truculenti e scenografie eroiche molto più i Mussolini e gli Hitler, per portare i proletari al macello, che i sempre sorridenti Roosvelt e Churchill con sigaro e dita a “V”.
Assistiamo oggi, in queste prime settimane di guerra, ad un’altra prova dell’efficienza democratica nel violentare l’intelletto dei “liberi cittadini”. Con una disciplina ormai spontanea e sperimentata, che nessun Ministero dell’Informazione potrebbe ottenere, l’apparato mediatico si è dispiegato a tenaglia non per “esprimere”, ma per contenere la sempre turlupinata “opinione pubblica”. La sgrossatura è affidata alle televisioni che per le spicce si buttano unanimi nella campagna di martellamento patriottico facendo leva su menzogne, studiati silenzi e sulle emotività più primitive. Al solito, secondo la sperimentata tecnica democratico-buonista dell’«orrorismo», si mostrano con simulata pietà gli effetti sui prigionieri o sui civili delle nefandezze del nemico, vere, gonfiate o inventate, ostentate sempre con una ossessività malsana da guardoni. Si invita la popolazione a venire in soccorso dei profughi di una delle parti. Nei «talk», per chi “ne vuol sapere di più”, intervengono di grandi esperti che, a pagamento, in un finto dibattito, confermano tutto.
Sui giornali le argomentazioni sono più “profonde”: la dottrina che le informa è quella che potremmo definire «del cattivissimo», secondo la quale il corso della storia si spiegherebbe con l’eterna lotta della ragione contro individui affetti da follia sadica, che approfittano delle debolezze di uomini e popoli per portali alla rovina e alla guerra. Si tratta sempre quindi di “liberare” qualcosa da qualcuno, il povero Kuwait dei sultani ieri, il Kosovo oggi, in una lista infinita. Secondo questa demente teoria, unanimamente accettata dall’universo borghese, la seconda guerra sarebbe stata “colpa” di Hitler e di Mussolini, che a Monaco non sarebbero stati «fermati» in tempo; per la terza non basteranno Saddam e Milosevic ma intanto “per colpa loro” si guerreggia alla grande.
Non sarebbero guerre frutto degli egoismi e degli appetiti imperialisti, quindi, sono “ingerenze umanitarie”, sempre a “difesa” di qualcosa: nel ’14 del “piccolo Belgio”, nel ’39 della “democrazia” atlantica e staliniana, nel ’99 del... Kosovo!
Intanto, democraticamente, aerei e navi partono, domani si cercherà di mandare truppe di terra e senza nemmeno una grinza al peplo democratico che l’Italia turrita avvolge. Articolo 11 e “ripudio della guerra” (chissà cosa vuol dire!), voto del Parlamento o meno, tutto funziona lo stesso, con o senza. E funzionerà fintanto la classe operaia non denuncerà ogni compromissione con la classe, gli interessi, le istituzioni borghesi, compreso il potere ipnotico della sua democrazia.
Eccoci al punto: non è rivendicando il “ritorno” alle regole della democrazia, al voto espresso dai parlamenti e rispettato dai governi, alla fedeltà del dettato costituzionale, che si potrà “tenere l’Italia fuori dalla guerra”. Nemmeno si salva il mondo dall’apocalisse se si riunisce e delibera il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Non sorgendo la guerra da una menomazione alla democrazia e alle sue regole ma essendo necessaria conseguenza delle leggi economiche catastrofiche del capitalismo, nessuna crisi, nessun cambio di governo, nessuna maggioranza di voti contrari dei partiti pacifisti la potrà mai impedire. Le guerre moderne non hanno bisogno di una “dichiarazione” formale: i governi vi si precipitano, ubbidendo ai dettati della borghesia nazionale e del capitale mondiale, ben sapendo che durante le guerre i governi non cadono mai, e l’opposizione, cosiddetta, sta in riga. Come oggi.
Guerra alla guerra implica guerra intransigente di classe alla
borghesia
e al suo Stato.
La crisi del capitalismo russo costretto a palesare la sua falsa natura socialista, la più generale crisi del capitalismo mondiale, portano la guerra in Europa.
Il gendarme unico dell’ordine capitalistico mondiale, gli Stati Uniti, con l’attacco alla Serbia mette in riga gli Staterelli balcanici collocandoli nel ruolo di sempre, quello di pedine sullo scacchiere internazionale, ma soprattutto conferma il suo ruolo e i suoi privilegi, schiaffeggiando le vigliacche borghesie europee che si sottomettono e si accodano ricambiate da una fetta del ricco bottino, fatto di mercati e commesse per la futura ricostruzione. Ma gli strateghi del Pentagono, con questa guerra preparata a tavolino, vogliono soprattutto guadagnare nuovi territori, nuove basi militari allo schieramento mondiale statunitense, contro i concorrenti imperialisti Europa e Russia, approfittando dei contingenti rapporti di forza.
Proletari Compagni,
Tutti gli apparati dei regimi borghesi (Serbia inclusa) da mesi lavorano per trascinare alla guerra il proletariato senza che questo abbia la possibilità di ribellarsi.
I bombardamenti sulle città e sui villaggi della Iugoslavia, come le martellanti campagne sulla disgrazia del popolo Kosovaro, le truculente fotografie, gli atti terroristici incoraggiati e finanziati da entrambe le parti, servono ad incarognire gli animi, per costringere i proletari a schierarsi sugli opposti fronti.
La tragedia dei profughi, come quella che deriverà dai bombardamenti a tappeto sulla Iugoslavia, era prevedibile e prevista; le grida all’emergenza con l’immancabile richiesta di “carità” per i soccorsi, fanno parte della propaganda di guerra e dimostrano il cinismo dei governi occidentali che con una mano bombardano e con l’altra offrono alle vittime cerotti e minestre.
Il proletariato non deve lasciarsi trascinare partigiano di questo o quello schieramento! Il capitalismo muove da sempre la sua guerra contro il proletariato, in pace chiedendogli fatica e sudore, in guerra reclamando il suo sangue.
Risulta chiaro il ruolo dell’ideologia pacifista che, salmodiando la pace universale, nega la lotta di classe, unico strumento nelle mani degli oppressi per spezzare, come ha dimostrato la rivoluzione del 1917 in Russia, il regime borghese e fermare la sua guerra. Il pacifismo diviene così un altro strumento nelle mani del militarismo per disorientare il proletariato e ritardarne la riorganizzazione su basi rivoluzionarie.
Al disarmo della classe operaia concorrono i sindacati di regime e la "sinistra" tutta con Rifondazione in testa. Ad ogni impresa dell’imperialismo invece di organizzare la lotta, a partire dai luoghi di lavoro, gli arnesi opportunisti invocano l’intervento del "Santo Padre", le finte lotte sui banchi del Parlamento, le chiacchiere dell’ONU e le conferenze internazionali, chiamate a dirimere questioni estranee al proletariato e contro di esso.
La parola d’ordine ‘Fuori l’Italia dalla Nato’, che Rifondazione ha ritrovato tra i rottami del vecchio PCI, quando non riporta alla illusione piccolo borghese di sfuggire al prossimo scontro interimperialistico con una impossibile neutralità, non può che significare l’uscita da uno schieramento di guerra per aderire ad un altro, quello europeo, oggi ancora succube degli Stati Uniti; essa è dunque reazionaria e contraria agli interessi della classe operaia.
Compagni, lavoratori,
La posizione di appoggio e di sostegno all’impresa militare da parte dei Sindacati Confederali, che hanno sospeso gli scioperi e le azioni di lotta per i rinnovi contrattuali per solidarietà con il regime in guerra, è l’ulteriore conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del loro tradimento. La sinistra sindacale che si dissocia con comunicati, ma non impone nessuna azione di sciopero, palesa la sua natura opportunista, mostra di fare opera di confusione e corruzione delle forze sane che esistono tra i lavoratori; col pretesto dell’unità essa tenta di tenere ancora la classe operaia legata al regime borghese anche nella sua guerra.
Compagni lavoratori,
La ripresa della lotta di classe, a difesa delle condizioni di vita
dei lavoratori in fiera opposizione agli interessi guerrafondai della
borghesia,
indica la necessità della rinascita di un Sindacato di Classe
genuina
espressione degli interessi proletari e deciso avversario degli
interessi
nazionali e aziendali. E’ anche urgente, con l’avvicinarsi di una terza
guerra imperialista, il rafforzamento del partito comunista
rivoluzionario,
unico capace, nel secolare e mai smentito programma, di condurre
l’azione
di classe allo scontro finale per una società umana, libera
dalla guerra,
dalla fame, dall’oppressione.
Cgil-Cisl-Uil si sono affrettate a revocare gli scioperi, i pochissimi che indicono, per non intralciare, dicono, le operazioni militari e gli spostamenti di persone funzionali ai bombardamenti sulla Serbia, definiti "una contingente necessità". In un documento congiunto con la Confindustria invitano i lavoratori a devolvere la paga di un’ora di lavoro in favore dei profughi dal Kosovo. Quindi, sebbene affermino che preferirebbero che la guerra non ci fosse e sebbene chiedano sommessamente che vi venga messo fine “da entrambe le parti”, nello stesso tempo si dichiarano e sono a disposizione della patria in guerra, alla quale sono prontissimi a sacrificare ogni rivendicazione operaia. Ovviamente di mobilitazioni contro la guerra non se ne parla nemmeno, semmai il contrario, se è una “contingente necessità”, e alla manifestazione a Bari nel primo pomeriggio di mercoledì 7 non si sa chi ci sia potuto andare visto che nessuno sciopero è stato indetto.
Il Partito della Rifondazione Comunista, strutturalmente nato per fare il paracadute alla versione governativa dell’ex‑Pci, ricopre il ruolo assegnato del “rivoluzionario” nei confronti dei “socialdemocratici”. Il riferimento al ’14, al voto dei crediti di guerra, alle “due sinistre” e alla scissione dai riformisti dimentica solo che da quel tradimento nacque una Terza Internazionale in un processo di separazione che avrebbe dovuto essere irreversibile. Oggi invece Bertinotti continua a lavorare per D’Alema e per l’”unità delle sinistre”. I tradimenti sono irreversibili: si può continuare a tradire, ma indietro non si torna. Nel ’39 i penati sia dei D’Alema sia dei Bertinotti ri‑tradirono. E nel ’99, ne siamo certi, pure. Di “sinistre” non ce ne sono più due, e neppure una, ma solo due bande messe lì a far da gioco di specchi per i proletari.
È sempre in televisione Bertinotti (quello deve fare): denuncia la guerra ma invita a confidare la difesa dei “diritti dei popoli”... nei “negoziati” e nell’Onu! Vorrebbe “Kofi Annan a Belgrado” e una “Conferenza internazionale”. Conferenza di chi? dei massimi capitalisti che, con la minaccia delle armi, potrebbero ottenere di peggio che con la guerra stessa.
Il Vaticano sembra, con tutta cautela, ovviamente, tifare per le borghesie europee, un po’ dalla parte di quelli che gridano “Fuori l’Italia dalla Nato” o “No alla guerra della Nato”. Perché, se la guerra fosse “contro la Nato”? I proletari più che contro la Nato sono contro la guerra borghese. L’Europa sembra oggi meno bellicista degli Usa solo perché i suoi Stati non hanno ancora scelto da che parte mettersi (visto che nemmeno si delineano due “parti”). Però alla guerra Nato ci partecipano senza scrupoli perché sanno che c’è da razziare per tutti. Il Papa recita che “nella guerra ci sono solo sconfitti”. E’ vero il contrario: per le borghesie l’essenziale non è vincerla, la guerra, ma farla, e in questo senso vincono tutte; sconfitti, Santo Padre, sono solo i proletari, se non si rivoltano prima.
Come in occasione della guerra del Golfo di otto anni fa, il cosiddetto “movimento pacifista” raccoglie nelle piazze le dimostrazioni in opposizione alla guerra ed avanza oggi la richiesta che si metta fine ai bombardamenti della Nato. La composizione di forze e di classi è dichiaratamente la più varia, e di questo si van (segue a pag.4) tano gli organizzatori assumendo che sia un elemento della sua forza. Notoriamente il nostro punto di vista comunista non è così semplicistico.
La guerra per i marxisti si determina per le necessità di classe della borghesia ed è indispensabile per la sua sopravvivenza. L’alternativa alla guerra è, oggettivamente, la rivoluzione proletaria, la negazione sociale della borghesia. Tutti i partiti borghesi e piccolo borghesi, che oggi si schierano contro la guerra perché ancora sussiste la possibilità per la società presente di ritardarla ancora, domani, quando la guerra diverrà un ingombrante dato di fatto, inevitabilmente dovranno passare nell’altro campo, non potranno far altro che puntare tutte le loro speranze sulla vittoria del proprio Stato nella guerra imperialista. Quindi si dovranno disciplinare e non è detto che molti ex‑pacifisti non diventino i più ferventi interventisti.
A tutte le “componenti” del pacifismo, a Rifondazione, ecc, si deve quindi chiedere: voi dite di essere per la pace e contro la guerra. Ma continuerete voi ad esser contro la guerra dopo che essa sia scoppiata, quando i giovani proletari verranno richiamati nelle caserme e inviati al fronte? sarete ancora contro la guerra quando questo significherà la rottura del “fronte interno” nel nostro paese, il chiamare al disfattismo al fronte e nelle retrovie? il contribuire alla sconfitta del nostro paese? Noi sappiamo la risposta: no. Solo la classe operaia, classe internazionale e senza patria, dalla guerra dei propri padroni ha solo da perdere e nulla da guadagnare. Inoltre è la sola classe che, distruggendo il capitalismo, può far venir meno anche le ragioni della guerra imperialista.
L’opposizione alla guerra da parte del proletariato si può configurare quindi non come partecipazione individuale o in piccoli gruppi al generico ed interclassista movimento pacifista, che sappiamo tradirà, ma come espressione del movimento operaio strutturato e mobilitato, allenato alla lotta, nei suoi organi di difesa sindacale come salariati e di cosciente prospettiva politica nel partito.
Oggi sappiamo che il movimento operaio sta ancora
ricostruendo,
con non poche difficoltà, la sua rete di organizzazioni
economiche sindacali
ed è totalmente scollegato dal partito di classe, ridotto ad un
piccolo
numero di militanti. Però le crisi sempre più profonde e
ricorrenti,
economiche, sociali, politiche e militari del mostruoso nostro nemico
storico,
che fanno piazza pulita di tutte le illusioni progressiste e pacifiste,
ci preparano sempre più terreno per preparare quella
riorganizzazione
di classe. Le imprese guerresche dei borghesi, che i proletari e i
comunisti
condanneranno come di rapina, antioperaie e anticomuniste, a questo ci
servano, alla estensione dell’organizzazione operaia, alla diffusione
della dottrina del partito comunista, che unica spiega e risponde alle
convulsioni agoniche del capitalismo mondiale.
Il fenomeno dell’usura ha assunto in Italia dimensioni impressionanti. Secondo i rapporti del servizio studi della Banca d’Italia e dal Commissariato Straordinario del governo per il coordinamento delle misure anti‑racket il giro di affari dell’usura supererebbe i 10 mila miliardi di lire coinvolgendo circa 700 mila famiglie. Nel 90% dei casi il ricorso a finanziamento da parte di usurai sarebbe dovuto al bisogno di capitali per l’esercizio di piccole attività imprenditoriali, solo il 10% sarebbe destinato a consumi personali o familiari. I tassi praticati dagli usurai si aggirerebbero, in media, dal 15 al 20% mensili con punte, però, molto più elevate. La presenza di strozzini sarebbe molto forte a Napoli (circa 15 mila) ed in Campania (circa 40 mila). Nel 1994 in tutto il territorio nazionale erano state presentate 3.340 denuncia per usura.
Tutta la campagna moralistica contro l’usura e chi la pratica è solo una mistificazione farisaica degna della “migliore” tradizione cattolica e borghese. Chi ricorre all’aiuto dello strozzino usuraio? Vi ricorre il piccolo o medio borghese, sommerso dai debiti, che lotta, con le unghie e con i denti, contro la tendenza naturale di questo modo di produzione e di sfruttamento capitalista che lo condanna alla proletarizzazione forzata. Questo piccolo o medio borghese, in barba ai sermoni dei preti ed alla legge 108 del 1996, all’interno della sua classe non trova una mano amica che lo soccorra perché all’interno della sua classe vige il motto mors tua vita mea, altrimenti detta “libera concorrenza”. Non trova una banca che sia disposta ad anticipargli il capitale di cui esso ha bisogno, perché non è in grado di dare delle garanzie: cioè chi presta non è sicuro di poter riavere il danaro. E questo benché gli istituti di credito siano salvaguardati dalla legge dello Stato. Il piccolo borghese, che conosce bene quale sia la condizione della classe operaia, sullo sfruttamento della quale è vissuto, prima di esserci sospinto dentro gioca il tutto e per tutto affidandosi allo strozzino che (a differenza della banca) concede il prestito, ma evidentemente, essendo elevato il rischio lo concede dietro un elevato interesse.
Lo strozzino non può farsi inibire da condizionamenti morali, la sua è una impresa come tutte le altre e come tutte le altre dipende dalle leggi del mercato. «L’usuraio non conosce quindi nessun limite che non sia la capacità o il potere di resistenza di coloro che hanno bisogno di denaro» (Marx). Se le banche concedessero i prestiti, se il “Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura” ed il “Fondo per la prevenzione del fenomeno dell’usura”, istituiti con la legge 108, funzionassero realmente sarebbero gli strozzini a dover chiudere bottega ed allora i piccoli e medi borghesi non correrebbero più il rischio della catastrofe economica e sociale ed il mondo borghese vivrebbe tranquillo ed in pace spartendosi il plusvalore estorto alla classe operaia della quale a nessuno frega un bel niente. Ma così, sfortunatamente per le mezze classi, non è perché se è vero che «lo sviluppo del sistema creditizio si compie come reazione contro l’usura (...) Nel moderno sistema creditizio il capitale produttivo d’interesse viene adattato nell’insieme alle condizione della produzione capitalistica» (Marx), è altrettanto vero che «l’usura in quanto tale non solo continua ad esistere, ma presso i popoli a produzione capitalista sviluppata viene liberata dai vincoli che tutte le antiche legislazioni le avevano imposto» (Marx).
Il denaro è una necessità per la società divisa in classi e con il denaro nasce anche l’usura. S. Paolo nella prima lettera a Timoteo scriveva: «Radice di tutti i mali è l’amore per il denaro». Ma questo concetto non rappresentava una innovazione morale del cristianesimo, già Platone ed Aristotele si erano espressi contro il prestito ad interesse. Platone non solo condannava l’interesse, ma addirittura era del parere che colui che presta deve rifiutare il rimborso del capitale prestato. Per Aristotele il prestito ad interesse era contro natura perché in tal modo il denaro diventava produttivo ed assumeva una funzione diversa da quella sua propria che era di facilitare gli scambi. Anche la Bibbia, nei libri dell’Esodo (22.25), del Levitico (25.35/37) e del Deuteronomio (23.20/21), condanna l’usura e la sua pratica nei confronti degli appartenenti al popolo di Israele, mentre ammette il prestito usuraio nei confronti degli stranieri.
Il diritto romano in principio stabiliva che colui che aveva contratto prestito era tenuto alla restituzione del tantundem, ossia dell’uguale quantità. Successivamente, quando l’usura divenne pratica corrente, integrò la legge permettendo la stipulazione di un contratto aggiuntivo denominato stipulatio usurarum, per cui si stabiliva che, oltre al tantundem si potesse esigere una somma liberamente pattuita tra le parti. Il dilagare del fenomeno usuraio costrinse la legislazione romana ad emanare varie altre leggi che per fissare un tasso di interesse massimo, che nell’88 a.c. venne determinato nell’1% al mese (usurae centesimae). Altri due tipi di contratto erano presenti nel diritto romano: il fenus nauticum o pecunia praiecticia ed il pignus. Il fenus, già molto diffuso nel mondo greco, consisteva nel prestito di denaro a scopo di commercio marittimo con assunzione del rischio della navigazione da parte del creditore. Poichè questo rischio era molto elevato, secondo il concetto del ubi periculum, ibi lucrum collocetur, l’interesse richiesto era almeno il doppio di quello normalmente richiesto per altri tipi di prestito. Il pignus consisteva nel pignoramento di un bene a garanzia della restituzione del prestito concesso, nel caso contrario sarebbe divenuta proprietà del pignorante.
Ma, come racconta Tacito negli Annales, con espedienti fraudolenti si propagò la pratica di imporre tassi di interesse molto maggiori di quelli stabiliti dalla legge. Se ne può dedurre quindi che anche nell’antica Roma, dove le attività finanziarie e commerciali avevano una impressionante vitalità, la legge dovesse adeguarsi al fenomeno del prestito ad interesse, per quanto lo riconoscesse contro natura (usura non natura, sed iure percipitur), mentre da parte sua la pratica usuraia scavalcava i limiti impostigli dalla legge per adeguarsi alle necessità dettate dalla natura stessa del modo di produzione e di scambio.
La nuova religione cristiana prese netta posizione contro il prestito ad interesse. Basilio Magno (IV sec.), ad esempio si scagliava in questi termini contro l’usuraio: «Il povero era venuto a cercare un aiuto ed ha trovato un nemico. Cercava una medicina ed ha trovato un veleno. Saresti dovuto venire in soccorso della sua povertà invece ti arricchisci sulla sua miseria (...) I cani quando ricevono qualcosa diventano mansueti; ma l’usuraio quando intasca il suo avere si irrita maggiormente. Infatti non cessa di latrare, chiede sempre di più (...) Non hai ancora preso in mano il denaro che già ti si chiede l’interesse del mese in corso. E questo denaro preso in prestito già genera un altro male ed un altro ancora, e così fino all’infinito» (dalla Omelia sul Salmo XIV).
Tommaso era altrettanto chiaro al riguardo. Se l’usura rappresentava il prezzo per l’uso di una somma di denaro data in prestito, si vende ciò che non esiste poichè l’uso non è distinto dalla cosa. Se invece si esige un guadagno per la somma data in prestito, allora si vende due volte la stessa cosa poichè oltre alla restituzione si esige anche l’interesse.
Il cattolicesimo ha condannato la pratica dell’usura almeno in nove Concili ecumenici. Il Concilio ecumenico Nicea I (anno 325), sotto il pontificato di papa Silvestro I, proibiva tassativamente ai chierici non solo di esercitare attività usuraia, ma perfino di esigere qualsiasi tipo di interesse, anche se legalmente lecito e citava il versetto 5 del Salmo XIV «presta il denaro senza fare usura». Questo divieto conciliare riguardava però soltanto i chierici. Il Concilio ecumenico Laterano II (anno 1139), sotto il pontificato di papa Innocenzo II, ribadiva la condanna della attività usuraia, anche se compiuta secondo il diritto romano antico, poiché tale pratica veniva ritenuta contraria alle leggi divine ed alla Sacra Scrittura. Gli usurai pertanto, sia chierici sia laici, erano da considerarsi infami per tutta la vita e dovevano essere privati della sepoltura cristiana. Il Concilio ecumenico Laterano III (anno 1179), sotto il pontificato di papa Alessandro III, rinnovava la condanna dell’usura che veniva definita crimen. Si ordinava quindi che agli usurai, oltre alla privazione della sepoltura cristiana, fosse negata la comunione dell’altare e si stabiliva la sospensione di quei chierici che avessero disobbedito a queste disposizioni.
I rinnovati divieti dimostravano però come l’attività usuraia, sia quella legale sia quella illegale, fosse assai diffusa. Le decisioni conciliari costrinsero tuttavia i cristiani dall’astenersi, almeno pubblicamente, dal praticare l’usura, attività invece che venne esercitata, con tutti i crismi della legalità civile, dagli ebrei che ne fecero una delle loro attività professionali più caratteristiche.
Il Concilio ecumenico Laterano IV (anno 1215), sotto il pontificato di papa Innocenzo III, ordinava ai cristiani, sotto la minaccia di censura ecclesiastica, di astenersi dai rapporti commerciali con gli ebrei al fine di evitare il contrarre di prestiti usurai. Il Concilio ecumenico Lione I (anno 1245), sotto il pontificato di papa Innocenzo IV, dopo avere espresso la gravissima preoccupazione per la voragine di interessi (usurarum vorago) che avevano quasi distrutto moltissimi patrimoni ecclesiastici, proibiva in modo perentorio di contrarre prestiti, o almeno che dovessero essere contratti senza stabilire interessi. Ciò dimostra che la dura necessità vale più delle disposizioni dei concili ecumenici.
Il Concilio ecumenico di Vienne (anni 1311 e 1312), sotto il pontificato di Clemente V, prendeva atto che «in offesa a Dio ed al prossimo» in diverse località veniva autorizzata la pratica dell’usura ed addirittura la si imponeva con sanzioni coercitive. Per rimediare a questi abusi il concilio stabiliva la scomunica di tutti coloro (capitani, rettori, consoli, giudici) che con decreti o sentenze avessero obbligato al pagamento di interesse a usuraio. Al decreto 29 si legge: «Se poi qualcuno cadesse nell’errore di affermare con pertinacia che esercitare l’usura non è peccato, disponiamo che venga punito come eretico».
Il Concilio ecumenico Laterano V (anno 1515), sotto il pontificato di Leone X, stabiliva che «si dà usura in senso proprio quando dall’uso di una cosa che non produce niente, ci si sforza di ricavare, senza alcuna fatica e pericolo, un guadagno ed un frutto». La precisazione di «senza fatica e pericolo» è in realtà ambigua, e non poteva che essere così essendo il papa figlio di Lorenzo dé Medici e gaudente fino all’estremo. Sembra sia stata sua la seguente affermazione: «quanti comodi ci procura questa favola di Cristo!».
Il Concilio ecumenico di Trento (anno 1566), sotto il pontificato di papa Pio V, ribadiva la condanna agli usurai inesorabili e crudeli nelle rapine, che derubavano e dissanguavano il misero popolo. Si confermava che l’usura consisteva nel ricevere un’aggiunta in più, qualunque essa fosse, oltre il capitale prestato, sia in denaro, sia in altre forme e si concludeva che questo delitto fu sempre considerato odioso e grave più di ogni altro anche presso i pagani.
Un po’ più articolata, rispetto a quella cattolica, era la posizione di Lutero per il quale, come ricorda Marx, «un interesse può essere richiesto quando, in seguito alla non avvenuta restituzione al termine fissato, colui che ha prestato e che a sua volta deve effettuare pagamenti, deve sostenere spese non previste, o quando per questo motivo perde un profitto che avrebbe potuto ricavare». Calvino, al contrario, si contrappone in modo diametrale alla dottrina cattolica e senza mezzi termini si schiera a favore dell’usura. A differenza di quanto stabilito da Tommaso che, rifacendosi ad Aristotele, considerava il denaro come puro e semplice mezzo di scambio, Calvino stabiliva che il denaro fosse res frugifera, cioè campo fertile e fruttuoso da coltivare da cui ne derivava la piena legittimità dell’interesse.
Per combattere la usura palliata, cioè quella attività usuraia coperta e nascosta con furbeschi accorgimenti, su iniziativa, principalmente dei frati francescani, nascevano, nel XV secolo i Monti di Pietà con lo scopo di prestare somme di denaro in cambio di pegni. Queste istituzioni, come dice Marx, «vanno ricordate solo perché mostrano l’ironia della storia, in virtù della quale le pie intenzioni si convertono proprio nel loro contrario non appena vengono realizzate». Ed infatti sorse immediatamente una disputa teologica che contrapponeva i francescani, detentori dei Monti di Pietà, agli altri ordini religiosi. I Monti di Pietà, ad uso rimborso spese di gestione, trattenevano una parte della somma data in pegno; questa pratica fece gridare allo scandalo sia i frati agostiniani sia quelli domenicani i quali sostenevano che in realtà il cosiddetto “contributo” altro non era che “interesse” e quindi di usura bella e buona si trattava.
Per quanto noi ne sappiamo l’ultima dichiarazione ufficiale contro l’usura, da parte della Chiesa cattolica, è contenuta nella Enciclica Vix Pervenit emanata da papa Benedetto XIV nel 1745 dove viene condannato «quel genere di peccato che si chiama usura e che (...) consiste che ciascuno pretende che del mutuo, il quale per sua natura vuole che si restituisca solo quel che fu prestato, gli sia restituito più di ciò che si ricevette; e per ciò sostiene che oltre al capitale gli è dovuto un certo guadagno a motivo del prestito stesso. Perciò ogni utile di questa specie, che superi il capitale, è illecito e usuraio».
A togliere la Chiesa cattolica da ogni impiccio, cioè dal pericolo di dover scomunicare se stessa, in base agli articoli dei concilii ecumenici, venne, provvidenziale, la rivoluzione francese. Preso il potere la borghesia sistemò tutto la controversia usura sì/usura no, con una precisazione terminologica. Il 12 ottobre 1789 l’Assemblea Costituente Francese approvava un decreto nel quale di introduceva la distinzione nominale tra l’usura permessa e determinata dalla legge civile, che assumeva la denominazione di “interesse legale”, mentre il termine “usura” acquistava un significato puramente illegale in quanto veniva attribuita all’interesse superiore al tasso stabilito per legge.
Banche cattoliche e banche vaticane, negli ultimi due secoli sono nate e sono prosperate ben certe di non contravvenire alla legge divina che vieta loro l’usura in quanto si limitano ad esigere il borghese “interesse legale”. E se quand’anche questo interesse legale venisse superato, non ci sarebbe «nessun imbarazzo per la Chiesa. Altrimenti dovremmo sentirci imbarazzati ogni volta che un uomo, qualsiasi uomo, commette un errore. Perché la Chiesa è fatta di uomini» (il cardinale Tonini sul Corriere della Sera il 21 agosto).
Marx, dopo avere ricordato che «l’usura ha una importanza storica in quanto costituisce essa stessa un processo che genera il capitale, (infatti,) capitale usuraio e capitale commerciale rendono possibile la costituzione di un patrimonio monetario indipendente dalla proprietà terriera», ci dice anche che è impensabile che il mondo capitalista possa liberarsi di questo fenomeno. «L’usura sembra vivere nei pori della produzione come gli dei di Epicuro vivevano negli intermundia».
Le campagne moralizzatrici le lasciamo agli altri, ai disonesti ed agli imbecilli, noi abbiamo imparato da tempo che non si cura il marcio della società mettendo impiastri e pomate sui suoi bubboni infetti che possono essere il banchiere disonesto, il politico corrotto, il cardinale usuraio. Non sta qui il problema, bisogna tagliare drasticamente alle radici le cause di queste infezioni, l’esistenza stessa del modo di produzione capitalistico.
Quando, dopo un periodo (non certo breve, compagni anarchici!) di
dittatura
del proletariato, avremo abolito anche il denaro, ai finanzieri
d’assalto,
agli usurai ed agli adoratori del dio “mammona” non rimarrà che
il
rimpianto di un tempo che fu giocando a Monopoli attorno ad un tavolo.
(2/2 - continua dal numero scorso)
DOPO IL 1926
Dopo il 1926 la classe capitalistica europea non ha più due nemici, ma solo il popolo delle colonie, quindi può vincere la contesa a scala del mondo. Il quadro dei moti nelle colonie e nelle semicolonie, già fiammeggiante nel 1920, dal 1920 al 1927 culmina nelle Comuni proletarie di Shanghai e di Canton, ove la classe operaia era considerevolmente aumentata.
Intorno al 1950 la situazione in gran parte dell’Asia e di Africa era al parossismo della tensione. «Istituti tremendamente statici come quelli terrieri e teocrati di Oriente stanno paurosamente crollando in un mareggiare di guerre civili» (“Pressione razziale del contadiname, pressione classista dei popoli colorati”, 1953).
Soprattutto è la parte più intelligente della borghesia cinese che si ammanta di socialismo a trascinare con sé il contadiname per imporre il proprio Stato nazionale.
Oggi, a cento anni dal Congresso Internazionale di Londra del 1896, il quadro sociale è assai mutato. Attualmente lo sviluppo delle forze produttive è tale da richiedere nuovi rapporti sociali, socialisti, in tutto il mondo. Urge la messa in opera del “piano economico mondiale unitario” promesso da Lenin al II Congresso dell’Internazionale Comunista, pronto a poggiare su potenti forze.
«Ad uno svolto, che tutto al più possiamo porre al
1870», della fine
in Occidente della sistemazione nazionale, «era puro disfattismo
ogni
rinvio della battaglia proletaria a dopo il raggiungimento di fini
nazionali
etnici o irredentisti». I marxisti diagnosticarono che nella fase
imperialistica
«il “principio di nazionalità” si presta bellamente a
tutte le plastiche
della arruffianata chirurgica diplomatica, specie nelle zone in cui,
come
nei disgraziati Balcani, non sono tracciabili sulla carta geografica i
confini etnici linguistici e nazionali, i villaggi turco, greco, serbo
e bulgaro, con i preti del caso, stanno a un passo tra loro, e mai
l’odio,
la guerra e la forza sistemarono quei terreni sul piano della
nazionalità.
Queste zone abbondano in Europa». «Il principio di
nazionalità era tenuto
sempre “in caldo” per poterlo agitare a fini di classe e soprattutto
al fine di scombussolare l’autonomia vigorosa del movimento operaio,
ma era disinvoltamente calpestato ogni volta che facesse comodo alle
imprese
economiche borghesi di soggiogare una provincia di confine, uno “spazio
vitale”, o un disgraziato e colorato popolo d’oltremare» (“Il
Proletariato
e Trieste”, 1950).
CARATTERI NUOVI DI AUTODECISIONE
Nei primi anni del 1950 «l’attenzione del mondo è rivolta alla Persia, e al suo petrolio (...) Interessa rilevare che questa questione nazionale e questa rivendicazione di autodecisione presenta caratteri nuovi e suggestivi, se lumeggiati coi dati del materialismo storico. Non solo gli elementi razziali linguistici culturali e psichici e tutti quelli derivanti dalla tradizione, scompaiano quasi davanti alle grandi forze motrici del contrasto acutissimo odierno (...) primeggiando solo, ma allo stato incandescente di trasformazione, quelli che si traggono dalla vita economica (...)
«Lingua, cultura e carattere spirituale persiano, con profonde radici di tradizioni storica, se ne possono rinvenire largamente: ma quale contributo a questi caratteri trasmessi da millenni ha dato il petrolio dal 1900? La comunità di vita economica era poca cosa da quando il contenuto non era la costruzione di enormi cinte urbane e di dighe sui sacri fiumi col lavoro di milioni di schiavi. Paese con una densità di popolazione che non raggiunge dieci persone per chilometro quadrato, privo fino alla scoperta del prezioso minerale liquido di ferrovie; la stessa agricoltura copriva piccola parte del territorio e vi aveva sovrapposto un immobile ordinamento feudale culminante nella monarchia e nello Stato, in quanto la zona semidesertica e sterile era ancora percorsa da tribù nomadi, non uscite dallo stadio di barbarie, dedite all’armentizia ma incapaci di fissarsi in sedi stabili sul suolo inospitale. Nessunissima tendenza quindi ad una vita nazionale moderna, nessuna esigenza di costituzioni politiche nazionali come quella che provoca il sorgere delle forme moderne di produzione, dell’industria e del capitalismo.
«Tutto è sopraggiunto, in pochi decenni, dal di fuori e dall’oltremare. La scoperta del liquido prezioso, la nozione che esso è utile come combustibile, la tecnica che consente di estrarlo, di purificarlo, di trasportarlo, di utilizzarlo, la rete organizzata per collocarlo venderlo e trarne profitto. Tutto è recentissimo in quelle agglomerazioni costiere. Questa nuova versione del diritto nazionale, esaltata nella disdetta del governo persiano all’Anglo‑Iranian, merita di essere studiata dai marxisti. Che la nazionalizzazione iraniana del petrolio significhi conquista per il benessere dei poveri lavoratori del petrolio o dei poveri contadini servi della gleba e pastori vaganti; ecco l’immensa menzogna che l’analisi marxista deve sventare. Tutto quello che è sopraggiunto, in pochi decenni, non è dovuto a una borghesia che sempre più era evidente che non esisteva, ma all’afflusso di capitali internazionali che hanno sbloccato i compartimenti stagni, continuando anche dopo la nazionalizzazione, in aree sempre più grandi, come più sopra è stato dimostrato in Asia centrale, sostituendo ad essi l’intreccio grandeggiante della organizzazione mondiale del lavoro, quindi rivoluzionario» (“Patria economica?”, 1951).
Non solo l’Asia ma tutto il globo ha oggi raggiunto (anche se per
vie diverse) un generale sviluppo della produttività e
socialità del
lavoro connesso internazionalmente da permettervi la dittatura
proletaria,
Resta certo da considerare la sopravvivenza di residui di classi
detronizzate,
il diverso grado di sviluppo del capitalismo, del salariato e della
classe
operaia nelle diverse aree, delle soprastrutture politiche, e delle
soprastrutture
delle soprastrutture: culturali, religiose, psicologiche ecc. Ma solo
per
individuare il metodo più spiccio per allontanare gli inerti
storici dalla
sola reazione esotermica che la chimica sociale conosce: la scissione
della
molecola nazionale borghesia imperialista-proletariato industriale
moderno.
Se, essendo finita nel 1870 la sistemazione nazionale in occidente, vi
era puro disfattismo ogni rinvio della battaglia proletaria a dopo il
raggiungimento
di fini nazionali etnici o irredentisti, lo è ora anche per la
rimanente
parte dell’umanità. Di nuovo vediamo come la borghesia, nei
disgraziati
Balcani, nel medio Oriente, in Africa, e, quando le sarà utile,
in qualunque
luogo, resuscitare quel “principio di nazionalità” «per
poterlo agitare
a fini di classe e soprattutto al fine di scombussolare l’autonomia
vigorosa
del movimento operaio».
L’ATTUALE TERZO PERIODO
La diagnosi di Lenin che il capitalismo sviluppato “ha ravvicinato e mescolato tra di loro le nazioni, già del tutto attratte nella circolazione delle merci”, è più evidente oggi che la tecnica richiede sempre maggior contributo di materie prime ed energetiche provenienti dai quattro angoli del pianeta ed è in grado di produrre nel modo più efficace solo in quantità tali da poter soddisfare il bisogno di masse d’uomini ben maggiori di quelle contenute in un solo Paese, sia pur esso grande. La dimensione nazionale diventa sempre più stretta ed un limite per lo stesso capitalismo. «Le fabbriche diventano degli automi sempre più grandi», scrive Marx ne “Il Capitale”, Libro Primo, cap.13; oggi molte di esse sono composte di stabilimenti distribuiti su tutto il globo, collegati fra loro da un ferreo unico piano, «nelle quali aumenta la socialità del lavoro. Ma nelle relazioni fra le diverse unità produttive rimane il dominio del mercato». Il senso è quello del “Manifesto del Partito Comunista”: «La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali». Per il poderoso sviluppo tecnico, che comporta un consumo maggiore di quantità di materie prime e prodotti energetici, di gran lungo maggiore al 1920, tutti i paesi sono sempre meno autosufficienti; il capitalismo sviluppato, ravvicinando e mescolando tra di loro le nazioni, si è fuso su scala internazionale. Sul piano tecnico lo dimostrano, per esempio, i grandi gasdotti che dalla Siberia attraversando diversi paesi portano il gas a tutta l’Europa occidentale, così come il gas algerino che sottopassa il Mediterraneo. Molti elettrodotti attraversano diversi paesi.
Di questa stretta interdipendenza non possono non tener conto i
piani
di guerra degli Stati capitalistici, ormai ben oltre la dimensione
nazionale,
nei mezzi e nei fini: la guerra imperialista è una suppurazione
del globale
capitale mondiale, che nel suo complesso internazionale si distrugge
per
poter sopravvivere.
LA GUERRA RIVOLUZIONARIA
«Il socialismo proletario nel suo programma supera la nazione, non la organizza in forme nuove; prende atto che la stessa forma capitalistica sviluppata è capace di superarla» (“Patria economica?”, 1951). «Il Secondo Congresso panrusso dei Soviet adottò il decreto sulla pace, preparato da Lenin, primo atto del nuovo potere. Con esso si propone a tutti i paesi in guerra l’immediato inizio di trattative “per una pace giusta e democratica”: “Una pace immediata (...) una pace senza annessioni (...) e senza indennità” (...) Questa proposta concreta non costituisce una costruzione teorica. La posizione marxista è che un partito proletario non può in nessun caso appoggiare una annessione politica forzata; ma non consiste nel fare un capitolo del programma del partito della sistemazione ex novo di tutti i popoli omogenei in un nuovo ordinamento politico-geografico di Stati raggiunto e mantenuto dal consenso e senza violenza. Questa è ritenuta dai marxisti un’utopia inconciliabile con la società di classe capitalistica, più ancora con ogni altra, mentre in una società socialista il problema passa su altre basi, includenti la “distensione” e lo spengimento di ogni violenza statale. È una proposta tale che i paesi borghesi potrebbero accettarla, o almeno non possono rifiutarla per ragioni di principio» (“Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”, cap.110, 1955).
«Lenin non ha mai condannata in principio la guerra rivoluzionaria» (cap.113). «Il trionfo finale del comunismo non può giungere se sono in armi, in parti del mondo borghese, eserciti indenni. Questa lezione dei fatti scrive nella nostra dottrina l’altro teorema che “la guerra delle classi non ha pacifismi”, non ha coesistenze di eserciti in armi e nemmeno e tanto meno di Stati politici nazionali» (cap.123).
«La guerra russo-polacca. Questo episodio storico ebbe una portata incalcolabile e sembrò rimettere in movimento tutte le forze proletarie di Europa: credemmo davvero che al levarsi delle baionette rosse sulla progredita, industriale, occidentale Varsavia tutto il sottosuolo dell’ovest avrebbe tremato e la faccia della vecchia Europa sarebbe tutta cambiata, come al principio del XIX secolo quando la incendiarono le baionette della grande rivoluzione borghese» (...) «Qui scrive Trotski: “Per quanto una tale guerra fosse imposta all’armata rossa, lo scopo del governo sovietico non era solo parare l’attacco, ma di portare la Rivoluzione in Polonia e in tal modo aprire con la forza la porta per il Comunismo in Europa”. Ecco il linguaggio di una Stato ed un esercito rivoluzionari (...) Il 30 aprile Trotski scrisse al Comitato Centrale ammonendo contro la speranza ultra-ottimistica di una rivoluzione in Polonia (i soliti falsi sinistri sostenevano ancora una volta che non si dovesse combattere in campo aperto esercito contro esercito, ma contare sulla forza notevole dei proletari e comunisti di Polonia). “Che la guerra termini con una rivoluzione dei lavoratori in Polonia, non vi può esser dubbio, ma non vi è nessuna base per credere che la guerra cominci con una simile rivoluzione”» (...) «Il 1° agosto Tukacevski è a Brest: Varsavia è a meno di 100 chilometri ad ovest; l’11 l’Armata Rossa è schierata davanti alla città. Purtroppo questa marcia trionfale fu duramente fermata, con un colpo terribile all’entusiasmo rivoluzionario» (cap.133).
La Rivoluzione comunista è una sola: inizia con la presa del
potere
statale all’interno di uno o alcuni paesi, e termina con l’abbattimento
dell’ultimo Stato borghese del mondo. In questo complesso, forse non
breve, ma continuo storico transitorio, la guerra rivoluzionaria non
è
che la prosecuzione della rivoluzione, la proiezione offensiva
dell’esercito
rosso come coerente prosecuzione della difensiva all’interno dai
bianchi.
Una volta vinta la virulenza del Capitale mondiale nei suoi centri di
resistenza
e nelle sue mostruose metropoli, allora in periferia si porranno non
questioni
nazionali, necessità di affermazioni politiche di classi locali
borghesi,
ma quelle di retaggi di arretratezza sociale da risolvere, in presenza
di residui di classi piccolo produttrici urbane e rurali, come anche
sopravvivenze
preborghesi da accompagnare in uno sviluppo oggettivo.
INVARIANZA STORICA DEL CAPITALISMO
L’essenza della borghesia, nei suoi riflessi coscienti, non varia nel tempo, proprio come la teoria rivoluzionaria.
Nella nostra visione dialettica della storia siamo potuti giungere al traguardo di scoprire quanto veramente labile sia il concetto di “eterno” anche nella società borghese (sebbene un ufficio brevetti non ci riconoscerebbe la scoperta). Con la nascita e lo sviluppo di questa società si creano e si accrescono nel suo seno insolubili contraddizioni, fra le quali la principale è il rafforzamento della classe antagonista alla dominante e che avrà il compito di distruggere i rapporti di produzione che l’hanno determinata: questa classe è il proletariato e ad esso la storia ha imposto il grave compito di risolvere il percorso della storia fin qui trascorsa nel Comunismo. Grande e necessaria Rivoluzione che sola eliminerà quell’antagonismo di classe del quale la società dei borghesi, sorta sulle ceneri di quella feudale, ha solo mutato forma, rendendolo esplicito e privo ormai di ogni giustificazione.
Durante il feudalesimo le classi dominanti davano del proprio potere, fondato sul loro personale armamento e impegno nei compiti di difesa, una complessa giustificazione mistica: l’esistenza della servitù era derivata alla volontà divina, alla quale l’uomo non poteva ribellarsi; l’ordine nei Cieli imponeva l’ordine in Terra. Questo complesso bagaglio dogmatico costituiva per il feudalesimo la verità, unica e indiscutibile. La Rivoluzione inglese prima, l’americana e la francese poi hanno abbattuto questa verità e innalzato a sovrastruttura il pensiero illuminato, ovvero la mistica della Ragione del cittadino. Per essa nessuno uomo è vincolato dalla nascita ad accettare passivamente il proprio stato. La borghesia fonda il suo potere sul dogma laico della uguaglianza politica dei cittadini.
A differenza del feudalesimo, che ha subìto la propria compiuta Critica radicale solamente alle soglie delle rivoluzioni del Settecento, questa verità borghese è stata presto messa in discussione dalla critica della classe operaia, sul piano della lotta sociale e sul piano dell’analisi teorica: l’uguaglianza politica è niente con la divisione della società in classi e senza l’uguaglianza economica.
Questa, evidentemente superiore, verità proletaria viene
vieppiù confermata
dallo sviluppo storico che vede accentuarsi le disuguaglianze e i
contrasti
di classe. Con l’evoluzione – o meglio, ormai, involuzione – del
capitalismo tutta l’oppressione in potenza che il capitalismo aveva da
gettare sulla schiena del proletariato si è manifestata, tanto
nella galera
della fabbrica quanto nella sua dominazione del mondo intero: dal
saccheggio
bestiale del cosiddetto Terzo Mondo fino al degradare delle condizioni
di vita operaia nei paesi a capitalismo avanzato. In qualunque forma
politica
diversa si manifesti, democratica o fascista, il nucleo del capitalismo
è lo stesso: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la produzione
al
fine della vendita e non del consumo, la legge del valore e,
soprattutto,
la spietata legge del plusvalore.
Un rapporto di classe:
SALARIO=VALORE‑PLUSVALORE
PLUSVALORE=VALORE‑SALARIO
La legge del plusvalore (neanche questa scoperta per la prima volta da noi) è ciò che rende veramente particolare la società borghese rispetto ad ogni altra. Il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro in essa incorporato; maggiore il lavoro medio sociale necessario per riprodurla, maggiore il suo valore. Data una merce qualsiasi il suo valore è dato dalla somma di: 1) valore della quota di logorio degli strumenti di produzione, 2) valore delle materie prime, e, 3) forza lavoro impiegata. Quest’ultima non coincide con il salario ma è sempre superiore ad esso: mentre il salario è determinato dal tempo di lavoro occorrente a produrre i beni necessari a soddisfare i bisogni del proletario, ciò che contribuisce della forza lavoro al valore della merce è il suo valore d’uso, ovvero il numero di ore effettivamente lavorate. La differenza immancabile fra il valor d’uso della forza lavoro (le ore effettivamente lavorate) e il suo valore di scambio (le ore retribuite, il salario) costituisce il plusvalore del capitalista, la fonte del suo privilegio e del suo potere. L’operaio non viene pagato per il valore che aggiunge al prodotto, ma gli viene fornito solamente ciò che gli serve per vivere: la differenza è lavoro gratuito dell’operaio, lavoro non remunerato. Sfruttamento di classe diciamo noi!
Oggi come ieri ribadire la legge del plusvalore risulta indispensabile per due motivi principali. Innanzitutto la controrivoluzione del ciclo odierno è riuscita addirittura a fare credere ai proletari la menzogna tardo‑borghese che l’economia nazionale debba essere difesa da tutte le classi sociali in quanto il salario, al pari dell’utile del capitalista e delle varie rendite ed interessi, sarebbe una parte del profitto. In questo interessato capovolgimento il Dio Profitto sarebbe il bene comune, risultato della collaborazione di tutti i fattori della produzione e alle cui mammelle si abbevererebbero tutte le classi. I difensori, sindacalisti e politicanti, della società presente affermano: più Profitto, più Salari; noi opponiamo più Profitto, meno Salari! Nella nostra lettura non è quindi interesse comune che l’economia nazionale si riprenda dalla crisi. L’esperienza storica ci insegna che al proletariato non è mai stato concesso nulla all’aumentare dei profitti dei capitalisti, se non per le sue lotte in difesa del salario. Il ciclo economico influisce sul livello dei salari non in quanto vi è maggiore o minore disponibilità di profitto da condividere con gli operai, ma in quanto gioca la maggiore o minore concorrenza fra proletari in situazioni di pieno impiego ovvero di vasta disoccupazione.
La teoria marxista è nata alla metà dell’800 come negazione in toto di tutti i risvolti della coscienza borghese: tutte le costruzioni proprie della scienza della società presente sono state da noi demolite dalle fondamenta. Il comunismo è veramente l’orribile “spettro” che si aggira per il mondo e la borghesia non può non temerlo: ne va della sua stessa sopravvivenza! Nel 1871, all’esplodere della Comune di Parigi, Francia e Prussia, fino a quel momento in guerra, divennero solidali alleate nello sconfiggere lo “spettro” della Comune e della bandiera rossa. Il timore della Rivoluzione Russa e del suo possibile propagarsi in Europa spinse nel 1918 le maggiori potenze democratiche a trattare in fretta e furia la pace a Versailles: della Prima Guerra Mondiale in corso se ne poteva rimandare il proseguimento ad una seconda, ben più importante era salvare i comuni scranni del potere dalla rivoluzione proletaria. Durante la Seconda Guerra le potenze fra di loro nemiche si trovarono d’accordo su un punto: bombardare i quartieri popolari ed occupare i territori degli Stati vinti perché non scoppiasse alcun “perturbamento all’ordine pubblico”.
Così come il capitalismo rispose alle barricate passate con massacri di operai, così risponderà alle lotte proletarie del domani fino a quando esse non prenderanno il sopravvento sulla difensiva borghese.