|
|||||||||
|
|||||||||
|
Questo è il testo che le nostre sezioni, in Italia e fuori, hanno distribuito per il 1° Maggio e in occasione delle manifestazioni contro la guerra.
Al contrario di quanto cercano di dimostrare i poderosi mezzi di comunicazione-intossicazione del Capitale, la guerra non è un fenomeno che periodicamente ritorna in funzione delle alterazioni cerebrali del "malvagio" di turno. La guerra nella società capitalista attuale è solo e soltanto guerra di rapina, di banditismo, di dominio dei mercati e delle fonti di materie prime, di assassinio cosciente e programmato per l’eliminazione della manodopera esuberante. Offre, in fin dei conti, un bagno di giovinezza per il decrepito e morente capitalismo, che approfitta delle distruzioni e del macello dei lavoratori per cominciare un nuovo ciclo di accumulazione-distruzione. Due guerre mondiali e interminabili guerre minori danno buona prova di questo.
Oggi la crisi generale del capitalismo, dopo aver spazzato l’intero pianeta con distruzioni immani di capitali e di forza lavoro in eccedenza – come da lungo tempo previsto dai comunisti internazionalisti – punta al cuore del capitalismo portando la guerra in Europa.
Gli strateghi del Pentagono vogliono soprattutto tenere sotto stretto controllo militare la zona balcanico-danubiana, vera testa di ponte per ogni "proiezione di potenza" verso il Medio Oriente (prima area petrolifera mondiale), l’Asia Centrale (seconda area petrolifera mondiale) ed il cuore della Russia, bloccando le spinte verso Oriente del concorrente imperialista europeo e le spinte verso il Mediterraneo dell’indebolito, ma potenzialmente ancora possente, imperialismo russo.
Il cozzo nell’area balcanica fra gli interessi economici e strategici delle potenze imperialiste di primo e secondo ordine ha trovaato nella guerra regionale il suo inevitabile sfogo. Quindi la guerra attuale è guerra inter-imperialista in tutti i suoi aspetti, anche se per il momento si svolge in un’ambito geografico limitato e vede su un fronte l’enorme potenziale bellico della NATO e sull’altro il piccolo Stato Serbo, avamposto però di un secondo fronte imperialista in formazione. Sullo scacchiere della diplomazia e del confronto economico e militare, il ruolo di supergendarme mondiale, a seguito dello sprofondamento economico del capitalismo di Stato russo, è ora rappresentato in esclusiva dagli Stati Uniti. L’Unione Europea, con la Germania a capo, gigante economico e finanziario, si conferma ancora un nano politico, privo dell’autorità e del potere militare necessari per parlare da pari a pari con il colosso transoceanico e imporre le sue condizioni nella politica internazionale. Ma le sue pretese sono in tutto identiche a quelle americane: dominio e rapina imperialista all’estero, feroce sfruttamento e repressione della classe operaia all’interno.
Il proletariato ha dunque da sopporsi ad embedue gli schieramenti di guerra!
Da entrambi i lati del fronte le guerre imperialiste hanno come scopo primario la distruzione del capitale e della classe operaia in eccedenza. Più l’imperialismo diventa senile più la sua virulenza distruttiva si abbatte sul proletariato. Se ancora nella Prima Guerra mondiale le vittime civili furono nettamente inferiori ai morti in combattimento, nella Seconda si assistette a un rovesciamento, confermato in tutte le successive guerre imperialiste locali.
Il Secondo conflitto mondiale, spacciato dai vincitori come lotta del Bene democratico contro il Male totalitario nazifascista, fu una feroce guerra condotta dalla borghesia mondiale contro il proletariato mondiale. Ai massacri nazisti della prima fase fecero seguito, quando ormai l’esercito tedesco era in ritirata, i bombardamenti a tappeto delle città proletarie come Amburgo, Dresda e Berlino nonché di quelle italiane. Lo scopo era far sì che i proletari abbandonassero ogni tentativo autonomo di rivoluzione comunista e si accodassero come carne da cannone ai movimenti borghesi di resistenza antifascista, quinta colonna della potenza imperialista anglo-americana e in subordine del più debole imperialismo moscovita. I bombardamenti atomici contro Hiroshima e Nagasaki furono un monito rivolto, oltre che alla Russia stalinista, ai popoli di colore che stavano iniziando allora la loro lotta di liberazione nazionale.
Oggi i bombardamenti incessanti sulla Iugoslavia, che scalfiscono appena la macchina bellica serba, servono a terrorizzare ed uccidere i proletari, così come la repressione contro la popolazione albanese, da parte della polizia e dell’esercito serbo, va ban oltre la volontà di colpire l’UCK, preannunziando quale sarà lo scopo anche del terzo macello imperialista, che negli stessi studi degli strateghi militari borghesi prevede un 99% di caduti proletari civili contro l’1% delle forze combattenti.
Mentre tutto questo si prepara la classe operaia mondiale rimane paralizzata sia per il terrore indotto dall’ostentazione della macchina militare capitalista, descritta come invincibile, sia per l’inganno democratico, per la fuga nell’individualismo e nelle molteplici forme di drogatura con continuamente genera la corrotta civiltà borghese.
La morente "civiltà" capitalistica può solo offrire feroce sfruttamento, miseria e guerre. Le briciole che ancora oggi alcun settori della classe operaia occidentale ricevono sono pagati a carissimo prezzo oltre ad esser destinati a sparire inesorabilmente, divorati dal mostro senza volto, anima né sentimenti che è il Capitale.
Il proletariato deve approfittare delle lezioni di questi mesi di guerra localizzata per comprendere che il regime del Capitale è sull’orlo del baratro, che un nuovo macello mondiale è in preparazione, che urge ricostruire possenti organizzazioni economiche in grado di opporsi ai piani di guerra del Capitale, con la mobilitazione dei lavoratori, con lo sciopero generale senza limiti di tempo e di luogo.
Urge che i giovani proletari, le forze vive della classe lavoratrice, si colleghino alla loro organizzazione rivoluzionaria, al partito comunista internazionale, l’unico in grado di opporre alla guerra imperialista la guerra sociale contro il regime del lavoro salariato.
La rivoluzione comunista internazionale
sarà l’inizio di una nuova èra per l’uomo che potrà finalmente uscire
dalla preistoria della divisione in classi, del salariato, del mercantilismo,
della guerra: sarà il Comunismo, l’impossibile, utopico Comunismo.
La piattaforma dei metalmeccanici è tutta un susseguirsi di meschini accorgimenti per negare gli aumenti salariali e aumentare i carichi di lavoro. Ai sindacati di regime che non chiedono se non peggioramenti, il padronato risponde che è comunque troppo: nel mezzo fra le due bande sono schiacciati gli operai.
La richiesta di aumento lordo medio a regime di 80.000 lire, in linea con l’inflazione programmata (dicono), è una miseria; insignificante la riduzione d’orario per i turnisti. L’introduzione della Banca delle ore è una vera e propria fregatura: spacciata (ci vuol coraggio!) per dare maggiore autonomia nella gestione del tempo libero dei lavoratori, in realtà aumenta la flessibilità e riduce i salari. La richiesta dei sindacati di voler controllare la gestione dei Fondi è solo un mezzo per spartirsi col padronato una fetta del pluslavoro.
Il gioco delle parti però impone un po’ di sceneggiata: non si può sempre fare come nel precedente contratto che era stato rinnovato senza neanche un’ora di sciopero! Il pericolo che la classe operaia possa ribellarsi impone, finché possibile, di allentare un minimo la rete di contenimento affinché non venga spezzata e i lavoratori si illudano di non essere – come sono – del tutto soli di fronti alla rapacità della classe nemica.
Per questo sono stati indetti degli scioperi. Ma lo sciopero deve essere un’azione di massa in cui i lavoratori mostrano la loro forza di classe al padronato. Far scendere in lotta le varie categorie, o le varie fabbriche, divise nel tempo e rigidamente separate è al contrario voluto e studiato con lo scopo di deprimere e portare lo sconforto nella classe.
Allo stesso tempo il sindacalismo di regime finge un minimo di mobilitazione per non lasciare vuoto uno spazio che sarebbe presto occupato da una vera organizzazione sindacale unitaria di difesa economica.
* * *
La vertenza dei metalmeccanici è venuta a sovrapporsi alla guerra. La triplice sindacale ha rimandato uno sciopero di ferrovieri per non ostacolare i trasporti di guerra. Nelle fabbriche e nei posti di lavoro i funzionarietti si sono dati da fare – approfittando della generosità proletaria, ancora una volta piegata ai fini nemici – a raccogliere fondi per la "missione Arcobaleno", che non sono "contro la guerra" ma per una delle parti in conflitto e che, intanto, vanno diritti dalle tasche dei lavoratori nelle casse dello Stato borghese.
Le Confederazioni infatti hanno dichiarato che il bestiale precipitarsi nella guerra della borghesia italiana è "una contingente necessità". Il che è vero, ma è vero per essa!, è sì una necessità, ma della classe dominante, del padronato, delle industrie e delle banche, della finanza con i suoi appetiti imperialisti e coloniali! Per i lavoratori è un lutto, una sconfitta, una tragedia. In nome di quella "contingente necessità" saranno presto chiamati a nuovi sacrifici, di lavoro e di sangue, a rinunciare ad ogni loro difesa, sottomessi all’ubriacatura patriottica e alla militarizzazione nelle fabbriche, nelle caserme, nella società.
Il subitaneo irrigidirsi sull’attenti dei sindacati di regime al decollo dei primi bombardieri "umanitari" dimostra anche a chi si volesse proprio illudere che quelle organizzazioni sono irrimediabilmente passate dall’altra parte, sono divenute parte integrante della macchina di oppressione borghese e strumento della politica imperialista del capitale italiano e internazionale. Quei sindacati non solo non difenderanno mai più le condizioni di lavoro, ma non esiteranno senza piangere una lacrima a spingere i lavoratori di tutti i paesi a massacrarsi fra loro!
I sindacati, mentre insieme a tutto lo schieramento borghese, si riempivano la bocca della parola "Pace", e gli aeroplani di bombe "liberatrici", si sono ben guardati dal promuovere la mobilitazione operaia, ma solo concerti rock e qualche sporadica processione, fuori dall’orario di lavoro, ovviamente. Chiedono una "equa soluzione" del conflitto. Con calma, quando la "necessità" non sarà più "contingente": fra un’altro mese? fra un anno? fra dieci anni e in tutto il mondo?
* * *
Oggi, di fronte all’incancrenirsi del conflitto, l’italica borghesia, che vede minacciati i suoi affari e progetti nell’area, sembra accennare a volersi dissociare dalla superpotenza USA. Non per la pace ma per fare la sua guerra. In questo doppio gioco serve una leale "opposizione". A questo si prestano Rifondazione e la sinistra sindacale, anche tramite il loro controllo sulle riunioni delle RSU.
Oltre che a sabotare una sana riorganizzazione sindacale di classe, sfruttando i residui di radicate illusioni staliniane fra i lavoratori e l’evidente protervia della Nato, accarezzano simpatie serbe e voti per un "rovesciamento del fronte", che potrebbero un domani tornare utili qualora la borghesia italiana ritenesse di diversamente schierarsi. Essere dalla parte "dei lavoratori iugoslavi" implica essere contro i loro sfruttatori diretti, che sono la borghesia iugoslava e il suo Stato. La guerra è prima di tutto contro i proletari serbi, in tuta e in uniforme, non contro Milosevic. Non è appoggiando Milosevic che si difendono ma lavorando alla lotta e alla fraternizzazione di classe contro tutte le borghesie.
* * *
Il cosiddetto sindacalismo di base è vero che in parte è costretto, in parte si riduce per scelta in limiti angusti. E’ vero che non sono né si ritengono dei veri sindacati, o che sono ridotti all’ambito di categoria o sotto-categoria; è vero che spesso cercano adesioni non sul terreno della difesa di classe ma su quello di certe vaghe, indefinibili, ideologie fra le più sgangherate ed erronee. Tuttavia nascono come reazione di puri lavoratori che – non per stipendio o per carriera – intendono rimediare al tradimento confederale.
E’ possibile che questi organismi rifluiscano totalmente o degenerino in maniera irreparabile, ma ad oggi sono gli unici che sfidano il regime, gli unici che a hanno organizzato, con parole d’ordine non equivoche, una manifestazione nazionale – riuscita – contro la guerra, gli unici che hanno il coraggio, oggi, di sfidare il militarismo tentando uno "sciopero generale".
Arrivi pure il sarcasmo dei ben pagati "esperti" sindacali: "se prima ci accusate di scioperi che non sono scioperi perché non sono azioni di massa, uno sciopero generale del sindacalismo di base lo sarà ancora meno". Verissimo, cari imbroglioni, ma nel primo caso la triplice li indice per castrare il movimento operaio, nel secondo il limite è oggettivo, ma la prospettiva è sana e non forcaiola.
Noi comunisti internazionalisti ci schieriamo con tutte le lotte del proletariato e ne incoraggiamo l’estensione e il collegamento. Ripetiamo il nostro indirizzo per una riorganizzazione del proletariato in un possente sindacato, difensore dei soli salariati, fiero oppositore della borghesia, indifferente alle sorti come dell’economia aziendale così della "Patria in guerra", nemico dichiarato del militarismo e delle ambizioni imperialistiche di tutte le borghesie.
Senza la ricostruzione di un’organizzazione
di difesa economica della classe tutta l’indignazione e le maledizioni
operaie cadono nel vuoto. La rinascita del sindacato non verrà dal cielo,
ma saranno i lavoratori più combattivi che organizzeranno i comitati di
lotta, cercheranno i collegamenti fuori dalle gabbie aziendali, daranno
vita a nuove Camere del Lavoro, luoghi di riunione e di organizzazione
collettiva della lotta.
Che la Nato sia un organismo costituzionalmente imperialista non vi sono dubbi; noi però estendiamo il giudizio al suo demonizzato nemico, la Serbia. L’attuale guerra imperialista, che ha come scenario la tante volte tormentata terra balcanica, riporta inevitabilmente alla mente dei comunisti un episodio assai poco conosciuto però di grande importanza per il proletariato mondiale.
Come è noto, nel 1914, dopo l’ultimatum dell’Austria alla Serbia, cominciarono le dichiarazioni ufficiali di guerra. Mentre gli eserciti delle potenze grandi, medie e piccole mobilitavano il movimento operaio e socialista accusò una delle peggiori rotte rovinose della sua storia (non l’ultima, purtroppo): la maggioranza dei grandi partiti socialisti appoggiò la guerra borghese. Il cretinismo parlamentare, consacrato come fine ultimo dall’apparato elettorale dei partiti socialisti stava dando i suoi frutti. Il tradimento dei principi del socialismo e della rivoluzione sociale si era consumato.
Reazione a quel tradimento fu la sana, ineluttabile e irreversibile scissione dei partigiani dell’internazionalismo proletario e della consegna della guerra alla guerra, dai difensori della patria borghese e del capitalismo nazionale e mondiale.
In Serbia, paese aggredito dall’imperialismo germanico, le ondate di patriottismo bellicista furono invece respinte in nome dell’internazionalismo dalla sinistra del piccolo partito socialista. Questa coerente difesa dei principi fondamentali del socialismo sarebbe costata al partito serbo l’assassinio di Dimitrije Tukovic, compagno che, nelle parole di Leone Trotski, si era distinto come "una della più nobili ed eroiche figure del movimento operaio di Serbia". Tukovic nei suoi scritti sull’organo centrale del Partito Socialista di Serbia Radnicke Novine (La Gazzetta Operaia) si era battuto in favore di una Federazione Socialista Balcanica.
Oggi il Partito Socialista di Serbia, erede diretto della controrivoluzione staliniana e titoista, è ormai solo fedele portavoce della politica espansionista della borghesia serba. La politica che oggi torna comodo personificare in Milosevic non si rifa per niente a quella di Tukovic e dei suoi compagni, ma a quella dei suoi assassini. Assimilare Milosevic con Tukovic è ugualmente imbecille, o disonesto, che confrontare Lenin con un pagliaccio alla Ziuganov, dirigente di quel che rimane del partito stalinista russo.
Il contesto storico attuale non creerà
più figure della statura di Lenin, Rosa Luxemburg, Trotski o Tukovic.
Inevitabilmente risorgerà anonima la loro lotta, che è la nostra, quella
guerra proletaria che sola potrà evitare che la classe operaia si trovi
gettata nuovamente nel macello mondiale, del quale oggi di nuovo la tragedia
iugoslava costituisce un terribile e minaccioso prologo.
Il valore dell’intransigenza nella teoria e nella battaglia del marxismo rivoluzionario
Il rivendicare la necessità di isolare, separare nettamente la dottrina e il programma del partito da quelli avversi delle classi nemiche, e la intransigenza sul piano della tattica, non è proprio esclusivo della nostra corrente di Sinistra comunista ma rientra pienamente nella impostazione e nella tradizione del partito fin da Marx, da Engels e da Lenin. Non solo nei momenti di avanzata e di vittoria ma nelle varie circostanze controrivoluzionarie del passato, come oggi, il partito ha potuto rafforzarsi e sopravvivere esclusivamente per mezzo della sua chiusura contro il fetore borghese che lo circonda, anche se spesso falsamente profumato di "socialismo".
Anche quando il proletariato si portò sul piano della rivoluzione ed il partito vide accrescersi le proprie file ciò non fu dovuto ad un allentamento nella intransigenza comunista, al contrario il partito venne riconosciuto dal proletariato come il proprio per la sua netta opposizione, sul piano del programma e della tattica, ad ogni altro.
L’attuale fase controrivoluzionaria non è la prima della storia del capitalismo in cui il movimento proletario ha a tal punto rinculato verso questa tremenda calma sociale. Sicuramente questo è il periodo controrivoluzionario più lungo, più di settant’anni, che ha visto il capitalismo ben più mascherato grazie ai riusciti lavaggi del cervello con i miti dello stalinismo e della democrazia.
Anche Marx ed Engels, pur sempre mai cessando la loro battaglia pratica e rivoluzionaria, hanno dovuto attraversare anni e anni di ritirata e di inerzia politica del proletariato. Sconfitte le rivoluzioni del 1848 e usciti dalla Lega dei Comunisti nel 1852, l’attività a cui Marx e Engels dovettero dedicarsi per quasi quindici anni fu esclusivamente teorica e di critica delle opinioni democratico-borghesi dilaganti. Sarà nel 1864 che Marx, e poi Engels, torneranno a ricollegarsi alla lotta contingente del proletariato con la fondazione della Prima Internazionale.
Passata però quella fase, chiusasi tragicamente con la sconfitta della Comune di Parigi, Marx ed Engels dovettero tornare a dedicare altri anni prevalentemente allo studio e alla maturazione della coscienza del movimento. Si avrà un altro periodo di relativa separazione del partito dalla classe e solo l’ultimo decennio dell’800 vedrà il ritorno in grande di un partito marxista radicato nella classe con l’affermarsi della Seconda Internazionale.
Anche i bolscevichi in Russia si sono trovati in periodi di storica debolezza, come ad esempio fra il 1907 e il 1915, periodi decisamente fertili per il vittorioso urto rivoluzionario dell’Ottobre.
Il Partito è intransigente in quanto deve innanzitutto sconfiggere coloro che al comunismo rivoluzionario sono apparentemente vicini, ma che nella realtà agiscono d’ostacolo al nostro fine. Il Partito, per poter guidare il proletariato nell’abbattere la società borghese, deve essere in grado di smascherare dinanzi alla classe le altre tesi "rivoluzionarie" destinate alla sconfitta. In questa battaglia, nello stesso tempo, il partito difende e affila i suoi strumenti critici che lo rendono in grado, in momenti storici fetenti come questo, di prevedere cosa riserberà il futuro per sapere in anticipo quale dovrà essere l’atteggiamento tattico corretto. Deve conservare chiara la propria strada per valutare le numerose variabili che descrivono il campo dello scontro sociale.
E’ nei periodi controrivoluzionari che nascono, si sa, i frutti più marci e in questi ultimi settant’anni ne abbiamo visti davvero tanti. Abbiamo visto le tattiche opportunistiche e il passaggio al campo nemico degli staliniani, l’entrata nelle file governative dei libertari in Spagna, la prostrazione al democratismo di sedicenti comunisti nella guerra mondiale fino alla sottomissione all’imperialismo del partigianesimo e del CLN, la politica parlamentarista e costituzionalista del PCI, il ribellismo piccolo-borghese degli Anni Settanta spacciato per rivoluzionario e finito nel terrorismo brigatista. Il Partito sopravvive e si rafforza solo prevedendo questi errori e comprendendo la loro origine. In questo compito è inevitabile il non esser sovente compresi dal proletariato stesso.
Sappiamo che non basta lo schematismo "si fa così perché in passato si è fatto così": occorre valutare l’evoluzione storica nella sua complessa dinamica. Rivendicando dunque l’intransigenza in Marx, Engels e Lenin rimarchiamo insieme alla continuità le differenze che si osservano rispetto all’atteggiamento del nostro partito, che sono da riferire, per lo più, alla differenza tra il capitalismo attuale, imperialista e fascista, e quello di un tempo, concorrenziale e democratico. A queste differenze nel capitalismo corrispondono per noi diverse tattiche, ma non teorie diverse. La stessa dottrina abbraccia tutte le fasi non diciamo soltanto del capitalismo, ma della storia dell’uomo. Solo nel comunismo si potrà dir altro e di meglio.
L’invarianza sta nello scopo permanente che ci si è da sempre prefissati:
l’abbattimento violento del capitalismo, la dittatura politica del proletariato,
la società senza classi.
Il "Rovesciamento della Prassi"
La nostra chiave di lettura della storia, Determinismo e Dialettica, fa sì che noi comunisti siamo gli unici che si possano permettere di non improvvisare mai una tattica o una nuova soluzione teorica in quanto ogni questione che viene posta ha la soluzione, in nuce, nei lineamenti del materialismo storico. Non è volontarismo il nostro "voler" essere intransigenti, non è volontarismo dichiararci, in date fasi, "il Partito". Il filisteo di vedute corte non è in grado di capire, ad esempio, come possono essere parte di un’unica teoria il nostro determinismo e la nostra "volontà" di lotta rivoluzionaria. Quando Marx gridava "Proletari di tutti i paesi, unitevi!", pensa il filisteo, non si contraddiceva rispetto al suo rivendicato materialismo?
Il nostro partito ha sintetizzato come noi vediamo il rapporto fra realtà
sociale ed organizzazione comunista, in uno schemetto grafico che chiamammo
"del Rovesciamento della Prassi". Qui non c’è modo di riprodurlo ma
si trova, per esempio, a pagina 27 del volume che abbiamo recentemente
pubblicato Teoria marxista della conoscenza. Analizzando con attenzione
lo schema si può vedere, tra l’altro, quanto la nostra concezione del
materialismo storico è stata falsificata da più parti. Per noi la realtà
oggettiva è determinata da flussi che originano da quattro punti:
1) La Attività delle Forme e rapporti di produzione, che induce effetti
conservatori, sui piani della Attività, della Volontà e della
Coscienza, sia dei Singoli lavoratori sia di Classe. Solo il Partito ne
è immune;
2) Le Spinte fisiologiche nel Singolo lavoratore, che ne determinano,
nell’ordine, Interessi, Attività, Volontà e Coscienza;
3) gli Interessi economici della Classe, che ugualmente condizionano
Attività, Volontà e Coscienza di Classe;
4) infine la Dottrina del Partito, che recepisce ed integra dalla Classe
Interessi, Attività e Volontà, e ripercorre, con valenza rivoluzionaria,
i percorsi in senso rovesciato. Da essa Dottrina di Partito emana
prima la sua Volontà, poi la sua Attività e, con percorsi meno diretti,
sia la Volontà sia l’Attività del Partito influenzano prima la Classe
collettiva, poi i Singoli lavoratori.
La Struttura, la quale altro non è che il modo di produzione di una data epoca con le sue leggi dialettiche di evoluzione, produce varie Sovrastrutture (per es. la politica, la religione, l’arte, il pensiero, etc.). Via via che queste sovrastrutture maturano, si evolvono, esse, oltre ad essere costantemente determinate dalla struttura, interagiscono tra di loro creando rapporti dialettici immensi e grandiosi. In ultima istanza rimane però sempre il fattore socio-economico quello che maggiormente influenza un dato processo storico.
Il Partito, la cui estensione è riflesso del momento storico, non si può immaginare capace di determinare con la sola sua volontà il favorevole rapporto delle forze sociali e creare quando più lo desidera una situazione rivoluzionaria. Gli individui possono agitarsi singolarmente quanto vogliono, ma non bastano teste e volontà per muovere la storia.
Il Partito comunista è stato più volte escluso dalla vita contingente della classe, ma questo si è dato non per una sua rinuncia o scelta intellettualistica, ma perché forze ben più grandi di lui mantenevano (come oggi) il proletariato idiotizzato dalla forza borghese. Quando il Partito comunista è riuscito a rompere quel guscio – che nemmeno nei periodi di nera controrivoluzione mai ha cessato di provare a fessurare – e si è potuto inserire come avanguardia fra il proletariato anche qui non si tratta solo di volontà combattiva, ma di spinte storiche più grandi della sua organizzazione.
Così leggiamo la cosa. Il Partito della Rivoluzione proletaria è un prodotto necessario della società borghese. Il Capitale non può non creare la sua dialettica negazione, il proletariato, e a sua volta questo non poteva non esprimere la sua avanguardia, il Partito. La scienza della storia che vantano possedere i marxisti non è frutto della loro "intelligenza" ma prodotto e necessaria negazione del primo pensiero borghese rivoluzionario e dell’esperienza storica del proletariato.
Il Partito non crea nessuna rivoluzione, ma la Rivoluzione è, diviene tale, per scontro dialettico, arrivato all’estrema conseguenza, fra due modi di produzione differenti, di cui quello nuovo è ormai troppo più forte e produttivo del vecchio. Lo stesso può dirsi della controrivoluzione: stiamo vedendo con i nostri occhi come la guerra imperialista, ad un certo grado di maturazione della crisi generale del capitale mondiale, è, appare, indipendentemente dalle individuali volontà degli stessi borghesi; la storia si trova poi i suoi uomini.
Lo scontro titanico fra modi di produzione si rende manifesto attraverso
la crisi e la conseguente guerra fra capitali. Non è automatico che queste
inneschino la rivoluzione, come l’esperienza della Seconda Guerra insegna.
Fattore necessario perché la Rivoluzione esca vincente dalla crisi borghese
è l’esistenza e l’influenza ampia del Partito sulla classe e sulle
organizzazioni difensive di classe, che le sappia indirizzare accompagnandole
senza incertezze alla vittoria definitiva su ogni opposizione borghese.
Del Comunismo maturano le condizioni oggettive; la Rivoluzione concresce
nella misura in cui si dà un forte partito rivoluzionario; senza partito
rivoluzionario la situazione non sarà mai rivoluzionaria. E’
frase senza senso quella che afferma che il partito è "in ritardo" sulla
rivoluzione.
Gli anni oscuri di Marx ed Engels
Marx ed Engels nella propria vita, pur di non rinunciare all’integrità della dottrina, dovettero più volte veder allontanare da essi le masse proletarie. Dallo scioglimento della Lega dei Comunisti nel 1852 alla fondazione dell’Internazionale nel 1864 la loro attività si limitò alla teoria politica e alla critica delle correnti sedicenti rivoluzionarie sparse per l’Europa. In quegli anni, appena dodici comunque, Marx ed Engels non sentirono la necessità di darsi una forma visibilmente organizzata, della quale c’era l’intera impalcatura ancora da costruire. Essi ebbero tuttavia, anche allora, la pretesa di definirsi "Partito". Marx scrive ad Engels il 18 maggio 1859: «La nostra designazione a rappresentanti del partito non ci proviene da nessun altro che da noi stessi. Ma essa è sancita dall’odio esclusivo e generale che tutte le frazioni del vecchio mondo e tutti i partiti ci riservano». Altrove afferma «Io, tu Lupus e pochi altri siamo il partito».
I filistei deprecavano l’atteggiamento di Marx ed Engels di allontanarsi da ciò che all’esterno si definiva comunista ma che in realtà non esprimeva che rivendicazioni democratiche, piccolo-borghesi, sindacaliste o simili. Noi non disegnamo parallellismi fra epoche diverse per piacere di semplicità e simmetria, ma intediamo tirare lezioni storiche: la lezione che traiamo dal movimento rivoluzionario degli ultimi 200 anni è appunto quella della necessità di mantenere intatta la nostra intransigenza contro ogni cedimento alle fumisterie borghesi, anche se ciò può avere come conseguenza la fuga, piuttosto che l’avvicinamento, di militanti.
Marx ed Engels non ci hanno lasciato un testo organico sulla questione Partito nei momenti sfavorevoli, ma dal carteggio si può ben vedere cosa essi intendessero, in quei momenti difficili, per Partito e inoltre quali difficoltà oggettive c’erano a mantenere un partito, seppure esiguo di militanti.
Innanzitutto i problemi di questa "organizzazione" erano dovuti al fatto che i pochi militanti erano perlopiù dei puri proletari. Così problemi di partito diventano i seguenti: «Steffen ha perduto il suo posto a Brighton», «Pieper ha perduto il posto di corrispondente», «Lupus sta malissimo», «Eccarius è costretto a fare il sarto dalle 5 alle 8 di sera», ecc. I pochi compagni solo con molto sacrificio possono lottare per il comunismo.
Si possono poi vedere però anche le difficoltà a mantenere salda la linea della Rivoluzione fra compagni che a volte tendono verso il democratismo oppure passano dichiaratamente al campo opportunista. Ricordiamo Lassalle, Freiligrath e altri.
Ecco qualche critica del piccolo Partito-Marx-Engel-Lupus ai grandi partiti "proletari".
Scrive a Becker il 26 febbraio 1862: «La marmaglia delle associazioni (...) è tutta di idee costituzionali anzi ha simpatia per l’unità nazionale sotto la Prussia. Quegli individui sarebbero disposti a dar soldi piuttosto per eliminare uno scritto come il Suo. Lei deve sapere che questi tedeschi, giovani e vecchi, sono tutti uomini ultraintelligenti, abili, pieni di acume pratico, ritengono le persone come Lei e me dei pazzi immaturi, che ancora non sono guariti dalle fantasie rivoluzionarie. E la canaglia in patria è uguale a quella all’estero. Quando fui a Berlino ecc... mi convinsi che ogni tentativo di agire con gli scritti su questa canaglia era assolutamente inutile. La stupida compiacenza di quella gente che nella sua stampa, questa stampa miserabile, ritiene di avere uno straordinario elisir di lunga vita ha dell’incredibile».
E a Freiligrath il 29 febbraio 1860: «Se si pensa agli enormi sforzi di tutto il mondo ufficiale contro di noi, che per rovinarci non ha semplicemente sfiorato il codice penale, ma vi è sprofondato fino al collo; se si pensa alla maldicenza della "democrazia degli stupidi", che mai ha potuto perdonare al nostro partito di avere più intelletto e carattere di lei stessa; se si conosce la storia contemporanea di tutti gli altri partiti; se infine ci si domanda che cosa veramente (...) possa essere rinfacciato a tutto il nostro partito, si giunge alla conclusione che esso occupa una posizione eccezionale per la sua purezza in questo diciannovesimo secolo». Per far capire di quale organizzazione parlasse Marx aggiungeva: «Parlando di partito intendevo il partito nel grande senso storico della parola».
Un augurio però Marx si faceva, e uno stimolo a Lassalle: «Un partito così poco numeroso (...) è da sperare che compensi con l’energia ciò che gli manca nel numero» (22 novembre 1859).
Di quel Partito la teoria era il caposaldo irrinunciabile e lo dimostrò
l’importanza che Marx diede ai suoi lavori teorici in quegli anni, da
"Per la critica dell’economia politica" alla preparazione del "Capitale",
ai numerosissimi articoli scritti per vari giornali. Scrive Marx in un’altra
lettera: «Mi è giunta da parte dei capi dell’associazione comunista
di New York, che è abbastanza diffusa, una lettera che è passata nelle
tue mani in cui in un certo senso mi si pregava di riorganizzare la vecchia
Lega. Prima che rispondessi passò un anno intero, e poi risposi che dal
1852 non ero più in rapporto con nessuna associazione e che ero
fermamente convinto che i miei lavori teorici servissero alla classe operaia
più che l’organizzare associazioni, ormai fuori del tempo, sul continente»
(a Freiligrath, 29 febbraio 1860). O ancora: «Io mi sono ritirato, dall’epoca
del processo di Colonia, nel mio studio. Il mio tempo era troppo prezioso
per sciuparlo con fatiche inutili e beghe meschine» (a Weydemeyer, 1 febbraio
1859).
Alla guida della classe
Nel 1864 l’isolamento del Partito veniva rotto e all’improvviso ci si trovò a guida del proletariato internazionale. Dell’Associazione Internazionale degli Operai, ricordata come Prima Internazionale, Marx e la sua dottrina furono il cuore, la guida tanto politica quanto teorica. Un personaggio che qualche anno prima si era ritirato nel suo studio, e che in modo burbero rispondeva che non faceva parte di nessuna associazione, passò come d’incanto alla guida dell’Internazionale: il proletariato riconobbe semplicemente quella dottrina come sua.
Se diamo lo sguardo alle origini della Prima Internazionale e che negli anni la resero sempre più influente sul proletariato si vedrà che non furono sforzi sovrumani di individui e di "illuminati" ma fattori economico-sociali, e solo dopo politici e di dedizione militante, volontaria e spesso eroica, che la determinarono. Dirà Marx dell’Internazionale: «Il grande successo che finora ha coronato i nostri sforzi è dovuto a circostanze che esulano dal potere dei suoi membri. La stessa fondazione dell’Internazionale è stato il risultato di queste circostanze, e per nulla il merito di uomini che si consacrarono a tale compito. Essa non è stata opera di un pugno di uomini abili; tutti i politici di questo mondo presi assieme non avrebbero potuto creare le condizioni e le circostanze che furono necessarie al successo dell’Internazionale» (K. Marx, da The World, 13 ottobre 1871).
Ecco quali furono le condizioni e le circostanze:
1) Crisi del 1857. In Inghilterra e in Francia la crisi spinge gli
operai a rispondere minacciosi ai borghesi chiedendo la diminuzione dell’orario
di lavoro e aumenti salariali;
2) Necessaria radicalizzazione degli scioperi. In Inghilterra ed in
Francia il movimento operaio comprende ben presto che la lotta economica
non basta per la propria difesa e comincia ad avvicinarsi all’offensiva
politica;
3) Rivoluzione in Polonia. La rivoluzione del 1863 in Polonia e il
massacro conseguente perpetuato dai russi smuovono gli operai francesi
ed inglesi che cercano di coalizzarsi e di spingere i propri rispettivi
governi contro la Russia;
4) Guerra di Secessione Americana. L’appoggio dato dal governo inglese
agli Stati del Sud indigna il proletariato il quale con la sua mobilitazione
costringe l’Inghilterra a non intervenire;
5) Unità d’Italia. Le imprese del "popolare" Garibaldi animano gli
spiriti europei, mentre indigna l’atteggiamento del governo francese
di appoggio allo Stato della Chiesa;
6) Esposizione Universale di Londra del 1862. In questa esposizione
viene inviata un’ampia delegazione del proletariato francese da cui cominciano
i rapporti fra il proletariato dei due lati della Manica.
Questi, e non altri, sono i motivi che crearono l’Internazionale.
Non fu Marx, inoltre, a conferirsi il ruolo di primo piano nell’Internazionale,
ma furono gli organizzatori della conferenza di fondazione che sentirono
la necessità di invitarlo. Quando Marx comprese che il proletariato stava
per prendere la sua strada e che esso ora aveva bisogno sul serio
di una dottrina rivoluzionaria coerente egli si dedicò anima e corpo,
una volta eletto nel Consiglio Centrale, ad indirizzare l’Associazione
per i suoi fini dichiarati. E ci riuscì.
Marx e l’Internazionale
Si potrebbe pensare che la nostra programmatica intransigenza sia strumento per resistere nelle fasi più difficili ma che quando il proletariato è disposto all’azione politica, il suo partito sarà allora costretto ai continui piccoli compromessi della "politica" in quanto, altrimenti, la massa proletaria non sarebbe in grado di capirlo. A ciò noi abbiamo sempre risposto che sarà proprio la giusta dottrina, preservata dalle schifezze che la lusingano, che farà ad un certo punto distinguere dagli altri il proprio partito alla minoranza migliore, più capace, combattiva e generosa, del proletariato. La massa degli operai conosceranno non con la testa ma con la lotta e con l’organizzazione sindacale, nella quale battaglia quotidiana il partito si confronterà con gli altri partiti che influenzano la classe. Non neghiamo qui la necessità di compromessi e tregue, col nemico e con i falsi amici, sul terreno esclusivo dell’azione difensiva di classe e delle necessità della sua lotta. Mai comunque alcun compromesso sui principi. La lotta sindacale ha due principi: 1) indipendenza dal nemico, 2) fedeltà incondizionata all’interesse di classe.
Quando Marx decise di accettare la milizia attiva nell’Associazione Internazionale degli Operai egli sapeva di dover combattere innanzi tutto le ideologie particolari, allora dominanti nell’Associazione, ovvero il proudhonismo dei francesi e il sindacalismo degli inglesi. Gli Statuti e l’Indirizzo Inaugurale che fu incaricato di redigere curarono di emancipare l’Internazionale operaia da quelle sovrapposizioni. Il prevalere della impostazione generale di Marx sulle sette pseudosocialiste è sancito dal Congresso di Ginevra del 1866 e da quello di Bruxelles del 1868 dove l’Internazionale rifiutò le teorie proudhoniane.
Marx dedicò ogni sua volontà ed energia al lavoro di organizzazione e di indirizzo dell’Internazionale. Gli avversari approfittarono di questo suo merito per accusarlo di svolgervi un’azione "dittatoriale" nefasta. Non riescono però a spiegare come, nei suoi circa dieci anni di esistenza, l’Internazionale, nella quale tutto avrebbe deciso Marx, aumentasse sempre di più il proprio prestigio fra il proletariato e come mai il proletariato di Europa e degli Stati Uniti riconoscesse nell’Internazionale il mezzo per la propria emancipazione. Attraverso la vibrante parola e gli appassionati scritti di Marx si esprimeva la "dittatura della necessità", le necessità imposte della condizione e dei destini di una classe dai compiti immensi.
Marx opera una demolizione sistematica dei fallaci indirizzi che i seguaci di Bakunin e di Proudhon si sforzavano con ogni mezzo di imporre al movimento e che, costante dell’opportunismo, sembravano così facili e accattivanti, demolizione che forse per la massa del proletariato era allora e resterà sempre difficile da comprendere. Può sembrare, ad esempio, solo un dettaglio, che non meritasse tanto scontro al Congresso di Basilea nel 1869, la questione del diritto di eredità. Bakunin diceva che bisognava lottare per l’abolizione di questo diritto fin dall’interno della società presente; Marx rispondeva che nostro precedente compito è la Rivoluzione, e non avanzare rivendicazioni democratiche. Dietro la roboante risoluzione di Bakunin già si nascondeva la politique d’abord dell’opportunismo con i fantasmi del riformismo, del gradualismo, del progressismo...
Potevano sembrare anche "astratte" agli operai le critiche di Marx alla società idealizzata dai proudhoniani, così come le critiche serrate che Marx gettò in faccia agli operai inglesi che pensavano che la lotta sindacale da sola potesse risolvere la condanna delle loro classe. Nel maggio del 1865 al Consiglio Centrale Marx spiegava: «La classe operaia non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale e dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per la ricostruzione economica della società» (in "Salario, prezzo e profitto").
L’Internazionale era un’unione di vari organismi operai d’Europa e degli Stati Uniti, influenzati da dottrine politiche e filosofiche le più diverse, comprese e forse dominanti quelle di matrice piccolo borghese. Marx ed Engels aderirono con slancio ad una simile organizzazione che rappresentava la sincera volontà e capacità del proletariato mondiale di opporre le sue lotte al mondo borghese per difendersi dal selvaggio sfruttamento cui era sottoposto. Che vi albergassero dottrine incomplete o non proletarie, cioè non marxiste, è da ascrivere all’immaturità del proletariato internazionale di allora e alla ancor troppo breve esperienza politica: prove storiche dell’utopismo delle altre ideologie, proudhonismo, anarchismo, sindacalismo, non ve n’erano ancora state. La prova storica, tremenda, le diede la Comune del 1971: da allora è fuori dalla strada verso il Comunismo chi dubita della necessità della dittatura del proletariato e della funzione di un forte e centralizzato partito comunista.
Chiusa nel 1974 l’esperienza dell’Internazionale, Engels poté già augurarsi che quella che sarebbe rinata alla fine di questo nuovo periodo controrivoluzionario sarebbe stata un’Internazionale "totalmente marxista". Scriveva Engels in una lettera a Sorge, il 12 settembre 1876: «Per dare vita ad una nuova Internazionale nella forma della vecchia, come un’alleanza di tutti i partiti proletari di tutti i paesi, sarebbe necessaria una repressione generale del movimento operaio, come quella del 1849-1864. Ma per questa il mondo proletario è oggi diventato troppo grande, troppo esteso. Io credo che la prossima internazionale – dopo che i libri di Marx avranno esercitato la loro influenza per alcuni anni – sarà puramente comunista e propagherà direttamente i nostri principi».
La dialettica storica, lo scontro fra gli enormi potenziali del capitalismo
imperialista del ’900 e del Partito comunista, spingerà quest’ultimo
necessariamente a divenire sempre più rigido verso tutto ciò che di a-comunista
vi è all’esterno. Già Lenin tenterà con la III Internazionale di creare
un partito unico comunista a livello mondiale, ma il fatto che nella realtà
molte sezioni nazionali, come quelle francesi, inglesi, ecc., di marxismo
ne masticassero ben poco, concorsero al fallimento della Rivoluzione in
Europa. L’abuso della "transigenza" allora e il farne il supremo principio
tattico da parte dello stalinismo, del trotskismo e di tutti, dopo, fornisce
altra dura lezione storica al futuro Partito Comunista.
Il Partito Bolscevico
Il Partito bolscevico fu, nei primi venticinque anni del ’900, l’unico partito, insieme alla Sinistra in Italia, collocato senza incertezze sul terreno che definiamo marxismo rivoluzionario. La "giusta tattica" da esso propugnata è dimostrata dalla vittoria dell’Ottobre. Il Partito bolscevico non avrebbe preso il potere con tanta sicurezza e determinazione se non avesse avuto alle spalle un coerente lavoro di partito e circa vent’anni di esperienze le più diverse. Ne "L’Estremismo, malattia infantile del comunismo", del 1920, Lenin poté affermare che i successi del suo partito e della dittatura del proletariato erano dovuti innanzitutto alla «disciplina severissima, veramente ferrea del nostro partito», alla «centralizzazione assoluta», al rapporto che si era andato via via formando fra il partito e la classe proletaria e soprattutto alla «giustezza della sua direzione politica».
Contro gli economicisti Lenin aveva scritto nel "Che fare?": «Si pensi... ad un’insurrezione popolare. Tutti riconoscono certo che oggi dobbiamo pensarci e prepararci. Ma come? Come potrebbe il Comitato centrale inviare fiduciari in tutte le località per preparare l’insurrezione? E anche se avessimo un Comitato centrale che prendesse una tale misura, non riusciremmo a niente nelle condizioni attuali della Russia. Invece una rete di fiduciari che si fosse formata da sé, lavorando alla creazione e alla diffusione di un giornale comune, non si accontenterebbe di "attendere con le braccia incrociate" la parola d’ordine dell’insurrezione, ma svolgerebbe un’attività regolare che le garantirebbe le maggiori probabilità di successo in caso di insurrezione».
Ma quali erano i connotati del Partito bolscevico? Emblematico sulla questione sarebbe analizzare la sua attività nei periodi più difficili. Racconta Zinoviev: «La lotta per la rigenerazione ideologica del partito durò per tutto il 1909. La situazione, lo ribadisco, era estremamente dura. In un gran numero di compagni lo spirito rivoluzionario veniva meno. Il nostro partito si spezzettava in gruppi, sottogruppi e frazioni. Un piccolo circolo di conciliatori, che si facevano chiamare dei bolscevichi partitisti, si staccò a sua volta dai leninisti. Con le sue esitazioni fece molti danni e fu utile ai liquidatori. Parecchi dei suoi esponenti, come M. Ljubimov, si unirono in seguito ai menscevichi difesisti, gli altri, come Rykov e Sokolnikov, compresero i propri errori e si ricongiunsero ai bolscevichi leninisti. Il nostro ruolo fu quello di mettere insieme pietra su pietra i materiali di partito, di preparare la sua rigenerazione e soprattutto difendere le basi stesse del marxismo contro tutto coloro che lo snaturavano. Se il bolscevismo avesse fatto allora delle concessioni teoriche o politiche ai suoi avversari non avrebbe potuto portare a termine il suo compito. Ecco perché questa pagina della nostra storia merita una studio attento da parte dei giovani militanti, soprattutto adesso (1923) che sorgono, qua e là, teorie che per molti aspetti ricordano quelle della fase che ho appena descritto» ("La formazione del Partito bolscevico").
Il duro periodo 1907-10 così viene descritto ne "L’estremismo" da Lenin: «Lo zarismo ha vinto. Tutti i partiti rivoluzionari e i partiti d’opposizione sono battuti. Scoraggiamento, demoralizzazione, scissione, decomposizione, apostasia, pornografia invece di politica. Aumenta la propensione per l’idealismo filosofico. Il misticismo è l’involucro che copre le tendenze controrivoluzionarie. Ma, in pari tempo, appunto la grande sconfitta è per i partiti rivoluzionari e per la classe rivoluzionaria un’effettiva ed utilissima lezione, una lezione di dialettica storica, una lezione sulla comprensione, la capacità e l’arte di condurre la lotta politica. Nella sventura si conoscono gli amici. Gli eserciti battuti imparano bene (...) I partiti rivoluzionari debbono completare la loro istruzione. Essi hanno imparato a condurre l’offensiva. Ora bisogna comprendere la necessità di completare questa scienza con la scienza della ritirata in buon ordine. Bisogna comprendere – e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla propria amara esperienza – che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata. Fra tutti i partiti d’opposizione e rivoluzionari battuti, il partito dei bolscevichi si ritirò con maggiore ordine, con le minori perdite per il suo "esercito", conservando meglio il suo nucleo, con le scissioni minori (per profondità e insanabilità), con la minor demoralizzazione e con la maggior capacità di riprendere il lavoro nel modo più ampio, giusto ed energico».
Lenin dirà che il Partito per giungere al livello di maturità al quale è giunto ha dovuto lottare su tre campi: politico, economico e sociale. Nell’azione la capacità di combinare lavoro legale e lavoro illegale permise al Partito quell’abilissima capacità di movimento.
Ma qual era, secondo Lenin, il mezzo migliore per poter combattere nella giusta direzione? Aveva scritto nel "Che Fare?": «Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente di avanguardia». «Se è necessario unirsi – scriveva Marx ai capi del partito – fate degli accordi allo scopo di raggiungere i fini pratici del movimento, ma non fate commercio dei principi, e non fate "concessioni" teoriche. Questo era il pensiero di Marx, e fra noi si trova della gente che nel suo nome tenta di diminuire l’importanza della teoria! Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario». Lenin riportava poi una citazione di Engels a difesa della sua tesi: «Il socialismo, da quando è diventato una scienza, deve pure essere trattato, cioè studiato, come una scienza».
L’attacco di Lenin passa poi contro lo spontaneismo. Ecco quali erano i rischi allora per i marxisti: «Ogni sottomissione alla spontaneità del movimento operaio, ogni restrizione della funzione dell’"elemento cosciente", della funzione della socialdemocrazia (oggi leggasi comunismo) significa di per sé – lo si voglia o no – un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai. Tutti coloro che parlano di "sopravvalutazione dell’ideologia", di esagerazione della funzione dell’elemento cosciente, ecc., coloro immaginano che il movimento puramente operaio sia di per sé in grado di elaborare – e si elabori in realtà – una ideologia indipendente». Poi aggiunge: «Il nostro movimento è ancora nell’infanzia e per raggiungere presto la virilità esso deve corazzarsi d’intolleranza contro coloro i quali, sottomettendosi alla spontaneità, ne ritardano lo sviluppo».
Questo il manifestino che distribuiremo il 13 maggio allo sciopero
indetto "contro la guerra" dalle opposizioni sindacali
E’ un grido di rabbia, di odio, dopo due mesi che la guerra imperversa nei Balcani, verso il regime del Capitale che ha voluto questa guerra per difendere i suoi interessi di classe, i suoi profitti, le sue merci, i suoi mercati.
E’ un’azione di rivolta contro la politica patriottarda, asservita al regime, dei sindacati confederali che hanno dato e continuano a dare il loro appoggio alla guerra, revocando gli scioperi e contrastando la mobilitazione dei lavoratori.
L’adesione di CGIL, CISL e UIL alla guerra è un nuovo tradimento degli interessi generali della classe lavoratrice, ma che sta in linea col tradimento da essi ogni giorno riconfermato quando accettano salari e condizioni di lavoro sempre peggiori, contratti capestro (come quello dei metalmeccanici che sta per essere firmato), pensioni da fame.
I tardivi tentativi della sinistra sindacale di recuperare a sinistra parlando di un futuro sciopero generale poi mutato in semplice manifestazione, comunque non contro la guerra, ma per la ripresa delle trattative diplomatiche e l’intervento dell’ONU, servono solo ad avallare il prosieguo della guerra e aggravano il tradimento.
Questa guerra che sta costando ai lavoratori
di Jugoslavia migliaia di morti e feriti, centinaia di migliaia di profughi,
di disoccupati, che imporrà sacrifici immani per ricostruire quanto si
va distruggendo con lucida determinazione a suon di bombe, costerà cara
anche ai lavoratori d’Europa, ancora esclusi dal macello ma non dalle sue
ripercussioni economiche e sociali.
Non è solo la NATO, non sono solo gli Stati Uniti, a soffiare sul fuoco della guerra; è il regime del Capitale, ad EST come ad Ovest, l’Europa, come la Russia e la Cina che hanno bisogno di guerra.
E’ necessario che il movimento dei lavoratori organizzi la sua opposizione alla guerra su ambedue i fronti, senza alcuna ambiguità; è necessario agire per la rinascita di quella solidarietà internazionale della classe operaia che si basa sul riconoscimento da parte dei proletari di ogni Paese, che il vero nemico non è l’esercito aggressore, ma la classe borghese, il regime del Capitale!
Per poter esprimere la loro forza i lavoratori
debbono ricostruire la propria organizzazione di difesa, un vero ed esteso
Sindacato di Classe, che unifichi tutte le lotte e gli obiettivi contro
la unitaria classe dei padroni. Un Sindacato aperto a tutti i lavoratori,
senza distinzioni ideologiche, e che ponga come unica pregiudiziale la
difesa incondizionata della classe lavoratrice!
Le dichiarazioni delle Segreterie nazionali e lo schieramento di aperto sostegno all’imperialismo italiano, avevano portato una nuova conferma del completo passaggio nel campo nemico del sindacato tricolore. La Sinistra sindacale teme di apparire troppo supina alla politica guerrafondaia, e quindi perdere ogni seguito; solo per questo si "dissocia". Non è un caso che in uno dei primi interventi un delegato RSU di area rifondaiola abbia dichiarato allarmato: «faccio fatica a tenere gli iscritti!»: sincerità che qualifica esattamente la funzione della Sinistra sindacale.
Da rimarcare che la riunione è stata indetta per gli addetti ai lavori, delegati e dirigenti: chiamare a raccolta la classe operaia in una pubblica assemblea lo reputano pericoloso, in agguato circolano troppi lavoratori che metterebbero a nudo, denunciando semplicemente i fatti, la squallida politica di collaborazione interclassista del sindacato. Tutta l’opera del loro "fare sindacato" altro non è che politica di corridoio all’interno del carrozzone. Quindi richieste alla Direzione, alle Segreterie e così via, e se queste sono sorde ci si appella alle RSU. Ma non ai lavoratori. Un gioco che la dice lunga.
L’intervento più roboante l’ha fatto l’esponente di Lotta Comunista, appassionato quanto basta, citando i suoi figli che in futuro gli chiederanno dov’era quel giorno: si risponde da solo, qui nella Camera del Lavoro, perché non si svenda la storia della CGIL, ecc. Ma la questione essenziale – come la classe può oggi difendersi dallo sfruttamento, e da quel suo massimo culmine nella guerra borghese – l’oratore ha dimenticato di dircelo, su quale indirizzo e per quale prospettiva i militanti sindacali devono lottare. Non basta fare un salto nel generico e richiamarsi ai principi dell’internazionalismo senza entrare nel merito del dilemma centrale che non può non angosciare tutti i lavoratori sinceramente interessati alla difesa della loro classe, ossia: 1) che la CGIL non è riconquistabile, e 2) tantomeno con un’azione disciplinata all’interno delle gerarchie.
In questo dopoguerra il Partito aveva difeso, non la "CGIL nata dalla Resistenza", quella che nell’articolo secondo dello suo Statuto si sottomette alla Costituzione, ma la tradizione rossa della CGL, distrutta dal fascismo; ne difendeva il ricordo e il bisogno nel proletariato cercando nel contempo di contrastarne l’ulteriore deriva verso l’irreversibile inquadramento al servizio del regime borghese.
La nostra, e solo nostra, parola d’ordine – Fuori e contro i sindacati di regime, per la rinascita ex novo del sindacato di classe – è la strada necessaria, anche se lunga e difficile, perché la classe possa di nuovo difendersi e combattere frontalmente la borghesia. Negarlo vuol dire cecità o politica di bassa lega, opportunismo.
La riunione degli addetti proseguiva senza che alcuna generale iniziativa di lotta fosse decisa. Chi accennava allo sciopero veniva subito zittito facendogli notare che "le forze non ci sono". Certo è che in quel covo di controrivoluzionari di professione e di venduti ai padroni le forze si spera e ci si dà un gran daffare perché mai ci siano! Ripiegare, come hanno fatto, su fermate di qualche decina di minuti nelle singole aziende dove la combattività è più alta serve solo per scaricare la pressione a vuoto. Le forze piccole o grandi che siano un sindacato di classe le farà sempre convergere, perché è solo nell’unione che i proletari troveranno la forza per sentirsi classe.
Ai mestieranti della politica lasciamo
senza alcun rimpianto tutta la storia della CGIL dal ’44 in poi, ne sono
i degni continuatori, a noi restano le battaglie che il proletariato ha
ingaggiato, la sua forza che ha costretto infinite volte il sindacato tricolore
a muoversi controvoglia e da pompiere. A noi resta la battaglia cosciente
del partito, che nella mai smentita prospettiva rivoluzionaria, da oltre
mezzo secolo ha lavorato, ieri nella duplice prospettiva della riconquista
a legnate o del fuori e contro, oggi nella ricostruzione del sindacato
di classe.
I più poveri si ribellano
Dall’inizio dell’anno scioperi e manifestazioni non cessano a Quito e nelle principali città del paese andino. Le pretese dell’usura mondiale (FMI e Banca Mondiale, fra gli altri), che hanno portato la disoccupazione e la miseria fra le grandi masse della popolazione, hanno creato un clima di malessere sociale generalizzato che preoccupa i guardiani dell’ordine capitalista.
Repressione dei Minatori spagnoli
Nel mesi di febbraio si sono avuti scontri fra i minatori di Villablino (León) e la guardia civil. I picchetti dei minatori, che bloccavano l’entrata di carbone negli stabilimenti dell’impresa Minero Siderúrgica di Ponferrada, sono stati attaccati da unità antisommossa. Gli scontri si sono prolungati nelle strade di Villablino. Della brutalità delle forze della repressione capitalista ha dato prova la dichiarazione di un uomo d’ordine, il tenente della città Maniel Barrio: "riprovevole e sproporzionata".
Venezuela: cambiamenti radicali
L’elezione del demagogo Hugo Chávez a presidente del Venezuela è l’ennesima mossa della borghesia per cercare di contrastare gli smisurati effetti della crisi capitalista. Combinando abilmente il discorso antimperialista, come il suo compare Fidel Castro, con la logorroica demagogia, Chávez così riassume il suo timore: "o facciamo la rivoluzione democratica o la rivoluzione ci travolge". E nell’economia grandi novità e radicali: "tutto lo Stato necessario, tutto il mercato possibile". La dinamica del parlamentarismo borghese più di qui non va.
Massacro di minatori in Cina
Si può immaginare la condizione di un proletario e per di più minatore in Cina. Lo confermano i dati relativi alle morti per incidenti del lavoro nel settore minerario, più di 7.000 l’anno scorso, secondo informazioni del periodico cinese in lingua inglese China Daily. Un’altra peculiare caratteristica che distingue la via cinese al... capitalismo.
WANTED, reward of 5 millions $
Nel più puro stile dei vecchi western del cinema americano,
lo sceriffo internazionale offre una succulenta ricompensa per la
cattura dei principali responsabili della sempre incandescente carneficina
iugoslava. Curiosamente l’annuncio della ricompensa è coinciso con l’incarcerazione
di uno degli accusati per aver ordinato il massacro di Srebrenica fra luglio
e novembre 1995, il generale serbo Radislav Krstic. I difensori della legge
e dell’ordine mondiale dimenticano un piccolo dettaglio: le truppe dell’ONU,
che stavano acquartierate alle porte della città, "territorio protetto"
dall’ONU, non fecero assolutamente niente per impedire il massacro.
Le truppe serbe poterono compiere indisturbate la loro funzione antiproletaria
e reazionaria, che, del resto, è quella di tutti gli eserciti capitalisti,
ONU compresa.
Siamo dunque di nuovo di fronte alla guerra.
Non che non ci fossimo abituati. L’ultimo periodo di pace capitalistica, infatti, è stato caratterizzato da continui ed incessanti focolai di guerre e di sterminii in tutti gli angoli del globo ed il costo di questa tragedia, in vite umane e sofferenze, è stato ben superiore a quello patito durante l’ultimo conflitto interimperialistico.
A dire il vero i focolai di guerra del periodo della "pace" capitalista, consacrata dal secondo massacro mondiale, si accesero ancor prima che la guerra, vinta dalle potenze democratiche, fosse portata a compimento. Ne fu un esempio funesto la campagna militare inglese contro il proletariato e la popolazione povera di Grecia.
Indocina, Corea, Algeria, Vietnam, Congo, Mozambico, Guinea Bissau, Medio oriente, Corno d’Africa, Afghanistan, Iran/Iraq, Guerra del golfo, Cecenia, Iugoslavia, sono solo alcuni, anche se tra i più vistosi, esempi della catena di morte con la quale la civiltà capitalistica ha strangolato l’umanità intera.
Ogni volta che queste guerre "locali", questi sterminii circoscritti, sono scoppiati l’imbonimento democratico, affiancata dai traditori del comunismo, si affrettava a tranquillizzare il proletariato delle metropoli imperialistiche affermando che questi "detestabili" episodi non avrebbero però compromesso la PACE e la stabilità sancite dalla vittoria della democrazia sul nazi-fascismo e salvaguardate dall’ONU. Si rammenti la definizione data da Lenin alla Società delle Nazioni: "Covo di ladroni".
Quello che i democratici ed i social-traditori non hanno mai chiaramente affermato è che quelle guerre "limitate" non erano che valvole di sfogo al ribollire dei contrasti e delle tensioni che caratterizzano la fase imperialistica del dominio del capitale. Il fuoco della guerra poteva cessare, come di volta in volta è localmente avvenuto, ma per divampare altrove o per covare sotto le ceneri. Il sangue delle moltitudini indigene e dei proletari-soldati metropolitani mandati al macello poteva temporaneamente cessare di scorrere, ma solo per essere succhiato dalla implacabile pompa aspirante dello sfruttamento capitalistico. Però le ragioni profonde della guerra permarranno finché nel regime di profitto sangue e fame continueranno la loro macabra danza, e la vittima designata sarà sempre la medesima: il proletariato, sia esso in tuta la lavoro o in casacca militare.
Era appena terminata la seconda guerra mondiale quando i nostri compagni, sulla scorta della dottrina marxista, potevano in tutta lucidità affermare:
«L’avanguardia rivoluzionaria del proletariato intende chiaramente che alla situazione di guerra è succeduta una situazione di dittatura mondiale della classe capitalistica, assicurata da un organismo di collegamento dei grandissimi Stati che hanno ormai privato di ogni autonomia e di ogni sovranità gli Stati minori ed anche molti di quelli che venivano prima annoverati fra le "grandi potenze". Essa equivale, qualora riesca nel suo scopo, al maggiore trionfo delle direttive che andavano sotto il nome di fascismo e che, secondo la dialettica reale della storia, i vinti hanno lasciato in eredità ai vincitori.
La possibilità di questa prospettiva più o meno lunga, di governo internazionale totalitario del capitale, è in relazione alle opportunità economiche che si prestano alle impalcature pressoché intatte dei vincitori – primissima quella americana – di attuare per lunghi anni proficui investimenti della accumulazione capitalistica follemente progressiva nei deserti creati dalla guerra e nei paesi che le distruzioni di essa hanno ripiombato dai più alti gradi di sviluppo capitalista ad un livello coloniale.
La prospettiva fondamentale dei marxisti rivoluzionari è che questo piano unitario di organizzazione borghese non può riuscire ad avere vita definitiva, perché lo stesso ritmo vertiginoso che esso imprimerà alla amministrazione di tutte le risorse e attività umane, con lo spietato asservimento delle masse produttrici, ricondurrà a nuovi contrasti e a nuove crisi, agli urti fra le opposte classi sociali, e, nel seno della sfera dittatoriale borghese, a nuovi urti imperialistici tra i grandi colossi statali».
Già nel lontano 1954, il presidente degli Stati Uniti, Eisenhower, dichiarava con tutta franchezza quali fossero le previsioni e le aspettative del capitalismo internazionale: «40 anni di guerra fredda». E’ interessante vedere come per il capitalismo la "pace" non esista: il suo sistema è GUERRA. In alcuni periodi può essere non cruenta, o meglio, non generalizzata, ma sempre di guerra si tratta, e stabilirne la temperatura è tutto compito del termometro capitalista. Il secondo massacro mondiale – che noi avevamo definito "il più grande affare del secolo" – e la ricostruzione post-bellica, per bocca del massimo rappresentante dell’imperialismo, avrebbero potuto solo consentire il protrarsi di questo regime in putrefazione per una quarantina di anni, dopo di che, vi sarebbe stata una nuova gravissima crisi per il capitalismo mondiale.
La guerra fredda, che Eisenhower si augurava durasse 40 anni, è stata la guerra di produzione, di mercati, di concorrenza e di saturazione di merci: di benessere per il capitale e la classe borghese, di sfruttamento, miseria, fame, morte per il proletariato. "Guerra fredda" è stato sinonimo di "coesistenza pacifica", durante la quale la società capitalistica mondiale ha ritrovato un nuovo fervore di liberi commerci e vertiginosa produzione che, in nome dell’abbattimento delle frontiere, della fratellanza e della pace universale ha invaso e saturato il mondo.
Solo grazie alle continue emorragie di sangue proletario ed alle distruzioni causate dalle guerre nelle aree geografiche periferiche, il capitalismo è riuscito a superare perfino le sue aspettative più rosee: i 40 anni di guerra fredda.
Ma adesso, giusta la nostra previsione del 1945, i mercati sono di nuovo saturi di merce, nuovi sbocchi non esistono. Come cani rabbiosi gli Stati capitalistici si contendono i miseri avanzi di quello che fu un florido mercato; la guerra commerciale – la "fredda" – deve inevitabilmente ridiventare calda: macerie e sangue sono indispensabili. Per il capitalismo si pone ora il problema impellente di una nuova ripartizione delle aree di sfruttamento e rapina, della drastica distruzione di mezzi di produzione e di merci per potere allungare l’agonia del mostro capitalista e procrastinarne ancora la morte certa. Oltre a ciò un’altra necessità impone al capitalismo di dare di nuovo la parola alle armi e cioè quella di distruggere decine, se non centinaia, di milioni di proletari, sia perché anch’essi, da un punto di vista contabile borghese, altro non sono che sovraprodotto di merce forza lavoro, sia perché essi storicamente rappresentano i becchini di questa società in decomposizione.
In occasione del IV anniversario della rivoluzione di Ottobre, Lenin affermava: «Il problema delle guerre imperialiste, di quella politica internazionale del capitale finanziario che domina ora in tutto il mondo e che genera inevitabilmente nuove guerre imperialistiche, aggrava in misura inaudita l’oppressione nazionale, il brigantaggio, l’oppressione delle nazioni deboli, arretrate, piccole, da parte di un gruppetto di potenze "avanzate", è il problema di vita o di morte per decidere di milioni di uomini. Nella futura guerra imperialistica saranno uccisi invece di 20 milioni, come nella prima, 40 milioni di uomini: mutilati 60 invece di 30 (...) E’ impossibile tirarsi fuori dalla guerra imperialista, e dalla pace imperialista che inevitabilmente la genera, è impossibile tirarsi fuori da tale inferno altrimenti che con la lotta bolscevica e con la rivoluzione bolscevica (...) Sappiano questi signori che un primo centinaio di milioni di uomini sulla terra è stato strappato alla guerra imperialista dalla prima rivoluzione bolscevica. Le successive rivoluzioni strapperanno tutta l’umanità a simili guerre, a simile pace».
Marx, fin dal 1848, aveva sconfessato l’ideologia pacifista che prospettava la fine delle guerre a seguito del ravvedimento umano quando si fosse constata la loro barbarie ed "inutilità". Gli stessi socialisti della II Internazionale, come Lenin ebbe ripetutamente a rinfacciar loro, avevano dichiarato che la guerra sarebbe stata evitata con la mobilitazione internazionale del proletariato; e neppure i loro rappresentanti più destri avevano mai pensato di fermare i conflitti fra Stati facendo ricorso ai valori "morali" ed alla persuasione. Impedire la guerra significava impedire l’irreggimentazione del proletariato negli eserciti borghesi, significava prendere il potere per fondare lo Stato socialista dell’unita Europa.
Il marxismo si rifiuta nella maniera più assoluta di scendere sul terreno borghese che vorrebbe distinguere da quale parte sta l’aggressore e da quale l’aggredito, da quale parte la ragione e da qual’altra il torto. Scendendo su questo terreno arriveremmo a trarre la stessa conclusione che i partiti socialdemocratici trassero nel 1914 quando ognuno di loro vide nella difesa della propria rispettiva nazione il legittimo comportamento e l’interesse del "proprio" proletariato. Ma abbandonarono il terreno di classe e mandarono i lavoratori al macello ad esclusivo vantaggio degli interessi capitalistici nazionali e mondiali.
Solo chi, come in Russia, propagandò fin dall’inizio il disfattismo rivoluzionario e la guerra alla guerra poté cercare di salvare il proletariato del proprio paese ed abbreviare le sofferenze della guerra a quello internazionale.
La risposta da dare alle classi borghesi è che i proletari non hanno patria e che il partito comunista persegue l’obiettivo della rottura dei fronti interni e della fraternizzazione fra i proletari degli opposti eserciti. Negando ogni adesione alla guerra cade qualsiasi discriminante tra guerra di difesa e guerra di offesa, viene meno ogni pericolo che da tali false distinzioni possa passare la giustificazione al passaggio dei comunisti alla adesione ai fronti nazionali.
In questi giorni i mezzi di informazione, ed in special modo le televisioni, rincretiniscono un proletariato senza più organizzazione di classe e terrorizzato con gli spettacoli commoventi di migliaia e migliaia di proletari e nullatenenti che, sotto il fuoco di aguzzini e "liberatori", sono costretti ad abbandonare le loro case, i loro averi, a varcare le frontiere (facendo ancora una volta arricchire i trafficanti di carne umana) per essere richiusi in lager di "accoglienza" in vista di un loro, più o meno prossimo, sterminio. Le televisioni dell’altra parte mostrano, invece, le immagini di distruzione e di morte, frutto di quegli "aiuti umanitari" che la NATO fa piovere dal cielo. Da una parte e dall’altra si specula sulla morte degli innocenti per legare le sorti del proletariato agli interessi nazionali a dimostrazione che la sua eventuale salvezza consista nel fare fronte unico con la propria borghesia.
A proposito del "mercato" delle atrocità di guerra, mezzo secolo fa scrivevamo:
«Non è mai stato possibile chiudere con una sentenza accettabile il dibattito su questo punto: chi dei due contendenti sia stato il più crudele, il più feroce. Vi è sempre da ribattere, non se la fanno franca nemmeno Gandhi e Tolstoi. Ma il guaio è che il suddetto uomo della strada non si rende conto che si tratta di una ricerca inutile e che, ammesso che sia possibile discriminare tra le frottole propinate e credute da una parte e dall’altra, non è affatto detto che convenga optare contro chi sta dalla parte, nel passato nel presente e nel futuro, dei mezzi più duri, e che la quistione sta sempre altrove.
Nelle guerre di una generazione addietro, era una gara dalle due parti a scoprire nelle carni dei propri feriti le palle dum-dum. I proiettili ammessi dalle convenzioni internazionali del civile mondo capitalistico dovevano essere conici ed uscire da canne rigate, non dovevano produrre infezioni o devastazioni dei tessuti, bastava che mandassero legalmente all’altro mondo. Allora non si parlava ancora di aviazione, gas asfissianti, bombe atomiche e simili giocherelli. Il clou della battaglia polemica parallela a quella dei cannoni nella guerra 1914 fu intorno alle mani mozze dei bambini belgi e alle atrocità delle orde cosacche dello zar, che non facevano prigionieri (...) Montagne di carta stampata (ora, invece, non importa leggere, basta la TV) sono rovesciate sul mondo e costituiscono anche un buon affare (poiché) il pubblico si getta tremendamente "incannaturito" sulle pagine che ricavano le leggi della scienza storica dalle descrizioni abilmente anatomiche sugli interrogatori di terzo grado a base di unghie estirpate, mutilazioni oscene e vivisezioni di cavie umane (...) Molte di queste infamie possono non essere inventate, a chiunque si attribuiscano, ed è impossibile andare a fondo in queste ricerche. Ma, più che impossibile, è inutile, come in nessun caso il raccontarle può servire a fini meno che loschi di organizzazioni propagandistiche tendenziose» ("Battaglia Comunista", n.10, marzo 1949).
Non è certo un caso che perfino la Germania di Hitler, nel corso della II guerra mondiale facesse ricorso allo stesso metodo di denunciare le atrocità del nemico. E materiale documentario non gliene mancava!
Oggi quelli che hanno la spudoratezza di farsi chiamare comunisti non solo non denunciano alle masse proletarie questa turpe propaganda, ma smobilitano il proletariato in belanti manifestazioni pacifiste illudendolo di potere, con queste, impedire lo sbocco armato della politica imperialistica, come se questo non fosse un aspetto della sua intima essenza. E nel loro scopo di far giungere le masse oppresse, disarmate ed impotenti, al momento della generale mobilitazione, lanciano appelli non alla riscossa ma alla sopportazione passiva evitando ogni iniziativa che possa avere il minimo sapore di classe. Gli interlocutori di questi figuri non sono i proletari, ma i capi di Stato, i rappresentanti politici, gli uomini di "cultura" e, soprattutto, gli spacciatori dell’oppio dei popoli: i preti. La religione non ammette la disobbedienza civile, il disfattismo e la guerra di classe e, di conseguenza, i comunisti non hanno niente da spartire con essa.
Noi, come Lenin, come tutta la genuina tradizione marxista rivoluzionaria, non imploriamo la pace né dai governi né da dio; guerra e dominio del capitale è situazione altrettanto fetida che pace e dominio del capitale. Noi non siamo pacifisti poiché auspichiamo la diffusione da un paese all’altro dello sciopero militare, la fraternizzazione dei proletari in divisa attraverso i fronti, la guerra di classe.
Pacifisti sono coloro che, preti neri e preti "rossi", consegnano disarmati i proletari nelle mani dei mattatoi capitalisti. E sono pacifisti non della guerra fra Stati, ma della nostra guerra di classe, che rappresenta la liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dalla morte.
Nel 1844 Marx esaltava la rivolta dei tessitori silesiani affermando che «nessuna delle sollevazioni operaie di Francia e di Inghilterra aveva avuto un carattere così cosciente quanto la sollevazione dei tessitori silesiani. Ci si ricordi anzitutto della canzone dei tessitori (...tessiam Germania, il lenzuol funebre tuo, che di tre maledizioni si ordì) questo ardito grido di guerra proclama immediatamente, in maniera aggressiva, implacabile e violenta la sua opposizione alla società della proprietà privata».
Sappia il proletariato internazionale, ritrovato il suo istinto di classe, come i tessitori silesiani del 1844 prepari il sudario per questa società di bruti.
* * *
Le Chiese non sono mai state e non sono certo estranee ed insensibili negli svolti storici che vedono il confronto armato fra popoli, fra classi o fra Stati, riflesso delle loro radici, che non scendono dall’alto del cielo ma affondano, e traggono nutrimento spirituale a materiale, da una base che anticamente faceva riferimento ad un dato gruppo umano ma che, da quando ci sono classi e Stati, le riduce a Chiese di classe e di Stato. Questo orizzonte ristretto entra in contraddizione con le origini universalistiche della religione cristiana, che nei secoli si sono ben prestate a rivestire di aura mistica prima il colonialismo e oggi l’imperialismo capitalista.
Di fronte al fatto della guerra alle Chiese è quindi affidato dagli Stati il compito del necessario controcanto, di operare per la pace. Svolgono effettivamente una non indifferente opera diplomatica e di pressione perché il ricorso alle armi non escluda gli strumenti diversi dalla guerra per la "soluzione" dei problemi internazionali. In questa funzione si è distinta in particolare la Chiesa cattolica. Basti ricordare gli appelli di papa Benedetto XV contro «l’inutile strage», «l’orrenda carneficina che disonora l’Europa», «il suicidio dell’Europa civile», «la più fosca tragedia dell’odio umano e dell’umana demenza». Anche il deprecato Pio XII lanciava il suo appello del «nulla è perduto con la pace: tutto può esserlo con la guerra»; e dimostrava di avere del coraggio quando nel ’40 faceva sapere a Mussolini che «non temeva di andare in campo di concentramento».
Ma la Chiesa è veramente e conseguentemente contro la guerra, si ispira realmente al V comandamento, "non uccidere", al precetto cristiano del "porgi l’altra guancia" ed "ama il tuo nemico"? Neanche per sogno.
Nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes espressa dall’ultimo concilio ecumenico si legge: «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa (...) Ma altra cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. Né la potenza bellica rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è già disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto». Chi stabilisce quando una guerra sia legittima e quando no? «La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune» (Catechismo della Chiesa Cattolica). Ecco risolto il problema alla maniera pretesca, dando ad ognuno dei belligeranti la possibilità di appellarsi alla giustizia e a... Dio.
Il problema, nella sua essenza, è che le Chiese non si pongono contro il regime capitalista e nemmeno contro le sue guerre, anche se condannano le «inutili stragi». Non si schierano contro la guerra, ma contro gli "eccessi" di questa.
Infatti le Chiese, come l’opportunismo, anche quando si dichiarano contro i massacri, si rivolgano ai capi di Stato e non certo al povero cristo-proletario-soldato al quale impone il dovere di ubbidire e di immolarsi a comando, in pace e in guerra, sull’altare insanguinato del Dio Capitale. Quale indicazione viene data al povero cristo che, dai banchi del catechismo, ancora ricorda il "non uccidere", il "porgi l’altra guancia", l’"ama il tuo nemico" o che, magari, nella Bibbia ha letto: «con le loro spade costruiranno aratri e falci con le loro lance; nessun popolo prenderà più le armi contro un altro popolo, né si eserciteranno più per la guerra»? A questo povero cristo Santa Romana Chiesa dice che «i pubblici poteri in questo caso hanno il diritto ed il dovere di imporre ai cittadini gli obblighi necessari alla difesa della nazione (...e...) coloro che per motivi di coscienza ricusano l’uso delle armi sono tenuti nondimeno a prestare qualche altra forma di servizio alla comunità umana" (Catechismo). Dove per "comunità umana" si intende la collaborazione di classe.
Le Chiese, non ammettendo la disobbedienza civile, il disfattismo e la guerra di classe, disarmano i soli avversari del capitalismo militarista, quindi, di fatto ne appoggiano le guerre, anzi ne sono un necessario strumento. Di conseguenza i comunisti non hanno niente da spartire con esse.