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LA GUERRA IN CECENIA, IL PETROLIO
E IL REAZIONARIO SCIOVINISMO RUSSO
La recente riunione dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, tenutasi ad Istanbul il 18 e il 19 novembre, è stata teatro di una pantomima tra i "Grandi" conclusasi col frettoloso abbandono del vertice da parte del presidente russo irritato dalle pur deboli dichiarazioni occidentali che invitavano Mosca a trovare una "soluzione politica" alla guerra in Cecenia.
L’OCSE in verità, come già aveva fatto la NATO per bocca del suo segretario generale George Robertson, ha riconosciuto (tra briganti ci si intende) che la guerra cecena è questione interna russa.
Ma ciò che ha irritato la diplomazia moscovita, al di là delle dichiarazioni di principio che lasciano il tempo che trovano, è stata la mossa di Washington, che ha profittato del vertice per portare un affondo contro la Russia concludendo l’accordo con la Turchia per la costruzione di un oleodotto che porterà il petrolio del Caspio dal centro petrolifero di Baku direttamente verso il terminale petrolifero turco di Ceyhan, sul Mediterraneo.
È il secondo oleodotto finanziato dagli USA con lo scopo di spezzare il monopolio russo sul petrolio del Caucaso e rappresenta un altro passo importante nell’avanzamento degli USA verso i territori confinanti con la Russia dopo l’allargamento della Nato ai paesi dell’Europa orientale e l’insediamento in Kosovo.
L’intesa – riportano i giornali – è stata voluta dagli Stati Uniti per ragioni politiche e strategiche, nonostante le perplessità delle compagnie petrolifere che giudicavano eccessivi i costi dell’opera, circa 2,4 miliardi di dollari. Il presidente Clinton ha dichiarato che il nuovo oleodotto «contribuirà a diversificare le nostre fonti di energia e aiuterà i nuovi Stati di recente indipendenza del Caucaso e dell’Asia centrale a reggersi sulle proprie gambe; esso inoltre porrà la Turchia, nostro fedele alleato, in prima linea e al cuore del progetto per creare un futuro sicuro dal punto di vista energetico». Insomma una nuova minaccia per lo Stato russo che vede messa in pericolo il suo predominio anche in regioni di tradizionale dipendenza da Mosca. E proprio questo "assedio" da parte dell’Occidente ha un ruolo non secondario nello scatenare la seconda guerra cecena.
Per ottenere l’appoggio della popolazione all’intervento "antiterrorista" contro il piccolo Stato caucasico, i vertici della Russia non hanno esitato a scatenare la guerra contro il proprio paese: una micidiale serie di attentati ha causato centinaia di morti, dei quali si è fatto ricadere la responsabilità sui "ceceni" e scatenato un battage razzista contro i "meridionali". Si è distinto nel solleticare il nazionalismo russo il primo ministro Putin: «La Cecenia, ha dichiarato, è un covo di banditi da cacciare nelle caverne, da sterminare metodicamente e pazientemente, senza fretta».
Con queste nobili motivazioni, il primo ottobre scorso, dopo alcuni giorni di bombardamenti contro "le basi dei terroristi", circa 50.000 uomini dell’esercito russo, appoggiati da forze corazzate e aviazione, hanno varcato la frontiera con la Cecenia, rompendo così l’accordo di pace del novembre 1996.
In Cecenia tre anni fa l’armata russa fu clamorosamente sconfitta, costretta a ritirarsi in fretta dal Paese. La guerra era iniziata nel dicembre 1994 quando circa 20.000 uomini di Mosca avevano invaso il piccolo Paese, dopo che, nel 1991, il generale Dudayev, ottenuto un certo appoggio popolare, aveva dichiarato l’indipendenza, contando probabilmente sulla produzione petrolifera del Paese e, forse, su promesse occidentali di aiuto ed assistenza.
Gli anni successivi alla dichiarazione d’indipendenza, per il blocco economico da parte di Mosca e la partenza dal Paese della manodopera specializzata proveniente proprio dalla Russia, furono particolarmente duri per la popolazione; le fabbriche erano ferme e l’agricoltura in grave crisi; il regime di Dudayev era sempre più in difficoltà.
Nonostante questo l’esercito russo, che risentiva della grave crisi attraversata dal paese e coinvolto in una guerra non appoggiata dalla popolazione, nonostante la superiorità numerica e di armamento, andò incontro ad una serie di dure sconfitte. Dopo quasi due anni di guerra e decine di migliaia di morti, soprattutto civili, (si calcola 60-80.000), nell’agosto del 1996 una divisione corazzata che era entrata nella capitale Grozny fu completamente distrutta dai guerriglieri.
A seguito di questa bruciante sconfitta il presidente Boris Eltzin autorizzò il segretario del Consiglio di Sicurezza, il generale Alexander Lebed, a «trattare con gli indipendentisti ceceni per raggiungere una soluzione politica del conflitto e definire un nuovo statuto per la Cecenia nel quadro istituzionale della Federazione russa». Ogni decisione sullo status futuro della Cecenia veniva rimandata al 31 dicembre 2001.
Questa sconfitta militare doveva essere riscattata da parte dell’Armata russa sia a fini interni, per dare credibilità alla propaganda "grande russa" sulla ricostituzione dell’impero, sia a fini esterni, per riaffermare la potenza militare di Mosca, soprattutto verso le piccole repubbliche centro asiatiche dove serpeggiano tendenze separatiste.
La terza motivazione per la guerra è la lotta per il controllo del petrolio del Caucaso e soprattutto delle vie per il suo trasporto. «La Russia – scrive Le Monde Diplomatique di novembre – ha sempre sostenuto il principio che la maggior parte del petrolio dovesse passare sul suo territorio, come in epoca sovietica, utilizzando l’oleodotto Baku-Novorossijsk». La regione del Caucaso si trova quindi al centro di un importante scontro geopolitico, e non solo come via di transito per gli idrocarburi del mar Caspio.
È da notare che solo pochi mesi innanzi la intrapresa della prima guerra cecena, nel settembre 1994, a Baku si celebrava la sottoscrizione di un accordo tra alcune compagnie statunitensi, capitanate dalla Amoco, e il presidente azero Heydar Aliyev. Il consorzio prendeva il nome di Azerbaijan International Operating Company (AIOC). La costruzione dell’AIOC pose ben presto un problema di trasferimento del greggio verso i mercati occidentali. Infatti le risorse provenienti dal Caspio avrebbero dovuto uscire soltanto attraverso il territorio di Iran o di Russia. L’AIOC assunse l’impegno di usare la linea russa, dopo che, ad agosto, era stato raggiunto un accordo tra il Cremlino e i separatisti ceceni, ma allo stesso tempo dichiarava l’intenzione di ricorrere ad una nuova rotta occidentale, sostenuta dagli USA e fuori dal controllo russo, un oleodotto alternativo che avrebbe unito Baku al porto del Mar Nero di Supsa in Georgia. La diplomazia statunitense scegliendo una politica di diversificazione dei tracciati compiva un primo passo per estromettere la Russia dall’area. A dicembre si scatena la guerra: con la sconfitta russa e la conseguente perdita del controllo diretto sulla Cecenia la via russa al petrolio perde ancora quotazione.
Una volta raggiunta la pace infatti l’oleodotto fu riparato, ma la Cecenia pretendeva tariffe dieci volte più alte di quelle che la Russia era disposta a pagare. Alla fine l’accordo fu trovato, ma il primo flusso di petrolio ha varcato il confine russo azero solo il 28 febbraio 1998.
Il 17 aprile 1999 è stato ufficialmente aperto l’oleodotto che collega Baku a Supsa, che di fatto si inserisce nel sistema di sicurezza della NATO. In questo modo gli Stati associati del GUAM (Georgia, Ucraina, Azerbaigian, Moldavia) e i loro finanziatori occidentali con gli USA in prima fila, hanno creato una prima breccia nel monopolio russo.
Leggiamo in "Guerra e Pace" di settembre: «La reazione del Cremlino è stata il rafforzamento di tutto il suo dispositivo militare nell’area nordcaucasica e del Daghestan. Navi da guerra nel porto di Astrahan, arrivo di reparti di fanteria meccanizzata nella città di Bujnaksk, un piano per la costruzione di una base navale militare a Kaspijsk. Anche la base militare di Gyumri, in Armenia, è stata ammodernata, dotata di nuovi aerei Mig 29 e di nuovi sistemi di difesa contraerea. Il che ha suscitato le proteste dei governi azero, ucraino e georgiano. Essi si sono accordati per creare una forza militare di difesa della linea dell’oleodotto Baku-Supsa. Il segnale per Mosca è inequivocabile, Ucraina e Georgia continueranno la loro politica di aggiramento delle rotte settentrionali russe con tutti i rischi di un ulteriore aggravamento della tensione». «(...) Nelle sue recenti interviste il presidente ceceno Aslan Maskhadov ha parlato di "mandanti degli attentati dinamitardi molto lontani dalle frontiere" e di strani emissari che cercavano di persuadere i ceceni a forare questo oleodotto, che si è dovuto effettivamente chiudere in primavera. I russi sono stati quindi costretti a trasportare il greggio su vagoni cisterna lungo una linea ferroviaria che aggira a nord la Cecenia. A sua volta il capo dei ribelli Shamil Basaev, trasformando il Daghestan in Stato islamico, ha reso questo transito impossibile e ha minacciato l’altro grande progetto russo: la costruzione, iniziata nel maggio 1999, dell’oleodotto Tengiz (in Kazahstan)-Novorossijsk che attraversa le steppe calmucche a nord del Daghestan».
Le truppe di Mosca, attestatesi sul fiume Terek, a 25 chilometri dalla capitale, Grozny, in un’avanzata sanguinosa che ha permesso loro di prendere il controllo di circa un terzo del Paese (13.000 Kmq, metà della Sicilia), dopo quasi due mesi di guerra feroce, che ha colpito soprattutto le popolazioni civili costrette a fuggire per scampare ai bombardamenti, hanno conquistato la maggior parte dei centri abitati e stanno adesso accerchiando la capitale. Ma i generali russi temono di entrare nelle città, ricordando la sorte delle loro divisioni corazzate nella guerra di quattro anni fa, e cercano di stanare i guerriglieri con martellanti bombardamenti e col taglio dei rifornimenti.
Anche questa guerra "regionale", come quella contro la Serbia, si inserisce nello scontro sempre più aperto tra le superpotenze mondiali per il controllo delle materie prime, delle vie per il loro utilizzo, per impossessarsi di quelle posizioni strategiche che vengono ritenute utili in preparazione di un terzo macello mondiale.
Ma la motivazione forse più
importante,
anche contingentemente, per questa ennesima "guerra sporca" è la
necessità di imprigionare il proletariato russo nelle nostalgie
antiche del nazionalismo grande slavo, perché non si ribelli,
denunciata
ogni solidarietà slava, alla terribile miseria nella quale 80 anni
di capitalismo selvaggio lo hanno precipitato, prima sotto veste
staliniana
e poi democratica. Ancora una volta dobbiamo rimarcare che la guerra,
prima
che contro i pochi montanari ceceni, è contro la grande e potente
classe lavoratrice di Russia.
Al peggio non c’è mai limite:
Il "Sole 24 Ore" del 10 novembre riporta la notizia secondo la quale la
FIOM ha proposto durante la trattativa per l’integrativo Fiat di
conteggiare
i premi di risultato separatamente per i singoli stabilimenti. Non
basta
dividere i lavoratori con un contratto su due livelli, con il chiaro
scopo
di abbandonare a se stessi i lavoratori delle piccole e medie imprese,
illudendo gli altri che sia possibile difendere il fortino assediato in
completa autarchia. Il sindacato di regime fa un passo ulteriore,
divide
i lavoratori all’interno della medesima azienda, stabilimento per
stabilimento,
e in un futuro non lontano, anche reparto per reparto o lavoratore per
lavoratore.
La concezione su cui si basa la proposta è schiettamente corporativa: se l’azienda gode di un cospicuo profitto, ossia se vanta un brutale sfruttamento della forza lavoro, solo allora è possibile elargire qualche briciola, mettendo in evidenza come la vita delle schiave maestranza sia in balia del Dio Capitale.
Sempre sullo stesso giornale un’altra notizia chiarisce ulteriormente i termini del concerto padroni-sindacati di regime per castrare la classe operaia. La questione verte sulle ferie degli immigrati, ed il gioco è più sottile. Sui 12.000 dipendenti del gruppo Electrolux 350 sono "extracomunitari", nello stabilimento di Susegana rappresentano il 13% su oltre 2.000 dipendenti, conferma della nostra tesi che la classe operaia è una classe di emigranti. L’accordo siglato dalla triplice prevede che per quelli assunti a tempo indeterminato sarà possibile usufruire, ogni tre anni, "nei periodi di minor attività produttiva", di ferie fino ad un massimo di 50 giorni. Nel linguaggio padronal-sindacale: «Per accumulare le maxi ferie i lavoratori faranno uso della banca delle ore, delle ferie effettivamente maturate, dei permessi retribuiti per le riduzioni dell’orario: nel caso sia impossibile raggiungere il tetto dei 50 giorni consecutivi di stop, ai lavoratori sarà concesso un periodo di aspettativa non retribuita».
E voilà, i giochi sono fatti. Con il miraggio di un sospirato ritono a casa di durata appena meno breve lo sfruttamento bestiale è assicurato, e nel contempo si mettono in contrapposizione immigrati e non. Si incentiva l’utilizzo della "banca delle ore", ossia di straordinari che divengono ordinari, con una flessibilità tale da rendere felice il padrone ed i suoi compari, sindacati federali compresi. Ridicolo concedere ferie non pagate nei periodi di "minor attività", che fa rima con "super sfruttamento" quando c’è lavoro.
Alla fine della triste sceneggiata entra il finto duro Rifondazione, che tuona di lesa democrazia e di ingiustizia razzista: l’accordo è piovuto dall’alto e, per essere valido per tutti, deve fissare le priorità nella richiesta delle ferie in base alla distanza da casa. Il padronato ha gettato l’esca e i pesci finti tonti della sinistra sindacale fingono di gettarvisi sopra avidamente e, invece di rifiutare e combattere la flessibilità, la riduzione del salario, la banca delle ore, cioè straordinari non pagati, reclamano a gran voce la spartizione "equa" delle avvelenate regalie padronali.
Presto, molto presto i proletari
dovranno
sfoderare le energie collettive per difendere le loro condizioni di
vita
al di sopra delle barriere di lingua razza e religione.
Dell’opportunismo
di tutte le specie dovranno fare piazza pulita.
La bancarotta della società
borghese è totale e in tutti i campi, subito sotto la patina dorata
la putrescenza ammorba l’aria. Nel campo della Tecnica il regredire è
vistoso, tanto che il decantato Progresso non riesce nemmeno a sfamare
i viventi.
Nel solo osservatorio italico inspiegabili disastri ferroviari, crolli di abitazioni, terremoti mietono numerose vittime in barba alle tecniche che assicurerebbero la sicurezza nella marcia dei treni e la stabilità delle costruzioni anche nelle zone sismiche. Di questi giorni è il crollo a Lecce di un condominio costruito solo da un paio di decenni.
Di fronte al suo innegabile fallimento il pensiero borghese rivolge l’accusa contro gli speculatori che, incuranti delle leggi e del sapere scientifico, lesinano sui materiali o risparmiano sulle attrezzature di controllo. Ma questa caccia ai penalmente colpevoli ad altro non mira che a nascondere il vero mandante che è da individuare nelle fondamenta stesse della società capitalistica. Certo che esistono speculatori avidi e cinici, ma sono i figli prediletti e necessari di questo mondo. La questione non è di morale individuale ma di morale di classe e di questa gli speculatori sono solo gli strumenti. Di norma a decidere di non installare un sistema di sicurezza su una linea ferroviaria o di ridurre le sezioni dei tondini nei pilastri di un fabbricato non è, individualmente, il padrone ma un tecnico, un capomastro salariato: chi ci guadagna non è lui ma l’anonimo Capitale, che è di tutti e di nessuno. All’ultimo piano del fabbricato collassato a Foggia abitava il costruttore!
Non sarà mai la onestà a migliorare il capitalismo perché la sua riproduzione abbisogna della catastrofe per sopravvivere.
Al capitale altro non interessa che il profitto; la merce una volta prodotta e venduta è solo lavoro morto accumulato che intralcia la nuova produzione e grava – in questa società – sulle spalle dei vivi invece che esserne ricchezza. I cortigiani del Capitale invocano misure per abbattere e costruire nuovamente, secondo nuove e mirabolanti tecniche, mentre la questione non è tecnica ma economica e sociale, nell’abbandono della forma merce del lavoro umano e del suo prodotto.
Oltre due secoli fa la rivoluzione borghese, liberando le enormi potenzialità del lavoro umano associato dalle costrizioni dei regimi feudali, nell’affermare in tutti i rami e direzioni i rapporti di produzione capitalistici, subito si rese conto che non poteva far spadroneggiare ovunque le sue leggi mercantili. Ritenne di dover proteggere il sapere tecnico e scientifico dalla anarchia della concorrenza (negando così un suo postulato). La definizione di opere il cui cattivo impianto progettuale fosse suscettibile di provocare grave danno o minaccia alla pubblica incolumità, come quella di un edificio, che richiede conoscenza delle leggi della statica e sensibilità alla più complessa dinamica dei fenomeni sismici, non era razionale affidarla ad una gara d’appalto nella quale unico argomento fosse il ribasso d’asta offerto dall’ingegnere. Furono istituiti gli Ordini, dei medici, degli ingegneri, ecc. che, con i loro minimi tabellari, stabiliti per legge, avrebbero dovuto garantire un sollievo del progettista dal morso della concorrenza. Ugualmente si riteneva che il medico dovesse sentirsi relativamente disinteressato, cioè senza preoccupazioni materiali, per poter svolgere la sua difficile professione, e non incalzato dalla vile pubblicità dei colleghi, considerati questi dei volgari carrieristi.
Ma il Capitale è costretto ad aggredire qualsiasi attività umana trasformandola a sua immagine o suo negativo, capitale o salario. Nell’infinito succedersi di cicli di accumulazione cerca di appropriarsi del lavoro vivo in ogni sua manifestazione e in ogni angolo della Terra. Non trova alcun limite, né pietoso né razionale, se non nella incapacità del mercato di assorbire nuove merci. La progettazione deve diventare un’industria del terziario, un’impresa, non più una spesa generale, ma capitale variabile che frutta profitto. Del resto ben vengano per il Capitale distruzioni e catastrofi a causa dell’errato fare e progettare. Analogamente per la farmacopea capitalista ben vengano le malattie incurabili che fanno del paziente un cliente a vita.
La storia della tettonica del pianeta, a grandi linee nota, spiega perché sono regioni soggette a terremoti di violenta intensità, lungo le coste del Pacifico, gli arcipelaghi orientali, Formosa e il Giappone, e la dorsale americana occidentale, l’Anatolia e l’Egeo a partire da Santorino... E un legame è dimostrato con il vulcanesimo. È esemplare della impotenza capitalistica a stabilire un rapporto non suicida con l’ambiente il caso notorio e ben medializzato del rischio di esplosione del Vesuvio: confidare in San Gennaro è certamente più saggio che nei piani di "evacuazione rapida" predisposti dalla "Protezione civile". Eppure sulle pendici del Vesuvio il Capitale ha costruito senza alcuna prevenzione, depredando forza lavoro immediata. Il dopo non lo interessa, nemmeno il suo, delle sue possibilità di nuovi cicli di investimento.
Ma non è un difetto "partenopeo". Non solo i condomini in Turchia, nemmeno le decantate autostrade di Los Angeles né i grattacieli in Giappone e a Taiwan hanno retto. Qualcuno obbietterà che buona parte non sono schiantati al suolo, risparmiando le vite umane, pur rimanendo seriamente lesionati. In realtà l’immenso sciupio di lavoro umano resta ed il Capitale è pronto a nuovi cicli di accumulazione prima per abbattere i pericolanti mostri edilizi, per poi ricostruirli.
Lo Stato borghese, oltre ad esercitare il dominio di classe sul proletariato, nel contempo è un gozzovigliare di traffici, appalti, e squallidi commerci fra i quali le "protezioni civili" e le "ricostruzioni" sono gran parte. È quella statale una rete di drenaggio sociale del Capitale a facilitare ed alimentare la sua torpida senescente e sordida riproduzione, la sua funzione esprime solo putrescenza storica, incapace di ordinare e pianificare, in tutto supino alle leggi del Capitale.
Nemmeno i progressi nel campo della medicina hanno impedito che l’umanità sia oggi più che mai sofferente, perché il generale malessere è sociale, nell’abrutimento della mercificazione e individualizzazione dell’uomo. L’individuo, da solo impotente, avverte ma non vede e riporta tutto al fatto individuale con patologie che sconfinano dal campo medico e trovano conforto nelle superstizioni delle religioni. Mentre la società moderna non mantiene la promessa di liberare i popoli da terribili piaghe epidemiche, nemmeno riesce a fornisce non diciamo i medicamenti ma quello naturale e fondamentale che è costituito da una decente alimentazione e da un minimo di riposo: il Capitale può solo proporre cure sofisticate a debilitati dalla fame o dal sopralavoro.
Sono le multinazionali a decidere la
direzione delle ricerche e a sovvenzionarle, ne segue che queste sono
unicamente
convogliate nel mettere a punto medicamenti/merci nella cui produzione
il capitale esalta sé stesso. Ben venga il paziente/cliente, ben
vengano
nuove patologie, nuove pestilenze sarebbero una benedizione per il
"settore".
DIETRO L’ALTALENA DEI CAMBI LA CRISI DELLE PRODUZIONI IL MARXISMO E I BALCANI QUESTIONE MILITARE E ORGANIZZAZIONE DI PARTITO L’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI - [Resoconto esteso] ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA E GERMANIA - [Resoconto esteso] LA "EMANCIPAZIONE" DEL LAVORO - [Resoconto esteso] SUDAFRICA: IL GOVERNO DELLA BORGHESIA NEGRA - [Resoconto esteso] STORIA DELLA SINISTRA - [Resoconto esteso]
Il partito si è convocato a Torino per la regolare riunione di lavoro nei giorni dall’8 al 10 ottobre utilizzando i locali della comoda sede locale. Era presente ampia rappresentanza di tutti i nostri gruppi, con pochissime eccezioni, provenienti dall’Italia, dalla Francia, dall’Inghilterra. Nelle intense e ordinate sedute si sono dapprima considerati tutti i temi delle nostre ricerche ed interventi ed abbiamo organizzato il piano di lavoro della riunione, che è stato possibile mandare in piena esecuzione con l’ascolto di numerose e importanti relazioni sui temi della nostra dottrina, visione degli eventi storici e programma politico.
Sono tutti temi impegnativi cui soccorre per il giusto scioglimento, non aiutando oggi l’istinto e lo slancio rivoluzionario del proletariato, non estri individuali di relatori con doti d’eccezione, ma il regolare, metodico, non frettoloso e impersonale lavoro – che non esclude affatto la passionalità – di quella compagine sapiente e combattente che è il partito.
I compagni locali si sono distinti per l’inappuntabile organizzazione, prodigati per accogliere alla stazione chi arrivava e riaccompagnarvi chi partiva e per smistare tutti dalla sede al ristorante e ai vari alloggi, abitazioni individuali e camere di albergo.
Come d’uso qui riportiamo un primo
resoconto
schematico degli esposti, che appariranno per intero e in forma più
definita in "Comunismo".
I dati della produzione industriale nel movimento recente indicano un rafforzamento della produzione di capitale negli Stati Uniti, in Europa, in Russia, in Asia, Giappone compreso, ma non in America Latina. Sono segni di ripresa della crescita che non esprimono grande forza e non possono modificare che in modo transitorio la tendenza generale di lungo periodo di calo dell’incremento relativo del capitale, avviatasi con la crisi del 1975. Questo rallentamento si è reso più evidente nel decennio in corso come mostrano gli incrementi medi di periodo e i livelli di produzione stagnanti in grandi imperialismi, nonostante lo sviluppo forzato dell’economia americana.
Il movimento dei prezzi in limitata accelerazione conferma la debole ripresa di produzioni e consumi; l’inflazione per le maggiori potenze resta però ai livelli minimi del dopoguerra, mentre sul mercato cinese continua da tempo il calo dei prezzi. L’arresto della lunga discesa, e in alcuni casi l’aumento dei prezzi delle materie prime, risente dell’accrescersi dei consumi produttivi, ma in parte è frutto di tagli produttivi concordati, ma effimeri, e il livello assoluto dei prezzi correnti è tale da continuare a giustificare le operate eliminazioni delle meno fertili coltivazioni del suolo e del sottosuolo ed è inferiore ai massimi relativi recenti del ’97 e del ’95. Il sussulto di ripresa dell’economia dà una spinta all’inflazione, ma questa resta vincolata a livelli ridotti dalla tendenza verso la deflazione, dominante per la cronica sovrapproduzione.
Successivamente si analizzava il persistente apprezzamento dello Yen sul Dollaro, causa di preoccupazioni borghesi in quanto potrebbe ritardare la ripresa della crescita giapponese e mondiale, assolutamente necessaria per poter rispettare i pagamenti promessi nel generale indebitamento, per dare valore non fittizio all’accumulazione di titoli. Da parte dei creditori la produzione avvenire è stata supposta per vera, nella corsa vertiginosa della ricchezza immaginaria in borsa.
Si esaminavano le cause immediate del corso del cambio delle due monete nelle diverse prospettive, per i rispettivi paesi, dell’accumulazione di capitale, della bilancia commerciale, del debito o del credito estero, dell’indebitamento di imprese e consumatori, delle emissioni di titoli del debito statale, dello stato dei cicli di borsa. L’analisi di tutti questi elementi tende a ridimensionare la grande fiducia nella moneta della superpotenza dominante e il relativo afflusso di capitali monetari, sensibili al movimento del cambio, se non impegnati nell’accumulazione reale.
I progetti di manipolazione monetaria e finanziaria per frenare la rivalutazione dello Yen (ovvero la svalutazione del Dollaro) hanno rinnovato i contrasti fra Giappone e Stati Uniti. Questi chiedono al governo giapponese di attuare diversi trucchetti per la massima forzatura del credito, anche se la pletora di capitali giapponesi sovraprodotti ha spinto a zero i tassi d’interesse, anche se l’accumulazione drogata ha già fallito in Giappone alla fine degli anni ’80, nonostante che sia proprio l’attuale grande eccesso di credito a preoccupare i borghesi.
«L’economia drogata richiede infatti dosi sempre maggiori, perché la funzione del credito non è che l’esaltazione della produzione futura» (Grundriss). Ma il capitale senile ha sempre meno possibilità di realizzarla e sempre più essa richiede sciupii e distruzioni di lavoro passato e vivente e devastazioni della Terra. Regolarmente il capitale arriva agli eccessi del credito, speculando sulla produzione futura di plusvalore. In merito all’utilizzo delle tecniche monetarie e finanziarie come surrogato del denaro si dava lettura e commento di una citazione di Marx e che sarà riportata nel resoconto esteso del rapporto.
Se il rilancio drogato della crescita della produzione riuscisse in Giappone, forzando alla massima tensione i limiti capitalistici, il capitale mondiale ritarderebbe il suo avanzare verso la grande crisi, alla quale questo ciclo lungo lo porta inesorabilmente.
Ma il credito avrà accelerato
lo sviluppo della massa delle forze produttive, il più stretto
intrecciarsi
del mercato mondiale e resa più esplosiva la contraddizione fra
produzione per l’accumulazione, su scala sempre più ampia, e
limitatezza
del consumo della maggior parte della popolazione. Su questa funzione
del
credito nella produzione capitalistica si dava lettura di una citazione
dal Libro III de Il Capitale.
Il giudizio di Marx e di Engels veniva a valutare la possibilità o impossibilità dell’intervento dei popoli balcanici sulla scena delle rivoluzioni nazionali borghesi della seconda metà del secolo scorso. Il loro giudizio a proposito del 1848 è ben severo e nel carteggio pesanti parole condannano il ruolo di riserva della reazione feudale svolto dalle popolazioni balcaniche. Una qualche possibilità di recupero ad un ruolo rivoluzionario veniva lasciato agli Slavi del Sud.
Il panslavismo, agitato da avventurieri ed anarchici, non era la bandiera della rivoluzione e della formazione di una nazione balcanica, ma nient’altro che la politica grande russa, allora più che mai reazionaria. Contro di essa vanno gli strali del marxismo, che vi vede una pesante minaccia per il movimento proletario in Germania e in tutta Europa.
Nemmeno nel momento in cui la parola d’ordine nazionale non è più figlia delle mene conservatrici di Mosca può svolgere un ruolo positivo, in quanto la questione è ormai subordinata agli interessi storici della classe operaia. Gli scritti di Lenin sulla questione, al tempo della prima guerra mondiale, riconoscono e dimostrano che il partito socialdemocratico serbo ben fece a votare contro i crediti di guerra, benché questo fosse l’unico che avrebbe avuto qualche ragione per partecipare alla guerra imperialista, difendendo la Serbia nazione "aggredita".
Il secondo relatore scorreva gli eventi fino ai giorni nostri, confermando come nei Balcani la storia è rimasta ferma al 1848. Le vigliacche borghesie locali, incapaci di portare a compimento la rivoluzione nazionale, si accodano e servono i giganti imperialisti nella loro politica di rapina e spartizione del mondo.
A grandi linee venivano mostrati gli
interessi e le spinte delle maggiori borghesie sulla regione,
confermando
uno scontro a tre USA, Germania e Russia, sulla pelle del proletariato
locale.
Sulla scorta dell’esperienza acquisita dal movimento veniva ricordato che una delle migliori tattiche nemiche, atte a paralizzare le capacità conoscitive e difensive del partite, è consistita nell’insinuare all’interno dell’organizzazione il sospetto fra combattenti, vera premessa alla disintegrazione dell’organo rivoluzionario. La difensiva non è da ricercarsi tanto in uffici preposti ad adeguata profilassi, quanto nel livello del lavoro rivoluzionario, da svolgersi secondo quei moduli di fraterna solidarietà fra militanti che chiunque, non accecato dalla acredine borghese, può riconoscere nella nostra tradizione, da Carlo e Federico infino ai molti decenni di efficacissimo operare delle nostre modeste schiere.
Veniva quindi dato uno sguardo
esemplificativo
a come lo stalinismo, col pretesto di dover resistere ai metodi
illegali
del fascismo, approfittasse della necessità del lavoro clandestino
per "sezionare" il partito con la cosiddetta "bolscevizzazione" allo
scopo
di prevalere sui compagni della Sinistra (e talvolta eliminarli
fisicamente).
Anche sul piano "tecnico" ribattemmo che le cellule
poste
a base dell’organizzazione del partito si rendevano facilmente
individuabili
e nello stesso tempo, scomponendo il Partito in rigidi blocchi, ne
rendevano
fragile la struttura e la resistenza nei confronti del
centralizzatissimo
e informatissimo nostro nemico; al contrario la base territoriale,
esprimendo
il superamento delle barriere imposte dalla società borghese ai
proletari, si rendeva necessaria per il reclutamento al partito, che
deve
essere intercategoriale, e anche interclassista, e per meglio ospitare
il nostro collettivo lavorare.
L’anarchismo, capeggiato da Bakunin, favorito dal rinato volontarismo successivo alla sconfitta della Comune, si era diffuso, per mezzo della Alleanza della Democrazia Socialista, una setta segreta, per lo più in Spagna, in Italia, in parte della Svizzera e nel sud della Francia, ovvero nelle zone a capitalismo relativamente meno sviluppato, dove il proletariato non rappresentava ancora una classe numericamente rilevante.
Bakunin e i suoi rifiutavano la lotta economica (sebbene non in tutti i paesi) e professavano l’astensionismo politico tanto dalle elezioni quanto dalla comune lotta contingente di partito. Inoltre, per essi, nell’Internazionale non sarebbe dovuto esistere il pur minimo centralismo, ma essere una libera federazione di sezioni, che avrebbero trovato spontanea unità d’azione solo nel naturale istinto rivoluzionario. Il Consiglio Generale, nella loro impostazione, si sarebbe dovuto ridurre ad un centro di corrispondenza e di statistica e non un centro per l’organizzazione rivoluzionaria a livello mondiale. Marx oppose la semplice constatazione che la Rivoluzione, essendo una guerra, ha bisogno di un’organizzazione disciplinata e centralizzata che possa sferrare l’attacco al Capitale, e che questa centralizzazione non esprime la autorità di pochi dotti sulla massa proletaria bensì è espressione dell’unitarietà d’intenti del centro e della base. Solo una organizzazione così accentrata avrebbe permesso la vittoria definitiva, come la Comune aveva dimostrato ampiamente.
Al Congresso dell’Aja, a conclusione di un anno di dura polemica su queste questioni, si decideva, oltre all’espulsione del troppo intrigante Bakunin, della necessità non di indebolire ma di rafforzare i compiti del Consiglio Generale ai fini della attuazione fedele del programma del 1864 e della difesa del partito dalle infiltrazioni di dottrine e pratiche non proletarie tramite la più energica azione comune, tanto a scala nazionale quanto internazionale. Non dunque un centralismo solo formale, burocratico, come rinfacceremo a Gramsci e Togliatti negli anni Venti del nuovo secolo, ma un centralismo funzionale ed espressione del programma rivoluzionario, precursore del nostro, più maturo, centralismo organico.
Il Congresso accettava inoltre la necessità dell’affermazione di una Dittatura proletaria a seguito della Rivoluzione per sradicare e distruggere definitivamente la resistenza della classe borghese. Essa Dittatura si sarebbe auto-superata, nell’estinzione dello Stato, solo come conseguenza dell’estinzione delle classi. La Comune aveva troppo a caro prezzo insegnato all’avanguardia proletaria internazionale che con nessuna bonarietà si poteva trattare la sanguinaria classe borghese.
Si deliberò infine il trasferimento del Consiglio Generale da Londra a New York. A questo si opposero i blanquisti, che, come gli anarchici, dichiararono la scissione, perché all’imperante reazione europea e alla controrivoluzione vincitrice ritenevano potersi rispondere in modo volontaristico. Marx ed Engels invece consideravano il cambiamento della situazione oggettiva non rovesciabile in tempi brevi e la Rivoluzione rinviata per decenni.
In tutta Europa l’Internazionale era
divenuta illegale; in Inghilterra era rimasta legale ma il proletariato
era stato corrotto dai benefìci tratti dalla propria borghesia nella
Guerra franco-prussiana e dalla politica dei dirigenti delle Trade
Unions,
sempre più di tendenza conciliatrice e, come denunciò Marx
all’Aja, venduti alla borghesia e dunque nemici del
proletariato
rivoluzionario.
Il Segretariato Centrale della Resistenza, nato nel 1902 per unificare l’azione tra la Federazione delle CdL e le Federazioni di mestiere, era stato solo un organo di mediazione tra i due tipi di organizzazione, senza poterne sanare i contrasti. Quando poi nel 1905 il Segretariato della Resistenza passò da una direzione riformista ad una sindacalista rivoluzionaria perse ulteriormente influenza sulle federazioni di mestiere, dirette in gran parte dai riformisti, mentre le Camere del Lavoro continuavano a muoversi autonomamente. Venne decisa quindi la formazione di una confederazione nazionale, imperniata sulle federazioni di mestiere. Al Congresso costitutivo della Confederazione, a Milano nel settembre 1906, parteciparono riformisti, sindacalisti rivoluzionari ed anche repubblicani e apolitici; in tutto circa 500 delegati, rappresentanti 700 leghe con più di 200.000 iscritti. Prevalsero nettamente i riformisti sui sindacalisti rivoluzionari.
Un Direttivo ed un Esecutivo costituirono la guida della Confederazione, di cui Rinaldo Rigola fu eletto Segretario Generale nel gennaio 1907, mantenendo la sua carica fino al 1918, con un aperto, coerente e pernicioso collaborazionismo di classe. La CGdL cercò di rafforzare le Federazioni di mestiere rispetto alle Camere del Lavoro le quali, come abbiamo già avuto occasione di dire, per la loro organizzazione su base territoriale ritenevamo che avrebbero permesso ai proletari di trovarsi uniti in quanto tali senza rimanere prigionieri di quel settorialismo che un’organizzazione di categoria inevitabilmente comporta.
La concezione del sindacato espressa dai dirigenti della CGdL rifiutava sia le posizioni delle Trade Unions britanniche sia quelle sindacaliste rivoluzionarie della CGT francese, apparentemente opposte ma concordanti nella svalutazione della funzione del Partito. Si affermava la posizione sostenuta dai sindacati tedeschi, non meno equivoca delle altre, secondo la quale, essendo il sindacato organizzazione della lotta economica del proletariato ed il partito organizzazione della lotta politica, quest’ultimo non poteva pretendere di dirigere da solo la lotta di classe. Secondo tale concezione la guida del proletariato avrebbe dovuto essere costituita da una diarchia tra la Direzione del Partito e quella del Sindacato. Nell’ottobre del 1907, a Firenze, ci fu infatti un accordo in tal senso tra PSI e CGdL per cui a quest’ultima spettava "la direzione e il coordinamento degli scioperi economici, limitatamente alle organizzazioni ad esse aderenti", e al partito spettava di dirigere il movimento politico.
Risalta la concezione di un partito
interclassista,
che rappresenta interessi multiformi e non specificamente proletari.
Risulta
pure evidente l’intenzione del sindacato di cercare accordi con vari
partiti
considerati espressione del proletariato, favorendo possibilmente tra
essi
un’alleanza elettorale su un programma concordato tra essi e il
sindacato.
In questi ultimissimi tempi, dopo che tutti si sono dati le arie di aver finalmente approdato ad un modo moderno e liberale di pensare, non solo nell’ambito specifico della politica, stanno riproponendosi pubblicazioni e libelli che sottolineano l’incertezza, le turbolenze, quando non i pericoli non tanto lontani di "catastrofe" e di sventura globale. «L’ingigantirsi dell’economia finanziaria virtuale ha un terribile potenziale demolitore della sottostante economia reale. L’economia globalizzata di oggi è assai più anarchica dell’ordine economico internazionale e liberale crollato nel 1914. Essa sta sgretolando il potere e l’autorità degli Stati sovrani e ha reso impossibili ormai le pratiche riformistico/socialdemocratiche di spesa keynesiana» (John Gray, Alba bugiarda, Il mito del capitalismo globale e il suo fallimento). Il mondo diventa sempre più incerto, i pericoli di guerra generalizzata non più remoti.
Noi non abbiamo bisogno di essere confermati da una scritto più o meno "simile" alle nostre previsioni; ma il fatto è che anche nel campo borghese l’ottimismo di maniera sta cedendo sempre più a gravi preoccupazioni e non può che riconoscere quanto andiamo sostenendo a livello storico da sempre.
Per questo abbiamo ribadito, con questo rapporto, tutte le nostre tesi sulla natura del lavoro in regime capitalistico e la necessità della sua "emancipazione", anche dopo aver precisato che la teoria materialistico/dialettica, pur non negando l’afflato sentimentale dei pionieri del socialismo, per "emancipazione" non intende la negazione di un indefinito e moralistico "sfruttamento", ma l’indicazione di un programma storico, valido fino al suo esito finale, che prevede la ricomposizione del lavoro, la fine della sua alienazione mercantile.
Ci troviamo a mettere ancora una volta a fuoco la nostra capacità di tenere sotto controllo, e se possibile dominio concettuale, una realtà sociale sicuramente "complessa" (è la parola più abusata di questi tempi!), nel senso letterale che le co/implicazioni sono numerose e difficili a districare, ma con la convinzione che il nostro metodo, pur messo a dura prova, non solo ha retto ma si è dimostrato l’unico capace di non perdere il filo dei fenomeni e di saper fare previsioni e progetti, fino alla liberazione del lavoro umano dalle miopie e dalle ristrettezze del modo di produzione capitalistico.
Il sospetto, che è stato diffuso a piene mani, sulla impossibilità di comprendere la "realtà", sia sociale sia naturale, ha prodotto il culto del negativo, della passività e la convinzione che non ci sia ormai che da rassegnarsi al peggio.
Il nostro impianto di pensiero è visto da certi come la contraddizione stessa delle basi materialistico dialettiche da cui partiamo, per il fatto che sembra che ci affidiamo ad un sistema di pensiero, ad una teoria scaturita e praticata lontano mille miglia dai centri dove si pretende che pulsi la vita, dai "gangli decisionali", dalla "stanza dei bottoni" tanto reclamizzata... e poi trovata senza bottoni!
Si dà con grande sussiego la parola ai teorici, scienziati che si compiacciono di seminare sconforto, e che forse non rappresentano che la soggettiva rassegnazione e senso di sconfitta della piccola borghesia. Jean Michel Truong, grande informatico deluso, è arrivato a dire «sono molto pessimista... due grandi tentativi sono falliti: il cristianesimo prima, e il comunismo poi. Oggi possiamo cercare dei palliativi, fare in modo che per le vittime ci sia meno male possibile... Le kapò del neoliberismo ne traggono vantaggi e in cambio assicurano la disciplina. Ma le immense masse umane restano ai margini. E noi per loro possiamo solo avere compassione. Non ci sono soluzioni positive, non resta che il suicidio o una rassegnazione confortevole».
Stile da fine impero, non c’è
che dire. Solo che ci si dimentica di dire che da ogni fine impero
(oggi
quello del capitalismo decrepito) sono nate le forze che hanno messo in
atto momenti storici nuovi e rivoluzionari. A questi noi ci atteniamo.
Altro che suicidio!
La storia del Sudafrica è stata da noi suddivisa in tre periodi: il primo dalla fondazione della Colonia del Capo fino alla scoperta dei grandi giacimenti minerari (1652-1867) in cui non vi fu una vera e propria colonizzazione del paese, che di fatto rimase suddiviso in tre zone di influenza: il nord agropastorale sotto il dominio boero, che applicava una politica di schiacciamento razziale ed economico molto forte; una meridionale prevalentemente commerciale e manifatturiera sotto l’influenza inglese, che cercava una buona intesa con le popolazioni negre locali; una terza, che si riduceva sempre più, occupata dalle popolazioni tribali.
Il secondo periodo arriva fino alla seconda guerra mondiale e vede il prevalere del dominio britannico e il grande avvio delle attività minerarie ed industriali. Le guerre anglo-boere terminate nel 1902 rappresentano lo scontro tra due modi di produzione: quello capitalistico moderno e quello antico agricolo e pastorale; il conflitto e la vittoria inglese non segna lo schiacciamento della nazionalità boera a favore dell’imperialismo britannico ma la gestazione del moderno Stato sudafricano, dotato di un tessuto produttivo e mercantile nazionale, con la concentrazione della popolazione nelle città collegate da una rete ferroviaria.
L’industrializzazione porta la popolazione negra nelle miniere e nelle fabbriche dove vige una precisa ripartizione razziale, tecnica ed economica, la Colour Bar, cioè un rapporto numerico fisso tra operai bianchi, qualificati e meglio pagati e operai negri cui spettano i lavori più pericolosi, faticosi e molto meno retribuiti. La necessità per il capitale di realizzare profitti più elevati tende nel tempo, tramite anche la modernizzazione degli impianti, a ridurre gli specializzati bianchi con altri lavoratori negri, organizzati in Unions diverse.
Negli anni venti scoppiano violenti scontri sindacali dei diversi gruppi razziali, con centinaia di morti fra i lavoratori bianchi e negri, ma il processo di sostituzione della forza lavoro bianca con quella sempre più disponibile e meno pagata negra continua, favorita anche dalla partecipazione del Sudafrica ai due conflitti mondiali a fianco dell’Inghilterra. Protetto dalla lontananza dei fronti di guerra il Sudafrica industrializzato e ricco di materie prime e allevamenti è il paese ideale per il rifornimento bellico di ogni tipo e ciò non fa che accrescere lo sfruttamento di tutto il proletariato locale e i profitti della borghesia che colà vanta degli investimenti. Si rafforza l’apparato produttivo anche in agricoltura, che ora inizia ad esportare.
Il terzo periodo, dalla seconda guerra ad oggi vede la gestazione, sviluppo ed il crollo dell’apartheid, ovvero un articolato sistema legislativo atto a garantire lo sfruttamento intenso della forza lavoro negra costretta a vivere nei sobborghi urbani dei centri industriali e minerari solo se in possesso di un regolare contratto di lavoro, oppure ritornare, per condurre una vita miserrima, negli artificiali Stati-ghetto concepiti come magazzini di braccia a basso prezzo.
Questo "sviluppo separato" dei bianchi rispetto ai negri, dove le divisioni razziali devono corrispondere praticamente alle divisioni fra le classi, provoca durissimi scontri nei sobborghi negri impegnando la borghesia bianca in un pesantissimo sforzo economico e di risorse umane e bloccando al tempo stesso lo sviluppo del mercato interno non sostenuto dalla maggioranza negra, troppo costretta da vincoli giuridici ed economici. Inoltre la tensione sociale interna diviene così acuta da rischiare di far esplodere l’intero sistema sudafricano che, contemporaneamente, subisce anche i contraccolpi della generale crisi capitalistica.
Nel 1986 il governo di Pretoria annuncia di abbandonare la politica dell’apartheid e di voler costituire una "nazione democratica" composta da più minoranze razziali. Iniziano subito le operazioni per il passaggio morbido e pacifico dei poteri costituzionali dalla minoranza bianca ad un selezionato gruppo negro la cui figura eminente è Mandela. Liberato dopo molti anni di carcere e insignito del Nobel per la Pace, dovrà garantire la pace sociale nel delicato momento della transizione e al tempo stesso il prosieguo degli affari dei capitalisti di ogni razza, mediante anche il riconoscimento di una classe dirigente negra sottomessa agli interessi della borghesia in generale.
Per far ciò l’ANC abbandona la
sua uniforme di guerrigliero vagamente trotskista e si trasforma in un
partito populista, interclassista e per la riconciliazione nazionale.
Innanzi tutto venivano spiegate le motivazioni della politica del Partito Comunista Italiano, che per molti aspetti potrebbero sembrare contraddittorie se non venissero inquadrate sia nella sua funzione specifica di partito opportunista, sia nella posizione nella quale la situazione internazionale lo aveva collocato. Il PCI, infatti, da una parte rappresentava la sezione locale dell’opportunismo internazionale, avente come scopo la sottomissione della classe proletaria agli interessi del capitale nazionale ed internazionale, ma rappresentava anche gli interessi di una parte della borghesia indigena che nei rapporti economici con l’Europa orientale e con la stessa URSS vedeva la possibilità di lucrosi vantaggi per il capitalismo italiano e la possibilità di una penetrazione imperialistica, cosa del tutto impensabile nella zona occidentale. Questi settori economici, di conseguenza, rivendicavano una maggiore autonomia dal protettore statunitense. Inoltre, poiché Mosca, oltre che centrale mondiale dell’opportunismo, rappresentava anche l’imperialismo antagonista degli Stati Uniti, il PCI in una eventuale guerra avrebbe svolto la funzione di quinta colonna, cioè di nemico della patria, o, a seconda dei risultati del conflitto, di suo salvatore.
Dovendo interpretare diversi ruoli nella stessa commedia il partito togliattiano da una parte rivendicava la propria autonomia dal Cremlino teorizzando la "via italiana al socialismo" (con il pieno appoggio di Stalin; in proposito si veda la lezione data dal Maresciallo al turbolento Secchia), mentre dall’altra rafforzava le proprie strutture illegali, pronto anche a prendere le armi, qualora la situazione lo avesse richiesto. A questo proposito è stata data lettura di un lungo intervento di Togliatti al CC del 3 luglio 1947 in cui, nel negare la funzione rivoluzionaria del partito, rivendicava la necessità dell’armamento e della preparazione anche allo scontro armato.
Veniva poi dato cenno al VI congresso del PCI che, in definitiva, sanzionava la linea politica seguita dal partito con perfetta linearità fin dal 1926. Il congresso ebbe anche la funzione di preparare gli animi sia del proletariato sia del popolo italiano in generale a quella grandiosa beffa costituita dalle elezioni politiche dell’aprile. Partiti politici, Chiesa cattolica, organizzazioni economiche, perfettamente unanimi nei loro programmi politici (come si potrà leggere nei documenti di conforto del rapporto esteso), incendiarono gli animi dei lavoratori nella competizione cartacea distogliendoli dai veri problemi economici e sociali, che sarebbero rimasti irrisolti.
Le elezioni politiche del ’48 misero in piena evidenza il grado di sudditanza dell’Italia nei confronti dell’imperialismo americano che in modo del tutto esplicito dichiarava di non permettere che potesse essere instaurato un governo social-comunista, anche se liberamente e democraticamente espresso dalla maggioranza dei voti. Il progetto americano, graduato secondo la gravità del caso, andava dalla intimidazione preventiva, ad un ribaltamento dei rapporti di forze parlamentari (in caso di vittoria delle sinistre) con il passaggio del PSI nelle file dell’Occidente, fino allo scatenamento della guerra civile attraverso le organizzazioni stay behind e non escludeva neppure la diretta e risolutiva invasione militare.
La straordinaria affermazione della Democrazia Cristiana, che superò il 48% dei voti, conquistando alla Camera dei deputati la maggioranza assoluta dei seggi, poté in qualche modo dispiacere a De Gasperi che avrebbe preferito una affermazione più contenuta per non trovarsi impastoiato contemporaneamente nella rete americana ed in quella vaticana; non dispiacque però a Togliatti che, nella sconfitta delle sinistre vedeva salve le prerogative del suo partito. Infatti in più di una occasione affermò che «erano i risultati migliori che potevamo ottenere; va bene così».
Si passava poi ad accennare all’attentato a Togliatti e alla risposta che spontaneamente il proletariato diede non appena ne apprese la notizia. In quello a Togliatti il proletariato aveva visto un attentato alla classe lavoratrice e, collegando questa violenza alla quotidiana violenza che il dominio economico capitalistico ed il suo apparato statale esercitavano su di loro, si erano mossi spontaneamente e compatti nella illusione di una definitiva resa dei conti e di un capovolgimento violento dei rapporti politici e sociali. Le occupazioni delle fabbriche, gli scontri di piazza, le battaglie armate furono brutalmente represse dalle forze di polizia e rinnegate dalle organizzazioni sindacali e politiche. Alle decine e decine di lavoratori ammazzati dalle forze dell’ordine, alle migliaia di feriti, alle decine di migliaia di arrestati, alle migliaia di anni di carcere inflitti Togliatti dalle colonne di "Rinascita", con il disprezzo del traditore incallito, rispondeva: «Non vi è mai stato in noi semplicismo o ingenuità. Sono caduti e cadono in questi errori coloro che, scoraggiati da un successo elettorale che non li ha soddisfatti, non vedono altra alternativa alla passività che nel vano tentativo di fantasticare insurrezioni ad ogni passo». Contemporaneamente la Direzione del PCI lanciava una sottoscrizione per le vittime dei fatti di luglio della quale avrebbero democraticamente beneficiato e proletari e poliziotti.
Il rapporto si concludeva illustrando
la sanzione della scissione sindacale, di fatto esistente da sempre.
Unità
sindacale 1945/48 e scissione rappresentavano solo due aspetti della
stessa
realtà antiproletaria: assoggettare prima la classe operaia alle
necessità della ricostruzione nazionale in nome dell’unità
di intenti e di interessi, spezzare in seguito ogni sussulto virile del
proletariato per demoralizzarlo e renderlo incapace di opporre
resistenza
agli attacchi padronali.
La fabbrica del colosso francese del vetro, impiantata decenni fa nel territorio casertano e fonte di sostentamento per centinaia di famiglie proletarie dei quartieri meridionali della città, dopo aver macinato enormi profitti per tutti gli anni ’60 e ’70 spremendo plusvalore a ritmo inarrestabile ai propri operai, in seguito alla grande crisi economica che colpì tutta l’industria sulla metà degli anni ’70 e che non risparmiò il settore del vetro, fu investita da una violenta politica di ristrutturazione. Per tutti gli anni ’80 la cassa integrazione sferzò periodicamente le maestranze che non di rado scesero sul terreno dello sciopero per arginare l’offensiva padronale.
Il tragico epilogo della vicenda si ebbe quando, sul finire degli anni ’80, nel quadro di un più vasto piano di riassetto degli impianti, la Saint Gobain SpA decise di chiudere lo stabilimento di Caserta. Ne seguirono duri scioperi, che videro la CGIL tenacemente impegnata ad imbrigliare e a fiaccare la resistenza operaia, con gli strumenti soliti che tutti i proletari ormai ben conoscono. Il principale fu la frammentazione della lotta con la creazione di fasulli obiettivi particolari di ristretti gruppi, raggiungibili non sul terreno dello scontro aperto, che resta l’unico in grado di mostrare la forza operaia, ma con il pasticcione intrallazzare dei bonzi sindacali sui pubblici uffici.
Morale della favola: la Saint Gobain chiuse. E gli operai, tutti assunti da lunga data e prossimi alla pensione, mandati chi in mobilità, chi in mobilità lunga, chi in prepensionamento.
Soltanto un ristretto contingente di operai più giovani rimase in sospeso, e passò alle dipendenze della Progetto Industrie SpA, società costituita con la funzione di gestire lo smantellamento e il "recupero" dell’area (di diversi ettari) ove sorgevano gli impianti produttivi, subito entrata nelle mire di speculatori e palazzinari di ogni risma. A questi operai fu affidato il triste compito di guardiani dell’immensa area industriale dismessa, ormai ridotta a una distesa di ruderi ed erbacce.
Passano gli anni, i progetti faraonici di conversione dell’area si susseguono infruttuosi l’uno dopo l’altro, buoni solo a riempire le scialbe pagine di cronaca cittadina, e la Progetto Industrie che aveva legato i suoi destini all’orgia di investimenti che si aspettava dovessero piovere dall’erario pubblico per "rilanciare l’area", iniziò, coll’allungarsi inaspettato dei tempi, a dimenticarsi di quei "guardiani" che gravavano improduttivamente sul proprio bilancio, e cominciò a pagarli a singhiozzo.
Si giunge così alla metà del 1999 quando i quaranta superstiti di quello che fu l’esercito dei lavoratori della Saint Gobain, ormai da mesi senza stipendio, decisero di occupare l’area bloccandone l’ingresso. Totalmente abbandonati a se stessi, in numero troppo esiguo per potersi rendere visibili, la loro unica possibilità era quella di chiudere tutto, fermando completamente alcune attività che si erano nel frattempo insediate all’interno (una fabbrichetta di liquori, una tipografia, determinati uffici adibiti alla formazione professionale, un piccolo distaccamento di una università privata).
La prima occupazione durata quattro giorni, male organizzata, vide drammaticamente operai minacciare di lanciarsi dall’alta pensilina della portineria per evitare l’irruzione della polizia, e si concluse con il solito incontro in Prefettura con i rappresentati di Progetto Industrie che si impegnarono a pagare "al più presto" i salari arretrati. La promessa restò lettera morta e in luglio, a quota sette mesi senza stipendio, gli operai ripresero l’iniziativa occupando nuovamente la struttura, e replicando in settembre, quando si organizzarono meglio, risoluti come erano a resistere ad oltranza fino alla riscossione dei salari, disponendo una pesante escavatrice ad ostruire i cancelli e posizionandovi avanti una massa di vecchi copertoni di camion, cui dar fuoco per estrema difesa. Dopo quasi una settimana di resistenza, condotta in assoluto isolamento, la società stacca l’assegno contenente l’anticipo degli arretrati fino al solo mese di marzo, e così ottiene la resa degli occupanti.
Intanto il coro dei benpensanti dava in testa agli occupanti con le solite accuse di "irresponsabili", "incivili", "parassiti", a gente che ha minimo 20 anni di duro lavoro salariato sulle spalle, vissuto in ambienti malsani, a contatto con la silice, materia prima del vetro, e con l’amianto, di cui erano costruiti i tetti dei capannoni, per poi essere parcheggiati come si fa per le merci in sovraproduzione. Che lo dicano anche altri lavoratori denota l’attuale fase di sbandamento e di annichilimento delle energie proletarie, portate ad un livello di così storica passività dal lento e costante lavoro di indebolimento condotto dall’opportunismo sindacale e politico.
Ad oggi, 3 novembre, la restante parte degli arretrati non è stata ancora pagata. Gli operai rumoreggiano tentativi di nuove azioni, ma il loro morale è ovviamente a terra, sanno di essere chiusi in una gabbia e che le loro sole forze sono troppo esigue per poterla spezzare. Manca l’appoggio e la solidarietà del resto della classe operaia, benché tutta essa alle prese con problemi simili.
Specialmente in tempo di crisi sarebbe necessario che la classe operaia affrontasse il padronato e il suo Stato in un’unica grande battaglia difensiva, con rivendicazioni uniche per tutte le categorie. Non la "difesa del posto di lavoro", che troppo facilmente si riduce a nient’altro che alla difesa del proprio posto di lavoro dagli altri concorrenti, ma una difesa del salario operaio anche per i disoccupati. Alla triste, ma significativa, esperienza di questi ultimi quaranta della Saint Gobain, simile a quella di mille altri gruppi operai, occorre opporre una nuova coscienza sindacale di classe del proletariato, che lo porti alla sensazione della sua grande forza se organizzato validamente e correttamente diretto.
Esattamente il contrario di come operano i sindacati attuali i quali ad evitare quella generale organizzazione, mobilitazione e coscienza di classe incessantemente spendono tutte le loro migliori energie. Al massimo trascinano le singole vertenze isolatamente per isolatamente fiaccare ogni possibilità di vittoria.
La ripresa della lotta di classe e
della
combattività sul sano e indipendente terreno dello scontro per la
difesa degli interessi economici operai passerà necessariamente
attraverso vari tentativi coraggiosi che dovranno, prima con
insuccesso,
poi, moltiplicandosi, con migliore sorte, scalfire e distruggere questa
massiccia imbrigliatura che ne impedisce il risorgere.
Dato che la rendita differenziale proviene non soltanto dalla diversità delle terre coltivate, ma anche dalla differenza dei capitali impiegati in uno stesso fondo, è naturale che l’America, per mantenere alta la rendita, cerchi di imporre ai potenziali concorrenti un rallentamento nello sviluppo agricolo. Ma questo vale anche per i paesi più forti all’interno della CEE: Francia e Germania per difendere la loro rendita agraria hanno cercato e cercheranno sempre di rallentare o cacciare indietro lo sviluppo agricolo degli altri paesi comunitari.
Gli Stati membri della CEE, che sono ai primi posti come paesi industrializzati hanno anche mostrato sempre scarso interesse verso azioni strutturali «corrispondendo in ritardo e parzialmente le loro quote nazionali» ("Nuova Agricoltura", n.13/1989, p.12). «Le associazioni agricole dichiaravano guerra alla nuova P.A.C. che secondo il Presidente della Coldiretti Lobianco, "è da rifare". I rappresentanti del mondo agricolo nazionale ritenevano necessario "conoscere una volta per tutte cosa c’è dietro la liturgia comunitaria" e quindi quali possono essere le vere ragioni di una politica agricola comune che sembra tendere fatalmente a deprimere la produttività agricola dei paesi membri dalla CEE, suscitando il sospetto di un più o meno accentuato favore presso la prevalenza monopolistica della agricoltura americana, che andrebbe a proporsi quale effettiva vincitrice dei negoziati GATT» ("Struttura e mercato comunitario", p.382).
Noi dobbiamo aggiungere che questo vassallaggio nei confronti degli S.U., si riproduce all’interno della C.E.E. Malgrado le proteste nulla è cambiato.
A questa situazione si aggiungeva l’unificazione della Germania. Il 7 ottobre 1990 "Linea Verde" visitava le aziende agricole della Germania Est, di una superficie che va da 4.000 a 6.000 ettari, che i soci non vogliono frazionare perché con quelle dimensioni il lavoro è più produttivo, mentre gli agricoltori della Germania Ovest sono preoccupati essendo le loro aziende di una media di 100 ettari, il che li rende svantaggiati, soprattutto in quel momento già pesante per l’agricoltura tedesca.
«Il cosiddetto set-aside, promosso in sede CEE per attenuare e limitare le eccedenze strutturali, era stato soprattutto voluto dalla Germania, che in questo modo poteva risolvere la propria situazione cerealicola senza penalizzare eccessivamente gli imprenditori agricoli. Questo strumento di intervento comunitario aveva trovato, nel suo iter propositivo, una serie di perplessità e dubbi da parte di quasi tutti gli Stati membri della Comunità. L’esperienza negli S.U. delle terre a riposo non aveva prodotto sensibili risultati nella riduzione delle eccedenze strutturali. Anche in Italia, la naturale disattivazione di centinaia di migliaia di aziende negli ultimi 10 anni non ha portato ad un decremento produttivo» ("Nuova Agricoltura", n.13/1989).
Nel 1996 scoppia il bubbone delle vacche "pazze", dovuto alla manipolazione alimentare del bestiame, spinto sino al cannibalismo, che alimenta l’animale erbivoro con proteine animali e spesso malsane, fino a dover abbattere mandrie intere per non contaminare l’uomo. Invece di penalizzare con l’abbattimento senza indennizzo coloro che avevano osato tanto, la Comunità versa all’Inghilterra un indennizzo per l’abbattimento di un numero enorme di vacche. Poi si chiacchierò che poche in realtà erano state abbattute. Così i paesi della rimanente parte della Comunità hanno pagato prima per l’abbattimento, poi svendendo le proprie vacche per il calo dei consumi dovuto al timore del contagio all’uomo. Ora vediamo scendere in piazza anche i produttori di olive, di riso, di arance ecc.
Dietro alla cosiddetta Politica Agricola Comunitaria c’è insomma solo una sorda lotta dei paesi più industrializzati per ritardare lo sviluppo dei rimanenti paesi, e con ciò mantenere o aumentare (come fa l’America) la loro rendita agraria in quanto fondata sulla differenza fra la produttività delle aziende. Gli S.U. hanno una estensione media aziendale di 283 ettari, la Comunità Europea di 13-14! E grandi divergenze le troviamo all’interno della CEE: Portogallo e Grecia hanno una superficie media di 4 ettari; l’Italia 8-9 ettari. Nel Regno Unito 4 persone coltivano 100 ettari; in Grecia, per la stessa superficie, le persone occupate sono 52, mentre la media comunitaria è di 15. Le piccole aziende a base familiare sono ancora prevalenti nell’Europa meridionale. Le aziende specializzate nella culture che esigono una maggior quantità di manodopera prevalgono in Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, mentre nei paesi dell’Europa settentrionale le aziende sono principalmente orientate verso l’allevamento, con minor manodopera, i quali paesi esercitano, attraverso le quote dei diversi prodotti loro assegnate, il monopolio sull’agricoltura, che da tempo va sempre più concentrandosi sulla potenza industriale e finanziaria della Germania.
L’agricoltura – particolarmente
quella
europea – ha raggiunto lo stadio di tutti i settori capitalistici nella
fase imperialista, quindi non più lotta per conquistare appieno
all’economia capitalista la precedente struttura agraria, ma per
strappare
i mercati ad altri capitalisti agrari. Una lotta che si fonde con
quella
dell’industria, perché l’industria, che ha portato a questo stadio
l’agricoltura, non può fare a meno di un settore così importante
come quello che dovrebbe alimentare a basso prezzo i proletari e che
acquista
macchine agricole.
La scarsa produzione aveva spinto dal luglio ’72 al giugno ’73 le quotazioni del frumento a salire di due volte, quelle del granoturco anche di più, quelle della soia addirittura di quattro, il che in un libero mercato avrebbe significato un incentivo a produrre di più. Invece, in quel cruciale momento, nel 1972, il massimo produttore e esportatore mondiale di derrate alimentari, gli USA, hanno speso 1.050 milioni di dollari per limitare la produzione di frumento, largamente compensati dal raddoppio del prezzo. Non è l’ondata di maltempo, "generale e senza precedenti", la causa principale, ma l’uragano imperialista. Washington si avvalse della sua posizione di massimo esportatore mondiale di derrate alimentari, come strategia commerciale nelle trattative in seno al GATT, per ridurre alla ragione i suoi partners agitando lo spettro dell’affamamento e ottenendo insieme un nuovo equilibrio internazionale e il pareggio della bilancia dei pagamenti. Lucrò ad un tempo una vittoria politica e un utile economico.
Di queste manifestazioni da gendarme internazionale, sia col dollaro sia con lo spettro della fame rivolte contro di esse, le borghesie mondiali tacevano, ma erano costrette a trovare strumenti per sottrarvisi e fronteggiare la crisi del sistema capitalista che sempre più si approfondiva.
Nel 1985, «gli Stati Uniti, avendo riscontrato negli ultimi tempi una diminuzione della loro capacità di penetrazione nei mercati del mediterraneo con i loro agrumi – causa del fatto che la comunità ha consentito rapporti privilegiati con i paesi mediterranei – hanno chiesto delle compensazioni. Queste non sono state accordate e perciò gli Stati Uniti hanno attuato una ritorsione aumentando le tariffe doganali su alcuni prodotti, tra i quali quelli delle paste alimentari (...) I problemi sono diversi, ma tutti erano di fronte ad una fase di trasformazione della agricoltura a livello internazionale: c’erano problemi per l’agricoltura americana e c’erano problemi per l’agricoltura europea. Gli agricoltori americani si trovarono esposti, in quegli anni, tra l’altro, avendo fatto forti investimenti, verso le banche. Alcuni istituti di credito erano addirittura sull’orlo del fallimento perché non avevano la possibilità di far fronte alla situazione. Perciò l’amministrazione americana vuole realizzare economie sul piano interno ma, nello stesso tempo, vuole aiutare i suoi agricoltori ad esportare su tutti mercati esteri in modo che non ci sia una caduta verticale dell’economia agricola» ("Nuova Agricoltura", n.21/1985).
«In occasione della 14.a conferenza sull’agricoltura tra S.U. e Comunità Europea, tenutasi a Sant’Antonio, Texas, dal 23 al 25 ottobre 1985, è stata rivolta particolare attenzione ai problemi derivanti dall’eccedenza della produzione agricola mondiale rispetto alla domanda effettiva» (p.16), problema che mai il capitale può risolvere, soprattutto attualmente, dato l’aumento della disoccupazione e la diminuzione del potere d’acquisto dei salari che diminuiscono ulteriormente la domanda "effettiva", cioè "solubile". I "non solubili" sono quasi un miliardo, di cui 40.000.000 muoiono di fame ogni anno.
L’articolo notava che il Congresso degli S.U. stava discutendo, in sostituzione del vecchio Farm-bill, una nuova legge rivolta essenzialmente ad integrare il reddito dei farmer per consentirgli di affrontare il mercato a prezzi ridotti. Non era questo dumping? Nello stesso tempo dichiaravano che doveva essere rafforzato e qualificato il GATT mediante negoziati.
Nel 1990, «al vertice di Houston dei sette Grandi, il dibattito sulla riforma delle politiche agricole occupò parecchio spazio. Per la Comunità l’essenziale era che il testo indicasse che lo smantellamento delle sovvenzioni si farebbe in modo "coerente". Cioè le diminuzioni delle sovvenzioni all’esportazione andrà di pari passo con la diminuzione del sostegno interno. In altri termini gli USA dovranno ridurre il sostegno alla loro agricoltura in modo equivalente a quello chiesto alla CEE. Il presidente della commissione nella conferenza è stata molto chiaro: "Non possiamo andare verso la desertificazione del 30% delle nostre terre per far contento un paese che non capisce niente dei nostri problemi". E ancora: "per gli S.U. si tratta di buttarci fuori dal mercato e di prendere il nostro posto". Il presidente del Copa ha evidenziato come il presidente degli S.U. non perda occasione, nel corso delle varie riunioni per il rinnovo del GATT, di parlare quasi esclusivamente di problemi agricoli sotto la fortissima spinta lobbystica dei grandi monopoli del commercio agroalimentare americano. Ha rincarato come gli S.U., con la loro legge agricola, il famoso Farm Bill, spendono per ciascun agricoltore ben 27.000 dollari l’anno contro gli 8.000 circa spesi nella CEE e che il loro liberalismo quindi è solo di facciata, e ha ricordato ad Andreotti appena ritornato da Houston il fatto che dal febbraio 1988 sono entrati in vigore i famigerati stabilizzatori finanziari che hanno ridotto la spesa annuale in agricoltura, e quindi le entrate dei produttori, di più di 3.000 miliardi» ("Nuova Agricoltura", n.21/1990).
Le trattative nella riunione del GATT di dicembre 1990, causa il grosso disaccordo fra Comunità Europea e Stati Uniti sul mercato agricolo, sono state un completo fallimento. Intervistati e giornali, accusavano gli S.U. di comportarsi da padroni, "come fanno anche nel Golfo Persico", ma preoccupati perché la rottura sul mercato agricolo comporterebbe l’annullamento di tutto l’organismo GATT e di conseguenza una dura guerra commerciale "che potrebbe portare a una catastrofe". Speravano che gli S.U. rivedessero le loro posizioni nei riguardi della CEE, dato che rappresenta il 40% del commercio mondiale. Questo 40% della CEE è un capovolgimento di potenza economica, rispetto al dopoguerra, che non le permette più una sudditanza ai vincitori della guerra. Sempre nel 1990 c’era chi azzardava l’idea che gli S.U. volessero rompere col GATT e creare un organismo inter-americano economico, il NAFTA, comprendente Canada, S.U. e Messico, che assumerebbe una popolazione di 363 milioni di consumatori, mentre la CEE potrebbe essere rafforzata da un accordo con l’EFTA che unisce l’Austria, la Finlandia, l’Islanda, la Norvegia, la Svizzera, in un mercato unico, superiore a 360 milioni di consumatori, che porterebbe a una contrapposizione economica a livello continentale.
Qualunque accordo sul GATT è solo
una tregua d’armi, che prefigura uno scontro maggiore investendo il
settore
agricolo e minerario nella corsa alle rendite. Ma lo scontro fra Stati
Uniti e Comunità Europea sul commercio agricolo è solo un
episodio della generale lotta per i mercati, nella quale l’odierno
sviluppo
che il capitalismo ha raggiunto in agricoltura constituisce un
ulteriore
fattore dirompente.
La resistenza contro la concorrenza esterna non sana certo le divisioni interne alla Comunità Europea. L’editoriale del mensile "Agricoltura" nell’aprile 1999, commentando l’accordo sul negoziato agricolo del 25-26 marzo scorso, lo definisce un nuovo modello di politica agricola comunitaria, consistente nel resistere in parte alle pressioni di taluni per riconquistare le rendite di posizione perse nel negoziato, che ha ridotto i prezzi di sostegno di cereali, carne e latte, compensati dalla concessione di aiuti diretti al reddito degli agricoltori, a tutto vantaggio della competitività delle imprese e della bilancia dei pagamenti. L’Italia si dichiara vincitrice dal negoziato agricolo anche se è slittata dal 2003 al 2005 la riforma del settore lattiero-caseario. È una concessione alle rendite già esistenti – che ha segnato una divisione fra l’alleanza a quattro, Italia, Regno unito, Svezia e Danimarca, e i rimanenti paesi – per mantenerle e trasferirle nel nuovo accordo.
Nessun accordo commerciale o
limitazione
delle produzioni può bloccare l’evoluzione dell’agricoltura
capitalistica.
Secondo quanto aveva scritto "Agricoltura" nel maggio 1998, in
Emilia-Romagna,
regione ad alta vocazione agricola, quindi indicativa per tutto il
settore
non marginale dell’agricoltura europea, l’emorragia di posti di lavoro
è inarrestabile con un calo nel ’97 calcolato tra le 9 mila e le
6 mila unità. La gran parte in numero delle imprese agricole – circa
3/4 – sono condotte da anziani senza successore. Bisogna chiedersi come
e con quali ripercussioni queste saranno integrate in imprese di
maggiori
dimensioni, e non solo per l’Emilia-Romagna ma per tutta l’agricoltura,
inclusa la riduzione e la perdita di molte specie e con quali
alterazioni
degli ecosistemi agricoli.
Entrano nel mercato gli "Ex-socialisti". «Nell’Agenda 2000-2006 è in programma per il 2002 l’adesione di cinque "Peco": Estonia, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia. Sarebbe aberrante rifiutare gli aiuti diretti agli agricoltori dei Peco, i più poveri, altrimenti l’adesione all’Unione creerà un’ecatombe di posti di lavoro in agricoltura: 2 milioni per la sola Polonia» ("Il Manifesto").
Si aprirà, alla fine del 1999,
un nuovo round di negoziati, in vista di una maggiore
"liberalizzazione"
degli scambi, dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che nel
1995 ha preso il posto del Gatt. Gli Stati Uniti arrivano a questa
scadenza
in posizione di forza e intendono ottenere lo smantellamento delle
protezioni
che sussistono nella Pac. Possiamo prevedere che la Ue – attualmente
sotto
l’incubo del terrorismo militare americano – farà resistenza per
difendere il suo mercato. Ma i risultati saranno a dir bene parziali e
la guerra commerciale non andrà che ad esasperarsi. Sarà
anche quello dell’apertura del mercato agricolo europeo alle merci
americane
un ulteriore motivo che le borghesie cercheranno di "risolvere" con lo
scontro diretto fra gli imperialismi, e l’accordo di Berlino sarà
solo cronaca di guerra.
I paesi asiatici nel dopoguerra portavano a termine la rivoluzione borghese. Dalla meta degli anni ’80 sembra che India, Cina e Indonesia siano diventati esportatori di generi alimentari. La Corea del Sud che nel 1975 aveva il 45% di addetti all’agricoltura, nel 1993 ne aveva solo il 14,7%, il che rende visibile il trapasso forzato da una società agricola a una industriale, accompagnata da piani, come in occidente, di rinnovo tecnico, di meccanizzazione dell’agricoltura. Il XV congresso cinese si è proposto un incremento del PIL del 11% facendo credere che nel 2.000 raggiungeranno i paesi più progrediti. I vecchi paesi capitalistici hanno elaborato per due secoli tecniche altamente produttive, i giovanissimi paesi capitalistici trovano pronte queste tecniche anche per l’agricoltura, che permettono loro un trapasso accelerato, condizionato solo dal tempo necessario per l’accumulo dei capitali, necessari per passare da una società prevalentemente agricola a una industriale, oppure con l’afflusso di capitali esteri, come dimostra la Corea del Sud.
Già nel 1920 l’America era scesa al disotto del 30% di addetti nell’agricoltura, l’Inghilterra era già al 20%, ma entrambi ben superiori all’attuale 14,7% della Corea del Sud! Lenin, ne L’estremismo, malattia infantile del comunismo, affermava che un compito dei più difficili della edificazione socialista, che si poneva a tutti i paesi capitalistici (esclusa forse l’Inghilterra, dove la classe dei piccoli agricoltori fittavoli era molto poco numerosa) era quello del rapporto che il partito e la classe rivoluzionaria avrebbero dovuto stabilire con estesi ceti produttivi, non più rivoluzionari ma ancora presenti socialmente e non ancora resi inutili alla produzione sociale.
Attualmente si può quindi prevedere che anche per molti dei giovanissimi paesi capitalistici, come appunto la Corea del Sud, la tattica che il partito nelle campagne trovi molti dei suoi compiti enormemente facilitati.