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Timor Est - IL POTENZIALE ESPLODENTE
È QUELLO DELLA CLASSE OPERAIA
L’arcipelago di 14.000 isole, fra estese e minime, che costituisce il territorio nazionale indonesiano, ospita un trecento etnie diverse per razza, lingua, culto, storia, grado di sviluppo sociale, ecc. Questo non ha impedito che nel ’57 la rivoluzione anticoloniale riuscisse a far confluire nel moto indipendentista, nel territorio della ex colonia olandese, sufficienti forze da riuscire nella formazione del nuovo Stato, a nazionalizzare le proprietà occidentali e a sopraffare, nei suoi primi anni di vita, una serie di moti separatisti fomentati e armati dai vari imperialismi.
Il paese, ricco di risorse naturali, di un clima e di un suolo favorevole alle colture e di una estesa forza lavoro, si precipitava nel girone dell’accumulazione capitalistica con tutti i sui infami contrasti: arricchimento della classe borghese e impoverimento estremo degli schiavi industriali, inurbamento mostruoso e desolazione rurale, grandi aziende agricole e rovina dei piccoli contadini, ecc. Perno indispensabile di un simile sovvertimento è l’autorità dittatoriale di Giakarta, i cui funzionari provengono in massima parte dalla borghesia di Giava.
Questo Stato, esaurito il suo periodo rivoluzionario, "non allineato", di Sukarno, deve presto fare i conti con un grandeggiante e concentrato proletariato che si è dato le sue organizzazioni difensive e che, aderendo in massa ad un partito che ritiene "comunista", sebbene di indirizzo staliniano, dimostra di interessarsi alla vita politica del paese e di voler condizionare le scelte di governo.
La necessità di poter accedere al capitale mondiale per l’ulteriore sviluppo del capitalismo nazionale, messa da parte ogni utopia di "non allineamento", costringe a subire gli ordini dell’imperialismo, ovviamente il più forte, l’americano, che impone, cambiato il governo, il ridimensionamento cruento della forza delle organizzazioni operaie e la resa incondizionata alla supremazia occidentale. L’operazione antiproletaria e di rafforzamento dello Stato, un anno intero di massacri, fu affidata nel ’65 alla struttura dell’esercito, addestrato e finanziato dagli Usa, che operava in proprio o facendo leva su dissapori ancestrali o recenti fra gruppi etnici diversi della popolazione. Lo Stato fu "dato in gestione" al clan Suharto, che ne ha ricavato per trent’anni, dicono, sproporzionati dividendi.
La forma del governo è stata quella della "democrazia guidata", con parte dei seggi nelle assemblee riservati all’esercito, con partiti selezionati dall’esecutivo e con l’irresponsabilità per l’operato della polizia.
Risale al 1975 l’occupazione militare della metà orientale dell’isola di Timor, appena abbandonata dai precedenti colonizzatori portoghesi. L’invasione si basa sull’esplicito benestare degli Stati Uniti, da intendersi come compenso all’Indonesia per la sua sudditanza agli interessi strategici ed economici del Dollaro. Fra le risorse dell’isola, oltre al turismo, c’è il petrolio, sfruttato da compagnie americane e australiane.
La popolazione della piccola ex-colonia, solo un 845.000 abitanti nel ’95 su 14.870 Kmq., che parla una decina di dialetti di una famiglia linguistica locale, il tetum, oltre al portoghese, che non accetta l’annessione, è sottoposta ad un vero sterminio da parte delle forze regolari e irregolari indonesiane: in 25 anni ne è ucciso un terzo, 200.000.
Arriviamo al 1998 quando la gravissima crisi economica che flagella l’Indonesia ha infranto il troppo rigido sistema paternal-dittatoriale di esercito & clan Suharto. Le sommosse contro il carovita e a seguito dell’impoverimento drastico della popolazione (il riso è razionato da aprile), delle quali abbiamo a suo tempo riferito, iniziano dal febbraio ’98 e culminano nel maggio quando il Segretario di Stato americano "consiglia" a Suharto di farsi da parte, consiglio messo in atto nel giro di poche ore. Anche nel maggio ’98 l’esercito, in proprio o tramite il sottoproletariato "islamico" delle periferie, cerca di deviare la rivolta antigovernativa in progrom contro la minoranza cinese e contro la chiesa cattolica.
Il nuovo governo, che promette di rispettare le sacre forme della democrazia e i suoi riti elettorali, di fatto non ha scalfito il potere reale che è affidato all’onnipresente apparato dell’esercito. Tantomeno c’era da aspettarsi una qualche influenza sul corso tuttora disastroso della crisi economica e sull’impoverimento spaventoso dei lavoratori nelle città e nelle campagne.
Le manifestazioni e gli scontri sociali quindi non cessano. Nel giugno ’98 tornano le manifestazioni di studenti e poveri a Giakarta che pongono fra le loro rivendicazioni – notevole – quella anti-nazionale della concessione dell’indipendenza a Timor Est. Nel luglio si rinnovano le dimostrazioni secessioniste in Irian (Nuova Guinea orientale) per l’annessione allo Stato di Papua-Nuova Guinea occidentale. Continua intanto nell’Aceh, regione dell’estremità nord-occidentale di Sumatra, la repressione da parte dell’esercito di questo terzo movimento separatista, repressione che solo negli ultimi due anni ha fatto 781 morti e 168 scomparsi. A settembre e a novembre ancora proteste urbane contro il carovita e provocazioni contro le comunità cinese e cristiana.
A febbraio ’99 – avventatamente, secondo il giudizio dei politici di Giakarta, cioè non tenendo conto dei voleri dell’esercito – il governo Habibie cede alla richiesta del Portogallo di indire un referendum a Timor Est e si impegna ad accettarne il responso quand’anche esso implicasse l’indipendenza.
Nel marzo si hanno fughe di popolazione e scontri nelle Molucche fra indigeni e immigrati da Celebes con 200 morti. Nell’aprile 160 morti nel Borneo fra indigeni e immigrati da Madura. Nel maggio altri 34 morti nell’Aceh ad una manifestazione indipendentista.
Il referendum, che si celebra a Timor Est e che approva a grande maggioranza la secessione, è seguito dal prevedibile scatenarsi delle milizie indonesiane contro la popolazione civile, i militanti indipendentisti e i religiosi cristiani: si parla già di qualche decina di migliaia di morti.
Risulta evidente che l’origine di tutti questi episodi di reale sofferenza non è periferica, ma centrale, si tratta di cento rifrazioni di un solo grande male che risiede nella crisi capitalistica, economica e sociale, del gigante indonesiano. Le apparenze razziali, etniche, religiose, autonomiste, indipendentiste non altro esprimono che il manifestarsi della stessa sovraproduzione capitalistica in contesti specifici. Ma possono essere utili anche, al contrario, per nascondere agli attori le reali cause delle loro sofferenze e a dirottarli verso obiettivi parziali o senza sbocco. Lo dimostra il fatto che spesso sono le vessazioni dell’esercito, o dei servizi, a provocare la popolazione allo scontro, esercito che in Indonesia è proprietario di banche, industrie e traffici illeciti e quindi agisce anche "in proprio" come una forza economica che ha da mantenere il suo prestigio e da far tornare il dare con l’avere.
Gli imperialismi, che per 25 anni hanno chiuso entrambi gli occhi sui massacri a Timor, sembrano improvvisamente commuoversi e fanno salpare una ennesima "missione umanitaria", capeggiata stavolta dalla borghesia australiana che rivendica dei diritti sull’estrazione del petrolio nel mare di Timor e per il quale ha già un regolare contratto... con l’Indonesia. Cina, India e Giappone tacciono di fronte a questi movimenti di flotte occidentali nei loro mari. È evidentemente un confronto inter-imperialistico nel quale dramma le povere popolazioni della piccola isola equatoriale non hanno da svolgere che il ruolo di ostaggi e di vittime sacrificali.
Ma, se cedere Timor potrebbe dar la stura agli altri secessionismi, il pericolo che veramente teme la borghesia indonesiana, e la borghesia mondiale, è che il proletariato delle isole principali si rivolti unito contro la comune oppressione, contro il vero nemico che è costituito dal padronato indonesiano e dal suo Stato, democratico o meno che sia.
Qualora la rivolta sociale non
arrivasse
nel fitto di una giungla o in una qualche verde laguna di coralli, è
certo che il risorto movimento operaio e comunista in Indonesia mai
raccoglierebbe
le insegne dell’irredentismo borghese e della indivisibità
di una patria non sua, farcendosi continuatore delle sporche imprese
del
generale Wiranto. Solo la vittoria proletaria potrebbe essere anche
vendicatrice
e liberatrice da così tante e tanto crudeli oppressioni.
Già da decenni ai giovani
in Italia si consentiva di nascondersi sotto la sottana dei preti o di
qualche "servizio sociale" per, individualmente e vendendo
l’anima,
scansare il "servizio alla patria". Ma è dell’inizio di settembre
l’approvazione del disegno di legge che dal 2005 sospende la
leva
obbligatoria, trasformando l’esercito in un corpo di mercenari, soldati
di mestiere.
La tesi propagandata dai tromboni di "destra" e di "sinistra" del regime borghese vuole chiusa storicamente l’epoca dei conflitti generali, terminata la contrapposizione tra blocchi, finito lo scontro est-ovest con la "rovina del comunismo". Quindi, oggi, a sentir loro, agli eserciti non rimarrebbe che il compito di difendere i deboli, di intervenire nelle situazioni di emergenza, di partecipare al più generale compito di polizia internazionale, sotto mandato ONU, o chi per esso.
Ne risulta che anche la macchina militare italiana dovrebbe rapidamente adeguarsi, creando una struttura agile, ben equipaggiata, solidamente inquadrata. Nel confronto con le altre potenze, già dotate di esercito di mercenari, l’Italia, nonostante la buona volontà, sarebbe in ritardo. Infine i fautori dell’esercito a leva volontaria argomentano sul notevole risparmio sia quanto a spesa complessiva sia nel rapporto qualità/prezzo.
Questa sequela di fesserie portata a giustificazione del nuovo reclutamento anche dell’esercito italiano tende a tranquillizzare le angosce di questo fine millennio, che tutti sentono che sta per precipitarsi in una terza generale carneficina, e cela dietro una fumosa cortina il ruolo, sempre e ovunque, di ogni militarismo borghese: imperialista ed antiproletario. L’epoca dei giganteschi conflitti non è affatto terminata, fosche nuvole si addensano in un non lontano orizzonte, spentisi i bagliori di fiamma dei Balcani, subito altri si innalzano.
Le cause materiali che hanno provocato due guerre mondiali non sono eliminate. Dopo che su quelle montagne di rovine e di morti ha ripreso il capitalismo giovinezza e vigore, oggi, dopo un cinquantennio di vacche grasse, la crisi di sovrapproduzione torna incipiente, le brevi riprese non portano niente di buono, anzi continua asfittica la corsa all’accumulazione e il proletariato è sempre più schiacciato. Più si protrae l’espansione, più tremenda sarà la crisi.
Solo la guerra, con le sue immani distruzioni, è la soluzione borghese alla crisi borghese.
La rottura di un certo equilibrio tra i blocchi imperialisti scaturito dalla fine dell’ultima guerra mondiale non significa la fine delle contrapposizioni, tutt’altro, i vecchi equilibri devono lasciar posto a nuovi che esprimano il mutato rapporto di forze.
Sulle missioni umanitarie degli eserciti – che si svolgerebbero meglio con i professionisti – ci sarebbe da scrivere centinaia di pagine, in migliaia di copie, solo utilizzando il sangue versato da chi le ha subite, al posto dell’inchiostro. La Somalia e la guerra filantropica nei Balcani sono le ultime buone azionidegli imperialismi.
Il crescere di numero degli interventi del genere dimostra come la situazione sia fluida e come gli Stati Uniti giochino d’anticipo per mettere il piede nei punti chiave in vista del prossimo conflitto generale, mentre le nazioni sconfitte, occupate militarmente, non hanno potuto fino ad oggi dare il via ufficiale alla ricostruzione del loro braccio armato.
La Germania, che ha pagato più degli altri lo scotto della sconfitta, e ove fin dall’immediato dopoguerra settori dell’apparato statale lavoravano nell’ombra alla ricostruzione dell’esercito, finora era impedita nel rivendicare il suo ruolo di potenza militare, oltre che economica. La sua partecipazione alle missioni di guerra nei Balcani è un segnale di cambiamento nei rapporti atlantici.
Anche l’imperialismo straccione italiano partecipa alle missioni nella ricerca della sua fetta del bottino, frutto della rapina di tanti ladroni riuniti in combutta sotto il super-ladrone americano. È evidente che la sua partecipazione militare oggi avviene sotto il beneplacito Usa: la struttura militare italiana non avrebbe retto lo scontro nemmeno con la sola Serbia e ne avrebbe rimediato una figura pari se non peggiore di quella dell’attacco alla Grecia nel 1940. Solo sotto l’ala protettrice americana gli aerei col tricolore hanno potuto sganciare, con orgogliosa fierezza del nostro Presidente del Consiglio (che mai fu comunista) D’Alema, le bombe sulle inermi popolazioni.
Ma è anche vero che la borghesia italiana, seppur nella sua secolare viltà, non esclude piccole mosse e tradimenti "in proprio". Ecco perché si vuole illudere che un esercito di "professionisti" le eviterebbe le figuracce tipo quella di lasciar incagliare la sua ammiraglia nelle acque di Valona (ma sulla "Garibaldi" di soldatini di leva non ce n’erano!).
Il realtà, aldilà dei discorsi, nella questione (tutt’altro che risolubile con un decreto, tanto è vero che se ne riparla fra cinque anni), si intrecciano da un lato la necessità capitalista di risparmiare, dall’altro si viene a cedere al mito d’ogni decadenza e oggi dei borghesi: è sufficiente pagare!
Le quadrate legioni romane, che già Virgilio rimpiange, erano di cives e contadini che, deposto il ferro, tornavano ai campi. Dagli schiavi di Spartaco ai citoyens, combattenti non di mestiere e non al soldo l’hanno sempre suonate ai signori specialisti e ai professionisti di carriera. La storia patria lo dovrebbe insegnare: i primi a cacarsi sotto e a tagliar la corda erano le ben foraggiate truppe di ventura, buone a tutte le porcate tranne che a vincer battaglie. Cos’hanno fatto in Somalia...? L’idolatrato Progresso Tecnico semmai anche in guerra, come in fabbrica, riduce il lavoro complesso a lavoro semplice, che presto un buon operaio apprende. Il popolo in armi era sostanza e forza della Democrazia, animale questo estinto da un cento anni almeno, e alle guerre ormai si costringe la gioventù proletaria colle pistole dei carabinieri alle spalle.
Rimane il fatto che le guerre, quelle vere moderne, il capitalismo mercenario con i mercenari non le può fare. La guerra imperialista non è una attività produttiva, è una attività distruttiva. Può salvare e confermare il capitalismo solo negando, sospendendo temporaneamente il capitalismo e le sue impossibili leggi riproduttive. Se il despota orientale, il proprietario dell’età classica e il feudatario gli schiavi e i servi con le armi li conquista, anche con le armi è tenuto a difenderli; il signore borghese invece – vera sopraffazione – è costretto a farsi difendere in guerra dai suoi schiavi salariati dai quali esige il sacro dovere di immolarsi per la conservazione del regime del loro sfruttamento.
Ma non è una questione morale. Il nocciolo lo centriamo con le parole di Engels, che ribatteva alle smelensaggini pacifiste e "disarmiste" di sempre: «Poco importa se la spesa militare aumenta o diminuisce a causa del riarmo. Al contrario ciò su cui non siamo affatto indifferenti è se il servizio militare obbligatorio è applicato rigorosamente oppure no: più vi saranno lavoratori addestrati all’uso delle armi meglio è». La posizione marxista avversa le concezioni estetiche e idealistiche, in primo luogo quella anarchica dell’abolizione degli eserciti o dell’obiezione di coscienza, anche se "totale". Con Engels sappiamo che la borghesia è e sarà costretta – suo malgrado – ad insegnare l’arte militare ai proletari, i quali una volta terminata la ferma e tornati sui posti di lavoro mantengono quell’esperienza utile ai propri fini di difesa di classe.
L’esercito di leva permette al proletariato il maggior controllo, la più efficace opera di disfattismo, la necessaria istruzione, ossia l’acquisizione dell’arte della guerra in generale. Per questo gli Stati borghesi vorrebbero fare a meno della coscrizione obbligatoria e disporre non di eserciti ma di corpi di polizia. Temono la mobilitazione delle leve operaie, ma non possono evitarla. Non stanno forse ancora leccandosi le ferite i super-giganti americano e russo per le batoste nei conflitti limitati vietnamita e afgano cui non bastarono i "corpi scelti"?
Della odierna sospensione della leva per i giovani proletari non abbiamo quindi nulla di che rallegrarci: in questo infame momento di involuzione borghese, ai figli di operai non solo si nega ogni prospettiva di lavoro, cioè si condannano ad una forma di morte lenta civile e personale, ma si impedisce loro anche di apprendere i rudimenti dell’uso delle armi e della vita militare. Una generazione che si vorrebbe di clienti...
Ma sarà presto un brutto, salutare, risveglio. In caso di conflitto generale tutte le borghesie dovranno schierare la massa dei proletari sui fronti di battaglia – i "ragazzi del ’99" – nello sforzo supremo, per vincere la competizione tra macellai e per la sottomissione totale della classe operaia al suo sacrificio nazionale. È questa una falla nella macchina della conservazione borghese: l’esperienza passata mostra che la forza militare, oltre che sulla tecnica raggiunta da un paese, poggia sulla efficacia della struttura di comando e sulla sua capacità di tenere nelle situazioni difficili, vuoi nello scontro con il nemico, vuoi, e soprattutto, quando l’insubordinazione insidia fra i coscritti, con la rivolta, il rifiuto di combattere, premesse al capovolgimento della guerra tra Stati in guerra di Classe.
Gli "scenari mondiali" non sono cambiati, e il punto fondamentale è la preparazione e il riarmo in vista del prossimo conflitto generalizzato, per la vita o per la morte del capitalismo. Non è tanto un problema di tecnica militare ma di sfida planetaria fra due classi.
Alla guerra si arriverà dopo un periodo di grave crisi economica. Un suo lungo protrarsi sarebbe a noi favorevole, permettendo il riarmo della classe nel suo sindacato e nel suo Partito. La crisi, e la guerra mondiale che ne scaturirà ove non soccorra la nostra rivoluzione, potrebbe vedere un ritorno alla lotta della classe proletaria e la necessità, per la borghesia dominante, di reprimerla. Un esercito di professione sparerebbe con minori remore sulle folle in rivolta, sempre che sia ben pagato e addestrato. Da sempre alcuni reggimenti e divisioni sono stati organizzati con cura dalle classi dominanti perché fossero utilizzabili contro le classi dominate, reparti costituiti da declassati, talvolta ceti rurali o con origini geografiche o etniche diverse da quelle della massa.
A fronte del riarmo in vista del prossimo conflitto, noi comunisti rimaniamo sulle posizioni di sempre. Denunciamo il crescere della spesa militare non per rivendicare un impossibile capitalismo senza eserciti e senza guerre ma per indicare al proletariato la necessità della distruzione del capitalismo. Contro la vile ideologia corrente di un "proletariato cliente" che, "pagando", si emanciperebbe dalla condanna di schiavo moderno del Capitale – denunciamo che sarà proprio la classe dei lavoratori senza riserve quella che, come è sottoposta alle sofferenze della pace borghese, verserà il maggior tributo di sangue e di lutti alla guerra borghese. Denunciamo l’illusione che nella prossima guerra i lavoratori non saranno coinvolti in prima persona, considerati carne da macello, sia come civili sia come coscritti, a milioni in tutti i paesi.
Il proletariato dovrà lottare contro questo piano borghese. La storia mostra che proprio per finanziare il riarmo, dopo le rovinose crisi, l’inflazione raggiunge i livelli più alti. La lotta per la difesa del salario diventa indispensabile e sarà essa a cementare l’unione di classe e a rafforzare il suo peso sociale.
Alla forza della borghesia il
proletariato
non ha da opporre idee o migliori ordinamenti della sua società
o dei suoi eserciti: ha da opporre la forza di una classe organizzata
nel
suo sindacato, diretta dal suo partito, nella fede nel suo programma
storico
di emancipazione.
L’esempio tedesco è uno dei
più significativi per comprendere la dinamica dello scontro di classe
all’interno degli eserciti e le contromisure borghesi.
Sul finire della prima guerra mondiale l’intero esercito tedesco fu scosso da una ventata rivoluzionaria. L’ammutinamento nella flotta costrinse la borghesia a firmare subito la pace e a smobilitare quanto prima le masse in armi, pericolosissime per il suo potere. Non fu un caso che la flotta, i cui equipaggi si erano ammutinati e avevano costituito dei Soviet sull’esempio russo, fu consegnata al nemico e inviata lontano dal territorio nazionale, nei fiordi della Scozia settentrionale.
Il riarmo, in forza delle clausole del Trattato di Versailles, avvenne costruendo un esercito di soli ufficiali e sottufficiali, una struttura però capace di accogliere in breve tempo la massa dei coscritti. Questa struttura embrionale, composta da centomila armati, fu utilizzata a più riprese contro il movimento operaio tedesco. Nel 1923 la fallita insurrezione fu domata con l’ausilio della Reichweher.
Complice la controrivoluzione staliniana e il nazismo, la debolezza del movimento comunista consentì che la seconda guerra si scatenasse senza alcuna reazione del proletariato. Essa dimostrò come la struttura tedesca, anche sulla base della sua potenza economica, fosse la più efficace dal punto di vista militare. L’esercito francese invece si arrese quasi subito per svariati motivi, fra i quali il rischio di una nuova Comune.
Dopo i primi rovesci del 1942 il morale nella truppa tedesca cominciò a modificarsi. Diserzioni, rifiuti d’obbedienza si moltiplicarono. Lo stato maggiore fece quindi ricorso alla creazione di unità d’elite, affidabili e capaci delle più feroci azioni, le famose divisioni SS. La vile retorica antifascista dipingerà queste unità come il male impersonificato, di crudeltà pura e semplice, fanatici assetati di sangue imbevuti di ideologia nazista. Aspetti senz’altro veritieri, ma che non colgono volutamente il loro scopo e necessità antiproletaria.
Queste rimasero il nerbo della forza tedesca fino alla fine del conflitto, fino alla completa distruzione della Germania, voluta dagli alleati e condivisa dalla borghesia tedesca: la guerra non poteva fermarsi a metà senza che le distruzioni a tappeto non avessero cancellato l’immensa massa di lavoro morto accumulato. Ma lo poterono essere non per forza propria, quasi sovrannaturale e frutto di satanica fede, ma per la tragica assenza di direzione rivoluzionaria del glorioso proletariato tedesco in divisa. La guerra non poteva arrestarsi se non con la totale distruzione dell’esercito di proletari in armi.
Ecco il giudizio di uno dei maggiori generali tedeschi, espresso a conflitto terminato durante la sua prigionia, sulla futura riorganizzazione dell’esercito: «Le attuali condizioni fanno pensare che dovrebbero esserci due tipi di esercito in seno all’esercito. La migliore politica sarebbe quella di costituire un elite (...) Allo scopo di tener alto e vivo lo spirito di corpo della truppa dell’esercito di elite esso dovrebbe non solo avere il meglio in fatto di equipaggiamento e di possibilità di addestramento ma anche una uniforme che lo distinguesse, la più elegante possibile».
Le nazioni vittoriose nella seconda
guerra
mondiale hanno seguito, nella misura del possibile, il consigli del
loro
vinto prigioniero.
EVOLUZIONE DELL’AGRICOLTURA
E LOTTA PER I MERCATI MONDIALI
(Rapporto esposto alle Riunioni generali del maggio 1998 e
del gennaio 1999)
Secondo Lenin «lo sviluppo del
capitalismo nell’agricoltura consiste anzitutto nel passaggio
dall’agricoltura
naturale all’agricoltura mercantile, ma che solo con molta lentezza
cede
il posto all’agricoltura mercantile» ("Nuovi dati sulle leggi di
sviluppo del capitalismo nell’agricoltura", 1914-15, Cap.2).
Aggiungiamo
noi in "Mai la Merce sfamerà l’uomo", che «la preminenza
dell’agricoltura
sull’industria si protrae per lungo tempo. Quando il problema moderno
della
rendita fondiaria si pone, siamo già in piena economia capitalista,
ma la produzione industriale è ancora secondaria rispetto a quella
agricola. Infatti in tale ambiente la pone Quesnay, con le tre classi:
produttiva (salariati agricoli e fittavoli), proprietaria e sterile
(industriale
e loro operai), criteri capitalistici, anche se embrionali. Man mano
che
la manifattura e l’industria ingigantiscono il quadro risulta
inadeguato»
(Cap.4). «Malgrado che Quesnay (1759) consideri i lavoratori
dell’industria
sterili, a quei tempi lo sviluppo dell’industria aveva raggiunto, in
Inghilterra,
un alto grado» (Cap.5). Siamo ormai alla vigilia dell’invenzione
della macchina a vapore, che darà slancio alla grande industria
e romperà quel vincolo di parentela fra agricoltura e industria
domestica.
«Ricardo, esponente della pressione di prorompenti forze produttive, non poteva non interessarsi della componente alimentare che raggiunge prezzi sempre più alti, tenendo alti i salari, quindi dedicò centrali ricerche alla rendita agraria. Per esso: la terra più sterile dà zero rendita e normale profitto di impresa, le terre man mano migliori danno progressivamente rendite differenziali, soprapprofitti» (Cap.8).
Lenin, in "La questione agraria e i critici di Marx", 1900-1908, Cap.2, aggiunge: «La limitazione della terra! Questa limitatezza – assolutamente indipendente dalla proprietà fondiaria – crea una certa specie di monopolio, vale a dire: poiché tutta la terra è occupata dai coltivatori, poiché la domanda esiste per tutto il grano prodotto su tutta la terra, compresi gli appezzamenti peggiori e più distanti dal mercato, è chiaro che il prezzo del grano è determinato dal prezzo di produzione sul terreno peggiore (o dal costo di produzione corrispondente all’ultimo e meno produttivo investimento di capitale). Questa limitazione della terra impedisce la formazione effettiva di un rendimento medio. Affinché questo rendimento medio si formi e determini i prezzi, non è soltanto indispensabile che ogni capitalista possa in generale investire il suo capitale nella agricoltura (in quanto nell’agricoltura esiste la libertà di concorrenza, nel senso di libertà di investire capitali nell’agricoltura, creata dallo sviluppo capitalistico) ma è anche necessario che ogni capitalista possa sempre creare una nuova azienda agricola, oltre quelle esistenti. Se così stessero le cose, non esisterebbe nessuna differenza tra l’agricoltura e l’industria e non potrebbe prodursi nessuna rendita. Ma, precisamente a causa della limitatezza della terra, le cose non stanno così. Si può presupporre che il proprietario permetta al coltivatore di coltivare gratuitamente il terreno peggiore o peggio situato dal quale si ricava soltanto il profitto medio del capitale? Certamente no. La proprietà fondiaria è un monopolio, e in base a questo monopolio il proprietario esigerà dal coltivatore anche il pagamento di questa terra. Questo pagamento sarà la rendita assoluta che non ha alcun nesso col diverso rendimento dei successivi investimenti di capitali, e che è generata dalla proprietà privata della terra. Quindi nella terra abbiamo un duplice monopolio. In primo luogo, abbiamo il monopolio dello sfruttamento capitalistico della terra. Ques Lenin, in "La questione agraria e i critici di Marx", 1900-1908, Cap.2, aggiunge: «La limitazione della terra! Questa limitatezza – assolutamente indipendente dalla proprietà fondiaria – crea una certa specie di monopolio, vale a dire: poiché tutta la terra è occupata dai coltivatori, poiché la domanda esiste per tutto il grano prodotto su tutta la terra, compresi gli appezzamenti peggiori e più distanti dal mercato, è chiaro che il prezzo del grano è determinato dal prezzo di produzione sul terreno peggiore (o dal costo di produzione corrispondente all’ultimo e meno produttivo investimento di capitale). Questa limitazione dell
La possibilità della rendita assoluta originata dal plusvalore del capitale agricolo, è spiegata da Marx col fatto che nell’agricoltura la parte del capitale variabile nella composizione generale del capitale è superiore alla media (ipotesi naturalissima, data l’incontestabile arretratezza della tecnica agricola rispetto a quella industriale). E poiché è così, ne consegue che il valore dei prodotti agricoli è, in generale, superiore al loro prezzo di produzione e il plusvalore è superiore al profitto. Ma il monopolio della proprietà fondiaria privata impedisce a questo eccedente di entrare totalmente nel processo di livellamento del profitto, e la rendita assoluta è presa da questo eccedente».
«Marx dimostra che cade la prima
premessa erronea della rendita differenziale che dominava ancora in
West,
Malthus e Ricardo, e cioè che la rendita differenziale presuppone
necessariamente il passaggio a terre sempre peggiori, oppure la
diminuzione
costante della produttività dell’agricoltura. La rendita differenziale
può esistere passando a terre sempre migliori; la rendita differenziale
può esistere quando l’ultimo posto spetta a una terra migliore di
quella che lo teneva precedentemente. Essa può essere legata ai
progressi dell’agricoltura. La condizione perché esista è
soltanto la diversa qualità dei terreni. In quanto si tratta di
sviluppo del rendimento, la rendita differenziale presuppone che
l’aumento
della produttività assoluta di tutta la superficie agricola non
sopprima questa diversità, ma la rafforzi o la lasci immutata o
la riduca soltanto» (Cap.1).
«Dopo aver dimostrato che il
proprietario
fondiario è una figura del tutto superflua nella produzione
capitalista,
che il fine di quest’ultima è "pienamente raggiungibile" se appartiene
allo Stato, Marx continua: Il borghese radicale giunge in teoria alla
negazione
della proprietà della terra. Ma in pratica gli manca il coraggio,
perché l’attacco contro una delle forme di proprietà – contro
la forma della proprietà privata delle condizioni di lavoro – sarebbe
pericolosissimo anche per l’altra forma di proprietà. Inoltre il
borghese si è egli stesso territorializzato» (Cap.7). E Lenin
conclude: «non può esservi nazionalizzazione per la semplice
ragione che nessuna classe sociale agisce contro se stessa».
In "Mai la merce sfamerà l’uomo" mettiamo in evidenza, qualunque sia la composizione demografica delle classi agrarie, «importa la legge della differenzialità delle rendite e del crescere del prezzo generale nella società internazionale, che si avvia ad essere tessuta in un solo mercantilismo». Citiamo Engels: «Quanto più capitale è investito in un terreno e quanto più elevato è lo sviluppo dell’agricoltura e della civiltà in generale, tanto più aumentano le rendite per acro così come la somma totale alle rendite, e tanto più ingente diviene il tributo pagato dalla società ai grandi proprietari fondiari nella forma di plus-profitti, fino a quando tutti i tipi di terreno sottoposti a coltivazione rimangono in grado di partecipare alla concorrenza».
«Si tratta di intendere qual’è la tesi di Marx: collo sviluppo del modo di produzione capitalistico e coll’investimento di maggior capitale nella terra, solo mezzo di aumentare il prodotto in relazione all’aumento di popolazione, la rendita tende ad aumentare, sia nella massa totale, sia nella media per unità di superficie, a volte in rapporto maggiore di quello del capitale (e del suo profitto), poche volte con ritmo minore di esso. Quindi Marx invita a fermarsi su due punti. Il primo, è la derivazione storica della forma seconda (terra tutta occupata) dalla forma prima (terra in via di occupazione o dissodamento). Il secondo punto è che nel pieno sviluppo della forma seconda, che attira sulla stessa terra sociale, ormai non accrescibile metricamente, maggiori parti del capitale sociale, per esaltare il prodotto, entra in gioco la ripartizione del capitale tra piccoli, medi e grandi imprenditori. Anche nella manifattura il volume dell’impresa è elemento di variazione del saggio di profitto: quello medio calcolato sulla somma di tutti i capitali (a chiunque intestati) risponde ad un certo minimum di affari con un minimum di capitali. Ora tutto ciò che eccede questo minimo può dare un extra-profitto; tutto ciò che è inferiore, non ottiene il profitto medio. Tale teorema qui enunciato in modo drastico riflette tutto il quadro economico capitalistico, quindi è compreso anche il settore agricolo. Questa circostanza fa sì che gli effettivi affittuari capitalistici siano in grado di appropriarsi una parte del plus-profitto. Non sarebbe diversamente anche se fosse raggiunto il pareggio dell’attività e produttività per le derrate e i manufatti che è impossibile al capitalismo. L’esasperazione della produzione industriale verso i suoi limiti e la concentrazione degli accumulati capitali, scatena il soprapprofitto in tutti i campi della economia, a dispetto dell’abbassamento del saggio medio di profitto.
Quindi Marx dimostra: fino a che il prezzo del grano non cambia, portare capitale mobile sulla terra per aumentare la produzione non intacca mai la rendita, nemmeno se la produttività degli apporti seguenti è decrescente. Se poi la produttività è costante o crescente, la rendita fondiaria subisce una forte esaltazione» ("Mai la merce sfamerà l’uomo", Cap.10).
«La stasi di sviluppo agrario dei paesi esportatori di capitale, aveva sollevato una schiera di critici del marxismo. I signori Bulgakov, Hertz e Cernov ecc. sono gettati dal solo nome Kautsky, in uno stato di quasi irresponsabilità, volendo dimostrare che il Marxismo dogmatico nel campo delle questioni agrarie è stato sloggiato delle sue posizioni. A fondamento della loro "teoria dello sviluppo agrario", pongono la "legge della produttività decrescente del terreno". Si citano dei brani, tratti dalle opere dei classici, che stabiliscono questa "legge" in forza della quale "ogni investimento supplementare di lavoro e di capitale nella terra è accompagnato da una quantità supplementare, non corrispondente, ma decrescente di prodotti". Tornano indietro verso l’economia borghese, la quale nasconde i rapporti sociali sotto immaginarie "leggi esterne".
Ma la minima riflessione dimostrerà a chiunque che questo argomento rappresenta la più inconsistente delle astrazioni e lascia da parte l’elemento principale: il livello della tecnica, lo stato delle forze produttive. Prendiamo l’industria. Immaginiamo la macinazione del grano e la lavorazione del ferro nell’epoca antecedente al commercio mondiale e all’invenzione della macchina a vapore. In questo stadio della tecnica, i limiti degli investimenti supplementari di lavoro e di capitale nelle forge a mano, nei mulini a vento o ad acqua erano estremamente ristretti; si doveva fatalmente constatare un’enorme diffusione delle piccole forge e dei piccoli mulini, prima che la radicale trasformazione dei mezzi di produzione creasse una base per nuove forme d’industria. Ecco perché né Marx né i marxisti parlavano di questa "legge", mentre attorno ad essa fanno del chiasso soltanto i rappresentanti della borghesia» (Lenin, "La questione agraria…", Cap.1).
«Kautsky nel 1899 rileva l’importanza
dell’elettricità, e precisamente la trasformazione dell’agricoltura
da vecchia manifattura in grande produzione moderna» (Cap.3). E a
coloro che quasi si compiacevano della stagnazione tecnica, Lenin
risponde:
«L’economista deve sempre guardare avanti in direzione del progresso
tecnico, altrimenti sarà lasciato indietro, giacché chi non
vuol guardare avanti volta le spalle alla storia: qui non c’è e
non può esserci via di mezzo. Gli scrittori che, al pari di Hertz,
hanno trattato la questione della concorrenza tra la grande e la
piccola
produzione nell’agricoltura ignorando l’influenza dell’elettricità,
dovranno ricominciare daccapo il loro esame» (Cap.3).
L’industria per contrastare la caduta del saggio del profitto deve continuare nella corsa alla concentrazione ed esaltazione della produttività del lavoro. È allo svolto del secolo scorso che inizia a svilupparsi senza sosta l’industria elettrica, nel 1897 l’invenzione del motore diesel, del quale oggi constatiamo lo sviluppo; nel 1903 il fordismo, il sistema Taylor; i mezzi di trasporto e di comunicazione si potenziano. Tutti i settori si sviluppano. L’ingigantirsi dell’industria, esalta la possibilità di inventare nuove macchine per l’agricoltura, come prevedeva Lenin. Ma il loro valore si può trasfondere nei nuovi prodotti in poco tempo solo nella grande azienda, permettendo il loro rinnovo con nuove macchine sempre più produttive; il contrario avviene nella piccola azienda.
Un trattore falcia tanto fieno in un’ora quanto 10 operai in un giorno. Coi buoi occorrevano due giorni per l’aratura di un ettaro, un giorno col semidiesel, un’ora e mezzo con gli attuali trattori diesel di 120 cavalli su ruote gommate. Una sintesi fra industria e agricoltura è stata raggiunta, senza possibilità di risuscitare il passato.
Le nuove tecniche, non solo eliminano
per mezzo della concorrenza la piccola produzione, ma hanno anche
capovolto
il rapporto fra capitale costante e capitale variabile. Per darne la
misura:
l’Italia aveva nel 1957 quasi 8 milioni di addetti all’agricoltura,
alla
fine degli anni ’80 erano meno di 2 milioni, con un aumento della
produzione.
In Francia, che era prevalentemente agricola, con un’area a coltura
quasi
doppia di quella italiana, gli addetti all’agricoltura sono poco più
di un milione. L’Inghilterra tende ad avere solo 500.000 addetti. Pur
essendone
cresciuta la popolazione, la Comunità Europea nel 1985 era
autosufficiente
anche nella produzione di grano. Negli Stati Uniti si è passati
a meno del 3% della popolazione attiva. «Dall’Istituto statistico
della Comunità Europea risulta che nel 1988 il numero degli agricoltori
è in diminuzione costante nella C.E.E. In 10 anni, dal 1975 al 1985,
due milioni e mezzo di agricoltori hanno abbandonato l’attività
agricola. Conseguentemente si rileva che il numero delle aziende
agricole
è diminuito di 1,7 milioni dal 1970 all’85. La tendenza verso la
concentrazione, che caratterizza in generale l’economia, si manifesta
anche
nel settore agricolo, quindi in un aumento delle dimensioni delle
aziende»
("Struttura e mercato comunitario", p.209).
«In Italia, la naturale disattivazione di centinaia di migliaia di aziende negli ultimi 10 anni non ha portato ad un decremento produttivo, quindi alte rese per unità di superficie, come pure nella Comunità Europea» ("Nuova Agricoltura", luglio ’89, p.12)., confermando quanto detto da Marx, che nell’agricoltura si può procedere produttivamente a successivi investimenti di capitali perché il terreno esercita esso stesso la funzione di strumento di produzione. Con l’applicazione delle scienze e delle nuove tecniche l’uomo ha imparato anche in agricoltura a fare operare su larga scala le forze naturali e, gratuitamente, il prodotto del suo lavoro passato e già oggettivato. Il capitale in agricoltura ha fatto l’atteso salto di qualità, passando da una produttività decrescente degli ultimi investimenti di capitale a una produttività crescente. Il capitale non paga il lavoro adoperato, ma il valore della forza-lavoro usata; per esso l’uso della macchina deve avere un valore inferiore al valore della forza-lavoro da essa sostituita. Il valore della forza lavoro sostituita è stato enorme in agricoltura, avendo ridotto il capitale variabile in America al 2,4% del capitale variabile totale nazionale.
Ciò non significa che l’agricoltura
abbia raggiunto o possa raggiungere in futuro l’industria: scrivevamo
nel
1954 in "Mai la merce sfamerà l’uomo" che «le tonnellate annue
di grano che produceva ogni operaio agricolo nel corso di un secolo non
erano probabilmente cresciute del 50%, mentre quelle di acciaio
divenivano
decine di volte di più». Su "Nuova Agricoltura", n.20/1985,
Avolio, rispondendo a chi auspicava un sistema
agro-industriale-alimentare,
disse: «siamo realisti, se si riuniscono insieme i settori industriale,
commerciale e agricolo, per dar vita al cosiddetto "sistema
agro-industriale-alimentare",
l’agricoltura è soccombente. Non è ipotizzabile, infatti,
che l’agricoltura riesca ad imporre le sue esigenze nel meccanismo di
funzionamento
del sistema. È più facile prevedere che, come già
ora accade, il comparto agricolo diventi un reparto all’aperto del
settore
industriale, in funzione completamente subordinata». Noi sappiamo
bene che la sintesi industria-agricoltura sarà possibile solo su
una base non capitalista.
Avanza del pari il contoterzismo che permette, nelle aziende maggiori, forme di conduzione affidata ad operatori estranei all’impresa familiare che si spostano da una fattoria all’altra per eseguire, con il determinante apporto delle macchine, tutte le operazioni agricole necessarie per la coltivazione e il raccolto, nel quadro di una crescente specializzazione verso le monocolture di granoturco, soia e avena, con non trascurabile pericolo di notevole danni ambientali.
E ancora, a pagina 346 è detto: «l’agricoltura degli USA sembrerebbe quindi tendere alla produzione di alimenti non solo per nutrire la propria popolazione quanto per commerciarli all’estero, anche in presenza di una crisi che ha ridotto talora sino al 50% il valore dei terreni americani».
«Nel 1920, ben prima quindi del
"crollo di Wall Street" l’agricoltura americana, che aveva conosciuto
una
grande espansione prima e dopo la prima guerra mondiale, era in
difficoltà
a causa di un’accentuata diminuzione delle esportazioni e di diverse
annate
di catastrofica siccità. Nel 1929 veniva introdotta in un primo
momento una politica di sostegno dei prezzi senza modalità di controllo
della produzione, cosicché rapidamente gli USA (con largo anticipo
sulla CEE), fecero, in pieno periodo di depressione, l’esperienza di
"eccedenze
strutturali" e del conseguente aumento delle spese pubbliche di
sostegno
all’agricoltura. Per la prima volta, all’inizio degli anni ’30, è
stato previsto l’abbandono della coltivazione di terre agricole. Le
decisioni
annuali in materia furono applicate fino agli anni ’60 in modo più
o meno incisivo, ma con risultati economici poco apprezzabili. Notevoli
eccedenze venivano tuttavia a costituirsi a causa dei progressi della
produttività.
Ciononostante, all’inizio degli anni ’60, pur in presenza di un aumento
delle esportazioni, si dovette constatare il fallimento degli sforzi
destinati
ad evitare la formazione di eccedenze. Solo nel 1970 si ha per la prima
volta in via formale delle vere e proprie misure di set-aside
(messa
a riposo dei terreni) per il frumento, i cereali foraggieri ed il
cotone,
riservandogli il beneficio dei programmi di aiuti pubblici. Nel 1973 si
ebbe una proroga per l’applicazione del set-aside. Nel 1977
veniva
contemplata l’applicazione del set-aside oltre che al frumento
ai
cereali foraggieri, al cotone e al riso. Nella stessa norma era
prevista
una misura analoga al "ritiro dei seminativi dalla produzione" del
regime
comunitario CEE. Di nuovo con la crisi dei primi anni 1970 si
ingigantisce
il problema delle eccedenze, e le vere e proprie misure di set-aside»
("Struttura e mercato comunitario", p.345-351).
«Il trattato prevedeva un periodo transitorio della durata di 5 anni per la costituzione di organismi comuni di mercato. Esempio di tale procedura era costituito dall’accordo cerealicolo franco-tedesco del 25 febbraio 1959 comportante sia un aumento progressivo degli scambi sia dei relativi prezzi. La Germania con un discreto sviluppo agricolo, ma innanzi tutto con una potentissima industria, alla fine del trattato (1963) registrava un incremento produttivo del 18%. La Francia tradizionalmente produttrice di grano, si incamminava a essere anche potenza industriale» ("Struttura e mercato comunitario", p.39).
«Nel 1966 compare l’AIMA che inizia a svolgere i propri compiti d’intervento, al solo fine di conseguire un’effettiva attuazione sul mercato del prezzo granario minimo, obbligava gli organi d’intervento all’acquisto di tutto il grano che veniva loro offerto, al "prezzo minimo d’intervento"». In Francia fu ritirato tutto il prodotto al prezzo minimo garantito, essendo il prezzo libero inferiore fu garantita una grossa rendita agraria, se si pensa alla tradizionale vocazione della Francia a produrre frumento. La Comunità pagò alla Francia e anche alla Germania un tributo sotto forma di rendita agraria. Il prezzo minimo garantito favorisce le grandi aziende con alta produttività del lavoro. Il mensile "Agricoltura" n. 10 del 1986 nota che la Francia prima del 1986 aveva raggiunto una produzione di grano tenero quasi della metà dell’intera produzione comunitaria.
Nel 1972 si passa dal sostegno alle esportazioni al sostegno dei mercati. È in tal modo evidenziato l’intento comunitario di esportare verso i paesi terzi le eccedenze rifiutate dal mercato. Maggior rilievo ebbe l’introduzione degli "importi compensativi monetari" che operavano al fine di pareggiare la differenza tra i prezzi comunitari e quelli nazionali, a difesa dalle oscillazioni dei cambi.
Sono i paesi più forti economicamente che più esportano. Francia e Germania vengono ad assorbire la maggiore percentuale di mezzi disponibili a sostegno della propria agricoltura. Sin dal 1969, tuttavia, emersero le prime difficoltà, allorché, soprattutto a causa del crescente disavanzo della bilancia dei pagamenti degli S.U., un vasto movimento di speculazione finanziaria venne a produrre considerevoli oscillazioni nelle monete tedesche e francesi. Nel quadro di una politica di temporaneo mantenimento dei "prezzi indicativi" fu dato un "aiuto compensativo" indirizzato agli agricoltori tedeschi e consistente in 1.700 miliardi di marchi annui.
Fra i motivi determinanti della crisi monetaria culminata nel ferragosto 1971, il presidente del GATT (Accordo generale tariffario e commerciale) enumerava il protezionismo, il regionalismo, le preferenze speciali e l’agricoltura. La terminologia che si voleva per sempre superata torna nuovamente in auge: protezionismo, contingentamento degli scambi, controllo dei mercati, barriere doganali, ecc. Quegl’anni segnarono la fine di un ciclo. L’agricoltura CEE, non ancora autosufficiente, veniva abbondantemente sovvenzionata per permettere la ristrutturazione delle aziende.
Il contrasto manifestatosi allora impose alla CEE, per sottrarsi alle imposizioni americane, di accelerare lo sviluppo capitalistico in agricoltura, e con ciò anche un’accelerazione nella espulsione del piccolo contadino dalla terra, il che può creare guasti sociali. I sistemi di aiuti, premi ecc. come garanzia di un "reddito minimo" al coltivatore, intendeva agire appunto sugli effetti di un processo accelerato che non si poteva altrimenti controllare. Di anno in anno aumentava la produttività del lavoro, quindi anche il prezzo medio del prodotto diminuiva, e con esso il famoso "reddito minimo garantito", che metteva sempre più in difficoltà le piccole aziende, ma diluendo così l’espulsione.
Nel 1972, il numero delle aziende
agricole
al di sotto di 50 ettari era già diminuito in Francia del 12,6%
in 12 anni e in Germania del 23,5% in 10 anni; nello stesso periodo in
Inghilterra le aziende al di sotto di 120 ettari sono diminuite del
32,2%;
invece le aziende più grandi, quelle superiori a 50 ettari, sono
aumentate in Francia in 12 anni del 14,8% e in Germania del 18,3% in 10
anni, periodo in cui le aziende agricole superiori ai 120 ettari
registravano
un incremento del 34,5%. Inoltre il numero degli agricoltori è
diminuito
in 10 anni del 30% in Germania, del 28% in Francia; del 39% in Italia e
del 33,5% nel M.E.C. Nel decennio al 1972 il numero dei trattori
agricoli
è salito del 10% in URSS e del 30% negli USA.
ROMANIA FRA LOTTE OPERAIE E CRISI REGIONALE
Dopo il coraggioso sciopero dei minatori all’inizio di quest’anno, continua in Romani la mobilitazione della classe proletaria a difesa delle proprie condizioni di vita.
Ad aprile lo sciopero generale è sospeso col pretesto della guerra nel Kosovo; a maggio la corte costituzionale ha interrotto uno sciopero ad oltranza dei dipendenti della metropolitana dichiarandolo illegale (il mondo dei borghesi è tutto uguale); a giugno a Brasov i lavoratori dei vari reparti industriali sono scesi in lotta assediando per più giorni la locale prefettura difesa da 500 fra poliziotti e soldati: hanno ottenuto la revoca dei piani di ristrutturazione e dei licenziamenti connessi; a Iasi, altro centro industriale, analoga protesta con tentativo di assalto alla locale prefettura, slogan contro il governo, le maggiori centrali sindacali e l’ente per le privatizzazioni.
Approfittando della crisi economica che imperversa nei Balcani la propaganda del regime giustifica la crisi come l’inevitabile e doloroso percorso di uscita dall’economia "socialista". Le solite balle ormai note e arcinote: è vero che la Romania, come buona parte dei Balcani, era sotto l’influenza e dominio russo, frutto della vittoria del capitale russo nella seconda guerra mondiale (costata alla nostra classe e a quella contadina 100 milioni di morti). L’intervento nella guerra imperialista fu possibile solo perché la dittatura proletaria nata nella arretrata Russia nel ’17 si era esaurita e degenerò nel giro di pochi anni mancandogli l’appoggio della rivoluzione comunista mondiale. La Russia si sviluppò nel senso borghese dell’accumulazione del capitale, con merci, salari e proprietà (il comunismo non è proprieta’ statale ma assenza di proprietà, usufrutto sociale).
La cinquantennale folle corsa planetaria all’accumulazione volge al termine, in alcuni paesi la crisi è profondissima come in Giappone e in Russia. I suoi ex satelliti arrancano con miseri incrementi a una cifra, quando ci sono, risultato non di uno sviluppo del capitalismo ex novo, che in quei paesi già c’era, ma del più feroce sfruttamento della classe operaia. Dietro la cortina fumogena della libertà e fesserie similari sono arrivati i licenziamenti, lo smantellamento delle assistenze, l’aumento dei carichi di lavoro.
Il capitale mondiale ha accumulato una massa enorme di merci e di lavoro morto. La guerra e la distruzione sono la soluzione della borghesia alle sue crisi di sovrapproduzione. La guerra borghese ha inoltre lo scopo non secondario di schierare sui fronti contrapposti il proletariato, di dissanguarlo e distorglierlo dalla sua missione storica di rovesciare i rapporti di produzione capitalistici.
Nella recente guerra iugoslava questo aspetto non va dimenticato e parlare solo dello scontro interimperialistico e delle irrisolte questioni nazionali, mettere in evidenza solo lo scontro fra America ed Europa è un grave errore: la nostra possibilità, inevitabilità rivoluzionaria, anche quando non si vede, domina la scena.
Ecco perché la calda situazione
in Romania, dove la borghesia locale, su mandato del brigantaggio FMI,
deve scontrarsi con la resistenza e la lotta operaia, potrebbe evolvere
verso una nuova guerra locale. I pretesti non mancano, questioni di
confine
con la Russia per le terre irredente in Moldavia, la
consistente
minoranza ungherese in Transilvania. Una guerra locale, oltre a dare
uno
sfogo alla crisi di sovrapproduzione, ridisegnerebbe i mutati rapporti
di forza nella regione dove l’imperialismo deve ricorrere sempre più
alla presenza militare per contenere le sue contraddizioni.
Gli attacchi concertati del padronato
contro i portuali australiani nel corso dell’anno passato, i tentativi
di sconfiggere l’intera categoria, non sono riusciti a indebolire lo
spirito
combattivo di questa parte importante del proletariato del Quinto
continente.
L’offensiva padronale contro i wharfies è stata in gran parte coordinata ed organizzata direttamente dal governo australiano, determinato a realizzare le sue riforme del fronte del porto; queste riforme, cioè l’assalto concertato alle condizioni di lavoro e ai salari dei portuali, non sono il risultato di estemporanee manie di un qualche particolare partito, ma una strategia a lungo termine per ridurre i costi delle attività portuali. I porti australiani stanno passando al metodo dei soli container, il che significa che la gran parte del lavoro può essere svolta lontano dalle banchine. Per la classe dominante queste economie non possono che essere realizzate a spese della classe operaia, non certo intaccando i sacri tassi di profitto.
Le ristrutturazioni si sono svolte secondo uno schema già visto in Gran Bretagna anni addietro. Il vecchio sistema di assunzioni giornaliere, secondo le necessità, ricorda il British Dock Labour Scheme che esisteva in Inghilterra; si tratta di un sistema che, è vero, mantiene i lavoratori senza certezze di occupazione continua, ma che è a doppio taglio, in quanto fornisce enormi possibilità di pressione per ottenere aumenti salariali, bonus, ecc. da parte degli operai, pena gravi ritardi nella partenza delle navi.
I portuali sono passati alle dipendenze di un numero di compagnie private, in attesa di prendere altre misure, perché i padroni non sono mai sazi. Infatti il governo di Canberra ha adottato la strategia, già sperimentata in Nuova Zelanda, di sostenere le compagnie private che intendono rimpiazzare la forza lavoro esistente con maestranze più flessibili. In Nuova Zelanda, infatti, il sindacato dei portuali fu distrutto nei primi anni ’90. Una iniziativa simile per spezzare la sindacalizzazione era già stata condotta in Messico, questa volta con l’aiuto dei fucili dell’esercito.
I nuovi lavoratori (crumiri organizzati) saranno assunti con contratti individuali, senza alcuna forma di contrattazione collettiva con i sindacati. La sostituzione dei lavoratori attuali, se svolta in ordine e senza scosse, attraverso i prepensionamenti e il blocco dei rimpiazzi, sarà pagata da sostanziosi fondi statali messi a disposizione proprio per togliersi dai piedi il problema dei portuali.
I padroni naturalmente non ne sono stati soddisfatti, e hanno chiesto di più: leggi più dure da utilizzare contro coloro che osassero scioperare contro una regolamentazione così generosa. Niente paura, il nuovo Workplace Relations Act, una legge che bandisce ogni forma di sciopero di solidarietà e che si fa rispettare sequestrando i fondi sindacali sotto forma di multe, è in vigore dal 1° gennaio 1997, e si aggiunge a preesistenti restrizioni antisciopero.
Il primo tentativo di dar seguito a
questa
strategia ha avuto luogo a Cairns, nell’Australia del nord-est. Un
tentativo
a dire il vero sventato con facilità dai due sindacati attivi tra
i portuali, la Maritime Union of Australia (MUA) e le sezioni
locali
di categoria della International Transport Federation (ITF). È
bastato loro spiegare all’armatore di una delle navi, che doveva essere
caricata a Cairns dal personale sostitutivo, che sarebbe divenuto una
"vittima
innocente" dello scontro tra sindacati e governo. I lavoratori espulsi
picchettavano i cancelli del terminal, la nave stava all’ancora fuori
del
porto, e alla fine si arrivò all’accordo per cui la compagnia
sindacalizzata
riebbe il lavoro, e tutto tornò al punto di partenza.
Una strategia organizzata dal governo
Questo confronto con i wharfies, oggi opera del governo australiano, in particolare dell’attuale amministrazione conservatrice di John Howard, è una continuazione degli attacchi già sferrati dai precedenti governi laburisti di Paul Keating e Bob Hawke. Lo stesso impegno elettorale dei conservatori prevedeva lo scontro con i portuali, con la promessa di spezzare il potere della MUA, che secondo loro sarebbe un ostacolo per il raggiungimento della prosperità economica del paese. I bassi salari aumenterebbero i profitti, incrementerebbero le esportazioni (soprattutto di prodotti agricoli), e ci sarebbe prosperità generale per tutti, se beninteso non si avrà una recessione commerciale, un crollo dei titoli di borsa, o un calo improvviso della valuta, tutti fatterelli che hanno la brutta abitudine di trasformare la prosperità in miseria!
Patrick Stevedores, la seconda azienda per importanza di operazioni portuali, aveva idee precise su come trattare con i portuali. Inizialmente cercarono di trovare un accordo con la National Farmers Federation (NFF, la loro Confagricoltura), che cercava di migliorare le condizioni infrastrutturali per l’esportazione di derrate agricole. La NFF aveva saputo che la Patrick operava in perdita al suo terminal di Melbourne, e considerava la possibilità di farlo funzionare direttamente per le sue esportazioni. Per fortuna i capitalisti sono anche in conflitto e concorrenza tra loro, e la NFF continuò a guardarsi intorno, a Brisbane per esempio, per poi decidersi per un terminal di Adelaide, i cui lavoratori tra l’altro erano tutti sindacalizzati. Ma la Patrick ormai non si fermava più, e decise la prima serrata al molo Webb di Melbourne verso la fine del gennaio 1998. Questo fu poi preso in gestione da una ditta associata alla NFF, la Producers & Consumers.
Il piano però era di sostituire tutte le maestranze, in una operazione di piglio militaresco. Piani per l’addestramento di altri operai per le operazioni portuali furono messi in atto, in condizioni ritenute "sicure", a Dubai, nel Medio Oriente. A capo dell’operazione era un ex-ufficiale dell’esercito, un pluridecorato veterano del Vietnam, evidentemente per la sua abitudine alle sconfitte! La data prescelta per l’operazione era il 1° aprile 1998. Indiscrezioni sull’operazione Dubai, che durò cinque mesi, trapelarono prima che il primo contingente di crumiri fosse spedito in volo, ma alla fine, il 7-8 aprile, l’operazione fu conclusa. Tutta la manodopera iscritta alla MUA a Sydney, 1400 operai e 600 lavoratori temporanei, furono licenziati.
Che questa mossa si preparava era di dominio pubblico ormai da tempo, ma la MUA non seppe far altro che frenetiche concessioni su tutti gli aspetti della produttività: perché licenziare, dicevano i bonzi, quando i problemi possono essere ugualmente risolti con semplici discussioni con loro, i dirigenti sindacali? Il segretario nazionale della MUA, John Coombs, passava il tempo a fare dichiarazioni sul fatto che i portuali non avrebbero fatto del male a nessuno, che gli interessi degli operai, dei padroni e degli esportatori sarebbero stati tutti soddisfatti dall’aumento della produttività.
Quando i padroni vogliono sfasciare i sindacati, non è dei burocrati sindacali che si vogliono liberare ma è della forza lavoro, combattiva e poco "cooperativa". Gli operai dovrebbero tornare in sé e rimettersi in riga, dovrebbero rendersi conto della "realtà" dell’economia e farsi carico della loro parte di responsabilità per raggiungere condizioni adatte ad adeguati profitti. Questa è l’illusione febbricitante che i padroni nutrono. In molti casi simili a questo, e in tutti i paesi e in tutte le categorie, la pace viene fatta tra padroni e bonzi, mentre la massa dei proletari resta licenziata, il loro comportamento preso di mira dalla stampa con calunnie e falsità, i loro picchetti minacciati se non terrorizzati dalle forze di polizia.
Ma questa volta i wharfies licenziati non ne volevano sapere di fare la parte delle vittime sacrificali, e adottarono una energica campagna di picchettaggio alle banchine. Un primo risultato fu l’immediato sostegno dei lavoratori della zona, di altre categorie ma che lavoravano in edifici o fabbriche vicini: un attacco ad un settore di lavoratori è un attacco a tutti! Quando fu emesso un ordine del tribunale che vietava i picchetti la risposta fu una dimostrazione di massa di oltre 5.000 operai. Mentre padroni e bonzi passavano il tempo in aule di tribunale, la vera battaglia si svolgeva sui picchetti, mentre da altri porti veniva ulteriore solidarietà.
Un vantaggio che gli operai hanno quando resistono alla introduzione delle macchine è che c’è un numero considerevole di proletari per la lotta. Una volta che gli accordi sono fatti per l’automatizzazione e la computerizzazione, per i padroni è più facile liberarsi di una forza lavoro numericamente assai ridotta. Questa lezione è certamente quella delle tragiche sconfitte in Gran Bretagna, dai grafici di Fleet Street ai minatori e infine ai portuali. La collaborazione con i padroni porta qualche miserabile premio per i bonzi, e licenziamenti in massa per gli operai.
Il sostegno del resto della classe
operaia
australiana fu immediato e fattivo. I picchetti erano rafforzati da
delegazioni
organizzate di insegnanti e infermieri. Da altre categorie venivano
donazioni
in denaro e, ancor più importante, azioni di lotta di sostegno.
Le lotte di solidarietà non riguardavano soltanto i camionisti che
si rifiutavano di attraversare le linee dei picchetti, ma anche settori
vitali come quello petrolifero e automobilistico. Gli ukadze dei
tribunali,
invece di indebolire le lotte, agivano da pungolo. Dopo tutto,
ragionavano
i proletari, se vengono sconfitti i portuali, a chi toccherà poi?
I bonzi degli altri sindacati si facevano un dovere di farsi vedere di
quando in quando ad offrire solidarietà, non tanto per un inopinato
amore per la lotta di classe, quanto per non farsi sfuggire il
controllo
dei loro iscritti.
Il boicottaggio delle navi da parte dei portuali americani fu tempestivo ed efficace, e non mancò di dare ottimi risultati. Le navi caricate da crumiri in Australia erano boicottate, il che significava che se ne stavano al largo per settimane (come la Columbus Canada), per poi tornare alla base per essere riscaricate. Ad un certo momento ben 23 navi, partite tra il 7 aprile e il 4 maggio, erano state identificate come caricate da crumiri, e la lista di quelle navi era stata inviata alla costa ovest degli USA; lì furono creati picchettaggi di sostegno, che i portuali americani rifiutavano di attraversare, mentre i loro dirigenti, secondo una tradizione da tartufi, puntavano su aspetti sanitari per giustificare il mancato scarico delle merci. Nel caso di carichi misti, per esempio con le navi che si erano fermate in Nuova Zelanda per caricare altre merci, si permetteva lo scarico di queste, mentre il resto tornava mestamente in Australia.
Il boicottaggio dei portuali americani fu molto efficace per tutto maggio; al punto che i padroni e i ministri del governo fecero di tutto per minacciare gli scioperanti. Una delle strade seguite fu quella dei tribunali: si tentò di citare la MUA per danni da parte della Patrick e della Australian Competition and Consumer Commission, una struttura di natura pubblica, per mettere il sindacato in ginocchio. Ma la MUA reagì sullo stesso tono accusando l’altra parte di cospirazione tra Patrick e ministri. Altre azioni legali furono intraprese contro i dirigenti di compagnie più piccole in qualche modo coinvolte nella vertenza, spostando quindi l’attenzione lontano dalle vere ragioni della lotta nella quale gli operai si stavano battendo.
Ai primi di giugno la Patrick minacciava la MUA che se non si impegnava a accettare "riforme sul posto di lavoro" le operazioni portuali sarebbero state così meccanizzate che sarebbe bastato soltanto "un numero ridotto di operatori di computer"! Il vicesegretario nazionale della MUA, Vic Slater, prese in giro questa affermazione secondo la quale le macchine avrebbero potuto operare senza praticamente operai a farle funzionare. Ma avrebbe invece fatto meglio a meditare sull’esperienza in Gran Bretagna, dove la collaborazione data per installare le più recenti tecniche, "per proteggere i posti di lavoro", dicevano, come a Liverpool, ha significato la scomparsa di un’intera categoria di lavoratori.
A metà dello stesso mese l’accordo tra Patrick e MUA era cosa fatta. Il risultato del ritrovato idillio era che metà dei posti sarebbero scomparsi, grazie a 700 lavoratori resi esuberanti, mentre sarebbero stati disponibili 200 posti di lavoro nei servizi, quali pulizia, sorveglianza, manutenzione, ecc. Così il fattivo rapporto tra padroni e sindacato era rinato più forte di prima; la Patrick naturalmente poi negò di aver mai voluto spezzare il monopolio del sindacato nel porto. Con una collaborazione così completa, che senso ha cercare la rissa? L’unica cosa da appurare è fino a quando i wharfies tollereranno questo amoreggiare.
Il risultato finale della battaglia
contro
la Patrick è stato che gli operai non hanno accettato supinamente
di essere cacciati dai moli per essere sostituiti dai crumiri. Sotto
questo
aspetto, è stata una vittoria. Con una lotta decisa, affrontando
le vere questioni e rifiutando di essere menati per il naso da
chiacchiere
sul futuro del settore, o sull’economia nazionale, essi hanno ricevuto
un sostegno forte e senza equivoci, sia in Australia sia all’estero. Ma
si tratta solo di un episodio della lotta che si preannuncia lunga tra
capitalisti del porto e operai; entrambe le parti hanno appreso lezioni
preziose.
In pratica i portuali decisero che
non
avrebbero lavorato per l’ultimo giorno dell’anno, decisione posta in
atto
semplicemente non presentandosi al lavoro. È facile immaginare la
reazione dei padroni, che infuriati presero a chiamarli con tutti gli
epiteti
immaginabili, denunciandoli al mondo intero come pigri, inaffidabili,
ecc.
Anche la MUA, che poverina si dava da fare per riuscire a compiere il
miracolo
di far funzionare i docks con esattamente metà della forza lavoro,
fu giudicata responsabile e maltrattata; si disse che rappresentanti
sindacali
davano consigli ai lavoratori su come comportarsi nella situazione,
dandosi
malati o cose simili. Come se i portuali, con la loro lunga tradizione
militante di dure lotte, avessero bisogno di essere convinti a
difendere
i loro interessi!
Per le classi dominanti queste ristrutturazioni sono inderogabili necessità, che il bene dell’economia rende doverose. Per i proletari, soprattutto per coloro che hanno la prospettiva di non lavorare più, forse per sempre, si tratta di un attacco spietato, che li fa sentire come cose che si gettano quando non servono più, al di là del disagio a vivere, quando va bene, di miserabili sussidi statali. È per questo che la borghesia australiana, come quella di altre latitudini, non può mai sentirsi completamente al sicuro, anche quando lo Stato la soccorre con fondi speciali, anche quando i sindacati sono corrotti fino all’osso e più che disposti a vendere i proletari per un vomitevole piatto di lenticchie. La classe operaia è sì oggi un gigante che dorme, ma ogni benché minimo suo movimento è un cataclisma per la società che la vorrebbe docile e remissiva.