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PAGINA 1
IL PROLETARIATO CINESE
RISPONDE CON GLI SCIOPERI AI LICENZIAMENTI
La Cina sta percorrendo a tappe forzate la strada verso il pieno sviluppo capitalistico. Come nei decenni scorsi il Giappone, è adesso Pechino a cercare di farsi largo per occupare il suo posto tra i grandi dell’imperialismo mondiale.
È un percorso, come più volte rilevato sul nostro giornale, che i lavoratori cinesi stanno pagando a caro prezzo. La situazione della classe operaia è terribile: orari di lavoro molto più lunghi che in Occidente, salari molto più bassi, condizioni di lavoro spesso disumane (incidenti mortali che coinvolgono decine di lavoratori non sono infrequenti).
In questi ultimi anni la pressione sui lavoratori cinesi, sia dell’industria sia della campagna, si è ancora accresciuta per la necessità del capitale di entrare a pieno titolo nel ciclo del commercio mondiale facendosi accettare dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Questo comporta la rinuncia alla politica protezionistica che ha finora difeso alcuni settori dell’economia cinese, e quindi la necessità di liberarsi dei "rami secchi", le industrie e gli impianti considerati "improduttivi". Secondo i santoni della Banca Mondiale ben 140 milioni di lavoratori dello Stato e delle imprese collettive cinesi sarebbero "in eccedenza". «L’attuale tariffa sull’import di auto � scrive il Manifesto del 14 aprile � è oggi del 100%, ma secondo gli accordi OMC siglati con gli USA dovrà diminuire fino al 25% entro i prossimi 5 anni. Milioni di operai del settore andranno sul lastrico, nell’immediato, quando le fabbriche saranno ristrutturate o chiuse. E lo stesso dicasi per milioni di contadini che, quando il grano americano, meno caro del 30% rispetto alla produzione locale, arriverà sul mercato, dovranno lasciare le campagne per cercare lavoro il città. Cento milioni di persone lo hanno fatto, in seguito alle riforme che già hanno trasformato l’agricoltura cinese». L’anno scorso pare siano stati licenziati 11 milioni di lavoratori.
Ma non è un processo che la classe operaia cinese accetta supinamente; nonostante la ferrea repressione pare che si siano formate numerose organizzazioni di resistenza e di difesa economica e l’anno scorso in ben 300 proteste al giorno si sarebbero impegnati gruppi di operai buttati fuori a causa dei piani di "risanamento".
A fine febbraio scorso, ma la notizia è filtrata solo all’inizio di aprile, si sono ribellati 20 mila operai di una miniera di molibdeno in località Yangjazhangzi, 300 Km a nord-est di Pechino, nella provincia di Laoning. I minatori sono scesi in strada per protestare contro il piano di licenziamento: ad ogni minatore licenziato verrebbe corrisposta una liquidazione di 560 yuan (circa 120.000 lire) per ogni anno di anzianità. Se si pensa che quei 560 yuan corrispondono ad un magro salario mensile da operaio, con 20 anni di lavoro alle spalle un minatore si ritroverebbe in tasca poco più del salario per vivere un anno. Questa elargizione, naturalmente al lordo dei contributi pensionistici, toglierebbe anche il diritto all’indennità di disoccupazione.
Le manifestazioni di protesta si sono presto trasformate in vera e propria rivolta con duri scontri con la polizia, blocchi stradali, auto del governo incendiate e vetrine infrante. Dopo due giorni è entrato in città l’esercito che ha sedato la rivolta, pare senza spargimento di sangue; ma sembra che per un intero mese, fino al 30 marzo, le truppe abbiano occupato la città.
Pochi giorni fa a Liaoyang, nella stessa provincia, migliaia di operai di un impianto siderurgico, tra i quali anche pensionati e licenziati, che da 18 mesi non ricevono né salari, né pensioni, né sussidi, mentre erano riuniti in una manifestazione di protesta davanti alla fabbrica, sono stati attaccati da un migliaio di agenti decisi a disperderli. La violenta risposta a richieste legittime ha aumentato ancora di più la decisione dei lavoratori che anziché disperdersi il giorno seguente hanno cercato di marciare verso il municipio, contrastati da un cordone di migliaia di poliziotti. Le notizie di stampa si fermano qui.
In questa situazione di estrema tensione sociale il governo cinese continua a considerare illegali le organizzazioni di tipo sindacale che i lavoratori formano spontaneamente per difendersi e gli iscritti e i dirigenti rischiano lunghi anni di prigione e persino la pena di morte.
Anche nella vicina Corea del Sud, in questo secondo dopoguerra, la classe lavoratrice ha subito la stessa oppressione, ma adesso i sindacati non riconosciuti dallo Stato raggruppano una buona parte dei lavoratori e hanno mostrato di essere in grado di far sentire la loro voce e la loro forza.
Il riapparire sulla scena mondiale del numeroso proletariato di
Cina sarà certamente un fattore determinante nella politica mondiale
e lo sarà tanto più quanto più riuscirà a sottrarsi
all’influenza nefasta delle sirene della falsa democrazia borghese e a
ricollegarsi alla genuina tradizione di battaglia del comunismo rivoluzionario.
Altri cinque morti sui binari nello scontro sulla linea pontremolese: errore umano, tragica concatenazione di situazioni negative? oppure, più realisticamente, veri e propri omicidi, morti previste e calcolate, lavoratori abbattuti dall’ingordigia del profitto capitalista? Una situazione prevedibile, creata da chi oggi cerca le colpe e le scusanti, una condizione determinata da una ristrutturazione che con l’espulsione di 110.000 lavoratori, ha eliminato i controlli reciproci che la secolare esperienza ferroviaria aveva dimostrato necessari nella collaborazione organica fra le diverse qualifiche: macchinisti, viaggiante, stazioni, manutenzione, progettazione di mezzi e linee. Si afferma, mentendo spudoratamente, che questi controlli incrociati non sarebbero più necessari oggi in virtù delle "Nuove Tecnologie". Questo in parte potrebbe essere vero se esistesse un reale controllo delle linee e dei mezzi e la ferrovia non fosse la stessa di trenta anni fa. Il fatto è che anche semplici apparecchiature come la ripetizione dei segnali in cabina e il blocco automatico di un convoglio che non rispetti un rosso, nonostante il basso costo, non sono stati installati nemmeno su linee importanti come la pontremolese. Sarebbe infatti, nella logica del capitale, un investimento "improduttivo".
Il risultato è che chi lavora alla guida dei treni è sottoposto a crescenti responsabilità, sempre meno sopportabili per l’aumentato stress, i più pesanti ritmi lavorativi, lo straordinario ormai incontrollato.
Caduti gli ipocriti veli sul "servizio pubblico", la "FS S.p.A". appare apertamente una cinica, spudorata macchina per fare soldi, una fabbrica come un’altra che, con l’approvazione della legge borghese, lascia fuori dai suoi cancelli ogni freno cosiddetto morale e ogni utilità sociale. Unica morale e utilità è il Profitto Immediato. È il Dio Denaro che impone oggi una "ristrutturazione" che è in realtà un vero e proprio smantellamento delle FS.
Il patrimonio è un debito per la contabilità borghese: il Capitale deve girare. Quindi il patrimonio va svenduto. Funziona così: i maggiori scali merci sono stati ceduti a società esterne; si procede alle alienazioni immobiliari di Metropolis e "Grandi Stazioni"; si concede a basso costo alle società telefoniche la possibilità di stendere i propri cavi lungo la sede ferroviaria. Si affida la progettazione delle linee, degli impianti di sicurezza e dei nuovi mezzi di locomozione, peraltro decisamente scarsi, alle stesse imprese che li costruiscono, si immagini così con quali criteri. Non ci attardiamo sul dilagante ladrocinio padronale in ferrovia perché, per quanto connaturato alla classe borghese, non è causa, ma conseguenza secondaria del generale e sociale sfruttamento dei lavoratori. Sono le leggi economiche capitalistiche, e non solo la "disonestà" dei dirigenti FS, che determinano le sofferenze dei ferrovieri.
Resta il fatto che si muore e si muore sempre più spesso alla
condotta dei treni, su linee che attraversano un deserto fatto di stazioni
chiuse ed abbandonate, in orari improponibili per il metabolismo umano,
con macchinisti che hanno sulle spalle il doppio delle ore di condotta
di dieci anni fa. A questo tragico peggioramento delle loro condizioni
hanno iniziato a resistere i macchinisti prima, gli altri ferrovieri poi.
La loro lotta ha dimostrato che dinanzi a questo attacco omicida non si
può che rispondere con lo sciopero, con tutti gli scioperi che serviranno,
perché solo la forza dei lavoratori potrà far arretrare simili
killer cinici ed usurai.
Il Partito segue l’andamento dell’economia capitalistica e constata il suo inserirsi nelle tendenze storiche previste dalla dottrina e verificate nell’esperienza storica.
Sulla base del lavoro statistico sui dati economici, di cui riferiamo nei rapporti alle riunioni generali, abbiamo rilevato che da più di un anno la produzione di capitale si rafforza diffusamente in tutte le aree del mondo. Sono temporaneamente superati i rallentamenti dei ritmi relativi di crescita, le stagnazioni per lungo tempo al fondo delle crisi dei grandi imperialismi, le recenti recessioni locali della produzione, le crisi del credito, delle borse, e dei cambi, che hanno costituito una successione, non casuale, durata almeno quattro anni.
I giovani capitalismi asiatici già colpiti dalla crisi ne sono usciti e in tutti, o quasi, questi paesi il capitale ha già recuperato ciò che vi aveva perso nel valore della produzione.
La tendenza al rallentamento della forte crescita cinese degli ultimi anni si inverte. Ma per il capitalismo cinese, che è riuscito a superare senza grossi problemi la recente crisi asiatica, si tratta di un’inversione temporanea, perché la tendenza storica è inevitabile e già delineata da alcuni anni nei dati economici.
Le espansioni della produzione di capitale hanno preso il posto delle contrazioni in grandi paesi dell’America latina. Qui la borghesia ha forse superato le difficoltà e i grandi pericoli che correva, certamente approfittando della debolezza della resistenza organizzata degli operai, che con i loro sacrifici dovrebbero consentire la ripresa dell’accumulazione.
In Giappone la produzione industriale cresce da diversi mesi, ma solo rispetto al precedente anno, che era di ricaduta e dopo nove anni di accumulazione assente; pertanto che il livello della produzione è ancora inferiore al massimo del 1991, precedente la maggiore crisi del paese, proprio quello col maggior tasso medio di accumulazione del dopoguerra. Vari altri elementi dell’economia giapponese confermano le difficoltà sull’uscita rapida di quel capitalismo dalla depressione.
In Russia da un anno la produzione industriale cresce impetuosamente, ma il confronto è sui valori, minimi, dell’anno precedente, forse l’ultimo di una crisi gravissima dell’accumulazione (si può stimare la produzione industriale del 1999 pari a solo il 40% di quella del 1989, se le statistiche statali sono bene informate). Anche gli andamenti dell’inflazione, dei cambi, del commercio estero, dei tassi d’interesse mostrano segni di più regolare circolazione del capitale, rispetto al disordine e all’instabilità del ’98/99. Ma il solo recupero della massa di capitale sociale del 1989 sarà lungo e difficile.
In Europa, compresi i paesi centro e nord orientali, la produzione industriale cresce con più decisione, sebbene con forza minore di quella americana; la fiacchezza dei vari anni successivi alla crisi del periodo ’92/93 ha lasciato il posto da un anno a un discreto vigore dell’accumulazione. La Germania è uscita definitivamente dalla crisi; l’incremento relativo sull’anno precedente della produzione aumenta e il capitale ha recuperato, ma dopo otto anni, il livello di massimo relativo del 1991, precedente la sua forte contrazione, e lo sta superando rapidamente.
Negli Stati Uniti la crescita si dimostra ancora molto forte, dopo quasi 9 anni di espansione, con un tasso medio annuale forte del 3,3%, contro il 2,6% degli ultimi 26 anni sino al ’99: un’inversione di tendenza che va spiegata.
La produzione capitalistica americana è avvantaggiata, in parte e temporaneamente, da una più forte presenza nei nuovi rami della produzione industriale, quelli delle apparecchiature informatiche e per le telecomunicazioni; sono settori poco maturi e in crescita sostenuta, contraddistinti da uno lo sviluppo tecnico continuo che procura facilmente sovrapprofitti.
Ma la forza del capitale in America si basa anche su un gran sviluppo del credito, di capitale alle imprese e di anticipazioni di reddito a borghesi e salariati, concesso dal capitale finanziario interno e del resto del mondo. Il centro di accumulazione del capitale in America da tempo acquista merci più di quanto ne venda e, come causa ed effetto della forte espansione produttiva e del conseguente deficit dello scambio commerciale, riceve capitali monetari del resto del mondo, in gran parte potenzialmente instabili, in cerca di interesse e guadagni di borsa. Il flusso uscente di capitali impegnati stabilmente all’estero è sempre maggiore di quello in senso contrario, aumentando il patrimonio all’estero delle impresi americane che vi svolgono la funzione del capitalista attivo, quella dell’accumulazione sul posto. Questo non toglie che il flusso di capitali monetari entrante sia da tempo maggiore di quello uscente, per cui la consistenza del debito estero americano continua ad aumentare da 15 anni.
La grande euforia della borsa americana per una ricchezza immaginaria induce a debiti per investimenti e consumi. Ciò forza la produzione, il consumo, l’indebitamento interno e quello estero. Questo è in dollari, che sono l’unico vero mezzo di circolazione e di riserva mondiale e consentono ai debitori americani di pagare interessi non gravati da forti incertezze sul valore della moneta.
Il Dollaro ora è forte perché i profitti sono in crescita, ma è pur sempre una moneta puramente cartacea; se le differenze di produzione di plusvalore mutassero a sfavore del capitale operante in America e molti capitalisti precipitosamente volessero cambiare il loro denaro in un’altra forma nazionale per appropriarsi di interessi o profitti in altri paesi, il terremoto monetario sarebbe assicurato.
Maturano così nella finanza e nei rapporti fra le monete gli elementi di esaltazione della crisi che le contraddizioni della produzione e del consumo capitalistici causeranno. La stessa borghesia mondiale teme lo sviluppo spontaneo del credito, della borsa e della produzione negli Stati Uniti. Il capitale mondiale ha resistito alla crisi del 1997/98 con la forza della produzione e del consumo dell’economia americana, con la forza politica e militare di questo centro di stabilizzazione mondiale imperialistico, forze che hanno attratto i capitali monetari inoperosi e terrorizzati delle economie stagnanti. Un movimento graduale in senso inverso darebbe ancora respiro al capitale mondiale. Questa è la speranza borghese. Sarà infranta prima o poi dall’infernale accumulazione e dall’inevitabile sovrapproduzione.
«Le epoche nelle quali la produzione capitalistica fa agire tutte le proprie potenze si dimostrano regolarmente epoche di sovrapproduzione; in quanto le potenze della produzione non possono mai essere utilizzate in maniera che si sia in grado di produrre più valore, ma anche di realizzarlo» (Il Capitale, L, II, cap.16).
Il rallentamento storico della crescita relativa del capitale
mondiale e quello in corso degli ultimi 25 anni sono tendenze nelle stesso
senso che riguardano leggi inesorabili e quindi non possono essere arrestate,
congiunture a parte. Un gran boom mondiale che arrivasse al culmine di
un’espansione sempre più drogata dal credito e nel disordine e nell’incertezza
dei cambi non potrebbe che sfociare in una grande crisi disastrosa.
È noto che il Sudest spagnolo è una della zone di Europa più minacciate dalla desertificazione. Da tempi immemorabili la regione, a causa della sua leggendaria ricchezza mineraria, ha sofferto di un insaziabile processo di deforestazione poiché enormi quantità di combustibile vegetale erano necessarie per fondere il metallo estratto. Ciononostante la moderna tecnica è riuscita a convertire in campi immensi per la coltivazione di ogni tipo di frutta ed ortaggi quel che un precedente modo di produzione aveva trasformato in deserto. E qui non ci dilunghiamo sulle nefaste conseguenze, a medio e a lungo termine, dell’uso capitalistico di queste tecniche, rapace del suolo e dell’acqua sotterranea.
È evidente che convertire un terreno praticamente sterile a fortemente produttivo richiede grandi investimenti di capitali. Ne risulta che, dopo tali investimenti, per ottenere prodotti ortofrutticoli competitivi occorre impiegare una manodopera mal pagata, ammassata in baracche infette e costretta a condizioni di vita miserrime. È ciò che sta succedendo nelle zone agricole di tutti i paesi cosidetti "ricchi" che si trovano in queste circostanze.
I fatti violenti occorsi a El Ejido, nella regione spagnola di Almeria, non sono che la dimostrazione delle pessime condizioni nelle quali lavorano e sopravvivono i proletari immigrati in Europa, prevalentemente africani. Senza documenti che possano garantire la loro presenza nei paesi di immigrazione, molti di questi lavoratori forniscono quella manodopera a basso prezzo e sottomessa ricercata dai capitalisti agrari. Il tutto si svolge col pieno consenso degli apparati statali e dei sindacati di regime. Le loro permanenti geremiadi in difesa dei diritti umani tacciono quando colpita è la classe operaia e si convertono nel feroce sarcasmo e spietato della richiesta dell’ottemperanza alla legge suprema del liberalismo: laissez faire, laissez passer.
L’attuale prosperità del capitale di molte contrade agrarie si spiega solo con la miseria delle condizioni di vita dei braccianti, soprattutto immigrati. Può risultare paradossale, infatti, che paesi dell’Unione Europea con i maggiori tassi di disoccupazione fra i suoi lavoratori nazionali accolgano gran numero di immigrati, clandestini e no. È chiaro che per le imprese sono assai più redditizi i lavoratori immigrati che i nativi poiché, oltre a pagare salari da fame, risparmiano ogni spesa per le quote delle previdenze obbligatorie. Ugualmente ne beneficia lo Stato capitalista poiché, per esempio in Spagna, su circa 300.000 immigrati legalizzati, prevalentemente maschi adulti, che pagano le quote della sicurezza sociale, solo 17.000 ricevono un qualche tipo si sussidio.
Per altro questi fittizi Eldorado continuano ad attrarre proletari e disperati dall’altro lato del Mediterraneo, spinti dalla grande miseria e repressione che debbono sopportare nei loro paesi di origine, condizioni che le potenze imperialiste sono le prime interessate a conservare poiché costituiscono la base per far pressione sui salari dei proletari ben pagati dell’occidente.
In Spagna i proletari immigrati, soprattutto magrebini, hanno iniziato ad organizzarsi, e questo è ciò che preoccupa i capitalisti, le autorità e i sindacati del regime. I fatti vissuti a El Ejido nello scorso mese di febbraio hanno dimostrato una combattività operaia fra gli immigrati che contrasta nettamente con il relativo conformismo attuale della classe operaia europea. Questa, con l’avanzare della crisi capitalista, guardandosi allo specchio vedrà necessariamente riflesso il viso del suo fratello di classe immigrato.
A El Ejido, fra legali e illegali, si calcola che vi siano oggi un 15.000 immigrati, la maggioranza dei quali lavora in agricoltura. Solo una minoranza si ritira la sera in normali abitazioni dotati di servizi minimi, il resto trova riparo in capanne o in edifici in rovina. La situazione di illegalità, gli alti prezzi degli affitti e la diffidenza dei proprietari ad affittare sono le condizioni per il formarsi di ghetti. È da questo sottomondo che trovano origine i problemi di convivenza e i casi, non tanto numerosi come potrebbe aspettarsi in un terreno di cultura tanto propizio, di delinquenza verso persone e beni.
Una serie di omicidi per mano di delinquenti di origine magrebina è stato il detonatore del pogrom anti-immigrati che si è prodotto a El Ejido in febbraio. A niente è servito il sudore di tanti anni con salari miserevoli su cui si è innalzato il "miracolo" economico di El Ejido. A niente sono serviti i sacrifici e il silenzio rassegnato di fronte allo sfruttamento. La "vendetta" scatenata dagli "europei", civili razionali cristiani e democratici, ha attinto ai bassi istinti del razzismo e tutti i magrebini sono diventati assassini, ladri e violentatori. Non si sono salvati nemmeno gli scarsi rappresentati della piccola borghesia immigrata, che hanno visto distrutti i loro negozi sotto lo sguardo inerte delle forze dell’ordine.
Ma dallo sgomento iniziale i lavoratori immigrati, nella quasi totalità magrebini, sono passati alla inevitabile risposa classista: lo sciopero. L’istintiva manovra difensiva operaia, di qualsiasi paese siano, in date condizioni, anonima, quasi involontaria, si dispiega sul campo.
I picchetti garantivano il seguito della massa. Il momento non poteva essere più favorevole: tonnellate di frutta ed ortaggi attendevano urgente il raccolto. Il carattere deciso dello sciopero, le forti perdite che stava producendo e la mancanza del suo controllo motivarono l’arrivo di un nugolo di politici, sindacalisti e personaggi pubblici che, ora sì, si mostravano enormemente interessati al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli immigrati.
Conscio del carattere inizialmente incontrollato del movimento di sciopero, lo Stato borghese cercò di attrarre ad un compromesso la parte meno decisa degli immigrati. Frutto di questa politica conciliatrice è stato l’accordo firmato da alcuni dei rappresentati degli immigrati da una parte e il padronato e i sindacati di regime dall’altra. Aver costretto lo Stato e il padronato a trattare con i rappresentanti degli schiavi è già certo una bella vittoria, fatta ingoiare a forza ai borghesi e ai piccolo borghesi, che ci penseranno bene prima di alzare di nuovo la mano sui braccianti.
L’accordo però non garantisce per niente la soluzione dei problemi di alloggio, insalubrità ed emarginazione, e va rimarcato l’assenza più che significativa nell’accordo di qualsivoglia rivendicazione salariale, delle quali vagamente la stampa riferiva durante il conflitto. In definitiva l’accordo rimette alla buona volontà dello Stato e delle sue istituzioni e al padronato agrario di Almeria la soluzione dei problemi mediante la creazione di programmi, commissioni di studio, uffici di assistenza all’immigrato, ecc. Di fronte a tali vaghezze che non suonano che ad inganno e a manovra dilatoria non deve stupirsi che la parte più lucida degli immigrati abbia criticato l’accordo affermando che «già prevediamo che entro un anno saremo alle solite».
Siamo della stessa opinione. La strada è lunga. I lavoratori
immigrati solo con la lotta incondizionata e con l’appoggio solidale e
deciso della classe operaia dei paesi ospiti possono spuntarla con l’apartheid
nel quale vivono. Per questo è necessario che risorgano le organizzazioni
classiste di difesa economica che raggruppino tutti i lavoratori salariati
senza distinzione di nazionalità, sesso, razza, religione o credo
politico, discriminanti che solo avvantaggiano la ben solidale classe dei
capitalisti e dei loro agenti prezzolati.
CORSO DELLA CRISI ECONOMICA - MOVIMENTO OPERAIO NEGLI S.U. D’AMERICA - IL "PROCESSO DI PACE" IN IRLANDA - CORSO DEL CAPITALISMO GIAPPONESE - PER LA STORIA DELLA SINISTRA - SUL MATERIALISMO DIALETTICO - BIOLOGIA E CAPITALE - [Resoconto esteso] LAVORO E TECNICA - [Resoconto esteso: Italiano - Español ] ATTIVITÁ SINDACALE - IRRIFORMABILITÁ DEL SALARIATO
La riunione di maggio del partito, dal 6 al 7, si è potuta tenere, dopo 35 anni, nella bella città di Napoli. Apprezzamento per l’ospitalità e un caloroso ringraziamento ai compagni locali, vecchissimi e giovanissimi, è venuto dai forestieri. Tutto perfettamente organizzato, i lavori si sono tenuti, nella massima tranquillità in una grande sala di un palazzo monumentale nella centralissima Via dei Tribunali, concessaci da una casa editrice.
Presenti rappresentanze di tutti i nostri gruppi.
Data la lontananza di alcune sezioni molti erano pervenuti a Napoli fin dal venerdì. Sabato mattina riunione organizzativa e preparatoria della riunione; al pomeriggio e la domenica ore dedicate all’ascolto delle numerose ed impegnative relazioni dei gruppi di studio.
Apriva i lavori una breve introduzione del centro del partito che ricordando gli articoli che abbiamo dedicato sul giornale a commento del volgere di questo che una volta definimmo "difficile secolo", e nel volantino per il 1° Maggio, "In questo secolo vinceremo!", commentava che poteva quella sembrare una troppo lunga attesa. Significa che la storia ha i suoi tempi, come un respiro che il partito deve saper ascoltare. Ogni secolo ha una sua anima, segnata, dalla ascesa, dalla vittoria e dalla sconfitta delle classi in lotta. Anche del Novecento quindi non si tratta di giudicare o emettere condanne stizzite ma di comprendere cosa è successo e perché è successo.
Nella nostra prospettiva storica, che travalica gli individui e le generazioni � come ben si riflette anche nella compagine del partito � ripetiamo sempre che i veri rivoluzionari si riconoscono perché non hanno fretta, a differenza della borghesia che è necessariamente immediatista, tanto che confonde la new economy con quello che per noi era già old economy cento anni fa (la distruzione della proprietà privata, la smaterializzazione del Capitale, la generalizzazione dei rapporti mercantili, ecc, il nostro ABC). Non abbiamo fretta perché ci discipliniamo � collettivamente, ed individualmente anche � alle necessità più generali della nostra classe.
Il nostro non aver fretta non significa indifferenza a quel che oggi accade alla classe operaia: il partito soffre con essa le doglie del parto della società futura. Il nostro determinismo non ci fa insensibili al pensiero, alla previsione del numero di guerre mondiali alle quali dovrà sottostare il proletariato prima di riuscire a tagliar la testa al drago immondo.
Ma il processo rivoluzionario non può essere accelerato. Il partito non è lo acceleratore della Rivoluzione, e nemmeno rende bene il paragone con un catalizzatore, preso dalla chimica, polverina da gettare nel pentolone. Il partito è la rivoluzione, è l’organo cosciente e dirigente della Rivoluzione, è una sua organica condizione.
Il nostro compito e ambizione è preparare, con la nostra
dura
opera, come è scritto sotto il titolo del nostro giornale, quella
indispensabile condizione della Rivoluzione, che appunto nella attuale
new
economy matura fino a scoppiare. In questo la nostra fretta
di militanti.
Come nostra abitudine apriva i lavori il rapporto sull’economia capitalistica illustrante l’aggiornamento dei dati e grafici e l’inserirsi del suo andamento contingente nelle tendenze storiche.
Da circa un anno la produzione di capitale si rafforza in modo diffuso nel mondo; i recenti rallentamenti, le recessioni locali, le crisi della finanza e dei cambi sono temporaneamente superati. Il Giappone sta uscendo dalla lunga crisi; la Russia tenta un duro recupero; in Europa la crescita relativa della produzione aumenta con passo regolare, ma con forza minore di quella americana.
Negli Stati Uniti la crescita della produzione si dimostra molto forte, avvantaggiata da una maggiore presenza in nuovi rami della produzione, ma è basata su un accumulo crescente di debolezza nella finanza. Il centro di accumulazione del capitale in America da tempo acquista merci più di quanto ne venda e, come causa ed effetto della forte espansione e del deficit dello scambio commerciale, riceve capitali monetari dal resto del mondo, potenzialmente instabili, in cerca di interesse e guadagni di borsa. Queste masse di moneta sorpassano regolarmente quelle uscenti complessivamente come capitali attivi impegnati stabilmente all’estero. A ciò si aggiunge una grande euforia di borsa per una ricchezza immaginaria che induce a indebitarsi per investimenti e consumo personale. Ciò forza la produzione, il consumo e l’indebitamento estero, che è tutto in una moneta ora forte per i profitti in crescita, ma pur sempre puramente cartacea. Maturano così gli elementi di esaltazione della crisi che le contraddizioni della produzione e consumo capitalistici causeranno.
Il rallentamento storico della crescita relativa del capitale mondiale e quello in corso degli ultimi 25 anni sono tendenze concordanti che non possono essere arrestate. Un boom mondiale che arrivasse in una sempre più drogata espansione non può che sfociare in una grande crisi disastrosa.
Quindi si passava ad esporre alcune delle considerazioni tratte dalla nostra teoria sulla produttività del lavoro. La crescita di questa, secondo la propaganda borghese, starebbe portando il capitalismo a una nuova èra di crescita illimitata, che già opererebbe negli Stati Uniti.
Ribadito che è stata caratteristica da sempre del capitale di tendere allo sviluppo delle forze produttive e di divenire così premessa di un nuovo modo di produzione, ribadito che lo sviluppo della produttività del lavoro non dà vita eterna, ma condanna a morte del capitale, si ricordavano gli effetti temporanei degli aumenti di produttività del lavoro favorevoli all’accumulazione del capitale. Si mostrava come la borghesia, nel considerare la produttività del lavoro, deve ingegnarsi a nascondere che ogni aumento di produzione di capitale proviene unicamente dal lavoro impiegato nella produzione di merci. Si notava che i borghesi, mentre nel calcolare la produttività del lavoro si dimenticano della produzione agricola, insistono, pur ammettendo le loro difficoltà contabili, a voler calcolare la produttività del lavoro in settori della circolazione del capitale che non producono valore e plusvalore, settori questi che spariranno nella società non più mercantile, liberando tempo disponibile per l’uomo sociale.
Si riportavano i risultati del calcolo della produttività
del lavoro nell’industria americana nel ciclo in corso in questo decennio,
messa a confronto con quella del ciclo più vigoroso 1957-69 e quella
del periodo 1973-89 comprendente due cicli deboli: ne risultava che la
crescita della produttività degli anni ’90 è solo un recupero
verso quella più elevata degli anni ’60, dopo i valori ridotti dei
due cicli precedenti quello attuale. Quindi si rimandava l’esposizione
dei successivi argomenti sul tema produttività e catastrofe del
capitale alla futura stampa di partito.
MOVIMENTO OPERAIO NEGLI S.U. D’AMERICA
Il relatore iniziava l’esposizione della seconda parte del rapporto rilevando come lo scoppio della Guerra di Secessione rappresentasse per il movimento sindacale americano l’azzeramento del livello organizzativo raggiunto nell’anteguerra. Tutte le unions nazionali si sciolsero, spesso perché finivano con l’avere la maggior parte degli aderenti impegnati al fronte.
Gli operai aderirono alla causa antischiavista arruolandosi sovente volontari, ma a partire dal 1863, con la istituzione nell’Unione della coscrizione obbligatoria, i solo volontari non bastando più in seguito ai rovesci subiti dall’esercito sul fronte, scoppiarono rivolte di coscritti, specie tra gli irlandesi.
Durante il conflitto il capitalismo americano raggiunse la sua piena maturazione, ebbe un’impetuosa evoluzione, un’espansione rapidissima; sotto la spinta feconda della guerra generò e sviluppò immense e potenti forze produttive, che investirono con la loro vitalità lo sconfinato paese cambiandone il volto in pochi anni.
Tale formidabile mutamento e crescita della economia coincise con un drastico peggioramento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici, sulle spalle delle quali solamente avveniva tale "miracolo". Negli anni di guerra i prezzi dei beni di consumo crebbero di molto e i salari reali scesero paurosamente sprofondando gli strati bassi della popolazione nella miseria più nera.
Il relatore a questo punto descriveva come, in una situazione così grave, la rabbia operaia smettesse di covare sotto la cenere e si trasformasse in lotta. Con la guerra ancora in pieno svolgimento scoppiarono scioperi un po’ dovunque, condotti con estrema decisione e conclusi con la vittoria degli operai e con la formazione di numerose leghe o unioni. Il numero di iscritti alle diverse unions passò rapidamente da poche migliaia nel 1861 a 200.000 del 1864.
La borghesia, a guerra finita, passò subito al contrattacco. Sfruttando infatti la flessione congiunturale post-bellica legata al cessare delle commesse militari e alla riconversione degli impianti, sconfisse gli scioperi che si opponevano ai tagli salariali e alla disoccupazione formando associazioni territoriali padronali che concordarono l’attuazione di serrate negli stabilimenti dove più forti erano le unions e lo spostamento della produzione laddove non esisteva o era minima la penetrazione sindacale, utilizzando in tale operazione a proprio vantaggio la concorrenza e la scarsa coesione esistente fra le unions.
La sconfitta farà sorgere tra i proletari l’esigenza di dotarsi di una confederazione unitaria che coordinasse l’azione delle trade unions. Sorgerà a Baltimora nel 1866 la National Labor Union.
L’esposizione terminava rilevando che lo sviluppo della grande industria e il massiccio utilizzo di sempre più evoluti macchinari, che ebbe inizio con la guerra di secessione, determinò una progressiva, se si vuole lenta, ma inesorabile semplificazione dei processi produttivi, che portò con sé la sempre maggiore perdita di ogni distinzione sostanziale fra operai skilled (qualificati) ed unskilled (non qualificati). La conseguenza di questo processo, che si protrasse per almeno un trentennio prima di giungere a pieno compimento, assumendo diverse velocità e ritmi nei diversi rami dell’industria, fu il prodursi, come riflesso del mutamento materiale in corso, di un dualismo all’interno del movimento sindacale americano tra la forma craft-unionist (su base di mestiere) e quella definita industrial-unionist (si base d’industria).
Ed è sotto la spinta di questo cambiamento materiale che
si farà strada, prima timidamente nella NLU e poi sempre più
diffusamente e massicciamente, la necessità di estendere l’organizzazione
sindacale a tutti i salariati senza distinzione alcuna tra mestieri, sesso,
razza, ecc., in contrapposizione con le trade che tendevano a trasformarsi
gradualmente, man mano che i mutamenti intervenuti in fabbrica si estendevano
e si generalizzavano, da strumenti utili a reazionari freni dello sviluppo
ulteriore del movimento.
IL "PROCESSO DI PACE" IN IRLANDA
Un terzo relatore riferiva su quello che attualmente viene denominato "processo di pace in Irlanda". Le trattative, che durano ormai da oltre due anni, fra alti e bassi, non sono la conseguenza dei buoni sentimenti dei due responsabili, premiati con il Nobel della pace, e neppure della mediazione dei governi americano e britannico, ma dalla scomparsa del contrasto economico fra la borghesia unionista del nord e quella nazionalista del sud in seguito allo sviluppo recente del più povero sud, spinto dagli investimenti angloamericani ed europei, e dalla stagnazione del nord, che ha oggi perso il primato di sviluppo capitalistico sul resto del paese.
L’unione dell’isola alla Gran Bretagna seguì la sconfitta delle sommosse giacobine verso la fine del ’700, permettendo il trionfo della controrivoluzione britannica.
I tentativi nazionalisti perdurarono fino all’indipendenza parziale del 1922, ma né la borghesia nazionalista, né il proletariato seppero andare oltre una sovranità limitata.
Negli ultimi 10-15 anni il sud è stato ricolonizzato economicamente dagli imperialismi che ormai dominano l’economia, chiudendo ogni spazio alla vecchia diatriba unionista-nazionalista. È così che i politicanti locali potevano avviare il "processo di pace" al nord, estendendo la dominazione del capitale sul proletariato del sud anche su quello del nord.
Perciò sono al momento da abbandonare i ricorsi ai vari
bigottismi ed il sobillare gli elementi più violenti, al fine di
spingere il proletariato nelle braccia di due borghesie ormai al tramonto.
CORSO DEL CAPITALISMO GIAPPONESE
(Riprendendo lo studio: "Dall’isolamento delle origini alla piena maturità capitalistica").
Il Giappone è giunto tardi allo sviluppo capitalistico dell’economia. A metà dell’ottocento, quando molti dei Paesi europei avevano già passato la fase della rivoluzione industriale e presentavano un discreto apparato produttivo e di infrastrutture (ferrovie, porti, strade), l’arcipelago giapponese era ancora chiuso nel suo isolamento: una legge imperiale proibiva con la morte i rapporti con lo straniero.
I decenni successivi furono decisivi. Costretto con la forza ad aprire i suoi porti, minacciato nella sua integrità territoriale e indipendenza politica dalla pressione dell’imperialismo occidentale, lo Stato giapponese fu costretto a reagire; le forze borghesi che già si agitavano in una società feudale in grave crisi, profittarono del generalizzato sentimento antioccidentale per rovesciare l’ormai logora dinastia dei Tokugawa, ripristinando il potere dell’Imperatore, simbolo dell’unità nazionale. Fu l’inizio dell’Era Meiji, caratterizzata da una serie di importanti riforme economiche e sociali, una vera "rivoluzione dall’alto" che permisero all’economia del Paese di intraprendere, sulle spalle soprattutto dei contadini, un rapido processo di sviluppo. Col fertile impulso dato da tre guerre vinte in pochi decenni (nel 1895 contro la Cina, nel 1905 contro la Russia, nel 1915 la partecipazione alla prima guerra mondiale a fianco delle potenze vincitrici), il Giappone riuscì in poco più di mezzo secolo a raggiungere un livello di sviluppo paragonabile a quello dei maggiori paesi capitalistici, a dotarsi di un formidabile esercito, a conquistare una serie di possedimenti coloniali, tra cui la penisola coreana.
Il vorticoso sviluppo economico e militare fu pagato a caro prezzo dal proletariato delle campagne e delle città, costretto a condizioni di vita e di lavoro forse ancora peggiori di quelle sopportate dalla classe operaia inglese un secolo prima: orari giornalieri di quattordici ore, sfruttamento disumano di donne e fanciulli, salari da fame. La classe lavoratrice cercò più volte di organizzarsi sul piano sindacale per difendere la sua sopravvivenza, ma la borghesia giapponese, resa accorta dall’esperienza degli altri Stati borghesi, si dotò sin dalla fine dell’Ottocento di una serie di leggi restrittive delle libertà sindacali e politiche e perseguitò il movimento operaio sin dal suo sorgere.
Questa prima relazione, che intende continuare un lavoro di partito
iniziato e pubblicato su questo giornale nel corso del 1985, interrotto
alla metà dell’ottocento, ha descritto a brevi linee l’impiantarsi
del capitalismo in Giappone, la condizione della classe lavoratrice nelle
prime manifatture, il sorgere delle organizzazioni sindacali e dei primi
partiti politici proletari, fino alla guerra del 1914.
Concludeva i lavori della intensa seduta del sabato il rapporto sulla Storia della Sinistra. Iniziava con una rapidissima illustrazione delle "Tesi Caratteristiche" del 1951 che, a ragione, costituiscono la base programmatica dell’attuale nostro partito. Allora si trattò di un parto doloroso per la nostra compagine, tanto che ne determinò una grave spaccatura, con il volontario abbandono di coloro che non furono in grado di comprenderne la grande portata. Possiamo affermare che le organizzazioni politiche che oggi scimmiottano una discendenza diretta dalla scuola della Sinistra comunista, in realtà sono tutti quanti gruppi ante-1951, che cioè non hanno assimilato quei principi fondamentali, che non hanno saputo trarre fino in fondo le lezioni della controrivoluzione. Eppure le "Tesi caratteristiche" non costituirono né una svolta, né un aggiustamento di rotta, ribadirono puntualmente i cardini dottrinari e programmatici del marxismo rivoluzionario così come la Sinistra comunista da sempre li aveva formulati ed applicati. Tuttavia costituirono un salto di qualità, nel senso che con esse venne finalmente codificata la soluzione di tutte le questioni sollevate nella terza ondata degenerativa iniziata nel 1926.
Il relatore ripercorreva, partendo dalle tesi di Lione, le ragioni che determinarono la degenerazione di Mosca. Se la rivoluzione russa aveva dimostrato, sia dal punto di vista teorico sia pratico, la validità del programma marxista rivoluzionario e sul piano dottrinario sgombrato il campo della lotta di classe dal riformismo socialdemocratico, sul piano organizzativo e tattico la nuova organizzazione internazionale commise molteplici errori nella speranza di poter forzare, a livello internazionale, i rapporti di forza fra le classi ed esportare in tempi brevissimi la rivoluzione al di là delle frontiere russe nel cuore d’Europa.
Da parte dei dirigenti dell’Internazionale fu creduto che fosse necessario avere sùbito l’adesione di consistenti masse di proletari che in seguito sarebbero state temprate al fuoco della lotta rivoluzionaria. Per ottenere ciò vennero progressivamente allentati i vincoli di adesione, inglobando senza badare uomini e pezzi di organizzazioni chiaramente opportunisti se non addirittura sciovinisti. Nel frattempo si richiedeva la maggiore elasticità tattica, che passava dall’elezionismo, ai fronti unici, alle parole d’ordine del governo operaio, operaio e contadino, insomma tutta una serie di rivendicazioni di carattere provvisorio che avrebbero dovuto servire a conquistare ai partiti comunisti la maggioranza della classe operaia. La terza Internazionale si immedesimò talmente in questa pratica che il tatticismo da mezzo divenne fine, finché al proletariato internazionale non restò altro compito che quello di massa di manovra a favore degli interessi contingenti e variabili dello Stato russo.
Nei rapporti tra gli organi del movimento comunista prevalse molte volte la politica a doppio aspetto, una subordinazione delle motivazioni teoretiche ai moventi occasionali, troppo facilmente nelle grandi e fondamentali decisioni dell’Internazionale entrava l’elemento dell’improvvisazione, della sorpresa e del cambiamento di scena, disorientando i compagni ed i proletari.
Tuttavia la sinistra italiana, che per prima aveva messo in guardia il movimento rivoluzionario internazionale dai pericoli di degenerazione, si dimostrò molto cauta quando un po’ ovunque cominciarono a nascere "opposizioni di sinistra". Di fronte alla ormai evidente, anche se allora non irreversibile, degenerazione dell’Internazionale comunista, noi rifiutammo di condurre una lotta politica di tipo parlamentaristico e bloccarda con i vari gruppi che, dato il loro estremo confusionismo teorico, di volta in volta nascevano e morivano oscillando come pendoli tra la più fedele ortodossia stalinista e l’opposizione ultrasinistra.
La nostra corrente condusse quindi la sua battaglia all’interno del partito finché non le vennero tolte tutte le possibilità di azione, ingoiando anche molti rospi dal punto di vista della disciplina formale, ma senza mai cedere un palmo sulle questioni di principio e di dottrina ed allo stesso tempo non cessò un solo istante dall’impegno nella elaborazione teorica, mirando soprattutto alla costruzione di una linea di sinistra veramente generale e non occasionale.
Noi fummo allora, come del resto lo siamo oggi, tacciati di estraniarci dalle lotte di classe per rinchiuderci volontariamente in una torre d’avorio della teoria, mentre al contrario non si capì e non si capisce oggi che i rapporti di forza tra le classi non si possono alterare con atti volontari. Chi ebbe fretta di fare la rivoluzione, ben presto si dimenticò della necessità della rivoluzione e cadde inesorabilmente nelle braccia della difesa della democrazia, dell’antifascismo, cioè del tradimento socialdemocratico e stalinista.
Il processo di elaborazione teorica e di bilancio degli avvenimenti
internazionali, in particolare della guerra imperialistica e della partecipazione
della Russia a fianco della coalizione vincitrice, determinarono una selezione
naturale dei vari raggruppamenti internazionali di sinistra, sorti
in opposizione all’indirizzo ufficiale di Mosca. Cosicché, quando
nel 1949, lanciammo il nostro "Appello per la riorganizzazione internazionale
del movimento", al di là di generiche manifestazioni di insofferenza
nei confronti dell’opportunismo stalinista, nessuna organizzazione seppe
rispondere a quei minimi requisiti per una riorganizzazione marxista rivoluzionaria.
Apriva i lavori l’indomani la relazione sul materialismo dialettico che cercava di riesporre sinteticamente le linee principali del nostro metodo, la cui costruzione completa si deve a Marx ed Engels.
La prima parte del lavoro dava una veloce sintesi dei percorsi teorici della filosofia e della scienza dal XIV al XIX secolo, premettendo a tutto che le ideologie di un dato periodo sono per noi il riflesso dei rapporti di produzione. Così si ricordava che per il marxismo la religione ebbe, ad esempio, lo stesso scopo della più sviluppata scienza, cioè la spiegazione di dati fenomeni naturali e storici.
La seconda parte mirava innanzitutto a spiegare il nostro metodo materialista. Innanzitutto esso pone le basi dell’analisi di qualsiasi fattore storico nelle condizioni economico-sociali in cui l’uomo si trova a vivere, nel mondo di produzione di una data epoca e in diversi fattori dello stesso genere quali ad esempio il livello raggiunto dai rapporti di produzione e la maggiore o minore intensità della lotta fra le classi. Si ricordavano a proposito diverse citazioni in modo particolare dalla Ideologia tedesca, dalle Tesi su Feuerbach, dall’Antidühring e da alcune lettere di Engels. Si chiariva però che il nostro materialismo, a differenza di quello borghese del XVII e XVIII secolo, non analizza un fenomeno ritenendolo isolato nello spazio e statico nel tempo, bensì nelle sue varie correlazioni con l’esterno e nella sua logica e naturale evoluzione. La struttura economica è la base per ogni analisi, ma anche le varie e complesse sovrastrutture ideologiche agiscono sul fenomeno, pur essendo determinazioni della struttura.
Si confrontava poi il nostro schema materialista con quello di altre ideologie, quali quelle volontaristico-immediatistiche (tipo Gramsci), staliniana e fascista, notando che queste fanno sì determinare un fenomeno dalla struttura economica, ma questa struttura economica agisce direttamente sulla Volontà e sulla Coscienza delle classi e degli individui. Per noi invece questa struttura agisce prima sulla Prassi, ovvero come attività, azione, e solo dopo questa Prassi il proletariato si può elevare alla Coscienza e alla Volontà, dunque al suo Partito storico.
Il nostro materialismo non è finalistico: prevede che l’acuirsi dello scontro di classe determinerà il rafforzarsi del Partito Comunista Mondiale e che quest’ultimo interverrà rovesciando lo schema, sovrapponendo la sua anonima e cosciente Volontà al movimento rivoluzionario rendendo possibile il parto della società futura. Immediatismo e volontarismo sono esclusi: lo schema è rovesciabile soltanto in quei rari momenti nei quali, per condizioni materiali, il modo degli uomini è in bilico fra passato e futuro.
La terza parte, che si è dovuto riassumere molto per rispettare i tempi prestabiliti per le numerose relazioni della Riunione, illustrava le leggi della dialettica con l’aiuto di citazioni soprattutto dalla Dialettica della natura di Engels e dai Quaderni filosofici di Lenin. La dialettica, il cui uso non è separabile dal materialismo, è innanzitutto la scienza "dell’universale interdipendenza" e del "movimento della materia". Tutto è movimento e la quiete – fin da Galileo – altro non è che uno stato particolare del movimento. Tutto è correlato all’altro, agli altri fenomeni, e il metodo dialettico prevede l’abbattimento di ogni barriera posta tra le diverse discipline del conoscere, tanto naturali, quanto storiche.
Gli elementi che rendono costante il movimento della materia e
che permettono a questa, in date condizioni, di fare dei salti e delle
trasformazioni radicali ed improvvise, sono le contraddizioni che ogni
essere e ogni fenomeno contiene nel suo esplicarsi. Quello che, ad esempio,
nell’astronomia è la contraddizione fra attrazione e repulsione
dei pianeti, è nella scienza storica la contraddizione, lo scontro,
fra le classi, dovuto agli opposti interessi economici. Le leggi che regolano
questo scontro fra poli opposti, questo sviluppo delle contraddizioni,
sono da studiare nella causalità interna ed esterna di un fenomeno.
La borghesia procede in tutto il mondo a spazzare via tutto ciò che ha di più sacro. Le notizie si accavallano e tutte sconcertano e spaventano la cosiddetta opinione pubblica, in particolare nella misura in cui non sono comprese. Le ultime riguardano la concessione del brevetto per isolare, selezionare e produrre cellule staminali d’animali transgenici; l’autorizzazione da parte del governo Blair alla produzione di cellule di tessuto umano da utilizzare per trapianto di tessuti in pazienti umani; la determinazione della sequenza genica di un individuo di homo sapiens da parte di una società privata.
Queste notizie ed altre non meno importanti riportate sulla stampa quotidiana s’inseriscono in un processo storico che è definito dagli stessi borghesi "brevetto e commercio della vita umana" e che noi con le parole di Marx definiremmo "valore di scambio alla quarta potenza", collegandoci ad una profetica citazione della Miseria della Filosofia. Questo valore di scambio è appena ai suoi inizi ma si annuncia d’estrema peculiarità per la stessa sopravvivenza della specie umana. Si fonda sul monopolio delle ultime forze produttive di potenza "divina" e che, se controllate dalla specie, potrebbero veramente trasformare l’uomo in Dio, materialisticamente inteso come natura che si conosce e si trasforma secondo un piano, e non casualmente.
Il comunismo ha un suo atteggiamento circa i gravissimi problemi posti dalla cosiddetta rivoluzione biologica, già contenuto, in definitiva, in vecchi chiodi già confitti da babbo Marx. Il Partito nel campo della biologia molecolare, delle biotecnologie, della sperimentazione e commercio d’embrioni umani, del trapianto e commercio d’organi umani ha una sua peculiare posizione, discendente dalle sue tesi programmatiche, in opposizione frontale sia a quelle religiose, sia a quelle grandi-borghesi laiche, sia a quelle dell’accozzaglia filistea piccolo-borghese che a Seattle ha avuto la sua "giornata radiosa".
La nostra tesi, in estrema sintesi, è questa: proceda la
borghesia a rendere l’uomo merce anche nella sua carne vivente, altro non
sarà che un’estensione dell’universale prostituzione mercantile
del rapporto salariale. Renda tutta la vita organica oggetto di mercato.
Svilisca, alieni e azzeri l’individuo, a terrore e scandalo dei reazionari:
lavora per la Rivoluzione. Renderà possibile che l’Uomo, dopo la
rivoluzione e la cancellazione di ogni "brevetto" e monopolio, possa riprendere
a studiare, senza l’incubo che le maligne sotterranee forze del mercato
gli sottraggano le magiche creature del suo lavoro e del suo pensiero.
Potrà allora riprendere a pensare a sé, discutere
prima, sapendo di non sapere, per poi cautamente e lentissimamente estendere
a sé stesso il suo millenario modellare la vita delle specie vegetali ed
animali, stavolta con mezzi più potenti e secondo un piano finalmente
di specie.
Di fronte alla "new economy" si esercitano apocalittici ed integrati, apologeti e riformisti che si dilaniano nel fare previsioni e tentare progetti che non durano un giorno. La nostra conoscenza della natura della Tecnica non ha bisogno di revisioni. Questo intendiamo dimostrare con questo lavoro.
Una della più strane favole che si raccontano su di noi comunisti è che saremmo attardati ad un "modello di lotta" contro il capitalismo ormai obsoleto a causa delle profonde "rivoluzioni" che questo avrebbe subito particolarmente negli ultimi anni. Sarebbe passato, secondo molti analisti, ad un "assottigliamento progressivo" dei prodotti del lavoro umano: «dai materiali carichi di tradizione della bottega artigiana, alle merci standardizzate della fabbrica fordista, agli odierni materiali "zelig", leggeri, privi di identità, disponibili ad assumere qualsiasi forma in quanto ridotti a mere superficie comunicative, a schermi costruiti dall’elettronica».
Tutto si dice, meno che questi nuovi prodotti sono ancora ed inevitabilmente merci e che, finché saranno tali, anche se leggere, aeree, smaterializzate, continueranno ad essere pur sempre gonfie di lavoro estorto al proletariato, dovunque dislocato, nelle "alleggerite" fabbriche metropolitane oppure in invisibili e mefitici hangar del terzo mondo che, come si lamenta in vena di umanesimo peloso, utilizzano il lavoro dei fanciulli.
Come se, insomma, Marx non avesse previsto chiaramente e descritto scientificamente l’inevitabilità della formazione della cosiddetta "intelligenza connettiva", che non è altro poi che il general intellect di cui parla il nostro.
Così, in rapporto al rivoluzionamento forzato delle forze
produttive, i vecchi rapporti di produzione, che sono il vecchio capitalismo
di stampo imperialistico, si dimostrano sempre più incapaci di contenerli,
messi a dura prova dalle tensioni, dalle turbolenze non solo finanziarie
ma anche strutturali, al punto che senza guerra non sono capaci di ricreare
le condizioni per riprendere vigore e nuova lena.
Il penultimo relatore riferiva sulla attualmente, per forza di cose, ridotta attività sindacale, che riteniamo però di grande importanza in quanto esplicazione nell’oggi dell’enorme mole di lavoro teorico sul tema e di battaglia pratica del Partito nel secondo dopoguerra.
Il partito ha sempre salutato con entusiasmo e messo le sue forze a disposizione di ogni gruppo di lavoratori che sia sceso in lotta contro il capitale e il suo regime. Il nostro compito non si limita né si incentra sulla propaganda al fine del reclutamento di partito, quanto su quello di indicare la giusta rotta al movimento difensivo operaio attingendo alla conoscenza delle insidie e pericoli generali che lo minacciano.
Incoraggiamo ogni pur debole segnale di rivolta e non sottomissione al regime del capitale perché lo inscriviamo nel percorso che culmina nella Rivoluzione. Può succedere, come mille volte è successo in passato, che queste forze, minime o maggiori, disertino il terreno di classe cercando rifugio nelle istituzioni borghesi o confluendo nei carrozzoni confederali. Ma ogni volta che si esprimono energie di classe il nostro lavoro deve essere lì per difenderle dai nemici, il che, in fin dei conti, non significherà altro che accompagnarle all’organizzazione e alla lotta generale difensiva e, senza contraddizione, alla presa del potere da parte del partito e al comunismo.
Il Partito è esterno all’azione economica nel senso che detiene una rotta immutata, un programma politico di emancipazione sociale che non cambia o si adatta al variare dei rapporti di forza tra le classi: ieri, oggi e domani ripeteremo sempre: dittatura del proletariato. La lotta economica, che da sola non basta per la rivoluzione, è però una palestra, in cui il proletariato, menando pugni e raccogliendo bastonate, tesse la sua rete di associazioni economiche.
È nel vivo di questa battaglia, sul campo dell’azione sindacale, che il proletariato riconosce tra i tanti, il suo partito. I militanti sindacali comunisti infatti, anche quando si sono disciplinati ad azioni di classe condotte con metodi non coincidenti con i loro, hanno saputo sempre anticipare quale sarebbe stato il giusto atteggiamento per la difesa della classe, raccordando la battaglia difensiva economica con quella più generale dell’emancipazione dalla schiavitù del lavoro salariato. Ecco perché oggi siamo al fianco di quei gruppi di lavoratori che battendo il pugno sul tavolo hanno scelto di combattere il capitale, per quanto partano da posizioni ingenue ed anche pericolose, che possono portare in strade senza ritorno.
Rispetto alla nostra parola d’ordine del Fuori e Contro i sindacati di regime, veniva quindi data la valutazione della attuale galassia di mini sigle sindacali, che sindacati non si possono dire, data spesso l’estrema esiguità dei loro iscritti: semmai sono degli embrioni di sindacato. Alcuni non lo sono, in quanto si propongono non la difesa economica della classe, ma un reclutamento operaio su di un piano politico; altri attendono la prova sul campo di potersi fare punto di riferimento dei lavoratori in lotta; altri hanno già un notevole seguito e non disprezzabili tradizioni.
Questioni in annosa discussione, diversamente impostate e risolte, discriminanti o meno al loro interno sono: la riscossione delle quote per delega, cioè il fornire l’elenco degli iscritti al padrone e allo Stato, i quali, registrato così il numero delle tessere, dovrebbero "riconoscere" l’organizzazione e assicurarle i relativi "diritti sindacali". Altra è se partecipare o meno alle RSU. Altra ancora se sottoscrivere i codici di autoregolamentazione dello sciopero.
Ricordando che il nostro lavoro sindacale abbisogna di due soli presupposti: il carattere di classe del movimento, essere cioè indipendente dal nemico, e la possibilità della sua conquista da parte della direzione comunista, veniva fatto presente come il partito non debba avere esitazioni ad appoggiare e dare il suo indirizzo immediato a qualsiasi pur piccolo gruppo di lavoratori che si ribelli e scenda in combattimento contro il capitale.
Fondamentale è avere chiara la necessaria prospettiva della rinascita sindacale per la difesa incondizionata degli interessi contingenti della classe operaia. Su questa strada, la classe nel suo insieme, quando riprenderà il movimento, con quale velocità non ci è dato oggi conoscere, picchierà la testa contro tutte le illusioni democratiche. Al primo sciopero vietato per legge dovrà fare i conti con i codici di autoregolamentazione, alla prima richiesta di aumenti superiori al tasso di inflazione programmato dovrà fare i conti con le RSU (per parteciparvi bisogna sottoscrivere il patto di Natale)... Da materialisti non ci aspettiamo il contrario: che prima si chiariscano nelle menti dei proletari tutte le insidie e gli errori e poi inizi la lotta è sequenza idealistica, che purtroppo aleggia in quella parte di raggruppamenti che teorizzano l’ibrido del sindacato-partito (Slai-Cobas e altri).
Oggi un movimento operaio che ha smarrito ogni tradizione e ricordo
di metodi ed esperienza di classe, il cui spaventoso rinculo lo porta a
ripartire da posizioni molto ingenue, dovrà materialmente imparare
dall’esperienza della lotta cosa vuol dire tessera per delega, autoregolamentazione,
ecc. Noi sappiamo che sono solo forme di controllo e di corruzione della
classe, corruttele che tendono ad avvelenare a morte questi embrioni di
sindacati. Ma, ove questo non sia ancora compiuto, nostro dovere è
cercare di dimostrare loro, nel corso della lotta e dopo le necessarie
esperienze, che l’azione più efficace è quella condotta secondo
l’indirizzo comunista. Diversamente si ponevano le cose quando il partito
poteva ancora dare la consegna della "Difesa del sindacato rosso": per
la CGIL 1969 la introduzione della tessera per delega era la sanzione ultima,
che rendeva irreversibile il suo processo di inquadramento all’interno
dello Stato borghese; per gli embrioni di sindacato di oggi è un
intralcio che la lotta di classe dovrà superare riscoprendo
il vecchio ottimo sistema di riscossione delle quote mediante una rete
di attivisti, i collettori, prima organizzazione di base e collegamento
continuo tra iscritti e struttura, che assicurava la riservatezza necessaria
a proteggere gli iscritti dalle ritorsioni padronali e statali, ecc.
Come ultimo rapporto ascoltavamo un esposto critico delle attuali invenzioni dell’economia professorale e della sociologia di ex-sindacalisti-di-regime, sempre costrette ad inventar nuovi inganni per assicurarsi dalla classe dominante la razione di lesso. Si prendevano a spunto due dei tanti saggi usciti di recente, che teorizzano, per intercessione di Santa Informatica, il superamento dei rapporti lavorativi tradizionali del capitalismo classico, nonché possibilità utopistiche di un "lavorare meno per lavorare tutti", all’interno ovviamente del modo di produzione fondato sul salario.
Data brevissima lettura di tale esilarante letteratura si dimostrava quanto le fondamentali asserzioni di Marx e di Engels sui rapporti vigenti nella società capitalistica classicissima ed ottocentesca siano tipiche ed invarianti di tutte le fasi del ciclo vitale borghese. Solo la legge del valore scoperta da Marx arriva a spiegare la differenza fra costo di produzione e valore di produzione, tramite il sopralavoro proletario, e sola ha potuto nettamente prevedere tutta l’evoluzione posteriore del capitalismo, fino alle forme estreme e ultra mature attuali. Il proletariato si trova di fronte oggi lo stesso nemico di ieri, purtroppo difeso da sbirri e preti sempre più camuffati.
* * *
Questi rapporti sono stati apprezzati dagli ascoltatori tutti, nella coscienza e nell’esperienza che, da un lato, ciò che viene esposto non va considerato come formulazioni definitive perché non sono altro che il punto di tappa del nostro lavoro che viene da lontano, dall’altro, di coerente approfondimento, che esclude la possibilità e l’utilità di intempestivi commenti "a caldo" o a "botta e risposta" su quanto udito, che invece richiede il suo tempo per assimilazione, elaborazione e riflessione, individuali e collettive di partito.
La riunione, che come sempre impegna tutte le energie dei gruppi,
tanto di chi organizza, quanto du chi ascolta e dei relatori, si concludeva
con unanime soddisfazione (quasi nessuno è ripartito subito ed abbiamo
goduto della compagnia dei compagni napoletani fino alla partenza dei treni).
PAGINA 4
LE OPPOSIZIONI SINDACALI IN PIAZZA
Il 1° maggio a Roma l’insieme delle sigle del sindacalismo di base autonomo dalla CGIL ha chiamato i lavoratori a manifestare per opporsi al sempre più sfacciato tradimento dei sindacati di regime, operante nella direzione della più strenua difesa del Capitale nazionale e delle sue esigenze di competitività e concorrenzialità.
I proletari sono accorsi in buon numero desiderosi di difendere il carattere esclusivamente proletario della giornata del 1° maggio, che un tempo era di lotta e raccolta delle forze operaie, dalla svendita, dalla svalutazione e dallo svuotamento sistematico dei suoi connotati classisti. Tutti gli arnesi "operai" del regime borghese, sindacati e partiti ex-comunisti in testa, da decenni l’avevano trasformata da giornata di lotta in inoffensiva "Festa del Lavoro".
Quest’anno hanno fatto un passo in più, per la prima volta hanno disertato la manifestazione del 1° maggio per collaborare con le parrocchie nel cercar di trascinare i lavoratori sotto la sottana del Papa a prendersi la benedizione del Giubileo insieme a governanti ed industriali. Classe senza partito, il proletariato dovrebbe pensare solo ai mesi e ai giorni; per i secoli si affidi al giubileo dei preti! Alla Chiesa cattolica sarebbe riuscito, insomma, con le buone quello che al fascismo richiese il manganello: una vera e propria adunata di regime, predisposta in campo aperto e presidiata dalla polizia, compreso lo spettacolino rock, gratis, per giovani rincoglioniti. Travestiti da operai solo pochi funzionari sindacali "in orario di lavoro", come i poliziotti: hanno regalato al Papa un casco giallo e un computer (ne aveva bisogno!), simbolo dei lavoratori del braccio e della mente ed aggiornamento della nostra Falce e Martello.
Il corteo della vera manifestazione era invece molto nutrito, aperto da un buon numero di proletari, qualche migliaio, ed esprimeva nel complesso la sana e genuina volontà di porre un freno allo strapotere confederal-padronale. Il Partito è intervenuto coi suoi militanti per un efficiente lavoro di diffusione capillare del volantino e di strillonaggio del giornale.
Nel fetido e terroristico ambiente odierno, il 10 maggio si è tenuta una dignitosa manifestazione proletaria a Milano. I vari organismi di base avevano indetto uno sciopero generale contro il referendum riguardante la questione del licenziamento senza giusta causa e contro lo scippo del TFR. Hanno partecipato solo lavoratori, nella non lamentata assenza dell’intorbidio borghese-sottoproletario dei centri sociali. Le parole d’ordine erano classiste, rivendicavano la difesa delle condizioni di vita della classe operaia, da non sottomettere né alle necessità delle aziende né agli interessi della patria. Il nostro Partito è intervenuto con lo strillonaggio del giornale.
Ma sciopero vero e proprio, in realtà, non è stato, in quanto ha aderito una ristretta minoranza: forse organizzare una manifestazione, piuttosto che indire uno sciopero, sarebbe stato più rispondente alla dimensione delle forze in campo. Lo sciopero ultraminoritario che si prefigge la pura azione di testimonianza, adotta lo strumento non molto efficace del martirio come denuncia morale. Adottarlo significa non aver compreso che lo sciopero può essere solo un’arma collettiva di lotta e combattimento, che minaccia il padrone non tanto per il danno economico che gli produce quanto per il semplice fatto che gli operai, già divisi, sono riusciti a muoversi tutti insieme. Che un piccolo drappello di operai un tal giorno si separi dagli altri per farsi il suo sciopero, tranne casi eccezionali, risulta controproducente.
Oggi il rinculo del movimento operaio è pesante ed è
evidente che così permanendo i rapporti di forza i lavoratori non
potranno che ingoiare bocconi sempre più amari e vedere la loro
condizione economica peggiorare sempre più. Per uscire da questo
pantano dovranno necessariamente condurre le loro lotte non in modo frammentario
e disorganizzato, come purtroppo oggi è la regola, totalmente abbandonati
a se stessi dopo che l’opportunismo ne ha smantellato la coscienza collettiva
di classe. Dovranno addivenire ad una lotta organizzata, in modo che le
singole energie, unendosi e agendo coordinate, consentano di spostare quei
rapporti di forza oggi così avversi.
MACCHINISTI IN SCIOPERO NON
REGOLAMENTATO
IN SPAGNA
La non disponibilità dei sindacati ufficiali a minimamente difendere qualsiasi rivendicazione operaia, ha portato alcune categorie con una funzione importante nella produzione e nei trasporti a creare loro sindacati che, almeno negli intenti, cercano di ottenere quello che gli ancora sedicenti in Spagna "sindacati di classe" più non vogliono. Questo è successo sia con i piloti dell’aviazione civile sia con i macchinisti e aiuto macchinisti della RENFE, le ferrovie spagnole.
Da mesi i sindacati ferroviari fedeli al regime borghese, Commissioni Operaie (cosiddette!) e Unione Generale del Lavoro, avevano chiuso in una via senza uscita i lavoratori della RENFE. Questi, stanchi delle pantomime degli scioperi legali e civili, con dei sevizi "minimi" che arrivano all’80% e più nell’ora di punta, li disertavano sempre più, decisi a farla finita con la farsa di un accordo fatto a misura degli interessi dell’impresa, accordo per altro accettato dai sedicenti "sindacati di classe" CCOO-UGT. È da segnalare che il rifiuto delle imposizioni dei bonzi confederali ha portato alla espulsione di una parte della sezione sindacale CCOO nella RENFE. Macchinisti ed aiuti, riuniti nel sindacato SEMAF, hanno denunciato l’ennesimo tradimento di CCOO-UGT e deciso di proseguire la lotta da soli, senza far affidamento sul resto del personale.
Molte delle rivendicazioni avanzate da tempo dai macchinisti erano state sdegnosamente ignorate da CCOO-UGT, maggioritari nel Comitato Intersindacale della RENFE. È stato il sindacato di categoria SEMAF che ha raccolto queste rivendicazioni contando sulla mobilitazione quasi totale dei macchinisti. Fra queste rivendicazioni era la parificazione degli aiuti ai macchinisti, giacché eseguono praticamente lo stesso lavoro, dotare di migliori attrezzature i luoghi di pernotto, aumento delle indennità per le lunghe percorrenze e per le notti, mantenimento dei macchinisti nei luoghi di origine e adeguamento dei salari al costo della vita.
Vista l’inefficacia dei precedenti scioperi "civili", resi del tutto inefficaci dai servizi minimi, i macchinisti decidevano di non assicurarli più, per cui lo sciopero, a partire dal giorno 23 marzo, diveniva "illegale", contravvenendo agli sbarramenti imposti dalla "legge antisciopero" che il governo borghese del PSOE aveva concordato con CCOO-UGT.
I giorni 23, 24 e 25 marzo è il caos della circolazione, soprattutto a Madrid non circolando i treni metropolitani che uniscono le periferie al centro. La tattica impiegata dai macchinisti per eludere i servizi minimi ai quali erano designati è quella di chiedere la dispensa per malattia, atteggiamento di difesa formale individuale che dà la misura, nonostante tutto, della debolezza attuale delle lotte operaie.
Questo però manda all’aria le previsioni dell’impresa, che contava di assicurare i servizi minimi come era sempre successo con le pantomime di CCOO-UGT. Il nervosismo della direzione e dei portavoce del mondo borghese inizia a manifestarsi nel modo abituale: minacce di sanzioni e licenziamenti, attacchi velenosi sui mezzi di comunicazione, con convegni radiofonici nei quali gli scioperanti sono insultati da signorini che in vita loro mai si sono levati in tempo per prendere un treno metropolitano nell’ora di punta, e che tacciono davanti alle condizioni da nave negriera nelle quali sovente viaggiano gli "utenti".
Grande successo ha la prova di forza dei macchinisti: la stampa calcola in circa 600.000 le persone che devono fare i conti con lo sciopero dei giorni 23, 24 e 25 poiché circolano pochissimi treni. Se abitualmente nella stazione di Chamartìn, una delle principali di Madrid, partono 600 treni, quel giorno ne sono circolati solo 10 in tutto fra lunga percorrenza e metropolitani. Per bloccare quei treni i cui macchinisti rispettano i servizi minimi, entrano in azione nutriti picchetti di macchinisti che nella maggioranza dei casi convincono i compagni ad abbandonare il servizio. L’impresa, per cercare di contrastare l’effetto dei picchetti, ha usato ad un certo momento la seguente arguzia: fa partire treni vuoti, che i picchetti non fermano, per far salire i passeggeri in una stazione più avanti dove sono stati trasferiti con gli autobus. Questo è successo con due treni, uno per Granada ed uno per Parigi.
Un’altra tattica impiegata dall’impresa è stata quella di "sorprendere" un macchinista mentre "sabotava" un locomotore allo scopo di mostrarlo come capro espiatorio e trattenerlo come ostaggio. Di fronte alla minaccia di far passare gli scioperanti da criminali, chiaro avvertimento a tutta le classe operaia per fatti futuri, i macchinisti posero come condizione di qualsivoglia negoziato la cancellazione delle sanzioni contro quello e qualunque lavoratore, annunciando che avrebbero altrimenti esasperato le loro azioni arrivando al collasso totale. La fermezza degli scioperanti ha fatto sì che, almeno al momento, il linguaggio dell’impresa si ammorbidisca.
La fermezza dei macchinisti è contestata da CCOO "della" RENFE, che accusa il SEMAF e gli scioperanti di pretendere di negoziare delle migliorie «delle quali beneficiano solo i macchinisti, nello stile del SEPLA (sindacato dei piloti): non possiamo tollerarlo», come dichiara un gran bonzo il 24 marzo. È evidente che non lo tollerano, essi che si dedicano a non far ottenere miglioramenti per alcuno, salvo per se stessi e per le imprese.
L’inizio di una soluzione del conflitto arriva il giorno 27 con un primo accordo nel quale l’impresa accetta la parificazione fra macchinisti ed aiuti, il miglioramento di locali e dormitori e il pagamento di una indennità ai conduttori che già esercitano il lavoro come agente unico, senza aiuto macchinista. Con l’agente unico, folle barbarie che solo il capitalismo può desiderare di imporre, l’impresa rimpinguerà i suoi profitti, nonostante sia certo e calcolato che si ripercuoterà tragicamente sulla sicurezza dell’esercizio.
È stato questo dei macchinisti in Spagna uno sciopero con grande ripercussione sia perché si tratta del settore chiave del trasporto pubblico, sia per il suo significato per la classe proletaria nel suo insieme. Nonostante si sia limitato ad uno sciopero di categoria e non di tutto il personale, il fatto di non sottostare ai servizi minimi e l’organizzazione dei picchetti suppone un salto qualitativo importante sul fronte del contrasto allo sporco ruolo traditore dei sindacati del regime.
Molto cammino resta però da fare, molti colpi ancora da ricevere e molti tradimenti da soffrire perché si torni a situazioni di mobilitazione di classe come quella degli scioperi delle tranvie dei quali abbiamo sentito parlare i nostri nonni, che gli stessi operai-viaggiatori appoggiavano gettando pietre contro i tram condotti dai crumiri e dai soldati. Oggi non è così: in molte stazioni della regione di Madrid erano gli stessi proletari che si davano a contrastare i macchinisti accusati dei loro "privilegi", di impedire agli altri di arrivare sui posti di lavoro e di far loro avere salari ridotti. In realtà è oggi più facile affrontare un lavoratore in sciopero che il padrone, e questo non è altro che il riflesso della mancanza di organizzazione e di solidarietà nella classe operaia.
Di questi tempi fra una esplosione e l’altra di combattività
si interpone un abisso che dovrà chiudersi prima o poi perché
la classe operaia mondiale riprenda l’unico cammino possibile: quello della
lotta di classe e del comunismo.
ILVA DI GENOVA
LICENZIAMENTI O QUESTIONE AMBIENTALE?
Martedì 6 giugno presso lo stabilimento ILVA di Genova si è verificata una mezza sommossa. Un migliaio di lavoratori dell’acciaieria sono usciti dall’assemblea, hanno formato un corteo che, attraversato il quartiere, si è diretto verso la palazzina che ospitava l’incontro al vertice tra istituzioni e proprietà del gruppo sulle sorti delle lavorazioni a caldo. Sfondato i proletari il debole cordone di poliziotti, una non troppo buona mira lanciava uno scarpone rinforzato all’indirizzo del Presidente regionale, colpendo il poliziotto al suo lato.
Il 29 di luglio dovrebbe essere l’ultimo giorno per l’altoforno. Negli accordi precedentemente stipulati la chiusura era subordinata al rinnovo della concessione demaniale sull’area occupata dall’industria, alla autorizzazione per l’impianto di un forno elettrico, alla garanzia della piena occupazione attraverso svariate forme, tra cui l’odiosa elemosina dei lavori socialmente utili.
Da anni con la scusa dell’elevato inquinamento viene sbandierato il rischio di chiusura dell’altoforno e il conseguente licenziamento degli addetti.
La siderurgia a Genova negli ultimi vent’anni ha subito un drastico ridimensionamento. Sopravvive un altoforno e alcuni reparti di laminazione e trattamenti vari. L’area in cui sorge lo stabilimento, affacciata sul mare, con banchine attrezzate per lo scarico delle materie prime, è molto grande circa cento ettari. La proprietà è demaniale, il possesso, in concessione, al gruppo ILVA.
Le case costruite al ridosso dello stabilimento erano di proprietà del gruppo che le dava in locazione alle famiglie degli operai ad un prezzo bassissimo; alcuni anni orsono sono state cedute ad una società immobiliare.
Per la borghesia la questione è duplice. Da una parte come riversare sulla testa dei lavoratori i costi della crisi dell’acciaio, della feroce concorrenza straniera e come aumentarne lo sfruttamento: nuove tecniche, aumento della produttività, operai a casa. Dall’altra come un branco di sciacalli affamati si scornano per mettere le mani su uno dei pochi lembi di terra pianeggianti in riva al mare.
Per i proletari invece la questione è una sola: difendere il salario.
Riva, proprietario del gruppo ILVA, è come la CGIL: difende i lavoratori in quanto questi difendono l’azienda. La CGIL è come Riva: difende l’azienda e quindi i suoi lavoratori. Ma difesa dell’azienda e difesa degli interessi di classe sono INCOMPATIBILI. Questa strada se nell’immediato porta qualche misera regalia, distrugge la prospettiva e l’autonomia della classe.
Difendere il salario, rivendicare il salario pieno per i futuri disoccupati significa imporre la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Il movimento operaio ha vinto e si è rafforzato solo quando ingaggia battaglie che rompano le barriere aziendali per affratellare tutti i lavoratori, scendere a compromessi non è vergognoso, è dato dai rapporti di forza. Ma una cosa è il compromesso tra ladri che si spartiscono il bottino un’altra è il compromesso a cui il derubato avviene quando il bandito intima o la borsa o la vita.
Difendere l’acciaio a Cornigliano è sbagliato, lo facciano i padroni. La redditività di un’azienda ai lavoratori non interessa. Intrapresa questa strada il padrone dimostrerà cento e ancora cento volte che per il bene dell’azienda sono necessari bassi salari e licenziamenti.
Da anni, con la scusa dell’elevato inquinamento, viene sbandierato il rischio di chiusura dell’altoforno e il conseguente licenziamento degli addetti. Ma se la questione ambientale fosse tale da non permettere più la produzione, la cosa riguarda solo Riva e soci in quanto una parte dei profitti dovranno essere stornati a dotare l’impianto delle necessarie attrezzature per lo smaltimento degli scarichi nocivi.
Questa ennesima vertenza nel chiuso delle barriere aziendali dimostra ancora una volta quanto puzzi il cadavere targato CGIL, di fronte alle esigenze della borghesia, da buoni notai altro non fanno che accodare gli operai al carro di chi getta più briciole. Negando ancora una volta la solidarietà di tutto il movimento operaio ai compagni in lotta.
Il terrorismo continuo sui rischi ambientali e sulla possibile chiusura dello stabilimento sono recitate ad arte da tutti gli arnesi del regime. Il risultato che la borghesia si prefigge è uno solo: negare alla classe operaia una sua prospettiva autonoma, se non è l’azienda da difendere, sono i canarini del quartiere, parlare di salario e basta è pericoloso. Ne uscirebbe fuori l’unica voce capace di impostare tutte le questioni secondo un ottica non mercantile e non basata sul profitto.
La questione ambientale il proletariato la risolve nella sua maniera,
oggi lottando per condizioni di vita e lavoro le più sane possibili,
domani distruggendo l’intero modo di produzione borghese.
UNO SCIOPERO
NEL PARADISO DELLA "PACE
DEL LAVORO"
Da settimane si trascinavano inutilmente le trattative salariali alla Lavanderia Aare a Rheinfelden nel cantone Aargau finché i dipendenti arrivarono a denunciare pubblicamente i loro salari di fame. Quando, dopo pochi giorni la direzione, arriva a licenziare senza preavviso un delegato sindacale, i lavoratori � fatto scandaloso in Svizzera � decidono di riappropriarsi della loro unica arma di proletari, lo sciopero! Inizia al turno delle 4 di giovedì 4 maggio con la partecipazione di almeno la metà dei dipendenti. Subito il giorno dopo l’esecutivo del cantone incarica il presidente dell’Ufficio Arbitrale � quello che per la legge svizzera dovrebbe evitare la lotta di classe � di una mediazione fra le due parti, che viene però condizionata alla riassunzione del licenziato. Si muove anche il sindacato per riprendere il controllo del conflitto, avanza anch’esso la richiesta di riassunzione e la ripresa delle trattative salariali. La Lavanderia accetta subito tutte le richieste e si riprende quindi a lavorare.
Il sindacato dopo questa dimostrazione di forza da parte dei dipendenti si dice sicuro di riuscire a fare passare alle prossime trattative salariali la sua richiesta di un salario minimo di 3.000 Franchi Svizzeri.