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PAGINA 1
LO STATO‑GHETTO PALESTINESE SARÁ CONTRO IL PROLETARIATO DI PALESTINA
Trent’anni fa, nel settembre 1970, le formazioni fedayn armate dei rifugiati palestinesi nei campi profughi della Giordania venivano attaccate dalle forze corazzate dell’esercito giordano, nell’indifferenza o con l’approvazione esplicita degli Stati arabi. Nel giugno il presidente egiziano Nasser e Re Hussein di Giordania avevano accettato il cosiddetto piano Rogers, proposto dagli Stati Uniti, che si basava sulla risoluzione 242 dell’ONU. Re Hussein, forte dell’appoggio statunitense e dei paesi arabi "moderati", decise di passare all’offensiva contro il pericoloso armarsi dei diseredati palestinesi che, cacciati dalla Palestina, si erano rifugiati in Giordania. Quella eccessiva presenza armata veniva a minacciare sia la reazionaria monarchia del piccolo e poco popolato paese, sia il fragile equilibrio della regione.
Dopo una serie di scontri limitati, nel settembre l’esercito giordano sferrò una massiccia offensiva contro i campi profughi, con l’intervento delle forze corazzate, dell’artiglieria, dell’aviazione. I morti si contarono a migliaia. I combattenti palestinesi, sconfitti e inseguiti dall’esercito, furono costretti a rifugiarsi in Libano. Decine di migliaia di profughi li seguiranno nei mesi successivi. Questi tragici avvenimenti sono passati alla storia col nome di "Settembre Nero".
Rileviamo la coincidenza significativa che, a trent’anni di distanza, in questo settembre 2000, il giorno 13, l’effimero governo dell’Entità palestinese avrebbe per l’ennesima volta "deciso" di proclamare la fondazione dello Stato.
La minaccia di questo "atto unilaterale", in verità molto tardivo, dietro l’apparenza nazionalistica nasconde un nuovo passo in avanti nell’alleanza sempre più stretta tra la borghesia palestinese e la borghesia israeliana nel tentativo di mantenere l’ordine in una situazione sociale che diventa ogni giorno più pericolosa per il regionale regime del Capitale.
A cosa può servire infatti la proclamazione dello Stato, uno Stato senza confini, senza capitali, senza esercito, con città e paesi privi di continuità territoriale fra loro e circondati da forze nemiche? Servirebbe probabilmente solo ad aumentare le prebende che la "comunità internazionale" distribuisce ad Arafat e alla sua debosciata corte, ai suoi sbirri feroci, alle Chiese, ai sindacalisti collaborazionisti. Servirebbe allo Stato d’Israele per considerare quello attuale lo status quo definitivo, appropriandosi di buona parte della Cisgiordania e persino della striscia di Gaza, dove la popolazione palestinese è così compressa da soffrire la più alta concentrazione mondiale di abitanti. Certamente servirebbe a spengere definitivamente la speranza nel ritorno alle centinaia di migliaia di disgraziati ancora tenuti prigionieri nei campi di concentramento sparsi per tutto il Medio Oriente.
D’altra parte la continuazione "ad oltranza" del negoziato con Israele non apre prospettive differenti. Da quel settembre 1993 quando Israele e Organizzazione per la Liberazione della Palestina si riconobbero mutuamente, firmando il 13 di quel mese la dichiarazioni di principi per l’ "autogoverno palestinese", i proletari di quella regione hanno subìto un peggioramento continuo delle loro condizioni. In Israele la manodopera araba è stata progressivamente sostituita con ebrei provenienti dalla Russia e da altri paesi meno sviluppati, facendo aumentare la disoccupazione nei territori occupati. Si è parallelamente rafforzato il dispositivo poliziesco israelo-palestinese che, indirizzato ufficialmente contro i nemici del "processo di pace", serve a contrastare e reprimere per le spicce ogni opposizione al governo di Arafat, pedina della diplomazia internazionale e che rappresenta gli interessi della borghesia ricca palestinese.
Il proseguimento delle trattative non offre dunque possibilità di grandi risultati. La tanto strombazzata "questione di Gerusalemme", posta al centro della trattativa da politici e preti di ogni colore, se ha certamente un valore simbolico in quella terra di acuti contrasti, sembra però rappresentare poca cosa se confrontata alle altre questioni che si impongono. Lo Stato israeliano non tornerà ai confini del 1967 finché godrà della protezione degli Stati Uniti e dunque i palestinesi, lo vogliano o non lo vogliano, dovranno contentarsi di sopravvivere nei "bantustan" offerti loro dalla generosa comunità internazionale, che provvederà anche, se va bene, a garantire un magro piatto di minestra. Né sarà possibile, se non in minima misura, che i profughi ritornino nelle terre da cui sono stati cacciati. Qualsiasi accordo di pace, in questa situazione, non cambierà nulla per il proletariato e per i diseredati di Palestina che portano sulla schiena il peso di due padroni.
Lo statunitense gendarme mondiale punta in quella regione sulla alleanza con la Turchia e con Israele per contrastare l’influenza di Europa e Russia ed in questo quadro le sorti di pochi milioni di diseredati quali sono i palestinesi o i curdi delle zone interne della Turchia, contano ben poco.
Dobbiamo dunque ripetere che non vi è soluzione alla tragedia palestinese nell’attuale situazione, a livello internazionale, di quasi completo assoggettamento della classe lavoratrice alle esigenze e alla politica del capitale.
Dovrà essere il proletario e il proletario-soldato d’Israele
a ribellarsi alle angherie che il borghese israeliano commette ai danni
del proletario israeliano, del soldato israeliano e del proletario e semi-proletario
palestinese; dovrà essere il proletario libanese, vedendo peggiorare
le sue condizioni, ad esprimere la sua solidarietà ai diseredati
palestinesi dei campi profughi; dovrà essere il proletario palestinese
a liberarsi dall’oppio del nazionalismo e della religione che lo lega al
carro della propria borghesia. Questo non avverrà per graduale presa
di coscienza, ma solo con la ripresa generalizzata della lotta di classe
nei paesi industrializzati, con la rinascita a livello internazionale della
prospettiva rivoluzionaria comunista, con l’imporsi sulla forza oggi incontrastata
del regime del capitale di una nuova più possente forza, quella
del proletariato rivoluzionario guidato dal suo partito.
VERSO UN NUOVO GIGANTE IN ASIA
LA COREA RIUNIFICATA
È di questi giorni lo storico incontro a Pyeongyang tra i presidenti delle due Coree, Kim Jong-il del nord e Kim Dae-iung del sud. L’armistizio di Panmunjon, del luglio 1953, tracciava la divisione del paese lungo il 38° parallelo, da allora nessun incontro ufficiale tra i due Stati. Oggi, dietro diplomatici ordini del giorno, quali la riconciliazione delle famiglie separate dalla guerra, la coesistenza pacifica, etc. etc. ben più importanti determinazioni spingono le due borghesie al dialogo.
L’economia capitalistica del nord, stile sovietico, ha subìto una crisi profonda, dovuta anche al crollo dell’U.R.S.S. ed al suo isolamento politico. In aggiunta si trova a fronteggiare in questi ultimi anni una grave carestia. Nonostante l’informazione sia nulla (ma com’è, con i satelliti del Grande Fratello che, dicono, ti leggano financo i numeri della targa?) abbiamo letto di scioperi e manifestazioni della popolazione ormai ridotta alla fame. La borghesia "nordista" vede sfuggirsi di mano la situazione. Il paese però è ricco di materie prime, era già il più industrializzato nel ’53 e non dev’essere economicamente tanto da buttar via, infatti si è avvicinato all’arma nucleare ed ha sperimentato missili balistici. Il giovane capitalismo del sud, stile occidentale, dopo la pesante crisi dello scorso anno, oggi viaggia nuovamente a ritmi sostenuti, ma sa perfettamente che deve espandere la sua area di influenza per non ricadere velocemente nella inevitabile crisi. Non a caso, oltre ai vari ministri e lacchè, al seguito del presidente "sudista" vi erano i presidenti delle aziende più importanti (Hyundai Samsung, Daewoo, etc.).
Per le separate borghesie coreane l’interesse per un’eventuale riunificazione è notevole: da un lato rafforzarsi a livello economico e dall’altro diventare un paese di forza confrontabile a quella dei maggiori imperialismi. Il paese unito sarebbe formato da circa 70 milioni di abitanti (45 del sud, 25 del nord), un mercato sicuramente "interessante", e dal secondo esercito al mondo per numero di militari allenati da una guerra non ancora conclusa: il nord metterebbe a disposizione l’industria militare pesante mentre il sud l’aviazione, più sviluppata rispetto ai colleghi "nordisti".
Anche per il proletariato l’abbattimento dell’innaturale confine imposto dagli imperialismi sarebbe un fatto progressivo e, non più diviso, porterebbe unito la sua lotta contro l’unificata bandiera nemica, intanto nazionale, del capitale. Ai proletari del nord sarà certo in un primo momento data l’illusione che in un mercato libero le loro condizioni di vita migliorerebbero, e questo potrebbe essere vero, ma in contropartita aumenterà notevolmente lo sfruttamento. Ai proletari del sud l’unificazione sarà fatta pagare con una progressiva diminuzione dei loro salari, maggiori di molto a quello del nord, col ricatto dello spostamento delle aziende nelle zone dove la mano d’opera è meno costosa. A questo piano della borghesia il proletariato di Corea potrà rispondere mobilitandosi unitariamente, sfruttando l’esperienza che i lavoratori, soprattutto del sud, hanno accumulato in decenni di dure lotte contro il regime, dando così un esempio per i fratelli dell’intero sud-est asiatico.
A livello internazionale il summit ha suscitato notevole interesse, soprattutto in USA, Russia, Giappone e Cina, le potenze che nell’area hanno più influenza e si preparano al risiko di un nuovo macello mondiale. L’unificazione del paese è in realtà, ed è percepita come il reale riscatto nazionale dal giogo dell’imperialismo, premessa per pretendere dagli americani che sollevino, almeno in parte, la pesante cappa di occupazione militare. Gli Stati Uniti, che dal 1953 tengono 37 mila uomini sul 38° parallelo, da ottimi avvoltoi quali sono, immediatamente il giorno dopo il vertice hanno annunciato che doneranno alla Corea del nord 50 mila tonnellate di grano e che revocheranno le sanzioni per permetterle di esportare negli USA materie prime e merci e riapriranno le vie aeree e marittime. Tutto questo nell’intento di mantenere l’influenza nell’area e magari aumentarla impiantando qualche base militare a ridosso del confine cinese.
La Russia dal canto suo, per non perdere terreno e con le stesse velleità americane, manderà d’urgenza il "prode" Vladimir Putin a Pyeongyang per capire come e da che parte schierarsi. La Cina già chiede che i soldati americani lungo il 38° parallelo vengano rispediti a casa.
I proletari sappiano che qualsiasi imperialismo prevalga, se non
vorranno fronteggiarsi per la sola difesa degli interessi del capitale,
dovranno combattere uniti sia per la difesa dei loro interessi immediati
di classe sia per la liberazione della umanità futura.Imbalsamatori
LA CRISI CAPITALISTA RUSSA E L’INCIDENTE DEL KURSK
Nel mese di agosto il sottomarino nucleare Kursk della flotta russa si inabissava. Ne approfittiamo per alcune considerazioni e non per accodarci all’onda dell’evento mediatico atto a riempire il beota trascorrere delle vacanze.
Incidenti del genere, frequenti e con tragici effetti, sono dettati dagli egoismi economici e militari degli imperialismi. Simili giganteschi e costosissimi apparati distruttivi sono finanziati col sacrificio dell’umanità lavoratrice, cui si impedisce di vivere tranquillamente sul globo terreste, e contro essa classe operaia di fatto sono puntati, come proletari sono per lo più i disgraziati costretti a guidarli.
Per la difesa del Capitale, in tutti i sensi, gli eserciti sono tenuti in costante allenamento, sviluppano nuove micidiali tecniche di combattimento, nuove armi, nuove organizzazioni. Inoltre, quello che in realtà è uno sciupio enorme di risorse umane, per il Capitale è un fondamentale redditizio investimento.
Quando possibile gli incidenti di questo tipo sono mantenuti segreti o sminuiti nelle dimensioni: anche in questo caso dapprima si è parlato di collisione, poi di un guasto ed infine è corsa voce di una esercitazione con nuovi missili andati fuori segno. Contro il sottomarino, di costruzione recentissima, pare si siano scaricate alcune nuove armi che dovevano essere messe alla prova.
Il perché del ritardo nell’annunciare l’affondamento e nel chiedere il "soccorso internazionale" è presto detto: lo smacco per il prestigio nazionale russo non è da poco, e la "pubblicità" per l’industria militare è negativa dimostrando come anche la tecnica di quel settore risenta del lungo periodo di crisi. Del resto tutti sanno che le ipocrite profusioni di "assistenza umanitaria" degli altri imperialismi non sono mosse da pietà per i disgraziati prigionieri sul fondo, ma ad altro non mirano che ai segreti militari nascosti nel relitto.
Gli scribacchini borghesi continuano la litania di una Russia ancora ingabbiata nei vecchi schemi sovietici, dove la ragion di Stato e la boria "socialista" nulla concederebbero alla cosiddetta "dignità umana". Il che serve a prolungare all’infinito il gioco di specchi di un Russia "socialista". La realtà è solo che i più forti e assestati imperialismi, con marinerie secolari, i loro incidenti riescono a nasconderli e i segreti militari a mantenerli tali! Le loro spie riescono per altro a sapere degli incidenti degli altri e a farne gran clamore.
Quello che era il gigante militare russo, sebbene mai il primo, riesce oggi a sopravvivere a mala pena e la sua grande organizzazione come scaturì dalla seconda guerra mondiale è oggi l’ombra di se stessa. Né sembra risolta la crisi economica che ha percosso violentemente l’URSS più di dieci anni orsono tanto da costringerla a dichiarare il proprio fallimento imperiale. Per continuare il solito tradimento antiproletario e anticomunista si addebitò la crisi al "socialismo", mancando ancora una volta la confessione di capitalismo. Anche il Giappone è in crisi da più di dieci anni: forse era anch’esso socialista?
La crisi che ha investito l’URSS ha avuto un’ampiezza spaventosa, la produzione industriale si è contratta di oltre il 50 %, superiore come intensità a quella della depressione del ’29 americano. Nonostante negli ultimi anni gli istituti di statistica forniscano cifre con incrementi positivi, il grande malato russo resta in degenza. E la situazione in cui versa l’esercito ne è lo specchio. L’apparato manca di investimenti, scarso il timore e rispetto che riesce ad imporre sulla popolazione, la renitenza alla leva è fenomeno diffuso. In Cecenia, contro una popolazione seminomade, ha subito sonore sberle e l’appoggio popolare gli è mancato, come dimostrano le proteste delle madri dei coscritti. Il fardello ereditato dal crollo dell’impero è un macigno che ostacola il tentativo di riorganizzazione statale, sebbene al tracollo economico non sia seguito il totale dissolvimento militare e politico. Il gigante è per il momento ripiegato su sé stesso e le prospettive di rinascita non paiono vicine.
Azzerare il vecchio apparato militare non è da farsi poiché rappresenta un punto di appoggio per il traballante sistema politico e nello stesso tempo serve a tenere a freno i piccoli ma riottosi vicini, foraggiati dai nemici di sempre. L’apparato militare ha inoltre mille intrecci con le varie branche dell’economia ed è un volano che ha la sua inerzia. Carri armati ed aerei vengono venduti a paesi terzi, voce importante dell’export, con 4 miliardi di dollari, subito dopo le materie prime.
La classe proletaria, sulla cui schiena grava il peso della crisi, è il gigante che dorme e la borghesia russa sembra timorosa di attaccarla frontalmente con una roboante retorica nazionalista di sostegno alla sua politica imperiale. Anche il mondo contadino, rinchiuso nei suoi arretratissimi giri non ancora pienamente capitalistici, conduce una lotta sorda e disperata per respingere l’introduzione dell’azienda agraria capitalistica. Il colcosiano difende il suo misero appezzamento sufficiente alla sua sopravvivenza ma troppo poco redditizio per l’accumulazione capitalistica.
Le roboanti retoriche del tribuno di turno nulla smuovono. Ad aggiustare il traballante ex impero serve una decisa ripresa economica, ma questa, a livello mondiale, non sembra tale da trascinare nel gorgo infernale dell’accumulazione i lunghi degenti Russia e Giappone. Le prospettive di un riarmo in vista di un nuovo conflitto mondiale ad oggi non sembrano vicinissime; passi in questa direzione, a livello mondiale, ve ne sono, ma il capitalismo mondiale non sembra sentire ancora la necessità di un nuovo macello per ridarsi giovinezza.
La nera morte in quelle gelide acque dei poveri marinai è
un altro delitto contro la nostra classe. Non ripiegheremo però
a chiedere alle borghesie che rendano i loro eserciti "civili", protetti
da catastrofi e "incidenti". L’esercito è uno dei pilastri della
conservazione borghese e nel nostro programma è scritto che anche
noi ne attrezzeremo uno nostro, per la difesa della Rivoluzione, della
dittatura proletaria, volto verso l’eliminazione di tutte le classi e dello
stesso Stato proletario, esercito compreso.
Nostro volantino ai lavoratori dell’ILVA di
Genova
O DIFESA DELL’AZIENDA O DIFESA DEGLI OPERAI
Il gran maneggìo intorno alla chiusura dell’altoforno a Cornigliano continua. Riunioni, ultimatum, comunicati, una girandola in cui si stipulano accordi pubblici e privati, si proclamano schieramenti, tutto in nome del benessere pubblico, della città, della salvaguardia dei lavoratori.
Occorre fare un po’ di chiarezza.
Intanto ci sono i lavoratori. Nello stabilimento lavorano più di 3.000 addetti. Una parte con contratto diretto con l’ILVA, un’altra attraverso l’infame sistema dell’appalto: cooperativa "di servizi" o impresa che sia, lavora all’interno dello stabilimento e concorre direttamente alla produzione, ma gestisce "in proprio" la maestranza, con l’unico scopo di dividere i lavoratori, aumentarne lo sfruttamento, rosicchiare altre fette di plusvalore.
Ma anche fra gli operai ILVA ormai esiste la divisione tra vecchie leve e nuove, negli ultimi anni assunte con contratti capestro, con salari e norme svantaggiose.
Dall’altra parte abbiamo i pescicani borghesi tutti, con i loro servi e utili idioti.
La proprietà dell’impianto, situato su di un area in concessione demaniale, vorrebbe chiudere l’unico altoforno, poco remunerativo perché l’acciaio grezzo della concorrenza estera è a prezzi stracciati, ma, nello stesso tempo, mantenere il possesso dell’area: a Genova ogni metro quadro strappato alla montagna o al mare vale oro ed è un’ottima merce di scambio. Oggi il padrone Riva versa calde lacrime per la sorte dei "suoi" lavoratori e reclama il forno elettrico, ma non è da escludere che la richiesta sia solo strumentale per una ricca buonuscita. Altri borghesi infatti hanno messo gli occhi sull’area e parlano di "rilancio della città" e castronerie solo per mascherare nuovi finanziamenti pubblici per la gioia del Capitale. Le galline dei Comitati fanno un utile starnazzio nello scontro tra briganti.
Lo stuolo dei servi vede nelle prime file gli enti pubblici e i sindacati. La giunta regionale (del Polo) sostiene chi vorrebbe strappare una fetta a Riva e soci, la provincia e il comune (di centro-sinistra) sono partigiani di Riva. Il sindacato di regime FIOM CGIL, che fa la sua parte, difende anch’esso gli interessi di Riva, ma a suo dire sta dalla parte degli operai nascondendo dietro questa "unità dialettica tra opposti" il suo ruolo anti-proletario di fedele servitore degli interessi borghesi.
La difesa degli interessi operai su base aziendale è una bestemmia in seno al movimento operaio, portatrice di bastonate colossali. La tecnica è la seguente: quando monta la tensione all’interno di un’azienda che si dichiara in crisi si costruisce subito un cordone sanitario, rivendicando la "specificità" della questione quando invece 999 volte su 1.000 la questione è la stessa di tutta la classe: salario, orario di lavoro, licenziamenti. Viene additato come nemico solo il singolo padrone e in quanto non è capace a fare il padrone per non dire che il nemico è il Capitale e che solo l’unione di tutti i lavoratori può contenerne l’ingordigia.
L’azienda è uno dei capisaldi del capitalismo e dove esso meglio si difende. Non può essere né "riformata" né "conquistata". Il proletariato può combattere validamente solo unendosi su base territoriale e non aziendale. Se ci si riduce infatti nella dimensione aziendale l’unico metro di giudizio resta la produzione di plusvalore estorto ai lavoratori: anche il più onesto dei lavoratori posto ai vertici di una azienda non può che fare gli interessi dell’azienda stessa cercando di aumentare il saggio di profitto. Il più disonesto dei sindacalisti direbbe che invece è possibile coniugare capitale e lavoro, perché se l’azienda va bene anche il lavoratore ne riceve i benefici: quindi viva la concorrenza, si rinchiudano i lavoratori all’interno delle singole fabbriche, siano solidali con i propri padroni e cerchino di affossare le fabbriche concorrenti.
Alle maestranze prigioniere della fabbrica sindacalisti e padroni offrono la truffa dei "contratti di solidarietà", ossia di ripartire "equamente" i costi della crisi, ma solo sui lavoratori. Oppure la corruzione del prepensionamento, scaricando sulle casse INPS, e quindi su tutto il proletariato, i costi della crisi. Ultima spiaggia è il mito dei cosiddetti Lavori Socialmente Utili. Comunque i problemi del padrone vengono scaricati, direttamente o indirettamente, sugli operai. Invece non esiste e mai sarà possibile una reale convergenza di interessi tra padrone e lavoratori. Oggi Riva piange sulla sorte dei "suoi" operai, ma non esiterà un momento a liquidarli tutti quando il suo tornaconto lo richiederà.
La vera solidarietà, non di un giorno ma di sempre, il vero sostegno è quello di tutto il movimento operaio. Ma per averlo sono da rompere le gabbie aziendali. E occorre sbarazzarsi dei sindacati di regime sempre pronti a recitare la parte, ma attrezzatissimi nel negare la solidarietà tra tutti i lavoratori. A Genova ben si guardano dal collegare la lotta all’ILVA con i lavoratori del porto, dove è in atto il tentativo di aumentare la flessibilità introducendo il contratto dei portuali anche per le lavorazioni meccaniche; ben si guardano dal collegarsi con gli autisti AMT costretti a turni sempre più massacranti, con neo assunti a contratto a tempo determinato. Non si collegano ai lavoratori della Vernazza, dove su sessanta assunti la maggioranza è a tempo determinato e non vengono pagati trasferte e straordinari, e nemmeno ai lavoratori della Simpro rimasti senza stipendio, con arretrati e liquidazioni da prendere.
Il sindacato è di regime perché solidamente inquadrato nelle strutture statali, è servo della borghesia, perché impegna tutte le sue energie non per generalizzare la lotta e difendere gli interessi dei salariati, ma per portare i lavoratori all’isolamento e alla sconfitta. Preferisce la solidarietà del padrone a quella del movimento operaio. Solo quando proprio non può farne a meno, di concerto con tutto il regime borghese, si vanta di aver ottenuto un succulento piatto di lenticchie, messo in conto a tutto il proletariato.
� Al padrone buono Riva va strappato un contratto unico a tempo
indeterminato per tutti i lavoratori dell’ILVA, cooperative e non.
� Al padrone buono Riva va imposto il salario pieno, qualsiasi
cosa succeda.
� Ai buoni sindacati di regime va contrapposto il sindacato di
classe.
Convergano le energie proletarie verso un unico Sindacato di Classe
negatore di qualsiasi solidarietà a padroni e servi, capace di opporre
la solidarietà di tutti i lavoratori all’ingordigia borghese.
PAGINA 2
IL CONTEMPORANEO FETICISMO
TECNOLOGICO
E LA DURA NECESSITÁ ECONOMICA
Una vecchia storia
Secondo i cantori dell’ordine vigente le nuove invenzioni dell’industria elettronica starebbero preparando all’umanità un’èra di prosperità e benessere, di crescita capitalistica senza crisi e di debellata inflazione. E l’andamento economico negli Stati Uniti ne sarebbe la prova. Questa nuova èra verrebbe grazie alla crescita della produttività consentita dallo sviluppo e dall’applicazione appunto di queste tecniche rivoluzionarie.
Per quanto le tecniche tanto propagandate (e commercializzate) delle comunicazioni e dell’elaborazione dei dati non siano certo rivoluzionarie quanto precedenti storiche, si pensi alle ferrovie, ci ricordiamo che il capitalismo da sempre è caratterizzato da un procedere travolgente nella tecnica, e lo sviluppo incessante delle forze produttive è stato fin dalle origini accompagnato dall’imporsi di nuove sfere di produzione. Ma ciò non ha impedito che le sue contraddizioni siano diventate sempre più esplosive e le condizioni di esistenza dei proletari sempre più incerte e precarie. Anzi, è proprio lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale che, in ultima istanza, conduce il Capitale alla catastrofe, anche se momentaneamente ne favorisce l’accumulazione. È questo effetto effimero che oggi rende la borghesia euforica.
Il fenomeno delle "rivoluzioni tecniche" è approfonditamente studiato da Marx, in particolare nel paragrafo 4 del capitolo 22 del Libro I, Trasformazione del plusvalore in capitale, ove esamina le circostanze che determinano l’entità dell’accumulazione. Conclude che il grado di produttività del lavoro sociale non solo aumenta il plusvalore e il saggio di sfruttamento, non solo permette ai capitalisti di aumentare la percentuale di plusvalore trasformata in capitale supplementare, pur soddisfacendo gli stessi bisogni personali, in quanto la produzione materiale è maggiore; ma, estendendosi la scala della riproduzione come quantità di valori d’uso, la maggiore quantità fisica di mezzi di produzione e sussistenza costituisce materiale addizionale disponibile per accelerare l’accumulazione. Potenza che però deve esser tradotta in realtà dal lavoro dei salariati, o con una maggiore intensità del lavoro, o con un maggior numero di operai, o con un maggior orario di lavoro.
Marx ribadisce che il capitale ha bisogno di uno smercio sempre più esteso e intenso, accedendo quindi al mercato mondiale. Questo processo determina ed è determinato dalla produzione di macchine per mezzo di macchine: quanto più sono fruttuosi i mezzi di produzione e la divisione del lavoro, sempre più l’impiego del macchinario prosegue a svilupparsi per reggere alla concorrenza che la classe dei capitalisti si fa. Mentre la concorrenza perseguita il capitalista senza tregua con la sua legge dei costi di produzione e ogni arma che egli forgia contro i suoi rivali si ritorce contro lui stesso, il capitalista cerca continuamente di superare la concorrenza sostituendo senza tregua al vecchio macchinario e alla vecchia divisione del lavoro macchinari nuovi e nuove divisioni del lavoro, più costose, ma che producono più a buon mercato, e ciò senza attendere che la concorrenza abbia rese vecchie anche le precedenti.
Nella produzione capitalista, la forza lavoro dell’uomo non solo produce in un giorno un valore superiore a quello che essa possiede e a quello che costa; ad ogni nuova invenzione, ad ogni nuovo perfezionamento tecnico questa eccedenza del suo prodotto giornaliero sul suo costo giornaliero aumenta, cioè si riduce quella parte della giornata di lavoro in cui l’operaio produce l’equivalente del suo salario, e viceversa cresce quella parte del suo lavoro che deve lasciare al capitalista. Questa successione sempre più rapida di invenzioni e di scoperte, questo rendimento del lavoro umano che aumenta di giorno in giorno, fa sì che questa società soffochi nella sua stessa sovrabbondanza, mentre la grande maggioranza dei suoi membri è appena protetta dall’estrema indigenza, e spesso non lo è affatto come le attuali moltitudini che vivono con un dollaro al giorno.
Monopolizzatori del lavoro morto
Nel capitalismo il valore è il prodotto del lavoro e il cosiddetto reddito prodotto in un paese è soltanto il valore aggiunto ex novo dal lavoro. Ogni aumento della produttività del lavoro, a parità di massa salariata, causa l’aumento del reddito reale pro-capite, falsamente calcolato come media indistinta fra tutte le classi sociali. Può anche determinare un certo aumento del tenore di vita reale dell’operaio medio, come storicamente avviene, crisi a parte. Ma questi aumenti della produzione provengono esclusivamente dal fattore lavoro, verità che gli economisti della borghesia devono nascondere dietro a reticenza e mistero quando trattano la questione della produttività. Difficile infatti trovare indicazioni di come calcolano quella produttività che sventolano a sostegno delle loro tesi, se si riferisce alla produzione totale o al solo valore aggiunto, se questi sono calcolati in volume o in valore monetario, se la produttività si riferisce alla popolazione residente, a quella in età lavorativa, a quella "attiva", ai salariati effettivi, se l’orario di lavoro è preso in conto o no.
Un tempo i borghesi insistevano nel rimarcare che trattavano della produttività "apparente" del lavoro, dove la parola "apparente" doveva servire a negare essere questa l’unica fonte del "reddito nazionale" e sostenere la loro putrefatta formula trinitaria: i profitti, le rendite e i salari sarebbero elementi autonomi che sommati genererebbero il reddito nazionale.
Vi è un’altra ritirata borghese: gli articoli sulla stampa economica non parlano più di crescita della loro grandezza "produttività del capitale", questo inteso nel loro vocabolario; forse perché imbattutisi in valori negativi degli incrementi di questa nozione irrazionale. In effetti la riduzione ultra ventennale del tasso di crescita della produzione e la crescente differenza fra il capitale totale investito all’inizio di un ciclo pluriennale e quello ruotato nell’anno tendono a ridurre quella loro pretesa produttività.
Se i loro conti statistici non ci sono noti, ci è chiara la loro sconfitta teorica. I borghesi considerano che il prodotto, dedotto il capitale costante consumato, sia una funzione del patrimonio nazionale, che chiamano capitale, e del lavoro; hanno anche cercato di migliorare la loro funzione della produzione aggiungendo un termine legato al tempo, che dovrebbe rappresentare il progresso tecnico.
Se il prodotto, ovvero il reddito nazionale annuo, fossero funzione del patrimonio, oltre che del lavoro, sarebbe razionale e utile considerare come cambia il rapporto fra la produzione annuale, da una parte, e il patrimonio nazionale, o l’ammontare del capitale fisso, o il valore delle immobilizzazioni industriali, dall’altra, e come cambia questo rapporto nel tempo. Col silenzio su questo loro indice la borghesia maschera la coscienza della sua sconfitta, atteggiamento questo ingiustificato se veramente fosse convinta che comunismo e marxismo sono morti.
La Microsoft
La borghesia continuerà a presentare il lavoro passato, monopolizzato dalla classe dominante e cristallizzato in capitale fisso, come socio e compagno del lavoro vivo nella produzione. Solo la società comunista potrà trasformare il lavoro morto, il lavoro dei morti, in strumento del benessere dell’uomo sociale.
Viene da sé quindi la spiegazione dei grandi sovrapprofitti conseguiti attualmente dalle industrie del software, prevalentemente americane, che da rigidi e ben difesi monopoli, imposti con la forza dell’iper-Stato americano, traggono enormi rendite: appaiono come prodotte in Usa grandi masse di plusvalore che invece sono soltanto rapinate dal resto del mondo. Nel valore delle merci rientra il lavoro morto materializzato nel capitale fisso solo per la quota di ammortamento; questa si riduce praticamente a zero per quanto riguarda le migliorie passate della tecnica che, per quanto possano esser costate nella loro invenzione, essendo riutilizzate un numero potenzialmente infinito di volte, divengono, come si dice, "patrimonio dell’umanità". La Microsoft invece, mantenendo segreto e brevettato il codice dei suoi programmi, oltre ad ostacolare l’ulteriore sviluppo tecnico (al contrario di quello che si dice), si può permettere di trasferire sul prezzo di mercato delle nuove versioni buona parte del lavoro morto occorso per la produzione delle precedenti, che è la massima parte.
Inoltre la evoluzione dei linguaggi di programmazione e degli strumenti di lavoro, della quale la Microsoft se ne fa gran vanto, e rendite, è in massima parte un prodotto spontaneo, cioè sociale, impersonale e necessario, tanto che nella medesima direzione tende il lavoro anonimo di ogni buon "programmatore" e sempre più difficile è dare un nome all’inventore di nuovi algoritmi.
Alla Microsoft va riconosciuto però il grande merito, rivoluzionario davvero, schiacciando a morte tutti i concorrenti, di imporre degli standard universali che, connettendo sempre più il Capitale mondiale pongono le basi materiali per la sua altrettanto universale distruzione. Per questo, forse, hanno processato quel bamboccio di Bill Gates, né a noi niente importa se ha fatto troppi soldi!
La produttività degli improduttivi
Così si spiega la apparente stratosferica produttività delle poche migliaia di dipendenti della Microsoft, dei quali solo una esigua minoranza sono produttivi di plusvalore ed il resto lavora al "commerciale". Ma i borghesi insistono a volere calcolare la produttività del lavoro in settori che di plusvalore non ne producono affatto, settori che, o solo lo realizzano nella vendita, come nel commercio, o lo consumano per sostenere la forza dell’apparato della classe dominante, o se ne appropriano come commissioni sugli interessi che il capitale attivo deve cedere alla proprietà del capitale. I borghesi vi ritrovano qui quello che vedono come un paradosso, che proprio questi settori, invasi dalle apparecchiature elettroniche le più aggiornate, hanno incrementi dei margini per addetto salariato minimi rispetto agli incrementi della produttività del lavoro dell’industria.
I lavoratori assunti dal capitalista per aiutarlo nella realizzazione del plusvalore già prodotto o per aiutarlo nella spartizione di esso fra le frazioni borghesi sono salariati come quelli produttivi, eccetto il fatto che non producono plusvalore, come non producono valore d’uso. Il loro numero cresce non come causa, ma come effetto dell’espansione del plusvalore. Il tutto con buona pace per le teorie, delle quali oggi si fa gran farneticare, su una non esistente società postindustriale. Alla società capitalistica può seguire solo quella che nasce con la rivoluzione violenta della classe dei salariati.
Le tecniche che riducono le spese meramente commerciali di vendita e di acquisto delle merci alimentano il miraggio borghese di una vigorosa e duratura ripresa della crescita dell’economia capitalistica, dopo decenni di rallentamento. È vero che il miglioramento delle tecniche della comunicazione ù che può essere ritenuto una novità solo per i rimbambiti dall’imbonimento borghese: 1837 invenzione del telegrafo; 1871 telefono; 1897 radiotelegrafia: la Rete World Wide esiste da almeno un secolo ù possono aumentare il rendimento dei lavoratori del commercio, in quanto diminuiscano effettivamente le spese dell’impresa per la realizzazione del valore creato nel processo produttivo. Ma non si può parlare di aumento di produttività di valore o di valore d’uso. Risulta evidente se consideriamo le funzioni commerciali rese autonome dall’industria e svolte nell’impresa commerciale. Il "commercio elettronico" può aumentare la velocità di rotazione del capitale commerciale ma influenza solo indirettamente l’aumento del valore e del plus valore prodotto dai capitalisti industriali. La possibilità tecnica per il capitale di riduzione del suo tempo di circolazione nella palude del mercato non riduce le contraddizioni economiche fra produzione e consumo capitalistici, che sono inerenti a ogni ciclo più o meno rapido di riproduzione del capitale e mortali per il suo ciclo storico di vita.
Mentre quelli stolidi di borghesi vanno a cercare produzione di valore dove questa non esiste, attratti dal miraggio di una chimerica nuova èra super produttiva, si dimenticano di un settore dove valore e plusvalore vengono effettivamente prodotti, quello della produzione agricola capitalistica e dove i progressi tecnici certo non mancano.
I punti accennati mostrano le difficoltà della borghesia sul concetto di produttività. Ricordano degli sciupii di tempo di lavoro che provengono solo dalla sua forma di società, dalla esistenza e circolazione delle merci e del capitale finanziario. Questi sciupii di tempo di lavoro sociale saranno eliminati nella società non più mercantile, contribuendo alla riduzione universale del tempo di lavoro e quindi allo sviluppo delle facoltà umane per tutti e non solo per chi ha tempo disponibile, perché sfrutta il lavoro altrui.
Salvezza dall’ informatica ?
La questione della funzione della produzione secondo la formula borghese l’abbiamo affrontata in Vulcano della produzione o palude del mercato?, paragrafo Ci siamo: la formula. In quel numero di "Programma Comunista" del 1954 chiarivamo: «Questa lotta di fredde formule è dunque, piaccia o no, vivamente politica, e solo quelli per cui politica è affare di chiacchiere e imboniture possono storcere la bocca davanti all’amaro calice delle espressioni matematiche, che al più cercheremo con la nostra molta pazienza e poca destrezza di inzuccherare sugli orli».
In merito abbiamo fatto qualche modesto calcolo con i dati statistici borghesi a nostra disposizione: indice della produzione industriale, orario di lavoro effettivo settimanale e numero di salariati dell’industria manifatturiera di fonte O.N.U.
La produttività del lavoro, determinata dalle condizioni di produzione, è data dalla quantità di prodotti diviso la quantità di lavoro. Quindi chili per ora, metri per ora, ecc. Il lavoro è considerato di intensità costante, ossia immaginando che il ritmo del lavoro in un dato tempo non vari. La definizione di partenza è quindi in termini fisici e non come rapporto di valori; così possiamo fare un confronto con il comunismo, dove il valore mercantile non esiste più la produzione si misura in quantità fisiche. Questo trapasso è in potenza preparato proprio dall’accrescimento della produttività del lavoro nel capitalismo, riducendo al minimo il tempo di lavoro per una data massa di valori d’uso. In questo confronto con la società superiore possiamo affermare che in essa lo sviluppo della produttività del lavoro ha potenzialità ancora maggiori in quanto la liberazione di tempo disponibile per tutti reagisce positivamente su di essa e sul suo progresso più propriamente umano.
Se nel capitalismo avessimo variazioni della produttività del lavoro nella stessa proporzione in tutti i rami della produzione, compresi in quelli dei mezzi di sussistenza dei salariati, in modo che tutti i valori, compreso quello della forza lavoro, si ridurrebbero nella stessa proporzione, corrispondente all’aumento della produttività, allora il suo andamento nel tempo sarebbe uguale a quello del rapporto fra valore della produzione e valore del capitale variabile, come rapporto di valori.
Per calcolare le variazioni di forza produttiva del lavoro in tutta l’industria si incontra la difficoltà che non si possono sommare le quantità fisiche eterogenee di una infinità di prodotti. Se ne può sommare il valore monetario; e per eliminare l’effetto dell’inflazione sui prezzi nominali le statistiche calcolano la produzione "a prezzi costanti", presi in un certo anno "base", chiamandola impropriamente "produzione in volume". Con questo metodo infatti le merci la cui produzione cresce più velocemente e i cui prezzi relativi, e talvolta assoluti, tendono a diminuire di più, come nel caso di un settore giovane della produzione tale quello dell’elettronica, danno un contributo alla crescita della produzione temporaneamente esagerato, perché viene gonfiato il valore di queste merci alla fine del periodo, in quanto si utilizzano i prezzi costanti più alti dell’anno base iniziale. Gli spettacolosi aumenti della produttività riportati dalla stampa e riguardanti l’industria informatica e delle telecomunicazioni sono influenzati da questo metodo di calcolo: oggi si producono sì molti più computer di dieci anni fa, ma unitariamente valgono molto meno.
Calcoliamo quindi la produttività del lavoro in America, che è da basarsi, necessariamente, sui dati statistici che i borghesi ci mettono a disposizione. Abbiamo considerato anno di partenza il 1989, di massimo della produzione industriale e posto uguale a 100 il suo indice; questo assume allora il valore 136,5 nel 1999. Se poniamo uguale a 100 il numero di 19,4 milioni di salariati dell’industria nell’89 esso scende per l’espulsione di lavoratori a 95,1 nel ’99, mentre l’orario settimanale sale da 41 a 41,6 ore. Preso uguale a 100 il rapporto fra indici della produzione e dei salariati nel ’89, esso diventa 143,5 nel ’99, e se si tiene conto dell’orario di lavoro si ferma a 141,4. L’incremento medio della produttività del lavoro nei dieci anni è 3,7%, e 3,5% se si tiene conto dell’aumento dell’orario di lavoro.
Se prendiamo un ciclo di crescita vigorosa come quello del 1957/69, 12 anni fra due massimi consecutivi della produzione annuale, l’incremento medio della produttività del lavoro è pari a 4,4%, calcolo fatto senza tenere conto delle variazioni dell’orario di lavoro, che per piccole variazioni ha scarsa influenza. Altro periodo che abbiamo considerato è quello 1973/89, con il quale inizia il rallentamento dopo la grande espansione mondiale della ricostruzione postbellica, questo periodo è fatto di due cicli deboli. Il calcolo dà un incremento medio della produttività del 2,5%. Quindi abbiamo 4,5; 2,5; 3,7%, ossia la crescita della produttività del lavoro negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni è stata forte, ma è per ora solo un recupero verso quella più elevata degli anni ’60.
Verso la catastrofe
La propaganda borghese per illudere sulla vitalità del suo regime fa leva su questo contingente aumento della produttività del lavoro, ma tace sugli andamenti storici più generali e prevalenti. La tendenza alla crescita della forza produttiva del lavoro è intrinseca al capitale, rappresenta la "missione storica" del capitalismo, costretto a rivoluzionare costantemente i metodi di produzione. Ed è proprio attraverso un simile sviluppo che, senza accorgersene, genera le condizioni materiali di una forma di produzione più evoluta.
Dire aumento della produttività del lavoro vuol dire aumento della composizione organica del capitale, che è il rapporto fra il capitale costante e il capitale variabile ed esprime il giganteggiare del Capitale sul Lavoro, del capitale improduttivo su quello produttivo. I due fenomeni sono condizione e conseguenza l’uno dell’altro: aumentando la produttività aumenta la massa delle materie prime, che sono capitale costante, che una data quantità di lavoro riesce a trasformare. D’altra parte la forza produttiva del lavoro aumenta con il maggior uso del macchinario, il cui logorio è l’altra quota del capitale costante. Per Marx la composizione del capitale è una misura indiretta della produttività del lavoro.
Con la crescita storica della composizione organica del capitale, cioè con la diminuzione relativa della sua parte salari, produttiva di plusvalore, si ha la caduta tendenziale del saggio del profitto, che l’aumento del saggio del plusvalore, cioè l’aumentato sfruttamento dell’operaio, può rallentare, ma non arrestare. Il declino del saggio di profitto provoca sovrapproduzione, speculazione, eccedenza di capitale insieme a eccedenza di popolazione, crisi periodiche distruttive, guerre e susseguenti "ricostruzioni", che solo provvisoriamente invertono la tendenza.
I borghesi che oggi, di fronte all’espansione negli Stati Uniti e allo slancio che prende la ripresa mondiale, si rallegrano per gli aumenti di produttività del lavoro guardando all’aumento immediato della massa del plusvalore, volentieri si dimenticano che il tasso del profitto si riduce giusto perché il lavoro è più produttivo.
Nella concezione rivoluzionaria marxista la caduta storica del saggio di profitto non significa riduzione della virulenza del capitale; questo ha crescita relativa più lenta, ma la crescita assoluta nel tempo è storicamente, congiunture a parte, sempre più rapida. «Calo del saggio del profitto e accelerare dell’accumulazione sono soltanto espressioni diverse di un medesimo processo, in quanto entrambi stanno ad indicare lo sviluppo della forza produttiva» (Il Capitale).
Il Partito tanto ha insistito su questo aspetto: la curva dell’accumulazione, che piega sempre più verso l’alto, conduce all’esplosione rivoluzionaria, non al graduale afflosciarsi del capitalismo e ad un corrispondente e altrettanto graduale dispiegarsi del socialismo. Il socialismo non vincerà su di un morto, per forfait dell’avversario, ma su di una macchina produttiva nel pieno della sua forza vitale; solo si tratta, non di costruirlo, il socialismo, ma di far quella macchina passare di mano al proletariato mondiale, una volta distrutto l’altrettanto enfio e torreggiante apparato politico della difesa capitalistica e lacerate le pareti mercantil-contabili che separano le cellule aziendali.
Produttività e miseria
La questione può essere vista sotto un altro aspetto. Nella crescita della produttività del lavoro è insita una contraddizione: il capitale aumenta il saggio del plusvalore solo diminuendo per una data sua massa il numero di operai. Ma solo questi producono il plusvalore. Il suo insaziabile bisogno di plusvalore deve quindi far crescere il numero dei salariati, come succede oggi in America, e quindi accrescere in misura ancora maggiore la dimensione del capitale costante. La proletarizzazione crescente della società è quindi una legge economica. A questo polo sociale soltanto può spettare il compito di abbattere il regime borghese; ai movimenti piccolo borghesi oggi schiamazzanti nei paesi più ricchi, prospettanti un possibile capitalismo umano, ecologico, ecc., spetta al contrario il compito di salvare la schiavitù del lavoro salariato, cianciando sulla scomparsa del movimento operaio.
I mirabolanti poteri della produttività del lavoro consistono nell’aumento della massa di miseria del proletariato. Quando aumenta la produttività, anche se il salario reale aumenta per la pressione operaia (oggi assai debole), il rapporto fra i salari v e il plusvalore p, o il rapporto fra i salari v e tutto il valore aggiunto v+p diminuiscono. Il salario relativo, ossia rapportato al plusvalore, v:p, è l’inverso del saggio del plusvalore p:v; il salario rapportato al valore aggiunto ex novo è v:(v+p). Entrambi decrescono con il crescere storico del saggio del plusvalore. La lotta di classe economica dei sindacati operai contro questo approfondirsi delle distanze reciproche è necessariamente, lo si voglia o no, lotta contro il meccanismo sociale che lo genera.
Anche se il salario reale aumenta non è detto che salga il tenore di vita del proletariato perché la somma dei salari deve servire al sostentamento di tutti i proletari, compresi i disoccupati, che oggi sono in aumento numerico assoluto proprio per effetto della maggiore produttività del lavoro. Dobbiamo poi considerare le crisi e le guerre che l’accumulazione rende sempre più disastrose gettando il proletariato sempre più nell’incertezza dell’esistenza. «Miseria dell’operaio non è il basso livello del salario e l’alto livello del costo dei generi che consuma. La vittoria del capitalismo nella lotta di classe non è la riduzione, la resezione del tenore reale del salario, che indiscutibilmente si eleva nella storia in senso generale, a cavallo dei periodi progressivi pacifici guerrieri ed imperialistici. Miseria nel nostro dizionario economico marxista non significa "bassa remunerazione del tempo di lavoro". Si capisce che il capitalismo se monopolizza forze produttive tali ù fregate allo sforzo di tutti ù da avere lo stesso prodotto con dieci volte meno operai, può a cuore leggero vantare di aver raddoppiato i salari. Il plusvalore relativo e assoluto è enormemente cresciuto e cresce l’accumulazione in massa. Miseria significa invece "nessuna disposizione di riserve economiche destinabili al consumo in caso di emergenza"» (Battaglia Comunista, 1949).
Nel paragrafo "La legge generale del comunismo" de Il Corso..., pag. 293, avevamo considerato un passo del capitolo 23 del libro I de Il Capitale, dove risalta un punto fondamentale del programma comunista. La legge, propria della società comunista, che comporta che con l’aumentata produttività dal lavoro una massa sempre maggiore di ricchezza materiale può essere procurata con un impiego sempre minore di lavoro, nel capitalismo è ridotta «nella legge contraria, vale a dire che quanto più il lavoro guadagna in potenza, tanto più la condizione del salariato, la vendita della suo forza lavoro assumono un carattere precario». Già nella dittatura del proletariato, che non è ancora neanche lo stadio inferiore del comunismo, la grande produttività del lavoro viene volta alla riduzione della giornata lavorativa, tagliando produzioni imbecilli, obbligando al lavoro tutti gli idonei, ponendo fine alla corsa folle della produzione per la produzione.
Così il Partito alla fine della scorsa guerra poté denunciare anche sul terreno delle leggi economiche il falso socialismo in Russia vantante superiori ritmi di crescita della produzione: là si seguiva la legge capitalistica di una crescente produzione per compensare la discesa del tasso di profitto, mentre si affermava di "costruire il socialismo". «Finché l’appello allo sforzo frenetico di produrre echeggia, esso non può avere altro senso che quello della resistenza esasperata alla legge marxista del tasso. Perché il tasso possa scendere, ma non cominci a scendere anche la massa del plusvalore e del profitto, interviene la retorica forcaiolo-progressiva e grida a una smarrita umanità: si lavori di più, si produca di più» (Dialogato con Stalin).
Un modo di produzione tecnicamente reazionario
Marx riferisce che, nel periodo della manifattura, macchine inventate in Inghilterra venissero adoperate solo in America del Nord, dove i salari erano più alti, come la Germania dei secoli 16° e 17° inventasse macchine utilizzabili solo in Olanda e come fosse possibile utilizzare macchine francesi del 18° solo in Inghilterra essendo nel paese di origine il loro valore superiore al valore della forza lavoro che avrebbero sostituito.
Infatti il capitalista introduce il nuovo macchinario che consente di accrescere la produttività del lavoro solo quando il suo logorio nel processo immediato è inferiore non al lavoro vivo risparmiato, ma alla parte di questo che egli retribuisce. Nel capitalismo quindi il mantenimento di bassi salari ha implicazioni oggettivamente reazionarie. L’uso capitalistico delle macchine e delle invenzioni è limitato da quella condizione necessaria, mentre nella società comunista il rinnovamento tecnico del macchinario finalizzato al risparmio di lavoro avrà un campo quantitativo di applicazione più ampio e criteri qualitativi di scelta del tutto diversi dal meschino calcolo di utilità aziendale.
Nel libro III de Il Capitale cap. 15° un esempio numerico chiarisce la questione e mostra come solo a quella condizione il capitalista ottiene un valore del prezzo di produzione individuale della merce inferiore a quello sociale, che è quello che regola i prezzi di mercato. Solo così il capitalista intasca gli extraprofitti che sono il fine dell’operazione. Abbiamo commentato nel Dialogato con Stalin: «Quindi per il capitale la legge della crescente produttività del lavoro non ha valore assoluto (...) Il modo di produzione capitalistico si imbatte qui ancora una volta in una contraddizione. La sua missione storica è lo sviluppo brutale, in progressione geometrica, della produttività del lavoro umano. Esso viene meno a questo compito quando, come nella nostra ipotesi ostacola lo sviluppo della produttività. Esso così fornisce una nuova prova della sua senilità e mostra che veramente non è più del nostro tempo».
Per altro l’anarchia del mondo borghese, specie nel campo dell’elettronica, viene a commercialmente imporre la sostituzione di macchinario ingiustificata sul piano tecnico e della stessa contabilità capitalistica aziendale, per forzare gli sbocchi delle industrie che lo producono. Si assiste così ad un frenetico e permanente sconvolgimento che comporta uno sciupio colossale di tempo di lavoro a scala planetaria.
Premio alla innovazione
Un’impresa che ottiene un profitto maggiore di quello che le deriverebbe dal saggio medio del profitto si appropria di extra profitti: la maggiore produttività del lavoro dei suoi operai le consente di vendere al valore sociale del settore, più alto del prezzo aziendale di produzione. L’impresa si trova in quella condizione per effetto di una innovazione introdotta nel macchinario o nel processo produttivo o nel produrre merci di tipo nuovo o migliorato che le aziende concorrenti ancora non producono. Questi extraprofitti derivanti da un avanzamento tecnico sono temporanei e durano fino a che non sia divulgata l’innovazione o ne compaia una simile superiore e fino a che altri capitali non riescano a inserirsi nell’affare, riportando così il profitto del settore al profitto medio.
Fatto paradossale nel capitalismo è che il carattere temporaneo dei guadagni extra costituisce un motivo di spinta ad aumentare gli orari e l’intensità del lavoro per approfittare della fugace condizione propizia di maggiore produttività.
Il sovrapprofitto non è che una porzione del plusvalore totale della produzione mondiale, che i capitalisti si spartiscono; il sovrapprofitto che si trasferisce al capitalista che adotta l’innovazione è una porzione del plusvalore degli altri; i quali però sono spinti a rifarsi sul salario operaio, se manca, come manca oggi, la resistenza operaia organizzata in sindacato di classe, quando la concorrenza sempre più stretta fra capitalisti spinge alla riduzione dei salari reali e all’aumento degli orari e dell’intensità del lavoro.
Anche nell’industria elettronica e similari settori a forte "innovazione", che sfornano "gadget" per lo più destinati a stupir minchioni, si tratta di sovrapprofitti e non di maggior valor aggiunto, come sostengono i cantori della società borghese "moderna", di un valore magicamente sorgente da nuovissima fonte indipendente dal lavoro. Si tratta sempre e ancora, come ogni profitto, di furto di tempo di lavoro.
I capitalisti però, pur se si fanno concorrenza per i sovrapprofitti, sono tutti interessati in solido alla crescita della massa complessiva del plusvalore mondiale, che si ripartiranno in proporzione ai loro capitali. Sono così davvero una classe mondiale, una associazione di capitalisti, un capitalista unico che sfrutta la classe dei salariati di tutti i paesi. La concorrenza sempre più spinta fra gruppi capitalistici, che il sistema morente esalta, non annulla questa solidarietà di classe borghese e rende urgente l’internazionale solidarietà operaia. Questa esprimerà una sola testa e un solo cuore di fronte alla classe mondiale nemica.
Tecnica e Capitale
Con l’accentuarsi del calo del saggio di profitto degli ultimi decenni la ricerca degli extraprofitti si è fatta ancora più frenetica, specialmente nei capitalismi più vecchi, che devono compensare il minor saggio di profitto e la differenza nazionale dei salari. Secondo i dati della Banca Centrale americana le spese di "ricerca e sviluppo", come percentuale del valore aggiunto delle imprese americane, sono più che raddoppiate dal 1953 al 1997, passando dall’1,3% al 3% con una accelerazione ben netta dopo il 1975, ossia quando inizia un ventennale marcato rallentamento economico. Gli Stati Uniti hanno uno stabile e forte attivo nel saldo fra vendite ed acquisti di brevetti, licenze, marchi di fabbrica, invenzioni ed assistenza tecnica. Gli altri paesi sono in passivo, eccetto Regno Unito, Svezia e Giappone; questo paese solo da pochi anni è passato in attivo con un grosso aumento di spesa nella ricerca. Ai diritti di proprietà e ai monopoli delle innovazioni corrispondono certamente, oltre quegli incassi per brevetti ecc., rinnovati sovrapprofitti provenienti delle merci prodotte con i nuovi metodi.
Il frutto della spesa per i salari dei tecnici e per i laboratori in cui operano non è volto alla produzione immediata di merci nello stesso esercizio, ma quel progresso del cervello sociale umano viene chiuso nelle casseforti del Capitale in vista di futuri extraprofitti nei suoi successivi cicli.
Le previsioni quindi di profitti eccezionali che le spese immobilizzate nella ricerca si prevede apporteranno spingono in alto le quotazioni di borsa dell’impresa che soltanto le dichiara, assai prima che incomincino a dare i risultati sperati. Questo fenomeno ben si accorda con la concezione borghese che confonde il capitale con la somma del "valore ad oggi" di infiniti utili annui futuri. Questa somma è capitale fittizio, il prezzo dei diritti sulla produzione futura e non capitale «lavoro morto che resuscita come un vampiro solo succhiando lavoro vivo, e tanto più vive quanto più ne succhia» (Il Capitale). È questo vampiro, che soggioga il lavoro vivo, che va ucciso: borsa e finanza svaniscono di conseguenza. Per quel che può vedere la borghesia nel suo orizzonte storico di classe è che sarà padrona in eterno di appropriarsi del plusvalore di tutte le generazioni operaie avvenire: non può vedere, dietro quell’orizzonte, l’avvicinarsi della rivoluzione proletaria che ridurrà il numero dei termini di quella somma da infinito improvvisamente a zero.
Le imprese cercano di garantirsi più a lungo possibile le condizioni di monopolio delle innovazioni, di rallentarne il più possibile la divulgazione con accordi e alleanze fra imprese e con le normative statali in difesa del capitale nazionale. Questi ostacoli alla rapida diffusione dei progressi tecnici rimarranno nonostante le illusioni piccolo borghesi che circolano al proposito, perché le applicazioni della scienza alla produzione capitalistica sono destinate ad essere semplicemente un’attività economica, facilmente monopolizzata dalla grande impresa. La ulteriore concentrazione in società gigantesche che pagano i ricercatori, non libera la scienza ma la rende sempre più schiava del capitale. Lo stesso istituto del Brevetto, che in origine, si diceva, avrebbe dovuto difendere il piccolo inventore dal plagio dei grandi, è la forma giuridica che consente ai giganti del capitale mondiale di imprigionare la conoscenza umana.
Proletariato - Tecnica - Rivoluzione
Ma la borghesia non può monopolizzare tecnica e scienza in assoluto, in quanto è costretta a far istruire ad esse una non piccola parte dei suoi proletari: non può farne un segreto di classe, come fu l’Astronomia di antiche caste sacerdotali, né di Stato, come la scrittura ideografica di grandi imperi, né di castello, come l’arte militare dei signori. E scienza e tecnica sono, in potenza, Rivoluzione. La classe rivoluzionaria, tramite il suo partito, deve saperla maneggiare meglio e più dei borghesi, e impugnare ai suoi fini di materiale emancipazione.
La distruzione politica della società mercantile ed aziendale metterà il sapere sociale al servizio dell’umanità senza classi. «Il sapere della specie, la Scienza, ben più che l’Oro, non sono per noi privati retaggi, e in Potenza appartengono integri all’Uomo Sociale. L’Uomo Sociale (...) il cui senso non è "persona umana" come cellula della società, ma società umana come organismo unico che vive una sola vita (...) Questo organismo, la cui Vita è la Storia, ha un suo Cervello, organismo costruito nella sua millenaria funzione, e che non è retaggio di alcun Teschio e di alcun Cranio» (Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica nella classica monolitica costruzione del marxismo, "Il Programma Comunista", 1957)
Una società sapiente, un cervello collettivo, che
pensa insieme come lavora insieme, che si riappropria e ricompone i momenti
separati dell’umano vivere, nei cicli propri temporali e spaziali.
Una riconquista del tempo, anche grazie sì ad uno sviluppo
della Tecnica e della Scienza, controllato e sottomesso alle necessità
di specie, in un piano sociale che abbracci produzione, riproduzione,
svago, riposo e non più solo drogate ed effimere emozioni.
Il 1° agosto è venuto a mancare, per un grave incidente stradale, SANTI CIOCI, puro militante operaio, semplice e determinato, che aveva aderito al Partito animato da umiltà e voglia di combattere non solo per sé.
Fu attivo tra i ferrovieri, di cui conosceva bene le battaglie e i problemi.
La sua perdita è per noi molto forte, poiché i pochi veri proletari che militano nel partito hanno il potere di farci sentire dal vivo i problemi più generali della classe.
Santi era silenzioso, ma sapeva intervenire, centrare le questioni
con senso attivo e positivo. Dopo aver lasciato la dura vita di ferroviere
aveva continuato a lavorare per aiutare i suoi due figli a studiare. Il
forte senso di responsabilità e nello stesso tempo la prudenza con
la quale affrontava la realtà saranno lezione per tutti noi: Lo
ricorderemo con affetto e lo sentiremo presente nella nostra lotta per
il Comunismo.
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La borghesia ha sempre avuto bisogno del mito del "Grande Uomo", nell’"ammirazione" ebete per il quale il proletariato, distolto dai suoi interessi ed obiettivi di classe, tarderebbe nella via della lotta in prima persona e nel ricongiungimento con il suo partito comunista.
Per mezzo secolo ha svolto questa funzione l’epopea "resistenziale", artatamente costruita e gonfiata, fino al punto di darle una patina "rivoluzionaria", ora miseramente finita come miseramente è finito il mito stalinista. Ma quando la storiografia borghese si è messa a frugare negli armadi dei "grandi artefici" dell’antifascismo non ne ha tratto che cadaveri. E non solo in senso figurato. Trovare un borghese "pulito", anche secondo i canoni della morale ufficiale, è sempre più difficile, specie se deve esser presentato come un gigante da imporre a un popolo di pigmei, in campo politico, filosofico, scientifico, morale, qualcuno insomma che possa essere vantato dalla cultura di regime, con tanto di insegnamento del suo pensiero nelle scuole, acconciato a strumento della reazione.
Potrebbe divenire domani Amadeo Bordiga il "personaggio" adatto? L’integerrimo avversario dello stalinismo e di ogni forma di mercanteggiamento? Evidentemente frigidi funzionari statali e sottili intellettuali ritengono che l’operazione di incorporatio post mortem debba esser tentata poiché, se riuscita, tornerebbe utile in vista di una ripresa della lotta di classe e di un rivitalizzarsi del partito comunista rivoluzionario, che non sia insomma un investimento sballato il tirarlo fuori, imbalsamato come Lenin, dal precedente protettivo silenzio, cercato da lui, e da noi.
Infatti, ufficialmente riconosciuta con tanto di decreto del Ministero degli Interni, il 27 maggio scorso, a Formia, è stata pubblicamente presentata la "Fondazione Amadeo Bordiga". All’inaugurazione hanno partecipato sia il sindaco della città, sia gli studenti delle scuole superiori accompagnati dai loro docenti. Il copione prevedeva ben dieci interventi in sole tre ore: dal saluto del sindaco, alla presentazione della Fondazione e delle sue finalità, alla "Riflessione storica sulla figura e l’attività". Democraticamente, quelli che contano, dovevano parlare tutti: poco, ma tutti.
Gli scopi della Fondazione, secondo il comunicato stampa diramato, sono quelli di «valorizzare la figura e l’attività del fondatore del Partito Comunista d’Italia (1921) nel complesso di tutti i suoi aspetti umani, politici, ideologici e morali, così come si espressero nell’intero arco della sua vita. A tal fine la Fondazione assegna borse di studio; promuove e finanzia attività di ricerca storica, di pubblicazioni inerenti alle generali finalità sopra indicate (...) di pubblicazione di suoi scritti poco noti o difficilmente reperibili; di ristampa di testi da lui redatti in epoche diverse, di edizione delle opere complete». Ah, il prurito piccolo borghese dell’ Opera Omnia!
Fanno parte della Fondazione personalità di alto rango "di diversa provenienza culturale e politica e con differente attività professionale", professori universitari, avvocati, giornalisti, storici di varia natura nonché miserevoli rottami del "bordighismo", che nulla da decenni hanno più a che vedere con il nostro movimento e che coerentemente così concludono le loro "svolte".
Cosa possiamo dire noi in proposito? Rendeteci Amadeo Bordiga? Amadeo appartiene a noi e la sua memoria non si tocca? Non impugneremo certo diritti e titoli di proprietà. Oppure dovremmo essere contenti che il capo, il teorico, l’intransigente rivoluzionario, venga finalmente tolto dall’oblio, dall’anonimato?
In più occasioni abbiamo affermato che compito nostro programmatico, come partito comunista, e del nostro scientifico determinismo è negare il mito borghese dell’autonomia dell’individuo. Il fantasma che i borghesi chiamano persona, soggetto di diritto, è una costruzione astratta che viene utilizzata a scopo controrivoluzionario. Ed è un mito che serve alla conservazione specialmente quando finge di esaltare il nome di nostri grandi compagni, personalmente schivi di carattere e in schifo di ogni adulazione.
Lo affermiamo non per bigotto gusto alla "contrizione" personale ma perché sappiamo che tutte le deviazioni, all’interno del movimento proletario e delle sue organizzazioni politiche, sono passate utilizzando artatamente il nome di uomini illustri, di capi riconosciuti, di geniali teorici. Il nome stesso di Lenin non è stato esente da simile strumentalizzazione, anzi è proprio nel suo nome che è passata la peggiore delle degenerazioni: la controrivoluzione stalinista. Al riguardo abbiamo avuto il coraggio di scrivere: «Dopo il 1917 guadagnammo molti militanti alla lotta rivoluzionaria perché si convinsero che Lenin aveva saputo fare e fatta la rivoluzione: vennero, lottarono e poi approfondirono meglio il nostro programma. Con questo espediente si sono mossi proletari e masse intere che forse avrebbero dormito. Ma poi? Con lo stesso nome si va facendo leva per la totale corruzione opportunista dei proletari: siamo ridotti al punto che l’avanguardia della classe è molto più indietro che prima del 1917, quando pochi sapevano quel nome. Allora diciamo che nelle tesi e nelle direttive stabilite da Lenin si riassume il meglio della collettiva dottrina proletaria, della reale politica di classe; ma che il nome come nome ha un bilancio passivo (...) Ben deve la rivoluzione borghese avere un simbolo e un nome, per quanto sia anche essa in ultima istanza fatta da forze anonime e rapporti materiali (...) È la nostra rivoluzione che apparirà quando non vi saranno più queste prone genuflessioni a persone, fatte soprattutto di viltà e di smarrimento, e come strumento della propria forza di classe avrà un partito fuso in tutti i suoi caratteri dottrinali organizzativi e combattenti, cui nulla prema del nome e del merito del singolo, e che all’individuo neghi coscienza, volontà, iniziativa, merito o colpa, per tutto riassumere nella sua unità a confini taglienti» (1953).
Quindi con l’obbiettività scientifica, che scandalizza i piccolo-borghesi ed i comunisti fasulli, ma che caratterizza il nostro modo di affrontare le cose, affermiamo che anche il nome di Amadeo Bordiga avrà, ha già avuto, un bilancio finale negativo. L’Amadeo che noi conosciamo e che, senza far mai il suo nome, rivendichiamo ed amiamo, è il lavoratore, il compagno, l’instancabile "negro" della causa rivoluzionaria. Tutti gli aspetti della sua forte, cara, affettuosa figura umana, politici, ideologici, morali sono inscindibili da quella milizia.
All’interno del partito sta la morte dell’individualismo e
di ogni ideologia e prassi personale: il partito comunista non ha divi,
nemmeno Marx o Lenin. La coscienza della classe non si può affidare
a nomi, sta nel partito e consiste nelle lezioni storiche della lotta proletaria,
oltre i limiti delle località, delle nazionalità, della categoria
di lavoro, o della azienda-ergastolo di salariati; in essa vive anticipata
la società futura, senza classi e senza scambio. E senza il culto
ipocrita e vile per disumanizzati Semi-dei, che, come dimostrano
i fatti, è sempre premessa obbligata al loro tradimento.
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SI RITORCA CONTRO IL CAPITALE LA SOLIDARIETÁ
DEI PROLETARI CON I LAVORATORI
IMMIGRATI
La macabra scoperta in un camion a Dover di 58 proletari cinesi che tentavano di entrare illegalmente in Gran Bretagna non è che un episodio fra tanti altri della triste deriva dei lavoratori migranti aspirati dal Moloc capitalista occidentale. Arrivano dai paesi più poveri (Africa nera, Marocco, India, Pakistan), cacciati dalle guerre (Curdi di Turchia e d’Irak), o incoraggiati dal "loro" Stato, ansioso di sbarazzarsi così di una parte della sua sovrappopolazione (la Cina per esempio) per cercare nei paesi occidentali, detentori delle ricchezze del globo, la pace e il pane. L’Eldorado sperato li trasforma ben presto in schiavi moderni, fornitori di una mano d’opera a buon mercato per interi settori dell’economia. Ogni anno più di un milione di persone emigrano clandestinamente verso un paese occidentale e un altro milione fa richiesta ufficiale d’asilo. Questi ultimi sono assai spesso parcheggiati in dei campi "di attesa" di cui si vergognano perfino i nostri delicati democratici.
I diversi incidenti che segnano questa epopea migratoria, naufragi di boat people, incendi nelle stive delle navi mercantili, innumeri annegamenti, ecc, fanno ritualmente versare lacrime di coccodrillo ai borghesi, che giurano agli elettori commossi (e più che altro impauriti dall’arrivo sul mercato del lavoro di un proletariato concorrente), che intendono prendere misure finalmente efficaci contro le mafie che profittano ignominosamente del traffico.
Come scrive "Le Monde" del 21 giugno il numero dei rifugiati non cessa di accrescersi dall’inizio degli anni ’80, proprio quando le società occidentali, dopo che erano pervenute in questa secondo dopoguerra al massimo di prosperità, si avvolgono in crisi economiche a ritmo sempre più serrato. Il margine di manovra del capitalismo, cioè il suo tasso del profitto, si ristringe e per evitare di crepare, quest’ultimo deve diminuire i suoi costi di produzione, attaccare il proletariato imponendogli condizioni di lavoro sempre più precarie, salari sempre più bassi. La sua arma favorita è quella di far funzionare la legge dell’offerta e della domanda di lavoro. È per questo che possiamo affermare perentoriamente che il mercato delle braccia, tramite spesso l’immigrazione clandestina, è inseparabile dal sistema capitalista stesso e che i discorsi sulle misure da prendere per limitarne i danni non sono che ipocrisia elettorale.
Infatti le misure di rinforzo dei controlli migratori degli anni ’90 non sono riuscite, né lo volevano, che ad aggravare le condizioni di viaggio dei proletari migranti, a gettarli scientemente, e forse cointeressatamente, nelle braccia dei passatori di professione, spietati, organizzati in mafie, per i quali, come per i borghesi imprenditori, quei proletari non rappresentano che una merce da trasportare, a caro prezzo appunto grazie all’illegalità e da scaricare fuori bordo al primo imprevisto.
Il numero delle domande di regolarizzazione indica i paesi più interessati al passaggio di questo flusso: 400.000 in Grecia, 250.000 in Italia (paesi questi che offrono le maggiori possibilità di trovare lavoro nero), 150.000 in Spagna, 90.000 in Francia. I lavoratori migranti clandestini arrivano per la maggior parte dall’Africa (Marocco ed Africa Nera) e guadagnano la Spagna, la Francia, l’Italia. I lavoratori cinesi, in numero crescente, arrivano via Mosca confluente nel flusso proveniente dall’India, dal Pakistan e dallo Sri Lanka, oppure via Africa. Dall’Est dell’Europa arrivano gli zingari di Romania. Dall’Asia arrivano anche i curdi di Turchia e d’Irak. Era molto utilizzato il passaggio dalla Turchia verso i Balcani, ma la guerra ha sovvertito i tragitti e la via marittima li fa passare per la Grecia e l’Italia. L’Italia è una delle principali vie di penetrazione in direzione dell’Europa con le porte di entrata principali al confine con la Slovenia e le coste delle Puglie dove ogni notte accostano le imbarcazioni proveniente dalla Grecia e dalla Turchia. Le vie terrestri e marittime sono meno controllabili degli scali aeroportuali.
Questi moderni lavoratori migranti sono prevalentemente giovani e cittadini. Non sono i più poveri del loro paese poiché devono pagare caro il servizio dei passatori: i curdi che arrivano in Italia via mare pagano 2.000 dollari per la traversata. Siamo ben lontani dalla prosa romantica degli accordi di Shengen che fa dell’Europa uno spazio di libertà per gli individui! La libertà si applica ai borghesi e al traffico delle loro merci, al Capitale, e non ai proletari, indigeni e no, le cui catene vanno senza posa appesantendosi.
Come abbiamo scritto commentando la repressione nel 1997 in Francia
dei "sans papier" e la situazione dei lavoratori clandestini, solo la solidarietà
di classe, al di sopra di razze e religioni, situazioni legali o illegali,
può difendere sia il proletariato autoctono sia l’immigrato. Solo
il movimento rivoluzionario dei proletari di tutti i paesi, uniti nella
stessa lotta contro il comune nemico mortale, la borghesia, risolverà
la questione dei flussi migratori forzati insieme a quella dello sfruttamento
dell’uomo da parte del Capitale di tutti i paesi.
LA INFLAZIONE PROGRAMMATA
È SOLO UNA SCURE SUI SALARI
L’aumento dei prezzi e delle tariffe e il deprezzamento dell’Euro nei confronti del Dollaro hanno ridicolizzato con la forza dell’evidenza il concetto di "inflazione programmata" inventato dai sindacati di regime: in suo nome avevano concluso dei contratti di lavoro secondo cui gli aumenti salariali sarebbero stati rapportati al previsto futuro andamento del carovita. Tale parità coi prezzi non sarebbe però più stata mantenuta automaticamente: con i famigerati accordi di luglio ’92 e ’93 infatti veniva smantellata la contingenza, tant’è che in molti CCNL addirittura si è giunti ad operare una sorta di damnatio memoriae, condanna della memoria, essendo sparita anche come parola. La parità con i prezzi è insomma un massimo che i contratti non possono superare ma che non è garantito che raggiungano.
Si noti il significato della cosa: la classe operaia rinuncerebbe per principio, e prima di ingaggiare battaglia, anche a sperare in un miglioramento della sua condizione ed ogni suo sforzo potrebbe, se va bene, ottenere il mantenimento dello stato attuale. Un vero monumento alla Conservazione, stato psicologico proprio di estesi strati della classe lavoratrice dei paesi occidentali e che caratterizza i tristi tempi che corrono. Tutti sanno però che è solo una misera Utopia: le condizioni della classe operaia, nel turbine della vita moderna, non restano mai uguali: attualmente stanno peggiorando; solo con le lotte potrebbero migliorare.
Per di più, come era prevedibile, oggi si scopre che i livelli "programmati" sono stati superati dall’inflazione reale, a tutto danno dei salari. L’Istat rileva che in marzo, contro un 2,1% previsto, i prezzi al consumo sono aumentati del 2,5%. Altre fonti come l’Adusbef, citata da varie pubblicazioni specialistiche, dettagliano gli incrementi mensili di maggiore spesa calcolando che solo acqua, benzina, gasolio, trasporti, generi alimentari, medicinali, assicurazione auto ed abbigliamento sommate danno un aumento mensile di lire 169.000. Se la borghesia di fronte all’inflazione può reagire giocando al rialzo sui suoi listini di vendita, la classe operaia invece, con le paghe bloccate da contratti-capestro, vede ridotta la sua capacità di consumo. Possiamo misurare la perdita confrontando quell’andamento del caro-vita con i corrispondenti aumenti della paga-base in aprile per i metalmeccanici (laddove, ovviamente, i padroni si siano "ricordati" di adeguare i cedolini): da un minimo per il III livello di lire 26.500 ad un massimo per il VI livello di 50.500, sempre ampiamente minori delle 169.000 lire stimate di carovita; si badi, poi, che stiamo ragionando su valori lordi a cui andrebbero detratti i contributi previdenziali e il carico fiscale.
Su questa erosione del potere d’acquisto del salario operaio ci sarebbe quindi da impostare una lotta rivendicativa per forti aumenti. I sindacati di regime, in una fase ascendente di pieno impiego e di robuste lotte operaie che avrebbero potuto esigere forti aumenti salariali oltre l’inflazione, pretesero di rinchiudere la determinazione dei salari nel meccanismo matematico della scala mobile; quando quel meccanismo avrebbe finalmente difeso i calanti salari ecco che inventano il metodo dell’inflazione programmata, comunque nel tentativo di evitare la mobilitazione operaia.
Adesso sono concentrati su problemi più "qualificanti" come la revisione delle discipline sui licenziamenti, le gestione (loro) dei fondi pensione e varie manovre sulla previdenza pensionistica. È fin troppo facile prevedere che le conclusioni raggiunte saranno una nuova fregatura per i lavoratori: stipendi da fame oggi, pensioni (se ci saranno) da fame domani, più facilità di licenziamento, più difficoltà di scioperare con sindacati Cgil-Cisl-Uil ed autonomi totalmente collusi con Stato e Capitale.
L’indicazione che il partito dà è quella di una riorganizzazione fuori e contro i sindacati di regime, per lotte che tendano alla difesa senza condizioni della situazione operaia, cioè per forti aumenti salariali e per la parità di trattamento di tutti i lavoratori.