Partito Comunista Internazionale  
Il Partito Comunista N. 278 - settembre-ottobre 2000
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 – Riverniciatura democratica del capitalismo in Serbia
– Solidarietà ai diseredati di Palestina può venire solo dalla classe operaia delle metropoli arabe ed israeliane
– «Popolo di Seattle», Una masnada di imbecilli
– Il volantino del partito distribuito alla manifestazione per lo Sciopero generale del Pubblico Impiego
PAGINA 2 Riunione generale di lavoro a Torino - 30/9-1/10/2000 [RG78]: Corso dell’Economia - Stato, Principio democratico, Tattica comunista - Origine dei Sindacati in Italia - Attività sindacale - La questione irlandese - La New economy - Questione agraria in Colombia
PAGINA 3 – Problemi di cassa fra Santi e Diavoli
PAGINA 4 – Un ’Processo di Pace’ per il capitalismo in Irlanda
– Crisi nell’industria dell’auto in Gran Bretagna (Continua nel n.280) Nazionalizzazione-Privatizzazione falsa alternativa per la classe operaia
 

 
 
 
 

PAGINA 1


Riverniciatura democratica del capitalismo in Serbia

 Si gira a Belgrado il film già visto nelle altre capitali dell’Europa “ex-socialista”. La retorica occidentale dipinge la solita trama di Santa Democrazia che, sposa del Libero Mercato, travolge in un tripudio di popolo l’odiato tiranno, aprendo un domani di Pace e di Progresso, ecc., ecc. La realtà di quello che è successo nel blocco orientale, e in particolare nella Federazione Iugoslava, poco si riflette in simili oleografie.

 Si è trattato, sul piano del rapporto di forza fra gli imperialismi, di una drastica ripartizione delle zone di influenza fra il blocco occidentale e quello orientale, altrettanto capitalista, altrettanto espansionista ed altrettanto anti-comunista ed anti-proletario. I due mostruosi apparati militari-statali sono le corazze con le quali si proteggono, in pace e in guerra, frazioni diverse della stessa sostanza, fluida e internazionale, il Capitale.

 Ed è stata la stessa, generale ed unica crisi economica del capitale mondiale a sconvolgere gli equilibri consolidati dalla Seconda Guerra. La crisi ha afflitto il blocco mentito socialista più dell’occidentale e per sue debolezze storiche e perché anche nella guerra diplomatica, finanziaria e commerciale come è stata la “guerra fredda”, uno ha da vincere ed uno da perdere.

 La causa della sconfitta del blocco che adottava, in una certa misura, la forma di proprietà detta a Capitalismo di Stato non va cercata in quella forma medesima, ma in un attardarsi colà dello sviluppo capitalistico, nella inferiore produttività del suo apparato produttivo. Più verosimilmente era questa inefficienza che determinava quella forma. Ma se la ricerca di maggiore estorsione del plusvalore nello scorso decennio ha preso all’Est lo stile e la retorica della “privatizzazione” e della “liberalizzazione”, ciò non indica che sia storicamente superato, nel girone ciclico della crisi tardo-borghese, il metodo accentrato e impersonale di proprietà dei mezzi di produzione e della terra, mentre invece la sua sconfitta è reversibile e pronta l’alternanza dei due metodi di governo.

 In questo terremoto la Iugoslavia è il classico vaso di coccio. Poteva sfoggiare atteggiamenti “non allineati” solo tenendosi nella zona dove si equilibravano gli opposti campi magnetici imperialisti e svolgendo il ruolo, concordato fra i grandi, di tappo-cuscinetto fra i cosacchi di Moscovia e l’Adriatico. Venuto a mancare uno dei poli tutto è crollato. Stati Uniti, Germania, Inghilterra, Francia e Italia si sono gettati sulla fragile Federazione e, resuscitando, aizzando e armando atavici tribalismi, hanno ottenuto quel che volevano, di ribalcanizzare la Balcania. Eserciti occidentali, nazionali e federati, stanziano ormai in tutta la penisola, sul Danubio e fino ai Carpazi.

 Dopo Slovenia, Croazia, Macedonia, Repubblica Serba di Bosnia, Federazione serbo-bosniaca, Albania, Kosovo, restavano solo la Serbia e il Montenegro da “democratizzare”. Con l’aiuto di massicci bombardamenti prima e con le sanzioni dopo hanno convinto quanto basta dei serbi a votare per il candidato che piace all’occidente. Slobo il cattivo è tale non perché sia capoccia borghese peggiore degli altri ma perché, “nazionalista”, rappresenta un certo orgoglio antioccidentale, tanto impotente e reazionario quanto sanguinario.

 Non che Milosevic non fosse servo e marionetta dell’occidente tanto quanto il Kostunica, ma c’è da far credere ai serbi che, cambiato il duce, tutto venga a cambiare... Il proletariato vive in Serbia il dopo-guerra, fa le spese delle distruzioni e della crisi. Kostunica sa bene che: «la gente ne ha abbastanza della politica». La borghesia, gente pratica, ha fretta di tornare a quella “vita normale” che appunto Kostunica promette, tautologia che significa sottomettersi al più forte, al “liberatore” di turno. Lo studentume si sintonizza sui motivetti americani e la piccola borghesia sogna un po’ del consumismo che si promette a chi “entra in Europa”.

 Gli operai e i minatori hanno scioperato, anche la famosa Zastava. Avranno ancora da lottare ed organizzarsi alla svelta, ora che arriveranno gli “aiuti per la ricostruzione”, un bel business occidentale che conta sui loro bassi salari in contropartita alla “libertà”.

 Né la crisi dei Balcani, che è crisi interimperialistica, finisce qui.
 
 
 
 
 
 


Solidarietà ai diseredati di Palestina può venire solo
dalla classe operaia delle metropoli arabe ed israeliane

 La rivolta in Palestina in queste ultime settimane, nonostante il detonatore “religioso” rappresentato dalla “passeggiata” dell’ex generale Sharon sulla spianata delle moschee, è un moto spontaneo delle masse diseredate contro l’oppressione cui sono sottoposte da parte delle classi dominanti araba e israeliana.

 I partiti religiosi e nazionalisti cercano di indirizzarlo verso l’obbiettivo della costituzione di uno Stato indipendente nei territori occupati con capitale Gerusalemme Est, illudendo che così trionferebbe la “questione nazionale” palestinese. Secondo nostre non recenti analisi, invece, in Palestina storicamente non si pone una “questione nazionale” da risolvere, né vi esiste un partito nazionalista-borghese rivoluzionario. La creazione di uno Stato palestinese formalmente indipendente, seppure esteso all’intera Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est, non avrebbe alcuna possibilità di esistenza politica ed economica autonoma, non sarebbe che un “bantustan” dove tener rinchiusi proletari in sovrannumero, proprio come ha fatto il governo bianco in Sudafrica con i negri.

 L’Autorità Nazionale Palestinese conduce una politica di collaborazione con lo Stato d’Israele, tesa a mantenere la pace sociale nei territori occupati e partecipa in prima persona allo sfruttamento del proletariato; nei territori ad essa sottomessi non esiste libertà di organizzazione sindacale e politica né libertà di sciopero e le condizioni di lavoro sono ancora più dure di quelle imposte in Israele.

 L’azione dei partiti borghesi per spingere le masse palestinesi allo scontro armato con l’esercito d’Israele, sotto la bandiera dell’indipendenza nazionale, dati i rapporti di forza, non è solo follia politica, è un crimine antiproletario il cui scopo è di affogare in un nuovo bagno di sangue la ribellione del proletariato palestinese, per poi imporre un accordo di pace che renda eterno l’attuale status quo basato sul condominio dei territori occupati tra borghesia araba ed israeliana. Lo Stato d’Israele, che in questa fase ricerca anch’esso lo scontro armato, non dispone infatti solo di un esercito ben equipaggiato ed allenato nelle operazioni di controguerriglia nelle città, ma è anche in grado agevolmente di assediare i territori impedendo l’arrivo di ogni genere di rifornimenti.

 I gruppi guerriglieri forniti di armamento leggero, come d’altronde la polizia palestinese, non avrebbero alcuna possibilità di opporsi efficacemente ad un’azione coordinata dell’esercito di Tel Aviv che impiegasse fanteria, forze corazzate, aviazione, marina; né essi possono aspettarsi un aiuto armato dall’esterno, cioè da un qualche paese arabo “fratello” poiché, come dimostra la storia degli ultimi decenni, i paesi arabi sono stati complici nell’affossare la causa palestinese.

 È indubbio che il proletariato di Palestina sia giunto al culmine della sopportazione, ma la sua ira per trasformarsi in energia rivoluzionaria deve rivolgersi anzitutto contro la propria borghesia, contro l’apparato repressivo dell’Entità palestinese. Solo liberandosi dell’influenza controrivoluzionaria dei partiti borghesi e del clero musulmano, solo riallacciandosi alla tradizione comunista, esso potrà darsi l’armamento programmatico ed anche militare necessario ad affrontare la lotta per la sua liberazione, lotta che non potrà avvenire senza che si rimetta in movimento anche il proletariato occidentale, senza che il proletariato d’Israele dica basta alla politica di guerra e di oppressione della sua borghesia, senza la mobilitazione dei milioni di proletari delle grandi metropoli del mondo arabo.

 Parafrasando una considerazione di Marx sulla questione irlandese, potremmo dire che l’emancipazione del proletariato palestinese è nelle mani del proletariato d’Israele ma che, allo stesso tempo, il proletariato d’Israele non potrà emanciparsi finché collaborerà all’oppressione dei suoi fratelli di classe di Palestina.

 La storia plurisecolare dell’emancipazione proletaria ha dimostrato che il proletariato in armi ed anche in rivolta non rappresenta un vero pericolo per la borghesia finché non arriva ad avere la chiara coscienza del fine storico a cui tende, finché non è guidato dal suo partito, il partito comunista rivoluzionario.La rivolta

 Nei lunghi anni delle trattative di pace seguite agli accordi di Oslo le masse diseredate di Palestina hanno sperimentato sulla loro pelle che quelli che credevano i loro capi e i loro partiti difendono interessi non loro e sono disposti piuttosto a vendersi al nemico. Le continue concessioni allo Stato israeliano, l’infinito slittare dei tempi per il raggiungimento dell’indipendenza, il fatto che le condizioni materiali di vita continuano a peggiorare anche nei territori sotto controllo palestinese ne sono prove evidenti.

 Questa nuova rivolta ha infatti assunto subito caratteristiche più radicali rispetto all’Intifada. Il 12 e 13 ottobre, a Gaza dove è più forte la concentrazione di proletari, «la folla ha attaccato i negozi che vendevano alcoolici e i ristoranti e gli hotel frequentati dai vertici dell’OLP; la folla inferocita ha cercato di dare alle fiamme anche il Windmill Hotel dove si svolgono alcuni degli incontri segreti tra i dirigenti dei servizi di sicurezza israeliani, palestinesi e della CIA statunitense» (da “il manifesto” del 26.10). Sembra che siano state anche assaltate delle prigioni e liberati i prigionieri politici. E non si è trattato di azioni preordinate di “estremisti islamici”, Hamas infatti le ha condannate: «Quelle sono azioni di agenti provocatori che servono soltanto gli interessi dei nemici del popolo palestinese. I responsabili devono essere individuati e arrestati». Insomma sembra che la “folla” stesse spontaneamente riconoscendo come proprio nemico non solo lo Stato d’Israele, ma anche i partiti del regime palestinese.

 I vari partiti borghesi, sotto la spinta della rivolta, pare abbiano costituito un Comando Unificato (CFNI), ancora più allargato di quello che guidava l’Intifada e comprendente oltre ai partiti islamici, Hamas (Movimento di Resistenza Islamica) e Jihad, anche le organizzazioni “di sinistra”, il Fronte popolare e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. Programma di questa nuova edizione di fronte popolare la lotta contro Israele per uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme. Il fronte unico non ha naturalmente impedito alla polizia palestinese di continuare ad arrestare dirigenti e militanti non allineati alle nuove direttive, sulla base delle sue esigenze politiche nelle trattative con Israele.

 Anche lo Stato Maggiore israeliano ha compreso questo carattere nuovo della rivolta e fin dai primi scontri la tattica applicata è stata quella di attirare il proletariato palestinese nella trappola dello scontro con l’esercito, confidando sull’assenza di qualsiasi direzione di classe.

 L’esercito israeliano è intervenuto da subito con estrema violenza: in sole quattro settimane di disordini si sono avuti quasi duecento morti e più di seimila feriti. L’ordine era evidentemente quello di fare pagare un alto costo di sangue alla popolazione scesa in strada; unità scelte di cecchini hanno sparato sulla folla con pallottole a frammentazione (e non con pallottole di gomma) con lo scopo di uccidere, si è sparato sugli infermieri e sulle ambulanze; sono stati usati elicotteri da combattimento contro i dimostranti e i carri armati hanno stretto in un cerchio di fuoco le città sotto controllo palestinese. Durissima è stata anche la repressione contro le manifestazioni dei palestinesi all’interno di Israele: undici palestinesi di cittadinanza israeliana sono stati uccisi e centinaia feriti, un numero così alto di morti in simili circostanze non si era mai avuto nella storia dello Stato ebraico.

 Bisogna anche considerare che durante questi giorni di rivolta i territori vengono chiusi e che le conseguenze economiche di questo ricadono soprattutto sui lavoratori pendolari che restano disoccupati. Le famiglie degli operai – secondo il ministro dell’economia palestinese – vedranno ridursi del 30% le loro entrate e ci si attende un aumento della disoccupazione del 50% nella striscia di Gaza e del 30% nella Cisgiordania. Naturalmente gravi danni si hanno anche nel settore agricolo e in quello commerciale

 Si è voluto creare una situazione d’emergenza soprattutto a scopo interno, sia da parte del governo israeliano, debole e diviso, sia da parte di Arafat, costretto ormai in una via senza uscita innestando così la spirale d’odio necessaria per far aderire i proletari arabi ed ebrei ai fronti di guerra.I vertici di pace

 Nessuna delle conferenze internazionali che si sono succedute dopo l’occupazione dei territori da parte di Israele ha mai affrontato il nodo centrale, fondamentale della questione: riconoscere i diritti civili al proletariato e alle masse povere di Cisgiordania e Gaza e ai profughi ammassati nei campi.

 Scrive su “The Guardian” Amira Hass, una giornalista israeliana: «Malgrado il ritiro israeliano dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania nel 1994 e nel 1995-96, e malgrado la costituzione di un autogoverno palestinese, Israele ha continuato a detenere il potere assoluto. Ha il controllo totale del 61% della Cisgiordania e sul 20% della striscia di Gaza, dove continua a costruire nuovi insediamenti e strade che li collegano tra loro e con lo Stato israeliano vero e proprio. (...) Tel Aviv ha anche il pieno controllo della situazione idrica. I palestinesi continuano ad essere discriminati come lo sono stati negli ultimi trent’anni: d’estate centinaia di migliaia di palestinesi non hanno l’acqua corrente, mentre gli insediamenti israeliani dispongono di tutto ciò di cui hanno bisogno. Israele inoltre limita la libertà di movimento dei palestinesi (...) Solo 200-300 mila palestinesi su un totale di circa 3 milioni hanno un lasciapassare che consente loro di muoversi tra Gaza, la Cisgiordania e Israele. I permessi possono essere annullati in qualsiasi momento».

 I tre milioni di palestinesi di Cisgiordania e Gaza, che vivono in condizioni miserrime, sono privi di qualunque diritto. I proletari e i piccoli contadini palestinesi, scacciati dai loro villaggi, privati delle loro case e terre e costretti in centinaia di migliaia a sopravvivere in immensi campi di concentramento, subiscono da decenni una doppia oppressione, come proletari e come “senza patria” non solo in Palestina, ma in Giordania, in Siria, in Libano. La pace, a parole auspicata da tutti i governi, dovrebbe metter fine a questo stato di cose.

 Quindi in Palestina, stante l’attuale ordinamento politico internazionale, la pace è impossibile: Camp David, Parigi, Sharm el Sheikh, Il Cairo: l’accanimento terapeutico con cui la diplomazia internazionale tenta di tenere in vita il corpo putrefatto del “processo di pace” deve far riflettere sulla natura antiproletaria e di prevenzione controrivoluzionaria che guida questi periodici spettacoli organizzati dalla borghese diplomazia internazionale. Le “trattative di pace” sono servite, per anni, solo a ritardare il tentativo del proletariato palestinese di scuotersi di dosso questa cappa di sfruttamento, di sofferenza, di quotidiana oppressione che è sociale prima che militare.

 Anni nei quali le condizioni di esistenza nei territori occupati come nei campi profughi sono nettamente peggiorate per le classi più povere. «Per la maggior parte dei palestinesi – scrive Zvi Schuldiner su ’il manifesto’ del 1/10 – il processo di pace, nella vita quotidiana, è l’occupazione di sempre. La situazione economica è migliorata solo per una minoranza, la corruzione dell’autorità palestinese è enorme, molti possono far fronte alle proprie necessità solo lavorando sottopagati in Israele (si calcola che siano circa 120.000 i lavoratori in queste condizioni, ndr). I posti di blocco militari continuano, i territori sono chiusi, la libera circolazione non esiste e i palestinesi difficilmente possono vedere nella loro polizia un elemento di liberazione. I percorsi sicuri permettono di continuare gli insediamenti ed i coloni si sono duplicati dall’inizio del processo di Oslo».

 Il fallimento delle strombazzate trattative di Camp David, tra un Barak e un Arafat, ridotti alla funzione di macabre marionette i cui fili erano tirati dal Dipartimento di Stato americano, significa che le resistenze all’accettazione delle condizioni imposte da Israele era tanto forti da parte delle masse palestinesi che la stessa autorità di Arafat avrebbe rischiato di saltare se la sua mano tremante avesse osato firmarli. Pare che la vecchia volpe abbia risposto al presidente Clinton che lo pressava a firmare: «Signor presidente, vuole assistere al mio funerale ?»

 Alla riunione di Sharm el Sheikh, convocata d’urgenza dopo lo scoppio della rivolta e i bombardamenti israeliani sulle città della Cisgiordania e su Gaza, si è di nuovo parlato per ore per concludere con il solito rituale di buoni propositi senza raggiungere alcun risultato politico concreto. Il vero significato del vertice lo si è scoperto nelle ore successive quando i servizi segreti dell’Entità palestinese hanno arrestato e consegnato alla polizia di Tel Aviv alcuni dei partecipanti al linciaggio di due soldati israeliani (almeno uno di essi è adesso in fin di vita per le torture cui è stato sottoposto).

 Il vero vertice si era infatti svolto dietro le quinte, tra il capo della CIA, il capo del Mossad (i servizi segreti israeliani) e il capo della polizia politica dell’Autorità Nazionale Palestinese, incentrato sul vero problema che assilla le bande mondiali del Capitalismo: coordinare la repressione della rivolta nei territori occupati ed in Israele, impedire che essa possa estendersi e radicalizzarsi, impedire la fraternizzazione tra proletari. Partecipando a quel vertice la corrotta dirigenza palestinese, i cui servigi sono ben pagati in dollari statunitensi, ha dimostrato apertamente di essere succube di quell’imperialismo.

 Una guida nella lotta, di questo hanno bisogno i coraggiosi giovani proletari di Palestina, questo è quello che loro manca. I loro capi attuali, gli estremisti religiosi, i partiti borghesi più o meno radicali li stanno mandando allo sbaraglio per vantare ancora una volta il loro tributo di sangue sui tavoli della diplomazia internazionale, per ottenere infine, con l’impegno dell’Europa, dei Paesi arabi e dell’Onu, un maledetto staterello dove esercitare il loro potere, godendo delle elemosine pelose dell’imperialismo e sfruttando la vendita al miglior offerente dei “loro” proletari.Crisi in Israelee nell’A.N.P.

 Gli avvenimenti degli ultimi anni, ma potremmo dire degli ultimi mesi, testimoniano la crisi sociale, economica e politica in cui si dibatte lo Stato d’Israele: l’assassinio del capo dell’esecutivo, Rabin, gli scandali che hanno coinvolto alte autorità dello Stato, la precipitosa fuga dal Libano dopo che l’Esercito del Libano del Sud, formato da mercenari di Tel Aviv, se l’era data a gambe sotto l’incalzare dei guerriglieri libanesi, testimoniano della crisi politica più ancora che militare in cui si trova lo Stato d’Israele la cui classe dominante deve fare i conti con una sempre più forte opposizione interna allo stato di guerra infinita, e non solo da parte della minoranza araba ma anche del proletariato israeliano.

 L’abbandono del Libano meridionale, che solo qualche anno fa sarebbe apparso un tradimento, non è stato affatto così sentito ma salutato come la liberazione da un incubo dalla grande maggioranza della popolazione d’Israele.

 In questa situazione, la borghesia israeliana, col governo Barak, ha fomentato il "complesso di Masada", l’angoscia perenne di sentirsi aggrediti in cui dal ’48 vengono tenuti i lavoratori ebrei. Fomentando la rivolta palestinese, forse addirittura provocando ad arte il linciaggio di due suoi soldati, con una propaganda martellante ha chiamato tutte le classi a stringersi nella nuova “guerra santa” contro il barbaro. Gruppi di coloni hanno attuato veri pogrom contro arabi cittadini d’Israele e la polizia ne ha coperto le gesta. Adesso si prospetta la costituzione di un governo di emergenza nazionale tra Barak e Sharon che, se costituito, lavorerebbe ad un più profondo solco di odio tra i due popoli.

 Una crisi ancora più grave attanaglia l’Autorità Nazionale Palestinese che non riesce ad addivenire ad un accordo proponibile con Israele, ma esercita una ferrea dittatura interna contro i gruppi proletari radicali, contro i lavoratori che rivendicano migliori condizioni di vita e di lavoro, contro i gruppi della guerriglia che intendono sfuggire al suo diretto controllo. Forte dei fondi che riceve dagli Stati Uniti, dall’Europa, dai Paesi Arabi e dell’imponente apparato poliziesco di cui si è dotata, questa burocrazia corrotta e incapace è però sempre più invisa al proletariato.

 Essa ha acconsentito alla rivolta per riacquistare il controllo perso negli ultimi mesi. Ha così permesso che alcuni poliziotti partecipassero, anche se non ufficialmente, ai combattimenti rispondendo con le armi agli attacchi dell’esercito israeliano; non ha impedito la distruzione della cosiddetta “tomba di Giuseppe”; pare addirittura che abbia rilasciato alcuni guerriglieri rinchiusi nelle sue prigioni.

 Tutto porta a che lo Stato israeliano, in combutta con la corrotta dirigenza dell’Entità Palestinese e di alcuni Stati arabi, prepari un nuovo massacro: dopo il Settembre Nero del 1970, dopo la sconfitta nel sangue della comune di Tell el Zaatar del 1976, dopo la strage di Sabra e Chatila del 1982, secondo lo Stato maggiore d’Israele è giunto il momento per dare una nuova, sanguinosa lezione ad un popolo la cui esistenza contrasta con i piani stabiliti a tavolino dagli strateghi dell’imperialismo.

 A questo gioco sporco si sta prestando l’attuale dirigenza dell’OLP; quella stessa dirigenza che dai suoi rifugi dorati spinge ragazzini armati di pietre a contrastare un esercito regolare in pieno assetto di guerra.Il proletariatopalestinese è solo

 Anche gli Stati Uniti hanno dovuto pagare un notevole contributo di sangue, con l’attentato che nello Yemen è costato la vita a 18 loro marinai, e in preda ad una vera psicosi da terrorismo hanno posto in stato di massima allerta tutte le loro basi in area mediorientale.

 L’Egitto, che solo recentemente è riuscito a soffocare nel sangue l’azione dei “fratelli musulmani”, di carattere religioso ma alimentata dalla miseria e dalla disperazione dei proletari e dei contadini poveri, ha un interesse primario alla pacificazione della regione, per timore del contagio. Nella stessa situazione si trovano gli altri Stati arabi: in molti di essi, nei giorni scorsi, i palestinesi dei campi profughi hanno inscenato manifestazioni per riaffermare il loro diritto a tornare in quella Palestina da dove furono cacciati mezzo secolo fa.

 Il vertice degli Stati arabi svoltosi il 21 ottobre al Cairo avrebbe dovuto benedire la nascita dello Stato palestinese, fissando una data certa per la sua proclamazione. Ma neppure questo appoggio formale c’è stato: sotto il consueto folclore hanno ribadito che non intendono porsi apertamente contro Israele, guidati in questa linea moderata dall’Egitto, dalla Giordania e dall’Arabia Saudita, che in cambio della loro fedeltà alla linea statunitense ricevono enormi donazioni in dollari ed armi. Il vertice non è andato così oltre una generica condanna dell’operato di Israele, accompagnata da un più concreto stanziamento (promesso) di ben un miliardo di dollari di aiuti al popolo palestinese, che però finiranno in gran parte in tasca a burocrati, poliziotti e preti.

 Il proletariato palestinese è dunque oggi solo nella sua lotta contro l’oppressione militare e di classe esercitata dalla borghesia israeliana in condominio con quella palestinese. Finché i suoi naturali alleati nella lotta per l’emancipazione proletaria, il proletariato e le masse diseredate dei paesi arabi e dello stesso Israele, non scenderanno in lotta contro questo regime di sfruttamento e di guerra, esso non potrà spezzare le sue catene, nonostante tutto il coraggio e l’abnegazione dei suoi combattenti.

 Bisogna che le avanguardie proletarie di Palestina, rifuggendo dalla trappola borghese della guerra tra nazioni, tra razze e tra religioni, conducano un lavoro a lunga scadenza, forzatamente in condizioni di clandestinità, lavorando alla costruzione di organizzazioni economiche di classe indipendenti dall’influenza borghese. Una minoranza di essi, riallacciandosi al programma comunista rivoluzionario, aderirà all’unico internazionale partito della emancipazione proletaria. In questo processo tutti i senza terra e senza patria verranno a negare se stessi, rispettivamente, come arabi, come palestinesi e come ebrei.

 È dal proletariato di occidente, di quel Nord del Mondo, ricco e corruttore, il cui confine passa giusto fra il Muro del Pianto e la Spianata delle Moschee, da quel proletariato noi attendiamo che denunci infine i misfatti della propria borghesia vile e assassina, per tendere la mano ai suoi fratelli di classe di un Sud, ingannati e traditi, ma che non esitano a scagliare il sasso contro il nostro comune torreggiante e planetario nemico.
 
 
 
 
 


«Popolo diSeattle»
Una masnada di imbecilli

 Se non fosse per la voluta pubblicità che tutti gli organi del regime borghese dedicano al “popolo di Seattle”, basterebbero queste quattro parole per chiudere i conti. Ci sarebbe quasi da ridere nel vedere le rappresentazioni teatrali degli scontri, come, nell’ultra difeso mondo borghese, in uno Stato di polizia planetario, gruppi folcloristici si presentino in scomposta formazione di fronte agli sbirri armati. Nel democratico e civile scontro tra le diverse ipotesi di capitalismo è concesso armarsi di camere d’aria, qualche sanpietrino e due bottiglie di benzina. Quando il proletariato anche disarmato ha reclamato il pane ha invece trovato il piombo degli sbirri.

 Gli aspetti di costume sono quelli meno importanti, fanno da cornice a rivendicazioni incapaci di andare oltre la lunghezza del naso. Dietro la generica denuncia ci si arresta di fronte al Capitale: gli si chiede di essere meno brutale, di non distruggere troppo la natura.

 Il “popolo di Seattle” cosa contesta e cosa rivendica ? L’evidente, ossia tutto l’abrutimento e la putrescenza sociale che il capitalismo vomita. Ma si ferma lì e tutto si riduce ad un appello alle coscienze degli individui, che si rendano conto di cotanta rovina. Sulle cause è ben guardingo nell’andare a fondo, perché gli toccherebbe ammettere che le leggi del Capitale sono inesorabili e che l’unica azione possibile è la negazione del capitalismo. Qui viene il brutto, perché le strade percorribili non sono molte, la via pacifica, le elezioni, la rivolta morale sono già state battute e hanno il fiato corto. Rimane la primordiale unica lotta di classe. Ma questa, oibò, schifa assai alla piccola borghesia, in quanto le certifica la morte sociale e la perdita individuale delle misere prebende da parassiti.

 Ecco perché i contestatori di Seattle gridano e sbraitano per un capitalismo non troppo maturo e marcio, che permetta una bella e sana vita ai piccoli borghesi, a una nicchia di intellettuali e sacerdoti del giusto equilibrio tra sfruttamento e dominio di classe.

 Il fenomeno della globalizzazione non è nuovo, già Marx nel descrivere l’impetuoso sviluppo delle forze produttive nella società capitalistica indica come inevitabile punto di arrivo l’imperialismo. Alcuni decenni dopo, il lavoro di Lenin fu teso a ribattere i chiodi della dottrina marxista. Da “L’imperialismo fase suprema del capitalismo” riprendiamo i famosi cinque punti che identificano la fase imperialista:

 1. la concentrazione della produzione del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
 2. la fusione del capitale bancario con il capitale industriale e il formarsi sulla base di questo “capitale finanziario”, di una oligarchia finanziaria;
 3. la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitali in confronto con l’esportazione di merci;
 4. il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo;
 5. la compiuta ripartizione della terra fra le più grandi potenze capitaliste.

 Se questa era, ed è tutt’oggi, la fase suprema, il suo superamento altro non è che la negazione delle basi materiali di tale sviluppo. Sembra un’ovvietà, ma tutti gli organi del regime borghese agiscono di concerto per metter su una finta contrapposizione tra capitalismo e capitalismo globalizzato per far presa ed infettare il proletariato. L’utilizzo di neologismi ha uno scopo ben preciso nel combattere e cercare di demolire la nostra dottrina, il programma rivoluzionario della classe operaia, nel riproporre sotto nuove spoglie vecchie e arcinote menzogne. Il terrore per tutti i borghesi, piccoli e non, per il “popolo di Seattle” e il popolo dei padroni, è la lotta di classe.

 Nello stesso tempo, oltre al lavoro per intorbidire e negare la lotta fra le classi, i contestatori si fanno partigiani di uno schieramento imperialistico. La protesta infatti viene spesso indirizzata contro il massimo imperialismo, quello statunitense, come se i minori fossero meno peggio. «Le Monde Diplomatique» è l’organo teorico di questa marmaglia che, sotto la patina sinistra, nasconde il cuore nero del nazionalismo francese ed europeo. La storia del secolo trascorso ha mostrato a più riprese come dietro i sinistri si nasconda il nazionalismo: i naturalisti tedeschi degli anni venti finirono quasi in toto nelle file del nazismo.

 La discriminante per riconoscere il falso amico, il nemico travestito, rimane oggi come sempre nel programma chiaro e netto. I sinistri “fanno delle cose”, “si muovono nel sociale”, ma il programma comunista dell’abbattimento violento dello Stato borghese e della necessaria dittatura della classe operaia non lo pronunciano mai. Si scusano, a volte, che va troppo in là, che la “gente” non capirebbe, ma la realtà è che non lo vogliono perché il loro mondo è questo.
 
 
 
 
 
 


Il volantino del partito distribuito alla manifestazione per lo
Sciopero generale del Pubblico Impiego

 Negli ultimi anni, mentre i profitti del capitale industriale e finanziario sono aumentati costantemente, la condizione della classe lavoratrice è peggiorata giorno dopo giorno.

 La svalutazione dell’Euro rende più appetibili i prodotti europei sul mercato mondiale ma svaluta i salari che non sono più legati ad un meccanismo automatico di rivalutazione, dopo l’abolizione della contingenza.

 I sindacati confederali, inginocchiati di fronte alle “compatibilità”, chiedono aumenti minimi e sempre più legati al tipo di lavoro, al “merito”, alla “produttività”: è una politica voluta dal padronato per spezzare il movimento operaio, per mettere un lavoratore contro l’altro.

 Ma non è solo sul piano salariale che il padronato conduce i suoi attacchi; parallelamente cerca di imporre anche condizioni di lavoro sempre meno protette, sempre più “libere”: libertà di licenziamento, lavoro a tempo determinato, a tempo parziale, i cosiddetti “contratti atipici” sono ormai la regola; l’orario di lavoro di 7 o 8 ore per cinque giorni è ormai un’utopia; quando c’è lavoro non c’è orario e quando non c’è lavoro si sta a casa. Questa politica è già passata in molte categorie del settore privato con la collaborazione fattiva dei Sindacati tricolore CGIL-CISL-UIL; questa stessa politica si sta cercando di imporre anche nel pubblico impiego, con l’assunzione di trimestrali, con l’utilizzo degli obiettori, dei “Lavori Socialmente Utili”, ecc.

 La continua diminuzione degli addetti, comporta un costante aumento dei ritmi di lavoro in tutti i settori, in quello privato come in quello pubblico e il costante aumento degli incidenti e dei morti sul lavoro sta a testimoniare come le condizioni in cui si è costretti a lavorare, nonostante le belle parole di politici e sindacalisti, siano sempre peggiori.

 Lo sciopero generale di oggi 13 ottobre è dunque un segnale. È il segnale che una parte consistente di lavoratori pubblici vuole opporsi ai piani del padronato e del governo, appoggiati apertamente dalla triade sindacale confederale!

 Contro i quattro soldi offerti dal governo e dai sindacati confederali, con lo sciopero di oggi i lavoratori chiedono un aumento salariale in grado di recuperare quanto è stato loro tolto negli ultimi anni; un salario più alto per permettere inoltre di resistere meglio ai ricatti padronali e per aver più forza per lottare.

 L’aumento salariale richiesto è uguale per tutti; la riduzione delle differenze di salario tra le diverse categorie e tra i diversi livelli all’interno di ogni categoria è importante perché rafforza la solidarietà tra lavoratori e ne agevola la lotta comune.

 Il 16 ottobre, fra tre giorni scenderanno in sciopero i Cobas della Scuola, anch’essi per richiedere aumenti salariali non risibili. Del fatto che il Pubblico Impiego e la Scuola non abbiano scioperato lo stesso giorno sono responsabili le dirigenze dei sindacati di base che, nonostante continui richiami, a parole, all’unità, mantengono divisioni categoriali e settoriali di stampo corporativo che favoriscono solo lo Stato-padrone.

 La prossima ripresa del movimento generale di lotta difensiva dovrà superare queste contrapposizioni, aprendo la strada alla formazione di un forte Sindacato di Classe che raggruppi tutte le categorie di lavoratori, fuori da ogni compatibilità col sistema capitalistico, in lotta aperta contro la classe padronale e i suoi servi politici e sindacali.

 Questo movimento si troverà davanti un apparato statale nemico e sempre più agguerrito, che già in questi anni ha grandemente ridotto le libertà sindacali per lasciare libertà d’azione solo alle organizzazioni sottomesse alle esigenze padronali e statali.

 Difendere le condizioni di vita e di lavoro coinciderà sempre più, per i lavoratori, con la lotta per l’abbattimento di questo regime.

- Per la ripresa della lotta generale di classe contro il regime del Profitto e dello sfruttamento del lavoro salariato!
- Per la formazione di un forte Sindacato di Classe!
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Riunione generale di lavoro a Torino
30 settembre -1 ottobre 2000 [RG78]


  • Corso dell’Economia -
  • Stato, Principio democratico, Tattica comunista -
  • Origine dei Sindacati in Italia - [ Resoconto esteso ]
  • Attività sindacale -
  • La questione irlandese -
  • La New economy - Resoconto esteso ]
  • Questione agraria in Colombia

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     Si è tenuta nel modo più produttivo la periodica riunione di lavoro del partito, nella nostra sede di Torino, nei giorni di sabato 30 settembre e domenica primo ottobre in presenza di ampia rappresentanza di quasi tutte le nostre sezioni.

     Con gli arrivati al venerdì si è tenuto un primo incontro di lavoro già in serata, poi riunione organizzativa il sabato mattina ove ogni compagno impegnato nel lavoro ha riferito dei suoi progressi e si è curato di mantenere quella giusta proporzione fra le diverse attività che le forze del partito e la situazione storica impongono.

     Nel primo pomeriggio del sabato, dopo una breve introduzione del centro, davamo esposizione ai rapporti.
     

    Corso dell’Economia

     Il primo, sul corso dell’economia, illustrava gli andamenti dei dati statistici per constatare i ritmi di accumulazione del capitale.

     L’espansione del capitale ha ripreso vigore da quasi 2 anni in tutte le grandi aree del mondo: continua con ritmi alti negli Stati uniti, si sviluppa in Europa e con vigore nella sua parte centro-orientale, porta la produzione in Giappone verso il recupero della decennale contrazione, riprende con decisione in Russia, ma solo muovendosi dal fondo di una crisi disastrosa, ritorna a livelli di crescita più elevata in Cina e in tutta l’Asia.

     Il capitale ha reagito alla stagnazione degli anni ’90 e al rallentamento del 1997/’98 con una sostenuta accumulazione negli Stati Uniti, con un enfiarsi del credito mondiale favorito dalle grandi banche centrali e con una gran corsa delle quotazioni di borsa.

     L’accumulazione vigorosa negli Stati Uniti ne è favorita: da una fase di sviluppo di nuovi settori della produzione, che procura profitti in forte crescita e rendite da monopoli temporanei sul mercato mondiale; dalla crescita della produzione reale per ora di lavoro e dallo sfruttamento operaio; da una forte immigrazione e da una debole pressione della lotta economica operaia; dall’euforia di borsa; dal gran sviluppo del credito agli investimenti di capitale e al consumo; da un dollaro forte per l’egemonia americana che consente un ammontare di indebitamento netto verso l’estero rapidamente crescente.

     La crescita del capitale negli Stati Uniti non si avvale solo della riconversione in capitale del plusvalore estorto ai lavoratori americani e non consumato, ma utilizza un flusso netto entrante di capitali monetari sovrapprodotti negli altri paesi, che per diventare capitale produttivo ha bisogno di mezzi di produzione e di sussistenza supplementari, che portano le importazioni americane a sempre più superare le esportazioni. Così viene esaltato da questa spirale di importazioni di capitali e di merci il sussulto di dinamismo della vecchia super potenza, la cui tendenza però resta quella al declino, ossia alla diminuzione della propria quota di produzioni mondiale.

     Finché la crescita dei profitti nella reale produzione di merci non rallenta; finché il credito riesce a forzare i limiti al processo riproduttivo originati dall’antagonismo fra produzione per l’accumulazione e consumi limitati, l’aumento della massa di debito estero non è un problema, né per la proprietà estera del capitale, né per le imprese americane che utilizzano quel capitale monetario, né per la moneta cartacea inconvertibile che conteggia quella massa, moneta oggi ben accetta, ma ben poco garantita dalla banca che la emette.

     Così le condizioni di circolazione del capitale finanziario diventano sempre più instabili di fronte a qualsiasi perturbazione dell’economia, queste tanto più probabili quanto più la forzatura dell’accumulazione americana avvicina la sovrapproduzione mondiale, la caduta dl saggio del profitto e degli investimenti.

     La speranza borghese del momento è quindi quella di un dolce rallentamento della crescita americana relativo agli altri grandi centri di accumulazione, che freni gradualmente senza creare panico in un processo esplosivo per la finanza, le borse e il dollaro. Ma la grande crisi del capitale verrà indipendentemente da quella più o meno rabberciata della finanza e delle monete, e non come solo riflesso di questa.
     

    Stato, Principio democratico, Tattica comunista

     Questo secondo rapporto criticava innanzitutto il modo idealistico con cui la borghesia tratta del principio democratico e dello Stato, contrapponendo ad esso il nostro inserire l’istituto della Democrazia in un lungo divenire storico di crescita e morte e, per logica conseguenza, l’incompatibilità dei valori democratici con la futura società comunista.

     Mentre per la borghesia la Democrazia è ritenuta concetto impostosi idealisticamente per un sentimento e bisogno innato umano e per sviluppo astratto della Ragione, per noi è il frutto materiale dell’imporsi della borghesia rivoluzionaria e della sua società del libero scambio: è dunque espressione di rivoluzioni oggettive in una data fase storica e non volontà del pensiero umano astratto.

     Con il 1871, e ancor peggio con il 1914, con l’imporsi cioè del capitalismo di tipo monopolistico ed imperialistico, la Democrazia è diventata una forma antistorica. La più funzionale espressione delle esigenze socio-economiche dell’imperialismo non può che essere, irreversibilmente, quella del fascismo, pur quando sotto veste apparentemente democratica.

     Così come non appartiene minimamente al marxismo rivoluzionario la pietosa difesa che si sbandiera oggi dei “valori della Democrazia”, così non appartengono al Comunismo tutti i corollari ideologici che dal principio democratico hanno preso forma e contenuto: Libertà, Uguaglianza e Diritto sono concetti della borghesia e della sua società, tanto nella sua fase democratica e progressista quanto in quella deteriore attuale imperialistica.

     Si è poi evidenziato nel rapporto come l’opportunismo sia sempre passato inquinando la dottrina marxista con i valori democratici, da Lassalle a Bakunin, dalla degenerazione della Seconda Internazionale allo stalinismo, ai suoi nipotini dei fronti popolari, guerriglieri, ecc.

     Riguardando poi la tattica di Lenin per la Rivoluzione in Russia si è dimostrato che le istanze democratiche di cui Lenin dovette farsi non solo difensore ma propugnatore, sono in perfetta linea con il marxismo rivoluzionario. Fino al 1871 i comunisti appoggiavano l’affermazione della rivoluzione democratica borghese in quanto il materialistico presupposto per la lotta di classe per il comunismo non poteva che essere la sconfitta decisa e definitiva del modo di produzione feudale e dei suoi caratteri reazionari. Così dovette fare ancora nel 1917 Lenin nella Russia feudale, con la differenza che in Russia, non esistendo una classe borghese rivoluzionaria, della direzione della rivoluzione borghese dovettero farsi carico i bolscevichi. L’obiettivo di Lenin fu dunque, dopo l’Ottobre, lo sviluppo del modo di produzione capitalistico in Russia, sotto il controllo dello Stato proletario e comunista. Solo la Rivoluzione in Europa avrebbe permesso ai Bolscevichi di spingere la Russia oltre, verso un’economia comunista.

     Chi, in passato, ha utilizzato ai propri fini opportunistici Lenin difensore delle forme economiche capitalistiche e politiche democratiche è stato giustamente ritenuto dalla Sinistra Comunista un traditore e al di fuori della limpida linea che Lenin ha invece tracciato. Le tattiche non si comprendono con citazioni isolate, ma con l’analisi dialettica della fase storica in cui si applicano.

     Nel 1919, nell’onda del Biennio rosso la Sinistra Comunista formulò le sue Tesi sull’Astensionismo che l’anno successivo, al II Congresso dell’Internazionale Comunista, vennero proposte alla sua Centrale e alle diverse sezioni. Alle nostre tesi l’Internazionale preferì quelle di Lenin e Bucharin che difendevano invece l’uso della tattica del parlamentarismo rivoluzionario, che noi accettammo per disciplina alla fondazione del Partito Comunista d’Italia. Infatti per Lenin e i bolscevichi, come già per Marx, il Parlamento fu sempre ritenuto soltanto un mezzo per la sua distruzione e per propagandare fra le masse una politica dichiaratamente antidemocratica e rivoluzionaria.
     

    Origine dei Sindacati in Italia

     La continuazione di questo rapporto veniva poi a riferire della impostazione smaccata riformista che negli anni precedenti la Grande Guerra assumeva la direzione della CGdL. Del regime presente denunciava gli eccessi, i casi più esasperati di ingiusta distribuzione del reddito nazionale, i casi più vistosi di speculazione sui prezzi dei generi di consumo proletario. Chiedeva quindi allo Stato un’opera di moralizzazione del capitalismo. Invece di impostare la strategia sindacale all’ottenimento di consistenti aumenti salariali si dirigevano le aspirazioni della classe verso un’utopico intervento dello Stato volto ad impedire o a trattenere l’aumento dei prezzi.

     Ciò si confaceva alla tendenza della direzione del sindacato già in quegli anni a trasformarsi in un partito del lavoro, tramite fra il riformismo in fabbrica e la politica gradualista parlamentare e interclassista.

     Altra anticipazione di quegli anni è la richiesta allo Stato di integrare il finanziamento di associazioni assicurative e assistenziali operaie gestite dal sindacato.

     Le direzioni destrorse operavano per un capovolgimento della natura del sindacato operaio: da organo di classe, estraneo al regime borghese e alle sue istituzioni, deputato alla difesa operaia dalla voracità, dichiarata come intrinseca e inevitabile, del Capitale, si convertiva in strumento di una ritenuta possibile collaborazione sociale fra Capitale e Lavoro, della quale avrebbero tratto vantaggio sia l’una parte sia l’altra. Si sarebbe trattato non di lottare per l’aumento dei salari, necessariamente a detrimento dei profitti, ma di convincere i borghesi e il loro Stato del comune interesse al riconoscimento della funzione nazionale delle organizzazioni operaie.

     Si scorge facilmente in simile impostazione una anticipazione vuoi del corporativismo mussoliniano, vuoi del sindacalismo anti e post-Mussolini, di stampo democratico o staliniano, e imperante oggi in tutti i paesi. La denuncia di simile corrompimento sul piano dell’organizzazione difensiva di classe è il grande primo compito che attende domani ogni nuova crescita della combattività operaia che dovrà tornare a porsi al di fuori di questo regime e dei suoi apparati.
     

    Attività sindacale

     Chiudeva i lavori del sabato la relazione sulla nostro intervento sul piano sindacale. Premesso che la seppur minima attività sindacale che il partito oggi svolge è però fondamentale alla sua sopravvivenza, si prendevano le mosse dalle conclusioni di un ampio lavoro della metà degli anni settanta che titolava: «al fianco del più umile gruppo di sfruttati che chiede un pezzo di pane e lo difende dall’insaziabile ingordigia padronale, ma contro il meccanismo delle istituzioni presenti e contro chiunque si ponga sul loro terreno”, citazione a sua volta ripresa da un articolo in merito redatto dalla nostra corrente di Sinistra negli anni venti.

     L’attività sindacale, “a contatto con la classe operaia”, è una delle definizioni del partito insieme alla sua più generale impostazione dottrinaria. Anche quando il rapporto di forza fra le classi è a noi sfavorevole, non per questo rinunciamo a penetrare ogni spiraglio perché il partito possa esercitare il ruolo che gli è proprio: collegare bisogni e passioni immediate della classe con il fine storico che verrà la classe a storicamente negare.

     Il rapporto ripercorreva la storia ormai semisecolare della nostra organizzazione di Partito dimostrando come sempre abbia dedicato non piccola parte delle sue energie all’attività sindacale.

     Si vantava come il partito pubblicasse “il Tranviere Rosso”, dal gennaio 1962 al settembre 1963 (quando divenne rubrica fissa su “Spartaco”), suo organo di agitazione e di intervento nella categoria dei trasporti. Nel solo 1962 ne furono stampati 42 numeri, e diffuso un totale di 15.000 copie. La direzione opportunista dei sindacati autoferrotranvieri era tenuta costantemente sotto tiro e continuamente denunciata e combattuta la sua politica di divisione e di solidarietà con il padrone.

     Una delle armi dell’opportunismo è lo aziendismo, il mito del controllo operaio sul posto di lavoro, strumentale solo a chiudere le rivendicazioni nell’angusto ambiente aziendale. Anche il nostro intervento fra i tranvieri negava qualsiasi possibilità di controllo di quel ghetto reazionario che è l’azienda, irriformabile cellula dell’accumulazione del capitale. Ogni possibilità di alleanza tra padrone e operai è dichiarata disastrosa: «Non ci stancheremo mai di ripetere che vale assai più una lira conquistata con una lotta classista che mille lire attraverso pateracchi tra capi ufficiali dei lavoratori e padroni. Che conta un vantaggio economico, effimero e fittizio nel marasma della anarchia capitalistica, se non serve a rafforzare la fraternità tra proletari, il loro spirito di abnegazione, la loro combattività ?».

     Ma la primordiale lotta economica resta una fatica di Sisifo se non collegata al fine ultimo più generale della classe operaia. Al Partito Comunista il compito di lanciare questo ponte.
     

    La questione irlandese

     Riprendevamo alla domenica mattina con la prima parte di uno studio sulla questione nazionale irlandese. Essa, che si è infine risolta col dominio imperialistico anglo-americano, riconferma i principi della concezione materialistica della storia.

     Nel primo rapporto di questo nuovo studio si è discusso il contrasto fra una civiltà, ricca di letteratura (Tristano ed Isotta), di diritto (leggi Brehon), di arte (libro di Kells), e di filosofia (Duns Scotto), che lentamente usciva dal comunismo primitivo, con l’invasione nel 1167 dei Normanni, già nel feudalesimo avanzato.

     Il contrasto diviene poi con il capitalismo dell’Inghilterra, in pieno sviluppo economico, che nel 1600 conquista l’isola, distruggendo il sistema di clan, espellendo o uccidendo gran parte della popolazione.

     La prosecuzione del lavoro illustrerà la parabola del movimento di indipendenza dell’isola, fino alla sua ricaduta nelle mani dell’imperialismo.
     

    La New economy

     Il relatore osservava che una volta tanto ci dobbiamo trovare d’accordo col “Governatore” Fazio, per la semplicità e sintesi con la quale ha definito la presunta novità rivoluzionaria della new economy: «non è altro che la riorganizzazione, attuata attraverso l’informazione e l’innovazione, dell’assetto produttivo operante», e cioè del capitalismo. Tenuto conto che la definizione viene da una voce non sospetta, speriamo che ancora una volta non si dica che noi comunisti siamo rimasti nella giungla come il classico giapponese dopo la seconda guerra mondiale. Il fatto è che le nuove parole non sono in grado di cancellare vecchie realtà e, se un significato che l’hanno, spesso è quello di coprire d’un velo una verità ed una natura, quella del capitalismo, che “ama nascondersi” dietro al fumo dei neologismi alla moda.

     Questa nostra convinzione, naturalmente, non è semplicemente “ideologica”: l’analisi fatta da Marx del funzionamento del Capitale è lì, e chiunque può controllarla. La produzione ha come suo scopo dichiarato il Profitto, e per l’ottimizzazione di esso tutti i mezzi utili devono essere messi in atto. Tra questi l’innovazione tecnica e la pressione ed estorsione del lavoro salariato.

     La new economy non mette in discussione le definizioni cruciali di monopolio di classe, di libera concorrenza, di capitalismo come modo di produzione in generale, di imperialismo. La new economy dunque non fa che seguire il percorso storico noto. Si potrà dire che le nuove “tecnologie” sono appunto rivoluzionarie: già Marx si è preoccupato di dire che il Capitale è costretto a rivoluzionare incessantemente le forze produttive, se non vuole soccombere sotto la pressione della legge tendenziale di caduta del tasso di profitto.

     Si potrebbe dire che la new economy è veramente nuova se si muovesse oltre e contro queste due leggi fondamentali. Ma ciò non si verifica, e nessuno ha avuto il coraggio di sostenerlo.
     

    Questione agraria in Colombia

     L’ultima relazione descriveva la storia e la situazione del grande e importante paese, originatosi dallo smembramento della Grande Colombia, da collocarsi nel quadro ben definito dal lavoro di partito sulle incompiute ed ormai non completabili rivoluzioni borghesi anche nelle più arretrate regioni dell’America Latina.

     Con una posizione geografica delle più felici, un territorio singolarmente vario, dai climi diversi e adatti alle colture e all’allevamento, un sottosuolo ricco di minerali, le sofferenze sociali del paese derivano senz’altro dalla sua ricchezza piuttosto che dalla miseria.

     Come in molta parte del subcontinente la questione eternamente irrisolta è quella della riforma agraria trovandosi accanto a piantagioni moderne estensive di enormi estensioni, accanto a latifondi mal condotti, una vasta presenza di un contadiname miserrimo, piccolo e medio che avanza la sua secolare rivendicazione per la terra.

     Questa da sempre inesorabilmente urta con la forza del potere politico che emana, anche in Colombia, sul codominio della classe fondiaria interna associata alla classe borghese esterna dei vari imperialismi che nei settori agrario, minerario e industriale del paese investono grandi capitali.

     Contro questo Stato e contro la sue milizie non ufficiali si combatte da più di mezzo secolo una permanente e sanguinosa guerra civile, condotta da una parte dal contadiname, col quale spesso solidarizza la piccola borghesia urbana e intellettuale, dall’altra da un robusto movimento sindacale della niente affatto trascurabile classe operaia.

     Le tre diverse formazioni guerrigliere, che incanalano la rivolta nelle campagne e le loro necessità difensive di fronte alle violenze dei mercenari dei terratenientes e delle imprese gringos, esprimono tutt’altro che un programma contadino-rivoluzionario ma quello proprio dei contadini medi, o aspiranti tali, che rivendicano il diritto di sfruttare capitalisticamente sulle loro terre braccianti e contadini poveri. Le Farc chiedono quindi d’essere riconosciute come forza nazionale, e lo sono anche, e nelle trattative in corso con il governo propongono un “Accordo di ricostruzione e di riconciliazione nazionale”. Sono quindi un partito della piccola borghesia, non rivoluzionario, armato per necessità ma legalitario e pacifista per costituzione, che cioè non vuol vincere ad ogni costo.

     Visto il tipo di potere nel paese, ciò non lo salva dalla spietata ferocia del terrorismo legale ed extra-legale, statale e privato.

     La grave crisi economica e sociale del paese andino bisogna che esprima quindi un partito rivoluzionario, che prevediamo potrà essere solo quello comunista del proletariato. Questo movimento diretto dal proletariato industriale e agricolo, forse in una sollevazione comune di tutti i paesi di quella che fu la “Grande Colombia”, con Venezuela ed Ecuador, tenderà alla distruzione del potere borghese, anche mobilitando la massa del contadiname più povero affamato di terra.
     
     
     
     
     
     
     

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    Problemi di cassa fra Santi e Diavoli

     Socrate e Cristo sono accomunati dal fatto di non essersi minimamente curati di lasciare nulla di scritto dei loro insegnamenti e della loro dottrina. Cosicché, per Socrate, nessuno vieta di credere che Platone non ce l’abbia raccontata giusta ed ognuno di noi se ne può fare un’idea del tutto personale senza timore di essere smentito.

     Nei confronti di Cristo questo non è possibile. È vero che nemmeno Lui, nei suoi 33 anni di vita, mai ha preso la penna in mano. Ma se Lui non ha scritto ci ha pensato Papà (il Padreterno) a far scrivere «gli Apostoli e uomini della loro cerchia» senza che nessuno possa mettere in dubbio la veridicità dei Vangeli. «Le Sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio (...) Dio è l’autore della Sacra Scrittura nel senso che ispira i suoi autori umani. Egli agisce in loro e mediante loro. Così ci dà la certezza che i loro scritti insegnano senza errore la verità salvifica» (Conc.Ec.Vat.II - "Dei Verbum", 24). Oppure, come direbbe S.Ugo da S.Vittore: «Omnis Scriptura divina unus liber est, et ille unus liber Christus est, quia omnis Scriptura divina de Christo loquitur, et omnis Scriptura divina in Christo impletur».

     Detto questo, senza timore di essere contraddetti, possiamo senz’altro affermare che uno degli insegnamenti maggiormente ricorrenti nella Scrittura neo-testamentaria è quello del rifiuto delle ricchezze terrene. «Quando vi mettete in viaggio – insegnava il Maestro – non prendete nulla: né bastone, né borsa, né pane, né denaro e non portate un vestito di ricambio» (Luca, 9-3). Ed ancora: «Non preoccupatevi troppo del cibo che vi serve per vivere o del vestito per coprirvi (...) Osservate i corvi: non seminano e non raccolgono, non hanno né dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Ebbene, voi valete molto più degli uccelli (...) Perciò, non state sempre in ansia nel cercare che cosa mangerete o che cosa berrete (...) Sono gli altri, quelli che non conoscono Dio, a cercare sempre tutte queste cose. Voi invece avete un Padre che sa bene quello di cui avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e tutto il resto Dio ve lo darà (...) Vendete quel che possedete e il denaro datelo ai poveri: procuratevi ricchezze che non si consumano, un tesoro sicuro in cielo. Là, i ladri non possono arrivare e la ruggine non lo può distruggere. Perché, dove sono le vostre ricchezze là c’è anche il vostro cuore» (Luca, 12-22/34).

     Queste parabole e molte altre dello stesso genere, chi ha, anche per poco tempo, frequentato la chiesa, se le è sentite ripetere centinaia di volte ed i preti hanno sempre giurato di conformare la loro condotta a questi insegnamenti. Che dire, infatti, di Paolo VI che donava ai poveri la tiara pontificia? E del suo successore Giovanni Paolo I (Papa Luciani) che alla tiara rinunciava del tutto? Che affermava che «la Chiesa non deve avere potere, né possedere ricchezze»? Che, ancora Patriarca di Venezia, nel 1976, aveva invitato i suoi parroci a spogliare le chiese delle ricchezze per donarne il ricavato ai poveri? Che dire, infine, dell’attuale Papa Giovanni Paolo II che nella lettera Enciclica "Sollecitudo Rei Socialis" (1988) ordinava di «alleviare la miseria dei sofferenti non solo con il superfluo, ma anche con il necessario»? E più esplicitamente affermava: «Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino: al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare quei beni per dare pane, bevande, vestito a chi ne è privo»?

     Dopo la lettura della "Sollecitudo Rei Socialis" nessuno si scandalizzerà più se verrà a sapere che nei furti di opere d’arte che regolarmente colpiscono le chiese, in molti casi sono implicati direttamente i preti. Nessuno si preoccuperà più perché sa che il ricavato delle vendite e dei saccheggi è destinato ad alleviare le sofferenze dei poveri.

     Questo il Vangelo dei primi due millenni: «Nessun servitore può servire due padroni: perché, o amerà l’uno e odierà l’altro. Non potete servire Dio e il denaro» (Luca, 16-13).

     Ma la religione della società capitalista, bene o male, è costretta ad agire da capitalista ed a parlare la lingua del capitalismo, ed allora tanto vale farlo apertamente, in maniera inequivocabile. Così, in questo fine secolo, caratterizzato dalla “morte delle ideologie” nemmeno i Vangeli potevano superare la soglia del millennio senza una adeguata rivisitazione.

     Portabandiera di questa rilettura in chiave “moderna” si è autoproclamato il cardinale Biffi che ci invita ad andarci a rileggere l’ottavo capitolo di Luca. Non tutto, per carità, sarebbe solo una perdita di tempo: bastano i primi tre versetti; anzi è inutile leggerli, ci pensa lui a spiegarcene il contenuto. Ma cediamo la parola all’eminente porporato: «Raramente sentirete citare quel passo – (chissà perché i preti finora ce l’avevano nascosto?) – ma lì si dice che anche Gesù e i Dodici avevano una organizzazione finanziaria che comprendeva nientemeno che la moglie dell’amministratore di Erode. E quella prima comunità aveva pure, non dimentichiamolo, un cassiere. Che finì male, perché si chiamava Giuda. Ma ciò non toglie che un cassiere ci vuole» (“Corriere della Sera”, 15.9.99). In altra occasione, sempre quel raffinato di Sua Eminenza Biffi scrive: «Diversamente da ciò che talvolta è stato affermato, Gesù da buon ebreo non demonizza il denaro. Lo rispetta e si preoccupa anzi di dare alla sua attività una realistica base finanziaria» (“Identikit del Festeggiato”).

     La “base finanziaria” però non doveva essere del tutto “realistica” se il cassiere, Giuda, per comperarsi un campicello dovette vendere il Maestro ai... sacerdoti! È Pietro che parla: «Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto» (Atti, 1-18).

     Vangeli a parte, quello che il cardinale di Bologna e tutti gli altri vogliono dire è che la Chiesa per funzionare ha bisogno di quattrini, molti, molti quattrini, e tanto di più quanto più si riduce la cerchia dei suoi fedeli e quindi il flusso delle elemosine, dei lasciti e dell’opzione dell’otto per mille. La Sposa di Cristo ha sempre più necessità di una “realistica base finanziaria”, ed ogni occasione è buona per ribadire questo concetto.

     Da Assisi, la città di Francesco “il poverello”, monsignor Ennio Antonelli, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, lancia un grido di allarme contro il dilagare del Demonio che sembra amare i suoi accoliti più di quanto non faccia l’Eterno Padre: «Con il contributo dell’otto per mille arrivano alla chiesa cattolica italiana 1.000 miliardi l’anno, mentre il fatturato della magia ammonta a 1.500 miliardi» e “La Nazione” del 5 maggio, facendo eco al rappresentante della Chiesa cattolica, titola a tutta pagina: “Satana? guadagna più della Chiesa”.

     I convenuti ad Assisi denunciano il dilagare delle forze sataniche ed i sempre più frequenti casi di possessione nei confronti dei quali «è comprovata l’inefficacia delle soluzioni psichiatriche e mediche in genere» mentre il rimedio certo deriva “dall’esorcismo”. A questo scopo il giornale fiorentino ci informa che è stata proposta la «formazione di gruppi di intervento tra esperti riconosciuti»: la volante degli esorcisti.

     I preti del terzo millennio arrotonderanno i loro magri salari, elargiti da un avaro Dio Padre, grazie alla munificenza del Demonio, loro eterno nemico, ma buon datore di lavoro.
     
     
     
     
     
     
     
     

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    Un "Processo di Pace" per il capitalismo in Irlanda

     Dura ormai da due anni “il processo di pace” in Irlanda. Prosegue come una vecchia macchina che va avanti piano, si ferma e riparte fra scoppi vari: eppur si muove, fra le minacce del governo di Londra di non dare legittimità al parlamento della provincia e le minacce dell’IRA di non consegnare il vastissimo arsenale bellico. Ogni tanto si torna alla “violenza settaria”: la strage peggiore nella storia di trent’anni di guerra civile si è avuta dopo l’avvio del “processo di pace”.

     Dietro le quinte, ma anche balzando sul palcoscenico al momento opportuno, si muovono non solo i diretti interessati a livello locale, i nazionalisti e gli unionisti, ma anche i rappresentanti dell’imperialismo americano e britannico. Negli Stati Uniti sono 40 milioni gli originari dell’Irlanda, e il loro voto, spesso inquadrato sia a livello locale sia nazionale, risulta decisivo nei tornei elettorali. Grosse città come Boston e Chicago sono da decenni sotto il controllo delle macchine politiche dei Daley e dei Kennedy, gran elettori dei Presidenti, mentre anche i vari Reagan e Nixon repubblicani non esitano a svelare le proprie radici al momento opportuno con una visita ai lontani parenti irlandesi. Altrettanto vale per il Regno Unito con una ragione in più: il costo per il vasto spiegamento di truppe e per il versamento di sussidi alla regione più povera del regno.

     Così nel giorno del Venerdì Santo del 1998 il leone britannico e l’aquila implume statunitense hanno trovato, come Robinson Crusoe, i loro Venerdì nella forma di due politici moderati, il Trimble unionista ed lo Hume nazionalista, che vincono così il premio Nobel per la Pace. L’ambita onorificenza, che annovera fra i vincitori noti pacifisti come Beghin e Kissinger, è andato 16 volte ad americani, 11 volte a britannici e una miseria di 3 volte a francesi: più è grande l’imperialismo più fa la guerra, più sono le sue vittorie, e quindi più può fare la pace, il tutto finanziato dai profitti delle fabbriche del signor Nobel, l’inventore della dinamite. Il cinismo borghese è senza limiti.

     I due rappresentano uno spostamento nella politica della provincia. Lo Hume è del partito social-democratico laburista, sarcasticamente denominato, dalla sua sigla SDLP, Semi-Detached Labour Party, cioè il partito laburista delle villette a schiera, dove abitano le classi medie “cattoliche”. Ha potuto rimorchiare il Sinn Fein nell’area governativa per vari motivi: un più equo accesso ai posti nello Stato, confidare in un voto nazionalista sempre più consistente visto che la natalità cattolica è più alta di quella protestante, ed infine il consuntivo fallimentare di 30 anni di violenza. Il Trimble invece doveva tirare le somme della situazione del partito unionista. Si è scisso dal partito conservatore di cui era dalla fondazione una succursale provinciale, scindendosi poi al suo interno in tre. Se il policlassismo unionista era in crisi e la borghesia non poteva più dettare legge perché troppo fragile, non restava altro da fare che cambiare cavallo e scendere a patti con il vecchio nemico, il laburismo britannico.

     Entrambe le parti, che per decenni avevano mischiato l’acqua santa del bigottismo religioso con il diavolo della violenza per annacquare prima e annegare poi qualsiasi moto proletario, dovevano finalmente disinnescare la bomba del settarismo, che si rivela essere un impedimento allo sviluppo capitalistico. Per altro la violenza dell’IRA e dei gruppi paramilitari unionisti non aveva impedito varie espressioni, ancorché distorte, di lotta di classe, come lo sciopero dell’Ulster Workers’ Council contro tutti, inclusi i sindacati, negli anni 70 che bloccò ogni attività per una settimana.

     La questione di unionismo e nazionalismo in Irlanda risale all’unione con il Regno Unito nel 1800, che cancellò qualsiasi vestigia di indipendenza, e raggiunse il culmine nella lunga guerra civile che dalla rivolta di Pasqua del 1916 durò fino alla divisione dell’isola nella prima metà degli anni 20.

     Qui troviamo un primo capovolgimento nella storia: erano i borghesi protestanti a sostenere la rivoluzione francese alla fine del settecento, e perciò l’indipendenza d’Irlanda. Sconfitta la rivolta, l’imperialismo britannico regnò supremo. E qui anche un primo appuntamento mancato nelle rivoluzioni della nostra epoca: contemporaneamente alla rivolta irlandese si ammutinavano, per altri motivi, i marinai della flotta inglese, in gran parte irlandesi, e fu inalberata per la prima volta la bandiera rossa che sarà del proletariato.

     Poi nella guerra civile del secolo scorso la borghesia protestante difese l’unione, ed essendo più forte di quella cattolica e nazionalista ed avendo stretti legami con la Gran Bretagna, che militarmente era ancora l’imperialismo più forte del mondo, si potè ritagliare una provincia al nord. La borghesia del sud era debole per vari motivi: la guerra ivi combattuta aveva condotto alla distruzione di molte industrie. Altre ancora finirono nella mani degli operai che tentarono di gestirle. Significativamente erano per la maggior parte legate alla trasformazione dei prodotti agricoli: birrerie, distillerie di whisky, caseifici. Inoltre, mentre nel nord la borghesia, basata sull’industria tessile del lino, ma anche sulla cantieristica navale, era capace di dominare in un unico partito unionista, nel sud la borghesia ne aveva due, uno firmatario della pace con il Regno Unito, l’altro contrario.

     Anche il proletariato del sud era debole. Potè sì affermarsi localmente nelle industrie abbandonate, potè anche organizzarsi in milizie ma, a fronte di una certa presenza sindacale e militare, mancava quasi del tutto la risoluzione della questione politica. Il piccolo partito comunista aveva un programma che andava dalla statizzazione dell’industria pesante “per il beneficio di tutto il popolo”, e anche dei trasporti e delle banche, alla “confisca delle mandrie e delle grandi tenute per la distribuzione delle terre fra gli agricoltori senza terra e i braccianti”, alla “municipalizzazione di tutti i servizi pubblici”. Solo al decimo punto, la questione militare, si ha qualche accenno alla rivoluzione: “armamento generale dei lavoratori delle città e delle campagne”. Tutto ciò su un’isola dove per oltre tre secoli l’imperialismo britannico aveva imposto un capitalismo sfrenato nei rapporti di produzione. Opportunità mancata: all’epoca della guerra civile esisteva ancora l’Internazionale Comunista che non aveva ancora imboccato la sua discesa barcollante di tatticismo verso l’opportunismo puro.

     Questa debolezza fondamentale da entrambe le parti si confermò nel primo censimento dopo la divisione dell’isola. Nel Sud lavoravano nell’agricoltura 678 mila addetti (producendo il 33% del PIL) e solo 155 mila nell’industria e nelle costruzioni (con il 18% del PIL), mentre nel Nord le cifre sono rispettivamente di 149 mila in agricoltura e 131 mila nell’industria e costruzioni. Nel Sud l’economia ristagnava: fatta 100 nel 1926, saliva ad un massimo di 112 nel 1930, scendeva ad un minimo di 102 nel 1933 per poi risalire a 129 nel 1939. Nel Regno Unito le cifre sono: 100 nel 1926, 111 nel 1930, 107 nel 1933, 138 nel 1939. Ci sono vari motivi per questa debole crescita, a parte la crisi degli anni trenta. Il Regno Unito impose dei dazi sui prodotti irlandesi e gli Stati Uniti votarono il proibizionismo che quasi stroncò la produzione della birra e del whisky. Legata com’era a questi due mercati, la borghesia irlandese rimase compradora, o, come dicevano i nazionalisti oltranzisti “una repubblica di cambia-valuta”, operazione assai facile perché il punt irlandese manterrà la parità contro la sterlina fino alla decisione, presa pochi anni fa, di entrare nell’area Euro. Che la valuta dell’Eire seguisse sempre la valuta di Albione la dice lunga sullo stretto legame fra i due paesi.

     Nel periodo dopo la guerra la stagnazione nel Sud proseguì: il PIL si raddoppiò nell’arco di 25 anni fra il 1945 e il 1970 e di nuovo, accelerando, nei 20 anni dal 1972 e il 1992. Ma nei soli 11 anni dal 1987 al 1998 si è raddoppiato ancora una volta e adesso assistiamo ad aumenti annuali di oltre il 10%. Lo sviluppo folgorante del capitalismo è dovuto sia ai contributi dell’Unione europea, che vi investe il 5% del PIL, sia, e ancor di più, al flusso di capitali esteri. Secondo l’ultimo censimento della produzione industriale, del 1996, un bel 4% dei lavoratori nell’industria manifatturiera prestavano servizio in aziende di proprietà estera, fornendo il 66% del prodotto industriale. Inoltre il capitale estero punta sulle industrie più redditizie. Si calcola che l’Irlanda esporta l’82% del PIL contro il 49% dei Paesi bassi e il 62% del Belgio, altri paesi nani. Inoltre, scomponendo le cifrette, si vede che la perfida Albione fornisce il 34% delle importazioni e riceve il 24% delle esportazioni, mentre il cattivo zio Sam fa l’11% e il 15% rispettivamente.

     Un tale aumento della produzione industriale ha fatto salire l’occupazione del 43% negli anni ’80 contro un misero 14% negli Stati Uniti, il paese dei “liberi”. Un altro indice dello sviluppo capitalistico sta nel fatto che dal 1961 la popolazione sta di nuovo aumentando, anche se lentamente. Ciò fa sì che la bilancia dei pagamenti, sempre in rosso dal 1926 al 1985 tranne che per i due anni di guerra 1943-44 (la differenza essendo coperta dalle rimesse dei lavoratori irlandesi all’estero, soprattutto in Inghilterra), è diventata positiva con un rapporto importazioni/esportazioni di 4:3. In altre parole: si importa il capitale e non si esporta solo manodopera.

     Nell’Irlanda del Nord la borghesia, legata nell’Unione con la Gran Bretagna, ha perso sempre più terreno con la chiusura delle vecchie industrie. Facciamo i calcoli: nel 1999 il PIL pro-capite nel Regno Unito era di 22.000 dollari, nel Sud dell’Irlanda di 25.000. Ma dato che il PIL pro-capite del Nord Irlanda è solo l’83% del resto del Regno Unito, il rapporto Nord/Sud è di 73:100. Questa inversione di tendenza non poteva non scombussolare il vecchio policlassismo per produrne ancora altri.

     Gli irlandesi hanno dato gran contributo alla letteratura dei nostri tempi, da Joyce a Beckett a Wilde ed a Shaw, che hanno tutti calcato il sentiero dell’emigrazione come milioni di connazionali. Per il primo «l’Irlanda è la scrofa che divora la figliata». Ma nei verdi campi (green field sites) dell’Irlanda non cacciano scrofe ma il leone sdentato di Gran Bretagna, divenuto ancora più pericoloso perché sa mangiare solo uomini, insieme al suo alleato, l’aquila calva americana, calva non perché è vecchia, bensì perché, come gli avvoltoi, ha testa e collo rasati per compiere più efferatamente il suo lavoro di «tirar fuori gli occhi dalla testa» e di rodere il fegato del prometeico proletariato.I nazionalisti irlandesi della vera Pasqua del 1916 volevano che la bandiera della futura nazione fosse un’arpa d’oro, non incoronata, in campo verde. Ma nella sua bandiera sventola oramai solo il verde del dollaro americano e l’oro del sovereign britannico.
     
     
     
     
     
     
     

    Crisi nell’industria dell’auto in Gran Bretagna

    Nazionalizzazione-Privatizzazione falsa alternativa per la classe operaia

     Nel periodo che si è concluso con la recente svendita dell’impianto Rover di Longbridge, Birmingham, di proprietà della BMW, la cosiddetta sinistra si è data intensamente da fare per confondere le menti degli operai combattivi, mettendo su campagne in favore delle nazionalizzazioni e della proprietà pubblica. Anche se coperta da vernice sinistrorsa, la campagna non ha certo significato una chiamata delle forze proletarie ad un’azione di classe: si è in realtà trattato di nient’altro che di un richiamo agli appositi uffici governativi perché intervenissero a condire l’affare con qualche “dolcificante” finanziario ad uso dell’acquirente finale.

     Tra un gaio stappare di bottiglie di champagne e l’altro, nell’atmosfera di euforia fu annunciato: «si salveranno posti di lavoro» e, grazie ad un progetto sostenuto dal Ministero del Tesoro, un quarto delle azioni sarebbe stato offerto alle maestranze (ma anche i rivenditori ne avrebbero avute!). Il Ministro del Commercio e dell’Industria, il negoziatore del sindacato TGWU e il capitalista “buono” John Towers, divennero di botto gli eroi del giorno.

     Naturalmente, come sempre in questi casi di salvataggio della Patria, si trattava di una sonora fregatura: le proposte del consorzio includevano anche un impegno a una massiccia ristrutturazione, comprendente l’eliminazione di circa 1750 posti di lavoro. E sicuramente all’epoca dell’accordo la fama che Towers si era conquistato di grande “ristrutturatore” (nel suo incarico precedente di dirigente esecutivo della Concentric aveva ridotto i dipendenti del 25%, da 2.000 a 1.500) aveva avuto un peso determinante.

     Nel frattempo in altri settori del comparto automobilistico non si sta con le mani in mano. Il “dimagrimento” deciso dalla Ford per i suoi impianti europei interesserà i 20.000 salariati che lavorano nei 21 stabilimenti che la Ford ha sulle isole britanniche; si prevede che molti di questi saranno chiusi, e che molti operai perderanno il posto. A Dagenham, il grande impianto che la Ford ha nell’Essex e che occupa 8.000 lavoratori, sono già stati tagliati 1.500 posti dalla catena di assemblaggio auto, e 700 dipendenti hanno già accettato di essere messi in pensionamento anticipato. L’ultima notizia è che la produzione del modello Fiesta sarà chiusa per essere trasferita a strutture produttive più moderne che si trovano a Colonia. Tutti i lavoratori oltre i 50 anni di età sono considerati esuberanti, e l’impianto verrà convertito alla produzione di motori. Se l’azienda insisterà nel voler cessare la produzione della Fiesta, i sindacati minacciano di ricorrere allo sciopero, sia a Dagenham sia negli altri impianti britannici.

     La musica non cambia all’imponente fabbrica Nissan a Sunderland; su 5.000 operai grava la minaccia di un “programma di riduzione dei costi” del 30%, il che significherà altri licenziamenti, dopo che l’occupazione nel settore materiali e ricambi era calata da 1.200 a 600. Anche la Honda prevede tagli occupazionali, anche se dice di sperare di farlo senza licenziamenti.

     Il futuro dei proletari impiegati nel settore automobilistico sembra quindi quanto mai precario e nebuloso.

     Di fronte a questi attacchi, invece di incoraggiare il formarsi di un’organizzazione operaia indipendente, contro lo strangolamento operato dal Partito Laburista e dall’apparato sindacale, gli pseudo-socialisti di turno preferiscono confondere gli operai più combattivi, blaterando ancora di controllo statale sul settore automobilistico: «La proprietà pubblica è l’unico modo di tenere insieme la Rover» e «La Rover dovrebbe essere gestita da chi sa come funziona ogni cosa e come migliorare la produzione: gli operai della Rover» sono gli slogan più rappresentativi, citati da “Car Bulletin”, una pubblicazione trotskista di base. Ma quella che a prima vista potrebbe apparire come una soluzione assai radicale, se non addirittura socialista, è in realtà reazionaria fino all’osso. Questo per una serie di ragioni, ma la più importante in questo caso è che si continua a illudere i proletari che un governo borghese possa avere la volontà, o la capacità, di migliorare le condizioni di vita dell’umanità lavoratrice.

     Si tratta purtroppo di un’illusione assai diffusa nell’arcipelago britannico, che per la durata di tutto il secolo passato (un secolo lungo per i proletari, checché ne dica l’opportunista Hobsbawm!) si è fondata sull’articolo 4 dello statuto del Partito Laburista, che impegnava il partito «a garantire a tutti i lavoratori del braccio e della mente il pieno frutto del loro lavoro, e la distribuzione il più possibile equa di questo frutto, sulla base della proprietà comune dei mezzi di produzione». Questo articolo 4, piuttosto tiepido e ambiguo (notare “il più possibile”), fu redatto nel 1918 da Henderson e dagli Webb, fondatori e principali esponenti del socialismo fabiano: una dottrina che aveva come scopo cosciente e aperto quello di evitare la rivoluzione. Così il manifesto del 1922 terminava con lo slogan: «Contro la Rivoluzione», concludendo: «Il programma laburista è il miglior bastione contro le sollevazioni violente e le guerre di classe».

     Nonostante questo manifesto atteggiamento antirivoluzionario, per tutto il resto del secolo l’articolo 4 è stato utilizzato per gettare fumo negli occhi agli operai, e anche per dare credibilità alla teoria secondo la quale gli elementi di sinistra all’interno del Partito Laburista avrebbero potuto un giorno “conquistare” il partito a posizioni rivoluzionarie. Così, pur se al di fuori del Partito Laburista, i gruppi trotskisti si sono sempre sentiti impegnati a “combattere per l’articolo 4” come segno “dell’impegno del Labour Party a mantenere un minimo di posizione anticapitalista” (posizione del SWP).

     La situazione adesso è diversa. Il “Nuovo” Labour non molto tempo fa si è liberato anche dell’articolo 4, confidando piuttosto nella recente legislazione antisciopero dei Tory per controllare efficacemente e più per le spicce gli operai. Il Partito Laburista non rivendica più nemmeno una qualche patente di socialismo, e la nozione “proprietà comune”, identificata senz’altro con la proprietà dei mezzi di produzione da parte dello Stato borghese, è stata talmente screditata ed ignorata negli ultimi anni che può impunemente sostituirla con quelle di “intervento statale” e “aiuto statale”, senza che nessuno faccia una piega, compresi i proletari. Così, l’intervento del governo laburista nell’affare Rover si è ridotto a niente di più della semplice approvazione di un accordo che prevedeva di gettare qualche azione ai lavoratori che restano, e di dare una qualche indennità a quelli che vengono cacciati.

     Ma se per il New Labour la difesa dell’articolo 4 non è più bandiera di battaglia, potete scommettere che sarà da qualcun’altro opportunista ripresa in mano, ovviamente nell’accezione di proprietà statale! I lavoratori combattivi potranno così essere di nuovo indirizzati dai trotskisti a rivendicare le nazionalizzazioni, invece di utilizzare le forze nel loro senso, quello per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie.

     I sindacati sono come sempre intonati con il Partito Laburista e tutto quello che ritengono necessario per mantenere il loro ruolo di rappresentanti dei lavoratori è semplicemente invitare il governo a partorire un po’ più di aiuti statali. Così, nel periodo precedente la svendita della Rover, il segretario generale scriveva su “T & G Workplace Record”: «Il governo dovrebbe mostrare di essere pronto a offrire un’incentivazione finanziaria ai potenziali acquirenti che si impegnino a mantenere il gruppo unito», mentre per quanto concerne le indicazioni sindacali agli iscritti, sotto il titolo “Cosa puoi fare”, si danno suggerimenti deprimenti: «Scrivi al presidente della BMW per manifestare il tuo disgusto! Vai nel salone BMW o Rover più vicino e chiedi al manager di trasmettere le tua preoccupazioni alla società! Scrivi al tuo parlamentare!». In altre parole, si invitano gli iscritti al sindacato, come individui e non come classe, a fare appello alla gerarchia borghese perché abbia pietà di loro. Pensate che i padroni si sentano tanto “colpevoli” da cedere? E sarebbe stata pura “cattiveria” quella che li ha portati a vendere la Rover? Questa insipida campagna fa di tutto pur di non dire quale è la sola natura della società capitalista, la sete di profitti sempre maggiori, unico e inevitabile motivo anche della svendita da parte della BMW.

     I fatti non mancano di avere il loro effetto sui proletari, chiacchiere o no, e in numero sempre maggiore sentono il bisogno di lottare per obbiettivi immediati, quali la difesa contro i licenziamenti e i tagli al salario. Possono intanto verificare quanto il “controllo statale” nell’industria automobilistica – lungi comunque dall’essere una misura di segno socialista – abbia mostrato di riuscire a migliorare le condizioni di vita e di sicurezza sul lavoro degli operai. Per questa verifica non c’è bisogno di andare lontano, basta la storia dell’impianto di Longbridge.

     Verso la fine degli anni ’60 - inizio anni ’70, il governo laburista autorizzò la creazione di una grande azienda automobilistica britannica. La vecchia British Motor Corporation si fuse con la Standard-Triumph e con la Leyland per formare la elefantiaca British Leyland Motor Corporation (BL). L’impianto di Longbridge a Birmingham fu aperto in questo contesto nel 1974 e all’epoca era probabilmente il meglio organizzato, oltre che il più grande, in Gran Bretagna. A pochi anni di distanza dalla sua costituzione la BL era in crisi, e il governo nazionalizzò l’azienda, comprandone il 95% delle azioni al costo di 1,4 miliardi di sterline.

     Gli anni nei quali si concretizzò la nazionalizzazione della Leyland seguivano il crollo della quota britannica nel commercio mondiale, che passava dal 16,5% nel 1960 al 10,8% nel 1970. In tale situazione si produsse una risposta di lotta da parte della classe operaia e, verso la fine degli anni ’60, l’agitazione contro la poco santa alleanza tra governo laburista, dirigenze sindacali e padronato trovò sempre più seguito tra i lavoratori che cominciavano a vedere la reale natura dei loro presunti paladini. Questi tentarono di porre dei limiti alla libertà di sciopero, oltre a congelare per legge gli aumenti salariali. Gli scioperi selvaggi, e comunque non autorizzati, si scatenarono a ondate successive, tanto che tra il 1964 e il 1969 il loro numero salì gradualmente da 1.456 a 3.116 per anno.

     Tra il 1970 e il 1974 la combattività di classe continuò a crescere in coincidenza con l’introduzione, da parte del governo conservatore di Heath, dell’Industrial Relations Act, una legge che di fatto utilizzava quasi in toto lo spirito del documento “Al posto dei conflitti” proposto dal governo laburista precedente, e che cercava regolamentare le votazioni sui posti di lavoro e di potenziare l’intervento del governo nei conflitti che non riuscivano a risolversi. Massicce proteste e scioperi si scatenarono tra i minatori e nei cantieri navali del Clydeside, anche sulla riduzione dei diritti sindacali riguardo agli scioperi di solidarietà (soprattutto i portuali di Pentonville e gli edili di Shrewsbury). Il numero totale di giorni di sciopero, che era stato di 10.980.000 nel 1970, e di 13.551.000 nel 1971, salì a ben 23.909.000 nel 1972: il più alto dai tempi dello sciopero generale negli anni venti. Tra il 1972 e il 1974 vi furono 200 occupazioni di cantieri navali, fabbriche, uffici e officine.

     Il governo Heath rispose dichiarando lo stato di emergenza almeno cinque volte. Ma il suo modo di ostentare il bastone nel trattare la questione non funzionò, e la cosa risultò tanto evidente alla classe dominante che una parte della CBI, la Confindustria britannica, gli si schierò apertamente contro. La borghesia si rivolse quindi al Partito Laburista, accettandone la inevitabile oscillazione a sinistra per conquistare voti da una illusa classe operaia nelle elezioni che si sarebbero svolte nel 1974. Fu allora di nuovo sfruttata la carota di un nuovo governo laburista.

     Il Partito Laburista, ancora attrezzato dell’articolo 4 del suo statuto, si dichiarò il più fervido paladino delle nazionalizzazioni e della “democrazia operaia” sul posto di lavoro; una mossa che in realtà tendeva, strizzando l’occhio ai sostenitori borghesi del partito, a riportare la Gran Bretagna al suo rango di potenza industriale sui mercati mondiali. L’incarico di delineare questo programma fu affidato all’ala sinistra del partito, guidata da Tony Benn, e fu annunciato solennemente che le venticinque più grandi aziende manifatturiere del paese sarebbero passate in proprietà pubblica e che massicce partecipazioni sarebbero state acquisite in altre cento aziende di primo piano, per mezzo del National Enterprise Board. Poco prima delle elezioni, però, il primo impegno, quello della nazionalizzazione delle venticinque aziende maggiori, fu gettato alle ortiche.

    (Segue al numero 280)