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Scrive Henry Kissinger: «I nostri alleati (europei, ndr), con l’eccezione della Gran Bretagna, si sono dissociati, spesso in modo clamoroso, dalle sanzioni contro Cuba, l’Iran o l’Iraq, e dalla politica americana nel conflitto arabo-israeliano o in quello di Taiwan per lo stretto di Formosa. Hanno espresso pubblicamente il loro disaccordo sulla difesa antimissile, che il presidente francese Jacques Chirac ha attaccato in una conferenza stampa al fianco del presidente russo Vladimir Putin parlando esplicitamente in nome di tutta l’Europa. L’Ue sta creando una forza militare istituzionalmente distinta dalla Nato, l’Euroforce.
Dalla fine della Guerra Fredda la politica comune nei confronti dell’Unione Sovietica e stata sostituita dalla ricerca, da parte di ciascun alleato, di una "relazione particolare" con Mosca: non necessariamente diretta contro gli altri alleati, ma neppure particolarmente attenta a loro.
I disaccordi nell’ambito economico sono ancora più vistosi. Gli Stati Uniti hanno minacciato ritorsioni contro l’Europa per le banane e la carne, e l’Ue ha minacciato gli Stati Uniti per le tasse americane sulle sue esportazioni (...)
I canali tradizionali della cooperazione economica e politica Usa-Europa si stanno esaurendo. Se ne stanno proponendo di nuovi, ma occorre trovare un equilibrio tra un’azione americana e una marginalizzazione dell’America tale da non consentirle di partecipare a discussioni che si ripercuoteranno poi sui suoi interessi» ("La Stampa", 14 gennaio).
Nel gennaio ’99 su questo giornale, nella nota "I muscoli americani e le chiacchiere europee", avevamo sintetizzato le linee generali del nostro giudizio sullo scontro economico-politico fra Europa e Stati Uniti. Per Kissinger il problema sembra risiedere in una intenzionale volontà politica dell’Unione Europea (anche se in un articolo per un giornale e ovvio che questi "grandi" della politica internazionale sogliono essere ben cauti nell’esprimersi). È una volontà politica delle borghesie europee, diciamo noi, che segue la necessità economica di contestare l’egemonia USA, volontà che intenderebbero sostanziare con l’unificazione monetaria e una solidarietà nella contesa commerciale.
Lo scontro fra USA ed Europa è però prevalentemente potenziale in quanto i "muscoli" la borghesia europea non li ha ancora e la sua politica è ancora dominata dal colosso statunitense da cui separarsi risulta e risulterà manovra per niente facile.
Esiste poi i polo asiatico. Il Ministro delle Finanze giapponese, Kiichi Miyazawa, ha detto che "questo sarà l’anno dell’Europa: l’economia americana non va bene, la ripresa del Giappone è lenta", e si è sbilanciato poi a chiedere agli europei: "per favore, guidateci voi" ("La Stampa", 15 gennaio).
L’ultimo preteso "scandalo" sulle armi all’uranio impoverito, il cosiddetto "Du", rientra in questo gioco di schermaglie fra le colossali concentrazioni capitalistiche sulle due sponde dell’Atlantico, oltre a mostrare appieno la nauseante ipocrisia delle borghesie europee.
La campagna di "denunce" contro l’uso dei proiettili contenenti uranio è stata messa in atto a dicembre, organizzata come accusa agli USA da parte degli "innocenti" europei (i quali, è noto, usano solo missili e proiettili disinfettati e di piombo purissimo, che non fanno male). Agli stizziti americani, che hanno perfino minacciato la chiusura delle proprie ambasciate in Europa, è bastato obiettare che tali armi le avevano già utilizzate, alleati con gli europei, nella guerra del Golfo, cosa della quale gli stessi governi europei erano ben edotti da tempo, quello francese da metà anni ’80, il tedesco e l’italiano almeno dalla Bosnia ’94.
Quel tipo di armi è considerato così acquisito che la produzione di uranio impoverito è negli ultimi anni nettamente diminuita, la fabbrica da cui esce negli Stati Uniti, la Scarmet, è passata in un solo anno da 18 a 6 milioni di dollari di commesse. Le guerre servono anche a svuotarsi i magazzini: quelli con le armi all’uranio avevano bisogno di un’alleggerita, come dimostra la diminuzione della produzione, cui ora si potrà ovviare.
Lasciamo alla carognaggine della propaganda borghese la chimera della guerra "intelligente" e "pulita": mentre i giornali parlano (anzi bombardano) per pagine e pagine sullo "scandalo uranio", già si dice che in realtà malattie e morti fra i soldati di Bosnia e Kosovo non sono dovute all’uranio ma ad altre sostanze (fra cui il benzene e il plutonio). Una eventuale "moratoria" del "Du", per lisciare la rincoglionita ed "ecologica" opinione pubblica, non renderebbe la guerra moderna meno bestiale, come ben hanno sperimentato bosniaci, kosovari e serbi sulle teste dei quali sono finite ben di più delle 60.000 bombe all’uranio.
Ma è stata una guerra "umanitaria", ed è vero, dell’umanità borghese
contro l’umanità proletaria, guerra per la difesa del Profitto sulla
pelle
dei disgraziati di qua o di là dal fronte, civili o militari, amici o
nemici.
Lavoratori, Compagni,
Terminata l’epoca della libera concorrenza, il cui apogeo si è avuto nel decennio 1860-1870, il Capitalismo mondiale è entrato, tra il finire del 19° secolo e il sorgere del 20°, nella sua fase suprema caratterizzata dai monopoli, trasformandosi in Imperialismo. Lo scoppio del 1° conflitto mondiale nel 1914 fra le principali potenze industriali del mondo ne è la prima nefasta conseguenza.
Nell’odierna fase imperialistica, tutto il mondo è divenuto un unico e grande mercato, privo di nuovi spazi da aprire per lo sbocco dello merci esuberanti prodotte dai grandi apparati industriali dei vari paesi. Le potenze capitalistiche sono quindi costrette a contendersi con la forza delle armi i mercati e le rotte commerciali, le vie di comunicazione, il controllo delle materie prime e delle loro vie di transito. Risorse e manodopera vengono costantemente piantonate dalle forze in armi dei paesi gendarmi del mondo fino a che la guerra commerciale non sfocia in aperta guerra guerreggiata, in conflitto imperialistico mondiale.
Se da parte delle potenze imperialistiche la guerra ha il fine immediato di conquistare "spazi vitali" allo scopo di rimpinguare i profitti delle rispettive classi dominanti, essa ha la funzione generale e globale di ben più vasta portata di distruggere il capitale in eccesso costituito da capitale costante, cioè impianti e merci in sovrapproduzione, e capitale variabile, ossia la manodopera disoccupata a causa del brusco calo delle vendite connesso alla sovrapproduzione. Le distruzioni causate dalle guerre avviano così un nuovo ciclo di accumulazione che sfocia, prima o poi, in una nuova crisi di sovrapproduzione e, quindi, in una nuova guerra più distruttiva della precedente.
Lavoratori, Compagni;
La prima guerra mondiale venne bloccata dalla gloriosa rivoluzione bolscevica in Russia e dal pericolo della insurrezione proletaria nel resto dell’Europa, che costrinsero le borghesie del mondo intero a coalizzarsi contro il proletariato rivoluzionario. Le distruzioni non furono pertanto sufficienti ad avviare un poderoso e duraturo ciclo di espansione legato alla ricostruzione, tanto che, dopo soli vent’anni, fu necessaria una nuova guerra, la seconda mondiale, favorita dalla sconfitta proletaria nel frattempo avvenuta e dalla conseguente controrivoluzione staliniana dilagante. Questa guerra fu il più grande atto criminale e d’inganno della storia, con cui le potenze hanno trascinato le masse a scannarsi in nome chi della democrazia e della libertà, chi del mito della nazione e della razza, e chi di un malcelato Capitalismo di Stato spacciato per socialismo.
La fine del conflitto ha visto la spartizione del mondo in zone d’influenza fra le potenze vincitrici, USA-URSS in testa.
I veri e incontrastati vincitori della seconda guerra mondiale furono però gli USA, il cui impero economico fa ormai il giro del mondo e i cui interessi imperialistici cozzano contro quelli di tutti gli altri Stati, costretti all’unisono a chinare il capo davanti alla sua potenza bellica, divenuta la più grande macchina poliziesca e di controllo del mondo capitalistico.
Ma tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta si è chiuso il ciclo di espansione economica post-bellica, e l’inizio di una nuova crisi è stato annunciato dal saldo attivo della bilancia commerciale dei paesi europei - che sancisce la fine delle massicce importazioni dagli USA iniziatesi all’inizio del secondo dopoguerra per avviare la ricostruzione - e dalla crisi petrolifera del 1973. La crisi infine venne e si manifestò simultanea nel 1975 in tutto il mondo. Fu crisi, sempre prevista dal marxismo, di sovrapproduzione di merci e di capitali e che da allora si trascina, tra lievi e temporanee riprese e repentine ricadute, senza vie d’uscita se non una nuova guerra mondiale.
Gli effetti di tale crisi, noti a tutti, sono stati: il peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia; la caduta delle economie più deboli, in particolare quelle a Capitalismo di Stato dei paesi falsamente socialisti dell’Est; l’esasperarsi della concorrenza internazionale tra gli Stati; lo scoppio di numerosi conflitti locali, maldestramente spacciati dalla borghesia per conflitti etnici, religiosi e tribali (ex Iugoslavia, Caucaso, Africa, Medio Oriente ecc.) ma materiale anticipazione del terzo macello imperialistico.
Lavoratori, Compagni,
Innumeri movimenti e Partiti piccolo-borghesi e reazionari starnazzano contro l’Imperialismo o contro un Imperialismo - quello americano - (Rifondazione Comunista). Questi movimenti, pur ammettendo la stretta relazione tra Imperialismo, guerra e dominazione, illudono il proletariato che sia possibile abbattere l’imperialismo senza eliminarne la causa, il Capitalismo, e spingono per sconfiggere un Imperialismo a favore di un altro. La potenza vincitrice ripeterebbe le stesse efferatezze della vecchia, perché è la condizione materiale di ogni borghesia a determinarne il comportamento e non la sua "cultura", che ne è solo il riflesso.
Lavoratori, Compagni,
Solo la lotta rivoluzionaria della classe operaia di tutto il mondo
contro il Capitalismo e per il Comunismo, guidata dal Partito marxista
mondiale del proletariato, il Partito della rossa dittatura, potrà
distruggere
tutti gli imperialismi e bloccare la terza carneficina planetaria che
già
vanno preparando gettando le basi per un nuovo mondo senza più né
imperialismi
né imperi. Un mondo dove l’abolizione del lavoro salariato aprirà le
porte allo sviluppo armonico della specie umana.
La lunga campagna elettorale tra i due schieramenti sta consumando i suoi logori riti: polemiche, spauracchi agitati e camarille vengono proposte ed imposte per convincere il fantomatico corpo elettorale che si scontrano programmi assolutamente inconciliabili ed alternativi, quando invece, nonostante i loro sforzi di telegenia e arguzia, si è scoperto ancora una volta che i programmi sono tutti identici! Su temi nevralgici come peggioramento delle condizioni di lavoro e smantellamento di quel poco di welfare sono concordi, ed anche sulla demagogia spicciola (tasse, sicurezza, ambiente, immigrati) gli slogan "politicamente corretti" degli uni si confondono sui decametri quadri di manifesti degli altri! Il "destro sorridente" sarebbe paladino dei pensionati al minimo, il "sinistro" fa la faccia seria sulla "sicurezza" dei cittadini...
La verità è che, rappresentanti tutti della borghesia italiana, non possono che essere allineati ed esprimere le linee di interesse obbligate dell’imperialismo italiano. Sulla guerra in Kosovo prima, sulla conferenza dell’Unione Europea di Nizza poi entrambi i "poli" hanno tenuto la stessa posizione, per atto di "responsabilità verso il Paese", come direbbero. Le differenze quando ci sono vertono su interessi legati a opposti gruppi di pressione borghesi e alla gestione particolare di risorse pubbliche: concessioni, appalti, sanatorie...
"Rifondazione" pascola il suo elettorato sul fieno secco dell’olografia stalinista. Orfani del mentito socialismo russo, del Patto di Varsavia e del Maresciallo Tito, i rituali e senza vita ammiccamenti a Milosevic, l’anti-americanismo e filo-europeismo certo non vanno nella direzione della politica internazionalista del proletariato ma sono piagnistei ribellisti senza altro fine se non quello di tener lontani i proletari, che si collabora ad intruppare verso le urne repubblicane, dal programma comunista e dal partito comunista, storico e formale.
Il Governo di Centro-Sinistra, cui oltre ai DS fanno parte i Comunisti Italiani di Cossutta, getta briciole elettorali sulle folle, ma da lontano le istituzioni finanziarie del Capitale inorridiscono a queste manovre demagogiche e additano al Governo una politica fiscale più severa per frenare i conti pubblici dissestati, nonostante le fanfare di risanamento maastrichttiano: certezza di nuove stangate antioperaie nel dopo-elezioni.
Mentre le condizioni del proletariato peggiorano e l’economia capitalistica prosegue a falciare la piccola borghesia, funzionando secondo il meccanismo scoperto dal marxismo, le contraddizioni si ingarbugliano a tal punto che le soluzioni allo studio della classe dominante italiana sono drastiche: l’imperialismo ha riportato a suon di bombe all’uranio la guerra di distruzione in una regione della vecchia Europa, preavviso di scenari più generalizzati.
Il proletariato non deve farsi accecare dalle finte contrapposizioni
destra/sinistra borghesi, deve tornare al suo Programma storico di
emancipazione
e alla milizia rivoluzionaria nel vero Partito Comunista.
Fin dal suo sorgere, nel 1952, il nostro partito, il Partito Comunista Internazionale, su ogni sua pubblicazione, giornali, riviste, testi, ha sempre stampato ben in evidenza il "Distingue il nostro partito". Questa breve "manchette" che da cinquanta anni accompagna tutta la nostra stampa è servita e serve a definire "chi siamo e cosa vogliamo" e chiunque abbia avuto, anche solo una volta, l’occasione di avere in mano una nostra pubblicazione, ancor prima di leggere il primo articolo, attraverso questi sintetici punti è stato messo a conoscenza del nostro invariante programma.
Il lettore attento, o malizioso, e ne abbiamo sia di questi sia di quelli, notando il cambiamento della suddetta "manchette" si chiederà cosa ci sia sotto, perché questo cambiamento oggi dopo tanti decenni di cocciuta ripetizione.
Il problema sta in questi precisi termini. Nel 1952 il Partito Comunista Internazionale aveva un’organizzazione praticamente ristretta al solo perimetro italiano e la manchette, egregia nella sua sintetica formulazione, era adattata a lettori italiani. Quando si formarono sezioni del partito in altri paesi, la traduzione della "manchette" nelle diverse lingue, francese, inglese, spagnolo, tedesco, mantenendo i medesimi concetti, variava leggermente, sia nell’intento di evidenziare aspetti del tragitto rivoluzionario, e controrivoluzionario, più evidenti e caratteristici per il lettore locale, sia nell’intenzione delle sezioni di più recente formazione di renderne migliore la formulazione.
L’attuale nostra organizzazione politica, sebbene ancor oggi debole numericamente, ha tuttavia esteso la sua ramificazione in vari paesi e fa arrivare la sua voce anche dove compagni non ne ha. Questo ci ha determinati all’attuale cambiamento: unico è il nostro programma rivoluzionario, al di sopra dei diversi idiomi, unica la nostra bandiera, unico sia anche il motto che ci contraddistingue.
* * *
Marx rappresenta la dottrina del comunismo rivoluzionario nel suo insieme e Lenin è il restauratore accreditato di questa dottrina, specialmente dopo il tradimento socialdemocratico del 1914/18.
La costituzione della III Internazionale volle essere la traduzione pratica della dottrina rivoluzionaria e della sua restaurazione.
Riferimento indispensabile alla nostra caratterizzazione è la nascita del Partito Comunista d’Italia; il nostro attuale partito ha con Livorno 1921 una continuità diretta ed inscindibile, maggiore che con la stessa Rivoluzione russa e l’Internazionale. In breve: deriviamo dalla Sinistra Comunista Italiana.
Per la stessa ragione specifichiamo che la lotta contro la degenerazione di Mosca non è quella del generico antistalinismo, ma quella che con estrema coerenza venne condotta dalla Sinistra Comunista Italiana.
Nella versione italiana e francese è stato mutuato dalle altre il rifiuto dei Fronti Popolari, scontato perché, in definitiva, non si tratta che di tattica socialdemocratica e non rivoluzionaria. Tuttavia, soprattutto in considerazione dell’esperienza spagnola, dove al fronte popolare oltre agli stalinisti e socialisti aderirono anche cosiddetti rivoluzionari (trotskisti, anarchici, etc.), abbiamo ritenuto opportuno ribadire la nostra netta opposizione e condanna al metodo di quella doppia strategia che pretendeva di conciliare fini rivoluzionari e di classe con agitazioni e rivendicazioni frontiste, democratiche, popolari. Infine, fu proprio il fronte popolare spagnolo a tenere a battesimo i blocchi partigiani e a dar loro una prima giustificazione teorica.
Per il resto l’originale "manchette" in lingua italiana è stata mantenuta alla lettera nelle diverse traduzioni.
In definitiva le nostre parole d’ordine sono state solo
lievemente
precisate per renderle omogenee nelle varie lingue e per meglio
proclamare
ciò che sempre abbiamo proclamato.
LA INCIPIENTE CRISI AMERICANA - ATTIVITÁ SINDACALE - LA QUESTIONE NAZIONALE NEI BALCANI - LA "TEKNE" FALSO NEMICO FALSO BERSAGLIO - [Resoconto esteso: Italiano - Español ]
Secondo il calendario previsto, abbiamo tenuto a Firenze gli scorsi 27 e 28 gennaio la periodica riunione di lavoro del partito. Nella nuova, più capiente, sede della sezione, rinnovata per l’occasione, è convenuta rappresentanza quasi completa dei nostri gruppi. I lavori si sono svolti nel consueto ordine ed intenso ritmo, passando in rassegna tutti gli aspetti della nostra attività, oggi ridotta quantitativamente ma che cerca di mantenere la giusta proporzione fra impegno di ricerca storica ed intervento esterno.
Come ben sa chi ci conosce, non convochiamo, da sempre, simili frequenti incontri perché abbiamo qualcosa di nuovo da decidere. Al contrario, per rintracciare collettivamente e tenerci ben stretti al filo di una continuità, che è sì di dottrina e di testi e tesi, ma anche di esperienza vissuta di una compagine attiva sul teatro della combattuta lotta fra le classi.
Riferiamo qui brevemente dei rapporti esposti nelle due giornate,
rimandando
per il testo completo al numero in preparazione della nostra rivista
"Comunismo".
Il rapporto sul corso del capitalismo è stato incentrato sull’aggiornamento, sempre mantenuto dal Partito, dei dati statistici economici. Da questo esame, che arriva ai dati di dicembre, risulta che la produzione industriale rallenta la sua crescita in modo molto rapido negli Stati Uniti. Il rallentamento dell’espansione con la quale il capitale mondiale aveva reagito alla debolezza del biennio ’97-98 è generale, ma altrove più lento rispetto a quello americano. Europa e Russia non fanno eccezione; invece in Cina il capitale ha un tasso di accumulazione elevato e ancora in crescita. In Giappone la produzione industriale non riesce, fallendo già due volte, a riportarsi al valore precedente la crisi di nove anni addietro: da allora l’accumulazione è bloccata in una lunga crisi, che fa temere alla borghesia mondiale il suo combinarsi con una crisi americana in una depressione generale. Qualche contrazione della produzione di capitale in America Latina ed in Estremo Oriente confermano il quadro generale di rallentamento della crescita.
Gli altri dati economici, dei quali si mostrava l’andamento in frenata dei prezzi delle materie prime, collimano con il diffuso indebolimento dell’espansione del capitale.
Si esaminavano alcuni aspetti della situazione americana in promettente (nel nostro senso) movimento. Si riportavano le varie notizie relative all’apparire dei primi fenomeni tipici che precedono le crisi, indicanti la rapida caduta della espansione, tuttora drogata da elementi che rendono fragile la finanza e il credito di fronte a un calo dei saggi di crescita e di profitto.
Si consideravano i dati della fortissima crescita degli investimenti delle imprese in capitale costante fisso, iniziata con il ritorno all’espansione del capitale dopo la crisi del ’91, in particolare notevole per equipaggiamenti di informatica e comunicazioni. A questo proposito si leggeva un passo de Il Capitale, dove Marx considera la circolazione continua del capitale costante dei mezzi di produzione all’interno del sistema capitalistico per aziende, di cui la parte fissa ha la maggior crescita e attrae e succhia in modo impressionante lavoro vivo, anche per lo spreco talvolta di macchinario sostituito ancora efficiente. Questa continua circolazione ha l’effetto di alimentare le fasi di apparente prosperità prima del crollo repentino, creando l’illusione capitalistica di svincolarsi dalla contraddizione fra produzione per la produzione e consumi limitati della gran massa della popolazione. Effetto analogo a quello grandeggiante svolto dal credito e dal commercio all’ingrosso e con l’estero.
Un’altra pagina de Il Capitale veniva letta riguardante il rinnovo del capitale fisso necessariamente su vasta scala, per motivi tecnici oltre che economici. Questo spinge all’aumento della produzione, creando le premesse materiali della sovrapproduzione. Vi si rileva il collegamento fra la durata pluriennale, in media circa decennale, del macchinario e quella del ciclo capitalistico.
Si considerava, sempre per il capitalismo americano, l’elevato e crescente deficit commerciale, ben evidenziato nel grafico esposto, il flusso entrante di capitale monetario e il debito estero crescente di questi anni: il capitale industriale per l’accumulazione non ha utilizzato solo il plusvalore prodotto dai lavoratori americani e non consumato dalla borghesia locale.
Si notava la differenza della situazione della super potenza, rifugio mondiale dei capitali finanziari in questo ciclo, con quella della potenza dominante inglese della seconda metà del secolo scorso, anch’essa con una bilancia commerciale in cronico deficit, ma che esportava all’estero i capitali eccedenti per l’accumulazione in patria, traendone, e non pagando come il caso americano, una rendita netta di interessi e dividendi.
Si leggeva infine la classica e basilare condizione espressa
sinteticamente
da Marx nel I libro de Il Capitale per la trasformazione del
plusvalore
in capitale addizionale: la massa di moneta giunta dall’estero in
questi
anni negli Stati Uniti non poteva di per sé miracolosamente convertirsi
in capitale produttivo. I mezzi di produzione e di sussistenza
addizionali
necessari per l’accelerata accumulazione americana gli sono pervenuti
dall’importazione
superiore all’esportazione, quindi dal plus prodotto eccedente di cui
si
sono appropriate le borghesie di altri paesi. Esiste solo una locomotiva,
quella dei lavoratori salariati di tutto il mondo, che producono il
surplus
per l’allargamento del processo produttivo. Finita la festa in America,
le borghesie sperano in grandi investimenti in Europa, ossia in grande
sfruttamento da una parte e dall’altra.
Sul tema hanno riferito tre compagni che intervengono, rispettivamente, fra i ministeriali, i ferrovieri e i telefonici.
Il primo resoconto ha dapprima elencato velocemente le occasioni di coerente intervento sindacale del Partito negli ultimi 25 anni.
È nostra tesi che lo scontro tra le classi, finché le classi esisteranno, non può non marcare in ogni dove la scena sociale. Anche quanto il rapporto di forza fra le classi è sfavorevole al proletariato, come nel ciclo attuale, i comunisti non rinunciano a mettersi al fianco "del più umile gruppo di sfruttati" che difendere le sue condizioni di vita e di lavoro contro l’aggressività permanente del padronato.
Da alcuni mesi il partito ha potuto riprendere il suo intervento tra i lavoratori ministeriali, negli ultimi anni minacciati dai processi di ristrutturazione dell’apparato dello Stato ed attualmente sottoposti ad un veloce processo di privatizzazione che si accompagna ad un peggioramento costante delle condizioni di lavoro, dell’orario, del salario.
In questa categoria reclutano le Rappresentanze Sindacali di Base, organizzazione sindacale che si pone in opposizione a CGIL, CISL e UIL. Questa, che non ha ancora una diffusione nazionale nel settore dei Ministeri e in particolare in quello dei Beni Culturali - dove ci troviamo ad esser presenti - è radicata ed ha capacità di mobilitazione a Roma e nel Lazio e solo in alcuni posti di lavoro in alcune città nel resto d’Italia.
La RdB è attualmente "riconosciuta" dall’Amministrazione, quindi usufruisce di una serie di diritti ed apparenti "facilitazioni": permessi sindacali retribuiti, possibilità di indire assemblee durante l’orario di lavoro, accesso alle trattative sia a livello centrale sia periferico.
L’RdB del Pubblico Impiego si divide in diverse sezioni (Ospedalieri, Enti Locali, Ministeriali) che, almeno nella provincia di Firenze dove operiamo, vivono scoordinate, gelosa ciascuna nel proprio ambito.
Per maturare un giudizio su questa organizzazione è da verificare, nei fatti oltre che nelle dichiarazioni, la sua attitudine ad opporsi al monopolio del sindacalismo confederale ed autonomo e la disponibilità a non invischiarsi nel legalitarismo a tutti i costi, che porterebbe alla collaborazione "concertativa" con l’Amministrazione e con l’apparato dello Stato.
Partecipando a riunioni di un suo Coordinamento Regionale Pubblico Impiego e ad un Coordinamento Nazionale Beni Culturali abbiamo intanto riscontrato che non ci è preclusa la possibilità di esporre le nostre considerazioni tese a ribadire le caratteristiche proprie dell’organizzazione sindacale di classe, argomentazioni che vi hanno trovato anche della solidarietà.
* * *
Riguardo all’intervento fra i ferrovieri un secondo compagno premetteva un breve riassunto del nostro lavoro nella categoria, rimandando per i dettagli alla pluridecennale serie di corrispondenze regolarmente apparse sulla nostra stampa, l’ultima della quale si legge in queste pagine.
Nostri ferrovieri si sono battuti nello SFI-CGIL almeno dal 1953, in particolare fra gli equipaggi delle navi-traghetto FS delle Stretto di Messina, di una delle quali il nostro compagno era nientemeno che il "Comandante". Questo lavoro continua fino agli anni ’70, quando i comunisti erano iscritti, senza delega, e si battevano ancora all’interno della CGIL. Come indipendenti in quella lista fummo allora eletti nei Consigli dei Delegati.
Dopo il 1982, che fu un anno di svolta perché il sindacato tricolore non rinnovò più la tessera a chi si opponeva alla delega, lavorammo nei primi organismi di base, benché contraddistinti da una forte politicizzazione e da scarsa influenza verso i lavoratori.
Nel 1985 iniziarono i primi scioperi contro la ristrutturazione ed in antagonismo all’azione dei Confederali. Nel 1986 l’opposizione si coagulò, fra i macchinisti, nel CoMU, combattivo sindacato di mestiere al quale immediatamente aderimmo, che tagliava trasversalmente la categoria ed univa più del 50% dei lavoratori. La sua presenza dopo le elezioni RSU del 1996 si fece preponderante.
Mentre cresce la capacità di mobilitazione dei lavoratori, la nostra azione recentemente viene a distinguersi per la critica a certi atteggiamenti sia nella partecipazione alle elezioni sia, successivamente, nella formazione di un nuovo organismo, l’ORSA, che sancisce l’unità, che si dice "tattica", tra il CoMU, la FISAFS ed altri sindacatini autonomi. Questa federazione ha il grave difetto di apparire come una chiusura verso quelle altre organizzazioni e gruppi di base presenti nelle FS, come l’FLTU, che, nei nostri voti, avrebbero dovuto essere i referenti naturali per la crescita di un sindacato almeno di tutti i ferrovieri.
Di fatto il CoMU mantiene degli equivoci non risolti, condizione inevitabile avendo riprodotto al suo interno alcune delle debolezze del movimento sindacale degli anni della sua fondazione. Benché le posizioni sinistro-confederale e filo-autonoma siano state, nel tempo, progressivamente battute, il CoMU rimane un’organizzazione di mestiere nella quale soltanto una parte tende ad ampliare l’azione verso tutti i ferrovieri e verso le loro organizzazioni di base.
Peggio ancora, l’avere i dirigenti ritirato ultimamente due scioperi per le sole assicurazioni del Ministro non ha certamente appacificato il clima interno, che, come ha dimostrato il recentissimo congresso di Rimini, rimane inevitabilmete teso nel braccio di ferro fra una maggioranza conciliatrice e una più pugnace minoranza.
I comunisti lavorano in questo organismo, nel quale la loro prospettiva sindacale di classe è libera di manifestarsi e di influenzarne la crescita. Partecipano all’organizzazione e alle azioni del Coordinamento. Non sottacciono le loro critiche, ma non si sottraggono agli impegni ai quali i lavoratori li chiamano se sono frutto della protesta e della lotta. Si sforzano di mantenere, al di sopra degli alti e bassi e delle debolezze del movimento, comportamenti coerenti e conseguenti protratti nel tempo.
* * *
La relazione di un terzo compagno sui telefonici ha ripercorso i diversi anni del nostro lavoro nell’FLMU (Telecom) di Firenze, da quando nel 1995 iniziò una costante propaganda fra i lavoratori. Il nascituro organismo, composto in grande maggioranza di giovani non avvezzi all’attività sindacale né corrotti dalla milizia dei grandi sindacati, beneficiò per alcuni mesi dei "diritti sindacali" (locale, assemblee, affissioni, delega), ma anche quando questi furono revocati dall’azienda a seguito del referendum abrogativo del maggio, seppe fin dall’inizio ritagliarsi una piccola ma importante particina nella vita quotidiana e nei simpatie dei lavoratori.
Una costante diffusione di volantini e bollettini di propaganda, l’indizione di scioperi anche estremamente minoritari per problemi di reparto o di categoria, una fastidiosa (per la Telecom) opera di difesa legale dei diritti contrattuali dei lavoratori, hanno caratterizzato l’attività del gruppetto che negli anni si è irrobustito come aderenti, milizia e posizioni di principio e di atteggiamenti pratici.
Nell’ultimo anno il gruppo FLMU è stato ben presente negli avvenimenti sindacali che hanno interessato la Telecom, l’accordo sulla ristrutturazione del marzo e il rinnovo contrattuale di giugno ("contratto di settore") e luglio ("contratto di armonizzazione") che l’hanno favorito per il chiaro atteggiamento dei Sindacati Confederali a difesa delle principali pretese aziendali.
Gli scioperi indetti da FLMU-Telecom (presente in più regioni con strutture più o meno funzionanti), Cobas delle Telecomunicazioni (presente solo in Roma) ed il sindacato autonomo Snater (anch’esso piccolo ed a macchia di leopardo) hanno riscosso dei significativi consensi fra i lavoratori. Pur rimanendo tali manifestazioni estremamente minoritarie e pur grandeggiando l’influenza dei Sindacati Confederali, che detengono saldamente il monopolio di trattative e di qualsiasi agevolazione-diritto, questi anni di costante attività sindacale hanno reso conosciute fra i lavoratori toccati dalla propaganda ed attività l’idea che possa esistere un’organizzazione sindacale diversa per posizioni ed atteggiamenti da CGIL-CISL ed UIL che, per il procedere degli avvenimenti economi, sono divenuti il chiaro e dichiarato puntello delle esigenze economiche dell’economia nazionale ed aziendale.
La relazione ha mostrato come, in diverse occasioni, abbiamo dovuto
mantenere il nostro appoggio ad organismi deboli anche quando sono
venuti
ad assumere alcuni atteggiamenti tipici dei sindacatoni (rispetto delle
regole democratiche e legali, riscossione per delega, accesso alle
cosiddette
"agevolazioni aziendali"...). Il nostro appoggio a questo tipo di
movimento
lo diamo, accompagnato alla critica incessante di atteggiamenti e
posizioni
che sappiamo non rispondenti, nel futuro più che oggi, alle necessità
del rafforzarsi e generalizzarsi della lotta di classe.
LA QUESTIONE NAZIONALE NEI BALCANI
E’ stato quindi svolto un primo rapporto sulla questione balcanica-danubiana. Questa prima parte è stata dedicata alla questione della tattica in generale e della tattica sulla questione nazionale in particolare. Sul primo punto si è richiamata la battaglia condotta dalla Sinistra dentro l’Internazionale Comunista contro l’eclettismo tattico e per la codificazione di norme tattiche definite sulla base del programma comunista e delle aree geostoriche. Si sono ripresi alcuni degli innumeri lavori che il partito ha dedicato al delicato problema della tattica.
Sul secondo punto si è svilupata la questione nazionale. Con ampio uso di citazioni della nostra scuola, da Marx, Engels, Lenin fino al partito, si è dimostrato come la questione degli Slavi del Sud sia sempre stata considerata di primaria importanza dal marxismo rivoluzionario. Marx ed Engels hanno molto scritto sulla funzione storica degli slavi.
Nell’Ottocento la Russia zarista era un baluado della controrivoluzione e utilizzava le aspirazioni nazionali degli Slavi del Sud per tenere sotto pressione Vienna e Berlino e cercare di arrivare alla "seconda Mosca", Bisanzio. Era quindi importantissimo valutare quali forze all’interno del campo slavo potessero indebolire la Russia e quale politica il partito proletario dovesse tenere nei confronti dei movimenti rivoluzionari degli Slavi del Sud.
Marx ed Engels svelano il contenuto controrivoluzionario del moscovita-decembrista principio di nazionalità, contrapponendogli il diritto delle grandi nazioni storiche europee all’indipendenza nazionale. Ribadiscono che questo diritto è di natura borghese e quindi dev’essere subordinato agli interessi della rivoluzione comunista, per principio antinazionale e internazionalista.
La seconda parte affrontava il difficile rapporto tra il determinismo dialettico e il ruolo del caso nello svolgimento storico, questione centrale in un’epoca come la nostra in cui la scienza storica rincula sulle posizioni casualistiche e contingentistiche pre-rivoluzione francese.
La terza parte ha descritto con brevi pennellate la storia di
sloveni,
crati, serbi e bulgari dal loro ingresso nell’area balcanica-danubiana
fino alla conquista da parte dei turchi. Già da questo primo breve
profilo
storico si evidenziava che tra gli Slavi del Sud solo serbi e bulgari
possono
vantare un’attività storica degna di questo nome.
LA "TEKNE" FALSO NEMICO FALSO BERSAGLIO
L’ultimo rapporto metteva in evidenza uno degli equivoci più pericolosi dell’attuale dibattito politico-ideologico sulla "modernizzazione", costituito dalla questione Tekne, ormai diventata una "questione in sé", un universo ad una sola dimensione agito dalla sua "razionalità intrinseca", non usabile da fini esterni, perché il suo modo d’essere consisterebbe nella "volontà di dominio del mondo".
In questo modo accattivante si nasconde un’abilità sottile, quella di spostare il bersaglio dal Capitale come modo di produzione e sistema sociale e politico, all’impersonale e asettica tecnica, che fin dal mondo greco avrebbe tessuto la sua tela per sfociare nell’incontenibile nihilismo dei nostri tempi. La polemica sulla tecnica avrebbe la capacità di compattare i vecchi reazionari, da sempre ostili alla scienza ed alla tecnica, e i difensori strenui dell’attuale assetto sociale: il Capitale in agonia imbarca nella sua nave dei folli un po’ tutti.
Noi, che siamo stati favorevoli all’avvento della società borghese ai suoi albori, non abbiamo da difendere ormai nessun aspetto "progressivo" del capitalismo, perché la sua funzione, specie attraverso la tecnica, è quella di spremere il capitale variabile per estorcergli plusvalore e gettarlo ai margini della vita sociale.
Non abbiamo da denunciare la Tekne in astratto, ma la sua capacità di aumentare la schiavitù salariale.
E pensare che tecnica, in quanto rimedio, avrebbe la sua naturale funzione di alleviare la fatica umana! Ma nelle mani del Capitale diventa un surplus di tortura: mentre la giornata lavorativa operaia media potrebbe abbassarsi a tre ore quotidiane, si assiste all’aumento del carico di lavoro ed all’espulsione delle braccia in più sostituite dai robot.
Non abbiamo da riproporre reazioni luddistiche: la tecnica è un rimedio relativo e diversa nelle varie epoche storiche e come tale, nel nostro "dominio concettuale", un rimedio "rimediabile" soltanto attraverso l’abolizione dei rapporti di produzione capitalistici.
Ben vengano i robot, ma sotto il controllo della società di specie. Soltanto il comunismo sarà in grado di farne uso per abbattere drasticamente la fatica umana: non certo la competizione capitalistica, né l’emulativismo di stampo staliniano, la più potente delle armi che l’opportunismo storico ha messo nelle mani della borghesia.
Queste forze democratoidi, recentemente acquisite al campo borghese anche in senso formale, non sanno decidersi tra le suggestioni della tecnica ed i sogni neo-arcadici, fondati sulla valorizzazione delle esperienze artistoidi di tipo artigiano, appannaggio di mezze classi incerte tra il vecchio e il nuovo.
La grande Tekne ha bisogno d’essere liberata dai rapporti
di
produzione inadeguati alla sua potenzialità: in quanto tale non è né
buona né cattiva, proprio come un utensile che si valuta dall’uso che
se ne sa fare. La sua presunta razionalità interna non è né diabolica
né salvifica: sono le forze sociali rivoluzionarie ancora una volta
decisive
per fare in modo che l’energia lavoro associato sia in grado di
affermare
la sua capacità di liberazione dei proletari e, con essi, di tutta la
specie.
(Continua dal numero scorso)
All’indomani del Quinto Congresso dell’Internazionale Comunista, la Direzione del PCd’I (che nell’occasione aveva subito un nuovo rimpasto utilizzando a tale scopo l’avvenuta fusione con il gruppo "terzinternazionalista" del PSI) iniziò con una serie di ordini del giorno, fatti presentare dai funzionari ai congressi federali, gli assaggi per la campagna contro la Sinistra. Attaccare lealmente ed apertamente le posizioni politiche, rispettare le garanzie date dal Quinto Congresso dell’Internazionale, fare una seria discussione sarebbe stato il dovere di una direzione preoccupata del partito e della soluzione della sua crisi interna. Ma non questo volevano gli ordinovisti, consci che con tale sistema non avrebbero potuto sperare di ottenere lo spostamento interno del partito sulle loro posizioni, cosa che formava il pegno di non poche relazioni dell’esecutivo italiano al Comitato Esecutivo del Comintern. Scelsero allora la strada che abbiamo sopra descritto e che sola avrebbe potuto assicurare loro il successo. Agli organi di base del partito, alle assemblee dei militanti, non si chiedeva quale orientamento politico ritenessero meglio corrispondente alle esperienze accumulate nella dura lotta rivoluzionaria, se quella centrista o quella di Sinistra, i dirigenti trasformarono la discussione per il Terzo Congresso in una campagna di maldicenze contro la Sinistra, definita frazionista e scissionista. Durante il Congresso un delegato denuncerà che "la discussione preparatoria del Congresso del partito fu una discussione di porcherie e di insulti e non una discussione ideologica".
"L’Unità" del 16 maggio 1925 aveva annunciato che tra breve sarebbe stato tenuto il Terzo Congresso del partito. La Sinistra chiese immediatamente l’apertura della discussione, senza limitazioni pregiudiziali e la sospensione di ogni misura disciplinare a carattere frazionistico che, senza portare alcun vantaggio alla compagine rivoluzionaria, avrebbe solo avvelenato l’ambiente del Congresso. Quindi, allo scopo di creare una rete di informazione, non clandestina, per tutti gli iscritti del partito la Sinistra aveva costituito un "Comitato di Intesa" e, con una lettera del 1° di giugno, ne aveva data notizia all’Esecutivo del PCd’I. Il Comitato di Intesa, in definitiva, chiedeva:
"- Che sia dato alla discussione uno spazio di tempo quale lo stato
di impreparazione delle masse del partito e la importanza delle
questioni
richiedano;
"- Che i congressi provinciali siano tenuti solo dopo una esauriente
discussione avvenuta sulla stampa di partito;
"- Che ai congressi provinciali sia data facoltà di parlare in
contraddittorio ai compagni riconosciuti nelle diverse correnti;
"- Che la nomina dei delegati al Congresso del partito sia fatta
dai rispettivi congressi federali, nel caso però che tale nomina venga
fatta con altri sistemi, sia data facoltà di scelta degli elementi
chiamati
a far parte di eventuali comitati ai fiduciari delle diverse correnti;
"- Che sia infine riconosciuto il diritto di nominare e disciplinare
gli oratori che illustreranno al Congresso il pensiero di questa o di
quella
corrente".
Come si vede il documento non conteneva nulla di inconsueto, niente che potesse dare appiglio ad accuse di frazionismo: vi era solo la richiesta che nella discussione precongressuale e nel Congresso si desse la possibilità di esprimere liberamente le proprie idee. Quando però, il 7 giugno, "L’Unità" pubblicava il documento della Sinistra, l’Esecutivo "rivelava" che altri due documenti "frazionistici", uno di aprile e l’altro di maggio, erano stati "intercettati" dal partito: questa era la prova lampante, commentava l’Esecutivo, di una attività di frazione, segreta per giunta, che "porta in sé il germe di una scissione del partito". I firmatari del documento vennero immediatamente destituiti dalle loro funzioni nella organizzazione e minacciati di espulsione.
Un’idea del clima di vero terrore che, sulla falsariga dello stalinismo imperante, era stata instaurata anche in Italia (per giunta in fase di dittatura fascista) ci viene data dalla "circolare segretissima", inviata ai responsabili interregionali, in cui si davano disposizioni di "abbattere senz’altro coloro che (tentavano) di sgretolare la saldezza del partito e di tramutarlo in un mascherato partito socialdemocratico". La "circolare segretissima" continuava dando le seguenti disposizioni pratiche: "Il comitato nazionale della frazione di sinistra usufruisce dell’opera di alcuni viaggiatori per stabilire i propri collegamenti con le varie federazioni (...) Vogliate disporre che nel caso di arrivo di questi elementi nelle vostre sedi o in caso di loro incontro nei vostri viaggi, procuratovi l’aiuto dei compagni del luogo, essi vengano immediatamente perquisiti nella persona e nell’abitazione. Tutto il materiale frazionistico che verrà su di essi trovato ci deve essere inviato (circolari, indirizzi, lettere, ecc.). Naturalmente procedendo a questa opera di polizia di partito dovrete dichiarare agli interessati che eseguite una precisa tassativa disposizione del CE". Passò poco tempo che il "Comitato di Intesa" venne sciolto d’autorità dal rappresentante dell’Internazionale minacciando l’espulsione immediata nei confronti di chi non si fosse attenuto all’ordine.
Nelle consultazioni di partito, durante le quali Humbert-Droz aveva garantito "una piena libertà di discussione ideologica", i procedimenti di voto furono tali che la Sinistra non esitò a definirli "giolittiani" (Giolitti, uno dei personaggi più illustri del liberalismo e della democrazia pre-fascista, nelle elezioni del 1921 fece blocco con Mussolini permettendo l’ingresso dei fascisti al parlamento. Il "metodo giolittiano" al quale si riferisce la Sinistra era quello con cui il leader democratico riusciva immancabilmente vittorioso nelle consultazioni elettorali e consisteva nella vasta raccolta di consensi sia con l’ausilio delle organizzazioni mafiose, sia attraverso squadre di mazzieri finanziate direttamente dai suoi sostenitori politici: una forma di squadrismo fascista ante-litteram).
Si presagiva quindi che il Terzo Congresso del PCd’I si sarebbe tenuto non sullo sfondo di un conflitto ideologico tra due tendenze del partito ma sulla soffocante alternativa fra scissione od unità, frazione o disciplina.
Il Comitato Esecutivo dell’Internazionale, fin dall’aprile del 1925, aveva scatenato il suo attacco contro la Sinistra italiana. Il Quinto Esecutivo allargato approvava una "Risoluzione sulla Questione Italiana" in cui si affermava: "Oggi è manifesto che l’ostacolo principale alla bolscevizzazione del partito è costituito dalla ideologia bordighista e che pertanto il massimo sforzo deve essere rivolto alla eliminazione di tale ostacolo".
Nessuna indicazione vi era, in questa risoluzione, sui compiti e sulla tattica che il partito avrebbe dovuto porsi e realizzare, essa era unicamente costituita da un attacco alla "ideologia" della Sinistra italiana, definita "sottoprodotto della Seconda Internazionale" ed in contrasto con il "leninismo" su tre punti fondamentali: astensionismo; ruolo del partito; tattica. La Sinistra italiana, si legge nel documento, benché al Secondo Congresso avesse lasciato cadere il suo astensionismo parlamentare, aveva tuttavia mantenuta questa sua caratteristica; caratteristica che avrebbe sospinto il partito all’inerzia politica rifiutando la conquista delle masse, gli avrebbe impedito di comprendere la natura del fenomeno fascista, avrebbe infine sclerotizzato la sua tattica in contrasto con il "leninismo" che "rappresenta una tattica duttile, che si adatta di continuo alla mutevole situazione economica e politica del mondo; pronto a modificare rapidamente le sue parole d’ordine e il suo atteggiamento al fine di rimanere in contatto con le masse".
Il 4 settembre il Comitato Esecutivo del Comintern inviava alla direzione PCd’I una lettera, che verrà pubblicata sull’Unità del 7 ottobre, in cui venivano riprese ed ampliate tutte le accuse da sempre rivolte alla Sinistra italiana. Due sono gli aspetti caratteristici, ormai apertamente dichiarati, e che fanno già presagire la vittoria della controrivoluzione stalinista, sebbene, ironia della sorte, il documento fosse stato scritto da coloro che sarebbero poi stati le vittime dello stalinismo: la lotta antifascista e la concezione del partito.
La Sinistra ha più volte affermato di ritenere il fascismo un nefasto evento soprattutto perché esso, con il suo strascico di violenze e persecuzioni, avrebbe dato fiato all’antifascismo democratico e legalitario. La Sinistra aveva ritenuto quindi opportuno scagliarsi con altrettanta forza contro la democrazia e la socialdemocrazia quanto contro il fascismo stesso. Erano stati democrazia e socialdemocrazia a generare, ad allevare e a fiancheggiare il movimento fascista. La Sinistra non aveva mai smesso di smascherare le complicità e la natura di classe delle cosiddette opposizioni legalitarie.
Questa netta posizione classista veniva decisamente condannata dall’Internazionale comunista, ormai alla disperata ricerca di successi immediati, veri o ritenuti tali, che accusava la Sinistra di non aver fatto "una analisi dei diversi strati sociali che formavano la base del fascismo, dei loro interessi e dei loro contrasti". La Sinistra era ritenuta colpevole di "non avvertire che un governo socialdemocratico o borghese di sinistra e un governo fascista non sono la stessa cosa" e che quindi il partito, non potendosi assumere "davanti al proletariato la responsabilità di mantenere il fascismo al potere se avesse la possibilità di provocare la sostituzione di esso con l’Aventino", avrebbe dovuto intervenire anche "con le sue forze elettorali in favore dell’uno o dell’altro degli avversari borghesi".
Nelle Tesi presentate a Lione, la Sinistra sciolse in modo magistrale questo falso problema, così caro ai rinnegati di tutte le risme e di tutti i tempi, dimostrando che il fascismo non differiva dalla democrazia per il fatto di affondare le proprie radici all’interno della stessa classe sociale e soprattutto per il fatto di interpretare gli interessi della stessa classe: la borghesia. Più semplicemente il movimento fascista doveva interpretarsi come un tentativo di unificazione politica dei contrastanti interessi dei vari gruppi politici borghesi a scopo puramente e semplicemente controrivoluzionario.
Per inciso, non dobbiamo dimenticare che il fascismo mussoliniano non sarebbe nato e Mussolini avrebbe continuato la sua milizia all’interno del Partito Socialista Italiano se quel partito avesse aderito alla guerra, così come avevano fatto tutti gli altri partiti socialisti nazionali federati alla Seconda Internazionale. Il forte peso che la Sinistra aveva all’interno del partito impedì che il socialismo italiano portasse a termine il tradimento perpetrato, tranne rarissime eccezioni, dalla socialdemocrazia degli altri paesi. Nacque così, nel 1914, come reazione alla impostazione classista e rivoluzionaria della Sinistra il movimento fascista, interventista e democratico, con i finanziamenti dell’Intesa pervenutigli tramite di aderenti al Partito Socialista Francese. Nel 1922 andò legalmente al potere con l’appoggio di tutti i partiti democratici e di intesa con la socialdemocrazia italiana. E, da un punto di vista legale borghese, il regime fascista fu legittimamente alla guida dell’Italia per tutto il ventennio.
Gli estensori del documento dell’Internazionale, bene o male, dovevano fare i conti con il rigore delle analisi della Sinistra, basate non su delle opinioni ma su precise basi materiali e sociali, e risolvevano quindi il problema nel classico modo in cui da sempre l’opportunismo cerca di risolverlo: distinguendo tra programma e tattica, tra teoria e pratica.
"Nella prospettiva generale - scriveva il comitato Esecutivo dell’Internazionale - dello sviluppo storico i socialisti sono legati al fascismo. Essi hanno dato prova di ciò con tutto il loro atteggiamento (...) nei confronti del fascismo a cominciare dalla tregua firmata tra il partito socialista e il partito fascista (...) fino alle recenti dichiarazioni fatte da D’Aragona e Baldesi ad un giornale fascista, le quali provano che un anno dopo l’assassinio di Matteotti i capi socialriformisti (...) cercano un terreno di collaborazione e di intesa con il fascismo, e deplorano le ostilità che la classe operaia nutre contro di esso (...) I socialisti ed i massimalisti sono legati al fascismo per la difesa dell’ordine e degli interessi capitalistici contro la rivoluzione proletaria. Considerati in una prospettiva storica generale essi formano dunque anche l’ala sinistra dl fascismo, ma la tattica del nostro partito, pur non perdendo di vista questa prospettiva generale, non può nella sua azione quotidiana trascurare le differenze esistenti tra le diverse correnti della borghesia per cercare di opporle le une alle altre e strappare alla loro influenza le masse operaie momentaneamente disorientate". La Sinistra "non vide - continuava il testo - che la prospettiva generale, non comprese che la tattica del partito doveva utilizzare le opposizioni esistenti nel campo stesso della borghesia e del fascismo".
Queste erano le bestemmie che l’Internazionale Comunista, non ancora controrivoluzionaria, era arrivata a formulare, queste erano le bestemmie che, in Italia, Gramsci ed il suo gruppo ripetevano. Saranno queste bestemmie che serviranno da base teorica a tutta l’opera controrivoluzionaria dell’abbraccio democratico, compreso l’appello "ai fascisti onesti", che trovò la sua più alta espressione nei blocchi partigiani e che ancora oggi tiene il proletariato incatenato alla democrazia borghese. Il fronte unico non veniva più quindi considerato come uno strumento tattico per smascherare il tradimento dei capi socialdemocratici e strappare dalla loro influenza le masse operaie, ma come forza di pressione per fare pendere da una parte o dall’altra i piatti della bilancia dei gruppi borghesi in antagonismo tra loro.
L’altro punto su cui si basavano le critiche dell’Internazionale era la concezione del partito e della sua organizzazione espressa nella "piattaforma della Sinistra". La Sinistra vi aveva affermato che "il partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppi provocate dalla lotta di classe. In quanto tale tipo di organizzazione del partito deve essere capace di porsi al di sopra delle particolari categorie e perciò raccogliere in sintesi gli elementi che provengono dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori della classe borghese, ecc. ecc".
Questa formulazione, che aveva fatto gridare allo scandalo la centrale italiana, provocò lo stesso effetto nei dirigenti del Comintern che, ad onor del vero, con un po’ più di serietà degli epigoni italiani, vollero vedere in ciò indubbi sintomi di menscevismo. "Se la composizione sociale - scriveva l’Esecutivo di Mosca - fa posto ai disertori della borghesia, senza dubbio i più gravi pericoli minacciano". I centristi italiani, molto più semplicemente, accusavano la Sinistra di voler trasformare il partito in "una organizzazione interclassista, una sintesi di interessi che non possono invece sintetizzarsi in alcun modo" ("L’Unità", 7 luglio 1925).
Nella loro disonesta guerra contro la Sinistra, i centristi non si preoccupavano di confutarne le posizioni sulla base della dottrina e della tattica, non contrapponevano le loro tesi a quelle della Sinistra, ma facendosi forti del monopolio dei mezzi di informazione e degli organi dirigenti del partito la combattevano usando la più spudorata falsificazione e denigrazione. Nei loro articoli si ricorreva spessissimo a frasi di questo genere: "È un cumulo di errori e di affermazioni abbastanza ridicole"; "è un mucchio di corbellerie senza senso comune e senza fondamenti di prospettiva teorica"; "una ferragine di luoghi comuni conditi con una dose notevole di malafede, di ciarlataneria e demagogia", ecc. ecc.
Non era certo una trovata della Sinistra italiana, né era dettata da "sfiducia" verso la classe operaia o per "menscevismo", prevedere che individui transfughi della classe borghese continuassero, come per il passato, a mettersi dalla parte della rivoluzione e a militare nel partito comunista. Era stato Marx a dichiarare che "come già un tempo una parte della nobiltà passò dalla parte della borghesia, così ora una parte della borghesia si unisce al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi, che sono arrivati ad intendere teoricamente tutto il movimento storico". La posizione gramsciana, a questo riguardo, era che il partito come lo intendeva la Sinistra sarebbe potuto andare bene al tempo di Marx ed Engels, quando "si limitava a registrare i progressi della classe operaia e a fare opera di propaganda ideologica", ma non certo all’epoca del "leninismo", quando "il partito guida le masse, dirige la lotta di classe e non si limita a fare il notaio". Povero Carlo Marx, declassato a notaio dagli epigoni di Stalin! Stando così le cose, continuavano i centristi, nessuna funzione potevano svolgere gli intellettuali all’interno del partito comunista, partito proletario composto da proletari.
Se si fosse trattato di un serio confronto di idee fra la tendenza di centro, facente capo a Gramsci, e quella della Sinistra, facile sarebbe stato a questa ultima controbattere che né Gramsci, né Terracini, né Togliatti, né Scoccimarro, né Tasca, come la stragrande maggioranza dei dirigenti del partito, appartenevano al proletariato, e, cifre alla mano, sarebbe stato altrettanto facile dimostrare che dal 1923 in poi, sotto la direzione ordinovista, il numero degli operai nei posti di dirigenza, sia ai vertici del partito sia a livello locale, era notevolmente calato rispetto a quanti ve ne erano stati precedentemente.
Il problema di salvaguardare il partito dal pericolo opportunista
non
stava certo nell’assicurare la "egemonia" numerica del proletariato
all’interno
del partito boicottando gli intellettuali e tantomeno con il
"bolscevizzarlo".
La soluzione stava altrove, ed in modo corretto la espose la Sinistra
al
Sesto Esecutivo Allargato dell’Internazionale. "Ci si dirà, quello
che voi chiedete lo chiedono anche tutti gli elementi di destra; voi
volete
le organizzazioni territoriali nelle cui assemblee gli intellettuali
dominano
con i loro lunghi discorsi l’intera discussione. Ma questo pericolo
della
demagogia e dell’inganno da parte dei capi esisterà sempre, esiste da
quando esiste un partito proletario; eppure né Marx, né Lenin, che si
sono occupati a fondo di questo problema, hanno mai pensato di
risolverlo
mediante un boicottaggio degli intellettuali o dei non proletari. Hanno
anzi sottolineato ripetutamente il ruolo storicamente necessario dei
disertori
della classe dominante nella rivoluzione. È noto che, in generale,
l’opportunismo
e il tradimento penetrano nel partito e nelle masse attraverso certi
capi;
ma la lotta contro questo pericolo deve essere condotta in altro modo.
Anche se la classe operaia potesse fare a meno dei capi, agitatori,
giornalisti,
ecc. non le resterebbe altro che andarli a cercare nelle file degli
operai.
Ma il pericolo della corruzione e della demagogia di questi operai
divenuti
capi non si distingue da quello della corruzione e della demagogia
degli
intellettuali. In certi casi sono stati proprio gli ex operai quelli
che
hanno recitato il ruolo più sporco del movimento operaio, è un fatto
universalmente noto. E infine il ruolo degli intellettuali è forse
eliminato
dall’organizzazione per cellule d’azienda come è praticata oggi? È vero
il contrario. Sono gli intellettuali che, assieme con ex operai
compongono
l’apparato del partito. Il ruolo di questi elementi sociali non è
cambiato;
anzi, è divenuto ancora più pericoloso. Se ammettiamo che questi
elementi
possano essere corrotti dalla loro posizione di funzionari, questa
difficoltà
sussiste, perché abbiamo conferito loro una posizione di gran lunga più
responsabile che in passato: infatti nelle piccole riunioni di cellula
di azienda, gli operai non hanno in pratica nessuna libertà di
movimento,
non hanno una base sufficiente per influire sul partito con il loro
istinto
di classe. Il pericolo contro il quale mettiamo in guardia risiede
dunque
non nella diminuzione dell’influenza degli intellettuali, ma, al
contrario
nel fatto che gli operai di cellula non si interessano che dei bisogni
immediati della loro azienda e non vedono i grandi problemi dello
sviluppo
rivoluzionario generale della loro classe".
Perfino la scelta di Lione come sede del Congresso, da un punto di vista organizzativo, fu una mossa poco sensata; infatti fu dovuta non tanto ad una questione di sicurezza quanto ad una precisa manovra politica. La federazione di Milano, la cui organizzazione era ancora efficiente ed alcuni compagni della quale erano i dirigenti dell’Ufficio I (l’apparato illegale del partito) aveva offerto al Centro la garanzia di una sede adatta, in Milano, per una riunione clandestina, garantita e difesa, disponendo di decine di ambienti adatti a riunioni controllabili e di centinaia di compagni allenati e fidati. La Centrale rifiutò l’offerta senza nemmeno controllarne la serietà. Era già stato deciso che il Congresso doveva esser fatto all’estero. Per recarsi al Congresso i delegati, già sotto controllo da parte della polizia, dovettero passare clandestinamente il confine francese. Altrettanto clandestinamente si spostarono in Francia poiché la maggior parte di loro era in possesso di documenti falsi. Una volta giunti a Lione i delegati si riunirono clandestinamente, spostandosi in vari luoghi perché la polizia francese era alla loro ricerca e sulle loro tracce. Quindi, a Congresso concluso, altrettanto illegalmente dovettero tornare in Italia. Ma il Congresso in Francia permise alla centrale di avere il controllo totale ed esclusivo dei delegati partecipanti al Congresso.
Che una settantina di delegati fossero riusciti ad oltrepassare la frontiera "sotto il naso delle guardie confinarie", dalla storiografia stalinista viene considerato un enorme successo ed un esempio evidente dell’ottimo funzionamento dell’apparato illegale del partito ormai molto epurato dei membri della Sinistra. Al contrario, che la polizia italiana sapesse fare bene il suo mestiere non solo è dimostrato dal fatto che al suo ritorno in Italia più di un partecipante al Congresso venisse arrestato, ma soprattutto è dimostrato dal fatto che la polizia fascista era riuscita sia ad individuare Lione come sede del Congresso, sia a seguire le tracce almeno di alcuni dei rappresentanti di maggiore spicco, sia ad avere, direttamente dalla Francia, un resoconto abbastanza dettagliato dei lavori del Congresso. A questo punto ci potremmo anche chiedere quanto il passaggio di tutta la comitiva congressuale "sotto il naso della guardie confinarie" fosse dovuto alla perizia dei dirigenti dell’apparato illegale del PCd’I e quanto alla volontà del fascismo di lasciare che i lavori congressuali venissero svolti "indisturbati". L’ex rivoluzionario di sinistra, Benito Mussolini, poteva solo gioire nel constatare che all’interno del Partito Comunista (l’unico partito antifascista non perché democratico, ma perché anticapitalista), da parte dell’ala filostalinista e quindi filorussa si stesse conducendo una lotta violentissima, senza esclusione di colpi, per sopraffare ed estromettere definitivamente dal partito la corrente rivoluzionaria.
Un chiaro esempio di come il partito fosse stato "preparato" per sconfiggere la Sinistra lo possiamo ricavare dall’articolo apparso sull’Unità del 12 giugno 1925 intitolato "Democrazia Interna e Libertà di Discussione". Esso è la prova più chiara ed evidente del gesuitismo dei centristi. In poche parole vi si annunciava, con più di sei mesi di anticipo, che, qualunque fosse stato il responso del partito al Congresso, i centristi avrebbero comunque vinto, perché essi stavano dalla parte dell’Internazionale. "I compagni del "Comitato d’Intesa" sono partiti da questo ragionamento: il principio del centralismo democratico vale soltanto nel periodo da un Congresso all’altro (...) Nel periodo precongressuale però le cose cambiano (...) Il comitato Centrale resta in carica per il disbrigo degli affari correnti, per assicurare la continuità del funzionamento del partito, ma esso non ha nessun diritto di valersi della sua posizione, dei mezzi "del potere" a vantaggio della corrente di pensiero di cui è l’esponente. Esso dovrebbe mettersi su un terreno di "libera competizione" con le altre correnti a parità di condizioni (...) Questa concezione è profondamente errata. Lo possiamo affermare senza peccare di "giolittismo" di partito. La tesi da noi combattuta sarebbe giusta se il programma e le direttive di un partito comunista non avessero altra fonte che la libera discussione e competizione delle idee e il C.C. altra investitura che quella del responso elettorale della massa di partito (...) In un partito comunista le cose stanno diversamente (...) la massa di un singolo partito non è unico arbitro e non decide sovranamente della bontà e giustezza delle varie opinioni e correnti. Vi è sempre una opinione e corrente che si trova in una situazione di "privilegio", che deve prevalere e deve essere fatta prevalere. Ed è quella della Internazionale Comunista, accettata e sancita dai congressi mondiali di tutte le sezioni dell’Internazionale".
L’articolo, innanzi tutto, è una palese confessione che la frazione centrista si trovava, all’interno del partito, in netta minoranza; ma a parte questo il metodo pretesco è evidentissimo: i centristi, apparentemente, tiravano in ballo un concetto corretto e da sempre sostenuto dalla Sinistra italiana, secondo cui non è ammissibile che un partito comunista svolga, a livello locale, una politica contraria a quella sancita dai Congressi dell’Internazionale. Era stata la Sinistra italiana che aveva affermato ripetutamente questa necessità, aggiungendo inoltre che a capo di un partito nazionale dovessero esserci i rappresentanti di quella corrente che meglio si armonizzava con le direttive del Comintern. E la prova di massima coerenza con quanto affermato la Sinistra la aveva data nel 1923 quando lasciò spontaneamente (dopo sue insistenti richieste) la direzione del partito malgrado che la base aderisse in modo totale alla sua politica.
La Sinistra non richiese mai garanzie democratiche come non ha mai riconosciuto al metodo democratico una taumaturgica funzione. La democrazia, dai comunisti, è sempre stata considerata come uno strumento di inganno attraverso il quale la classe dominante esercita la sua dittatura. Che il metodo democratico possa venir utilizzato anche dal partito della classe operaia, in una certa fase del suo sviluppo, non significa certo che i comunisti lo accettino come principio, cercano anzi di superare questa fase quanto prima e meglio possibile.
Già nel 1922 il partito, allora diretto dalla Sinistra, aveva affermato: "Non è il caso di elevare a principio questo impiego del meccanismo democratico. A fianco di un compito di consultazione analogo a quello legislativo degli apparati di Stato, il partito ha un compito esecutivo che corrisponde addirittura nei momenti supremi di lotta a quello di un esercito, che esige il massimo della disciplina gerarchica (...) Non possiamo concepire una designazione di maggioranza del partito come aprioristicamente tanto felice nelle scelte quanto quella di un giudice infallibile (...) Perfino in un organismo nel quale, come il partito, la composizione della massa è il risultato d’una selezione, attraverso una spontanea adesione volontaria, e il controllo nel reclutamento, il pronunciato della maggioranza non è per sé stesso il migliore (...) Il criterio democratico è per noi finora un accidente materiale per la costruzione della nostra organizzazione interna e la formulazione degli statuti di partito: esso non è l’indispensabile piattaforma. Ecco perché noi non eleveremo a principio la nota formula organizzativa del "centralismo democratico". La democrazia non può essere per noi un principio" (Il Principio Democratico, "Rassegna Comunista" n. 18, 28 febbraio 1922).
La Sinistra, già dal 1922, si auspicava il superamento del "centralismo democratico" proponendo "di dire che il partito comunista fonda la sua organizzazione sul ’centralismo organico’". È chiaro che ciò avrebbe dovuto rappresentare un punto di arrivo, quando con la giusta tattica fosse stata raggiunta nel partito la completa omogeneità al di sopra delle correnti e delle frazioni. Rifiutare e reprimere il meccanismo democratico e l’esistenza delle frazioni, ma mantenere la forma della consultazione democratica e praticare la più aspra lotta politica contro i dissenzienti al Congresso rappresenta invece un puro esempio di frazionismo dall’alto e l’adozione del peggiore metodo democratico; quello giolittiano appunto.
Le manovre della centrale falsarono in modo clamoroso la maggioranza della Sinistra, ancora dominante nel partito, per ammissione degli stessi centristi, sfruttando l’impossibilità di molte sezioni a far pervenire i voti. Comunque, malgrado tutti gli imbrogli del centro del partito, all’epoca del Congresso di Lione la Sinistra manteneva ancora la maggioranza all’interno del partito. Malgrado i filtri del gruppo dirigente del partito, a Lione, le forze dei delegati erano pressoché equivalenti, e quanto alla famosa base con difficoltà la si poté, in Italia, consultare per la nota situazione di dominio del fascismo e quindi le riunioni di sezione malamente erano state fatte e ancora meno i congressi di federazione provinciali dovendo tutta l’attività essere clandestina.
Ebbene, molto elegante fu la trovata dei dirigenti centristi del partito: venne stabilito che tutte le tessere di iscritti per cui non risultava il voto né per la centrale né per la opposizione di sinistra si sarebbero dovute calcolare a favore delle tesi della centrale. Fu negata perfino la facoltà di astenersi perché i voti degli astenuti vennero considerati come dati al centro gramsciano. Dato che i lavori di preparazione al Congresso erano cominciati alla fine del 1925, le tessere teoricamente considerate furono quelle del 1925. Se per la Sinistra i votanti effettivi a Lione furono il 10% degli iscritti di un anno prima, fu facile attribuire al centro il 90% vantato!
Ad ulteriore riprova del metodo parlamentaristico invalso nell’Internazionale e nel gruppo dirigente del partito italiano: in nome del principio della più deleteria ipocrisia democratica borghese, ossia la "rappresentanza delle minoranze", la Sinistra venne costretta ad entrare nella nuova direzione del partito, pena l’espulsione in caso di rifiuto. I rappresentanti della Sinistra, così come nel 1923 avevano volontariamente ceduto la guida del partito al gruppo di Gramsci, così ora rifiutarono di partecipare alla direzione non per "sabotare il partito", non per spirito frazionistico ma perché ritenevano inammissibile prendersi carico di una gestione che ritenevano contrastante con le basi programmatiche del marxismo rivoluzionario. Leale, come al solito, fu la proposta della Sinistra: "Vi diamo garanzia che non faremo lavoro frazionistico, che nessun tentativo di svolgere azione frazionistica sarà fatto da parte nostra. D’altra parte vi rinnoviamo l’offerta di collaborazione alla periferia del partito, ma desideriamo essere esclusi dalla partecipazione alla direzione. D’altra parte poiché non esiste nello statuto una formula che ci possa obbligare vi preghiamo di non voler passare per il metodo dell’imposizione".
Il rappresentante del Comintern, Humbert-Droz, minacciò i compagni della Sinistra: "dovranno lavorare nel partito pienamente, in modo attivo, ai posti in cui saranno chiamati (...) altrimenti si andrà diritti ad una espulsione". Avvenne così che due compagni della Sinistra comunista, cioè di quella corrente accusata di menscevismo, anarchismo, sindacalismo, opportunismo, furono obbligati ad entrare nel C.C. del partito. Lione si chiuse con una dichiarazione della Sinistra di aperta condanna dei traditori in marcia, non tanto per la truffaldina conta dei voti, ma per la pretesa ipocrita di mettere due uomini della Sinistra nella nuova centrale.
Alla Sinistra non rimase che ricorrere alla Commissione di Controllo
dell’Internazionale contro i sistemi usati ed i risultati ottenuti in
maniera
del tutto truffaldina. La Commissione di controllo si rifiutò di fare
oggetto del suo esame le accuse della Sinistra contro la centrale del
PCd’I
e del reclamo ufficiale nulla si seppe più.
Scrivemmo nel 1970 in "In difesa della Continuità del Programma Comunista": "Il Congresso di Lione seguì di pochi mesi quel XIV congresso del partito russo che aveva visto la quasi totalità della vecchia guardia bolscevica, a cominciare da Kamenev e Zinoviev, insorgere in una rovente quanto improvvisa impennata sia contro "l’abbellimento della Nep" e il "contadini arricchitevi" dei "professori rossi" e di Bucharin, sia contro il soffocante regime interno instaurato da Stalin; precede di appena un mese quel VI Esecutivo Allargato dell’I.C. che, puntando tutti i cannoni di una retorica di ufficio contro l’unica forza internazionale levatasi a denunciare la crisi profonda del Comintern - appunto la Sinistra italiana - e mettendola al bando, spianava anche la strada alla condanna della Opposizione russa nel novembre/dicembre. Il movimento internazionale comunista era giunto al suo fatale crocevia e, come al XIV Congresso del PCR i Kamenev, gli Zinoviev, la Krupskaia, avevano avuto coscienza di esprimere nelle loro parole l’insorgere di forze sociali e materiali in lotta nell’ambito dello Stato sovietico contro altre forze sociali e materiali obiettive mille volte più potenti degli individui alternatisi alla tribuna, così sul piano internazionale la Sinistra, nel redigere come sempre un corpo di tesi riguardanti non l’angusto confine della "questione italiana", ma l’intero, mondiale campo della tattica comunista, sapeva di dar voce a un corso storico che, nel giro di pochi mesi, avrebbe avuto nome Cina e, per una rara e per molti anni unica convergenza di circostanze obiettive, l’Inghilterra, dunque un paese semicoloniale e la metropoli imperialista per eccellenza. Era l’anno della prova suprema, giacché dall’esito della titanica lotta degli operai e contadini cinesi e dei proletari britannici sarebbe dipeso, in ultima istanza, il destino della Russia sovietica e dell’Internazionale. L’Opposizione russa sentirà nel corso di quell’anno la terribile urgenza dei nodi venuti al pettine della storia e, superando antichi dissapori, Trotski e Zinoviev faranno disperatamente blocco contro le forze incalzanti della controrivoluzione; il primo in particolare muoverà, fino a tutto il 1927, una splendida battaglia e ne uscirà battuto. Uscirà battuta, con l’Opposizione russa la rivoluzione cinese, e sconfitto il grandioso sciopero britannico, uscirà distrutto l’intero movimento internazionale comunista".
La rinascita del partito comunista mondiale e del portarsi del
proletariato
di tutti i paesi nuovamente sul terreno dell’avanzata e della
Rivoluzione
necessita che si riprenda, con intransigenza ed ostinazione, da quel
1926,
da dove la continuità del programma fu spezzata.
Rinviare uno sciopero senza aver raggiunto significativi risultati non è certo un buon segno; ma quando a farlo è un’organizzazione di base dei lavoratori, si supera la "soglia d’attenzione" e si passa a quella di pericolo: quello che per un qualsiasi sindacato di regime è tatticismo di routine, per un’organizzazione che fonda solo sulle lotte il proprio potere contrattuale, diviene errore fondamentale.
A novembre e dicembre 2000 il CoMU-ORSA si è "accontentato" delle assicurazioni politiche del Ministro ed ha soppresso, a meno di 48 ore, gli scioperi indetti. Preoccupante e censurabile anche il metodo attraverso il quale si è pervenuti a questa decisione: parte dei Coordinatori Nazionali, con l’appoggio del segretario generale della FISAFS, dopo breve colloquio, hanno deciso di firmare un verbale d’accordo che svilisce mesi, anni di lotte, non soltanto dei macchinisti, ma di tutti i ferrovieri.
Contro questa situazione si è mosso gran parte del CoMU, a partire dai compartimenti della Toscana, della Sicilia e della Calabria. Questa vicenda ha evidenziato il clima che da tempo si vive all’interno dell’organizzazione dove oramai, di fatto, esiste una contrapposizione tra la parte più cosciente della periferia ed il centro di Roma.
Questa è divenuta palese all’indomani della confluenza del CoMU nell’ORSA. Il progetto era nato e si era concretizzato per unire, "a scopo tattico", l’organizzazione dei macchinisti con altri sindacati di base ed autonomi come la FISAFS: quest’insieme di sigle doveva essere la contromossa rispetto al progetto governativo d’innalzamento al 10% della "soglia di rappresentanza". Di fatto però la confluenza nell’ORSA aveva allontanato proprio quelle organizzazioni come la FLTU che dovevano essere il referente naturale del CoMU. Ottenuto quel previsto risultato minimo si sarebbe dovuto lavorare affinché la forza reale dei macchinisti rimanesse l’elemento dominante e trainante dell’alleanza, in caso contrario il Coordinamento sarebbe stato facile preda del sindacalismo autonomo degli altri, esperti nell’arte della costruzione d’organigrammi utili soltanto all’occupazione di spazi politici nell’area del sindacalismo di regime. I ferrovieri comunisti avevano criticato sia questa confluenza sia l’allontanamento dalle organizzazioni di base oggi realmente radicate tra i ferrovieri.
Ugualmente avevano deprecato le eccessive speranze riposte nella partecipazione alle elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie, che sappiamo essere, sin dalla loro nascita, strumento di quel sindacalismo tricolore che presto inquadrava i Consigli di fabbrica, eredi delle Commissioni Interne e soprattutto delle RSA, vera espressione del monopolio collaborazionista sul posto di lavoro.
Resta quindi solo possibile lo sforzo per dare alle elezioni per le RSU un significato critico e di lotta, un "esserci" ed un "contarsi" contro lo schieramento collaborazionista.
I movimenti dei lavoratori restano a tutt’oggi estremamente deboli e anche la forza espressa da scioperi e comportamenti positivamente rivendicativi rimane nel ghetto delle categorie o, peggio, nei singoli posti di lavoro. La vera alternativa, la ricostruzione dell’organismo sindacale di classe, non è certamente favorita da questi connubi tra organismi di base e sindacati autonomi: la categoria, la fabbrica sono le gabbie in cui s’imprigiona il bisogno di ritrovare un’estesa solidarietà di classe.
I comunisti intervengono nelle lotte operaie ovunque ne sia data la possibilità, portando la prospettiva di rinascita del sindacato come unica via percorribile. Nel caso del CoMU mettono in evidenza la discrepanza tra la politica espressa sinora dall’intera organizzazione, e che ha portato negli ultimi quindici anni a dei risultati, e quella che, oggi rinvigorita, esce dalle stanze dei bottoni, politica sinora imbrigliata dalla buona volontà di molti, ma suscettibile di debordare in ogni momento nel tradimento dei principi e nella dispersione della forza sino ad oggi rappresentata.
Gennaio sarà mese di congressi: a Rimini l’organizzazione dovrà
chiarire,
innanzi tutto a se stessa, se si vuol ancora muovere verso gli ideali e
le prospettive che sinora l’hanno contraddistinta, o se, al contrario,
le avvisaglie di degenerazione progressivamente segneranno la fine di
quest’esperienza.
All’interno dell’organizzazione dei macchinisti esistono forti e sane
resistenze,
pronte a proseguire in ogni caso sulla strada della difesa
intransigente
delle condizioni di vita e di lavoro dei ferrovieri. I comunisti
saranno
là per sostenere ed indirizzare quel progetto, unica speranza per un
allargamento
reale ed un consolidarsi del fronte di lotta.
Gli LSU-forestali pugliesi mostrano i pugni e vincono
La necessità da parte dello Stato di predisporre degli ammortizzatori sociali per evitare rivolte di disperati proletari rimasti disoccupati si scontra con le ferree politiche di mercato, col bisogno di limitare la spesa pubblica, con le imposizioni di FMI, Banca Mondiale, WTO, Unione Europea, Euro, Banca d’Italia... Intanto, secondo la demagogia "federalista" alla moda, si stanno delegando agli enti locali quasi tutte le competenze amministrative. In questa morsa si sono recentemente trovati i Lavoratori Socialmente Utili forestali pugliesi: 315 operai licenziati dalle loro vecchie aziende che, terminato il periodo di Cassa Integrazione e messi in mobilità, sono stati ripescati nella rete dei LSU stesa dallo Stato per assicurare il controllo sociale di disoccupati sicuramente turbolenti al misero costo - viva la solidarietà! - di un tozzo di pane.
In questo caso gli LSU sono in forza alla Regione Puglia per lavori, certo importanti, di manutenzione forestale, con stipendi però pagati da Roma tramite la Protezione Civile; un regime transitorio, il loro, che sarebbe durato solo fino al 31 ottobre e con un futuro tutto da definire.
I lavoratori sono stati infatti licenziati e la ricerca della soluzione alla loro vertenza si è impantanata nella palude delle competenze tra Stato e Regione: un progetto di co-partecipazione da 1,5 miliardi viene bocciato in giunta regionale a maggioranza di centro-destra. Per gli LSU si apre un baratro e non rimane che intraprendere la lotta.
La risposta degli operai arriva il 27 novembre quando, in coincidenza con un consiglio regionale, attraverso il quale pubblicamente il presidente Fitto avva promesso che si sarebbe trovata una soluzione, provenienti da tutta la regione si radunano, auto-organizzati in comitati di base, davanti al Palazzo della Regione, a Bari.
Succede che passano le ore e si fa sera, ma della soluzione promessa non si ha notizia, la giunta ha sciolto i lavori senza aver affrontato il problema, perseverando tra incuria e tattica politica. I forestali, inferociti, avvistano il presidente Fitto e tre assessori uscire dal Palazzo e corrono loro incontro circondandoli. Si levano i pugni e un cazzotto proletario colpisce la mascella di Fitto che, protetto (evidentemente male) dalla polizia, vistosi il passo sbarrato, non può far altro che tornare dentro.
Le cronache raccontano che lo stato di assedio dura per due ore finché un cordone di polizia ha consentito l’uscita. "A quel punto - riporta la Gazzetta del Mezzogiorno del 28 novembre - la rabbia dei dimostranti si è moltiplicata a dismisura e si è indirizzata nei confronti dello stesso questore". La polizia evitava il pestaggio dei tre assessori che se la davano a gambe, caricando democraticamente gli operai.
Il fatto diventa motivo di polemica elettorale fra i clan di Rutelli e Berlusconi, mentre notabili politici, del sindacato confederale e gli organi di stampa descrivono gli LSU ormai disoccupati come criminali. Il 1° dicembre Fitto rincara la dose annunciando che avrebbe restituito i fondi, 10 miliardi, erogati da Roma alle regioni per "stabilizzare" gli LSU: motiva il rifiuto con discorsi sulla responsabilità politica, sulle colpe dello Stato e sulla "verginità" delle regioni, ma è chiara la polemica Polo-Ulivo con la strumentalizzazione sfacciatamente elettorale degli LSU. I forestali non si arrendono a questi giochi di palazzo e continuano a manifestare anche nei giorni successivi.
Il Governo-Amato, sia per tornaconto elettorale sia per ordine pubblico, tramite il sottosegretario al Lavoro dapprima provvede al pagamento delle mensilità di novembre e dicembre, poi inserisce nella Finanziaria 2001 voci ad-hoc per gli LSU tutti, ben sapendo che questi sono proletari molto combattivi, come dimostrano le loro lotte di due anni fa a Napoli e Palermo; così vengono introdotte deroghe all’obbligo fatto alle regioni di assumere un 30% degli LSU a tempo indeterminato - cosa non accettata per motivi di bilancio dagli enti locali - ma viene assicurata la copertura finanziaria per gli anni 1999, 2000, 2001 e promessa per il 2002 e il 2003. Con questo provvedimento il Governo tenta di assicurarsi l’inerzia di questi precari fino al 2001 e viene incontro alle regioni.
Ma è un aggiustamento dovuto solo alla bella prova difensiva degli
operai che si sono saputi auto-organizzare in comitati di base
sottraendosi
dalla guida opportunistica dei confederali. Il risultato ottenuto da
queste
lotte vale soprattutto per questo. Sappiamo che il problema della
salvaguardia
del posto di lavoro si riproporrà ancora, sappiamo che lo stesso
rapporto
"socialmente utile" è una forma di lavoro sfavorevole, sottopagato e
con
evasione dei contributi previdenziali operata dagli stessi enti
pubblici
e che certo non va glorificato né invocato. Riteniamo anche di
difficile
applicazione l’assunzione di tutti gli LSU negli enti locali con
contratto
a tempo indeterminato, come rivendicato, e che richiederà lotte
intensissime.
Ma intanto i lavoratori hanno individuato la giusta risposta contro la
precarietà offerta dal sistema capitalista: fuori dai sindacati di
regime
e non rinunciando alla violenza contro la violenza istituzionalizzata
dello
Stato borghese.
PROTESTE OPERAIE IN IRAN
Si sono avuto sentore di una serie di proteste "cittadine" in Iran nelle quali i manifestanti lamentavano la mancanza di servizi fondamentali come l’acqua potabile, l’elettricità, il gas. Nonostante questo tipo di notizie filtri in occidente col contagocce, non è difficile immaginare che le proteste debbano essere più generalizzate di quanto ci facciano credere, mettendo in evidenza il vero carattere della "rivoluzione" islamica: dittatura capitalista sulla classe operaia.
SCIOPERO A MADRID
Il rifiuto di rispettare i "servizi minimi" durante lo sciopero a livello provinciale dei trasporti nello scorso mese di giugno ha provocato circa 800 provvedimenti disciplinari. I sindacati di regime si sono visti travolti dai lavoratori che, infrangendo gli accordi bonzi-impresa-amministratori, imposero uno sciopero totale del settore. Le rivendicazioni dei lavoratoir riguardavano aspetti salariali e di riduzione della giornata. E questo pochi giorni dopo che il parlamento regionale di Madrid si era attribuito un aumento degli appannaggi fra il 30 e il 50%, una miseria di 3 o 4 milioni di pesetas annue. Ma senza scioperare, senza disagi per i cittadini e senza privarli dei loro diritti fondamentali. Così si deve fare...
SCACCHIERA MODIALE
I pezzi si muovono con cautela però con un obbiettivo chiaro: contendere la suprenazia mondiale al supergendarme americano. Il movimento della diplomazia russa verso la Cina e la Corea del Nord, con l’obiettivo di opporre un "fronte euroasiatico" alla minaccia missilisitica "di alcuni paesi", va in questa direzione. Coscienti di questo gli Usa hanno contrattaccato, inviando recentemente una delegazione di alto livello in Corea del Nord. Ancora una volta la classica tattica imperialistica del bastone e della carota. Vedremo chi riuscirà ad attrarre il regime stalinista di Pyongyang che, non si dimentichi, dispone di un arsenale nucleare capace di inquietare sia gli americani sia i loro alleati in Oriente.
DIRITTI UMANI
Dagli archivi dell’inclito Kissinger,resi pubblici ora nelle loro parti meno scandalose, conosciamo la sua opinione circa i "diritti umani". Questo premio Nobel per la Pace, benché li definisca, in privato, stupidi sentimentalismi, non si è trattenuto a far grandi dichiarazioni pubbliche in loro difesa. Senza stupirci della ipocrisia tipica di uno dei massimi sbirri della borghesia, noi restiamo al Trotski di Terrorismo e Comunismo, convinti che fintanto persiste la schiavitù salariata i diritti umani saranno una solenne menzogna destinata ad assoggettare ulteriormente gli schiavi al giogo.
OLIGARCHI TREMATE !
Il terrificante proclama del demagogo Chàvez ha per destinataria la massa elettorale venezuelana che crede che il "bolivarismo" del partito di Chàvez sia la soluzione dei suoi gravi problemi di sostentamento quotidiano. Ma per il momento il tremore degli "oligarchi" sembra rimandato visto che Chàvez ha riconosciuto che "ci vorranno dieci o undici anni per avere una Venezuela un po’ cambiata". Nell’attesa del felice futuro, quelli che debbono tremare sono i lavoratori venezuelani, sui quali ricadranno tutte le misure di aggiustamento economico.
LA BANCA DEI POVERI
Presentata come la panacea contro la povertà, la Banca Grameen, conosciuta in Bangladesh e internazionalmente come la Banca dei Poveri, mostra, per dichiarazione del suo massimo rappresentate Muhammad Yunus, il suo modus operandi: "Le banche devono sapere che prestar denaro ai poveri è conveniente. Io non chiedo garanzie, ma semplicemente mi baso sulla fiducia reciproca. Nella mia Banca quelli che ricevono i prestiti sono anche azionisti". Questo modello bancario, di sapore prodhuniano, non nasconde altro che la costrizione economica, seppure sottilmente dissimulata: i prestiti si concedano a titolo individuale, ma a gruppi di cinque: se uno dei debitori tarda nei rimborsi è cancellato il credito di tutto il gruppo. Simpatico, vero? E perché non si perdano nell’ozio l’interesse stabilito è del 15%, esattamente lo stesso praticato dalle altre banche. Decisamente, prestare denaro ai poveri a queste condizioni è davvero redditizio!