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Contro Livorno 1921 gracidano
le cornacchie super e post-opportuniste
Nel panorama zoologico della borghese democrazia anche quelli che pretendono di rifarsi, seppur per vie contorte, al comunismo hanno le caratteristiche degli altri schieramenti, di destra o di sinistra: si vantano di non avere una ideologia, un programma, una finalità predeterminata. Si rifanno in sostanza tutti quanti alla caratteristica vantata dal fascismo: quella del più spregiudicato eclettismo.
Questo atteggiamento, che non riduce la pericolosità del moderno opportunismo, rende difficile attaccarne le posizioni politiche, proprio perché posizioni politiche non ne ha ed è sfuggevole come il mercurio. Non ci dimentichiamo però chi sia e da dove venga, la sua funzione e la sua tradizione. Non per niente tutte le sue glorie non sono altro che la lunga serie di tradimenti che hanno determinato la sconfitta del movimento rivoluzionario comunista internazionale dopo che i maestri degli odierni "post-" rinnegarono quella Terza Internazionale che, nel primo dopoguerra, aveva riconfermato, nei culmini della rivoluzione di Ottobre e della formazione del PCd’I, la validità della dottrina e del metodo marxista dal punto di vista teorico e pratico.
Prendiamo ad esempio il Partito della Rifondazione Comunista. Questo discende direttamente da quel Partito Comunista Italiano del quale rivendica la solidarietà con la classe dominante e la difesa degli interessi nazionali. È internazionalista solo in quanto parte integrante della strategia della più feroce delle controrivoluzioni che prese il nome da Stalin.
Quel PCI ebbe il suo naturale epilogo in Rimini 1989 dopo essere passato attraverso tappe che hanno significato l’abbandono degli interessi e delle finalità di classe a favore di scopi puramente interclassisti e democratici. Tappe che vanno dall’Aventino, ai fronti popolari, all’adesione alla guerra imperialista, ai blocchi partigiani, al riconoscimento dell’Italia monarco-sabauda e alla partecipazione ai suoi governi, alla politica della ricostruzione, al compromesso storico, all’appoggio al governo di solidarietà nazionale... e quanto potrebbe durare ancora questa lista! Quel partito che, malgrado il suo carattere di massa, il suo monopolio sul proletariato italiano, i suoi strepitosi successi elettorali, la sua influenza sulla “cultura”, il suo controllo in centrali organismi economici, il capillare potere politico espresso nel governo delle amministrazioni locali, non ha mai costituito la men che minima minaccia alla borghesia italiana ed al suo Stato nazionale con i quali ha sempre amorevolmente puttaneggiato. Anzi Stato capitalista e borghesia hanno sempre riconosciuto in questo partito un fattore determinante di “stabilità democratica” ed il garante della pace sociale, cioè a dire un elemento indispensabile del regime politico borghese.
Gli attuali “rifondatori” hanno pienamente condiviso la politica del vecchio PCI fino all’ultima goccia del suo tradimento. La loro nascita non è scaturita da divergenze programmatiche con la maggioranza del partito Occhetto-D’Alemiana, la quale, dopo che, da decenni, tutto ciò che poteva avere sapore di comunismo era stato affossato, ha pensato bene di sbarazzarsi anche di un nome divenuto ormai solo un palla al piede. Specialmente dopo il crollo del famoso muro. Il Muro della Vergogna, del quale, finché è restato in piedi, non si sono mai vergognati.
La trasformazione del vecchio PCI e la separazione dello spezzone rifondatorio è stata un’operazione condotta a tavolino dal capitale italiano il quale, dopo il terremoto che investì la cosiddetta Prima Repubblica spazzando via i vecchi partiti di potere ed il loro metodo di gestione, aveva una urgente necessità di costituire governi stabili che fossero in grado di fare ingoiare al proletariato tutta una serie di misure impopolari, cosa che sarebbe stata impensabile per un governo di destra non dittatoriale. Ne fa fede la breve parentesi del governo Berlusconi.
Allo stesso modo il capitalismo nazionale aveva pure bisogno di un partito che rivendicasse la tradizione comunista ma che, alla bisogna, fungesse da ruota di scorta del governo di sinistra. Di qui l’esperienza governativa dei bertinottiani fino a che, per non perdere del tutto la loro compromessa credibilità, hanno dovuto mettersi all’opposizione, senza però avere prima affittato una parte della propria organizzazione al governo di “sinistra” perché restasse in piedi.
In occasione dell’ottantesimo anniversario della nascita del PCd’I i bertinottiani sono tornati a Livorno dove è stato persino possibile sentir pronunciare la parola “rivoluzione”. Il mensile teorico (?) del PRC Antagonismi del 21 gennaio dedica ben quattro pagine al dibattito sulla “Attualità della Rivoluzione”. Il dibattito tra i santoni intervenuti, Bertinotti, Franchi, Sanguinetti, Tronti, tutti personaggi illustri che noi ci vantiamo di aver sentito appena nominare o di non conoscere affatto, si è aperto con questa domanda, nel linguaggio da ciarlatani di mercato, come sono: «È ancora possibile una soggettività comunista? (...) Ed essa è ancora spendibile nella politica e per incidere nell’agenda della politica?».
Nel corso del dibattito Bertinotti, in sostanza, afferma che «su scala mondiale il capitalismo ha vinto e il processo di globalizzazione si è fuso con il crollo dei regimi dell’est. Questo è il punto di partenza che fa capire meglio il degrado e la deriva nel quale ci troviamo». Quali sono i motivi della sconfitta proletaria e della vittoria capitalista? Da Bertinotti non ci è dato saperlo. Comunque sia, il dirigente di Rifondazione afferma che «di fronte al nuovo capitalismo la politica deve scalare la sua dimensione più alta, deve affrontare pienamente e senza reticenze il problema della rivoluzione».
Questo sì che è parlare da compagni, lo spirito di Livorno sembra essersi impossessato del corpo del grande Fausto. Però subito dopo aggiusta il tiro dicendo che «occorre ricostruire il collegamento tra realismo e radicalità». Come dire, cari compagni, niente utopie, niente illusioni, ma solo la politica del possibile, cioè quella “spendibile” e capace di “incidere nell’agenda della politica”, siamo o non siamo dei liberi professionisti della politica?. Quindi parlando della annunciata rivoluzione chiarisce che «il processo rivoluzionario va pensato nei tempi lunghi, in una radicale ma lunga trasformazione. Sicuramente non nei termini di una precipitazione». La rivoluzione dentro le coscienze! E, per chi non avesse capito spiega meglio: «Oggi chi ha l’onere di pensare il progetto rivoluzionario sottopone l’ipotesi di conquista del potere statuale ad un vaglio critico dal quale essa risulta né plausibile né attuabile. È la stessa natura del nuovo capitalismo che ci fa giungere a questa conclusione».
Niente conquista violenta del potere, nemmeno conquista graduale perché ormai il capitalismo ha vinto a scala mondiale ed il proletariato non esiste più. Al Bertinotti può essere scappata di bocca la parola “rivoluzione”, ma non quella “proletariato”, infatti la rivoluzione, senza proletariato è solo una chiacchiera, come chiacchiere sono i ritorni a Livorno, come tutte le altre strategie "spendibili ed investibili".
Due anni e mezzo or sono, commentando il libro di Bertinotti Le Due Sinistre, una rivista cattolica scriveva: «Non a caso significativo è anche il silenzio di Bertinotti nei confronti del principale motore del capitalismo mondiale rappresentato dagli Stati Uniti d’America, se non attraverso la difesa di Fidel Castro» (Il Tetto, luglio/ottobre 1998). Thomas Foglietta, ambasciatore americano, racconta: «Quando sono arrivato a Roma mi sono detto: Voglio parlare con i comunisti. Voglio conoscere questo mister Bertinotti, questo mister Cossutta (...) Sono venuti da me nella residenza di villa Taverna (...) separatamente, più di una volta: per un lunch, per un coffee. Alla prima occhiata erano un po’ spaesati (...) Pochi minuti dopo cantavamo insieme. Con Bertinotti siamo passati al tu. Mi ha detto: chiamami Fausto. Con Cossutta abbiamo parlato della guerra partigiana. Da allora abbiamo avuto sempre ottime relazioni» (La Stampa, 30 gennaio).
Noi non abbiamo niente da replicare o rimproverare a questi signori,
è al proletariato che ci rivolgiamo e rammentiamo le parole di Marx.
«La borghesia non solo ha fabbricato le armi che la distruggeranno;
ha generato anche gli uomini che faranno uso di esse: i moderni operai,
i proletari (...) Il proletariato attraverso la rivoluzione si impone
come
classe dominante e, in quanto classe dominante, distrugge violentemente
gli antichi rapporti di produzione. Esso cancella assieme a quei
rapporti
anche le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cancella
le
classi in genere, e quindi cancella il suo proprio dominio di classe
(...)
I proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene. Hanno un
mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi unitevi!».
A cosa serve la stanca recita del rito elettorale
La coscienza, od anche solo la istintiva sensazione, della ineluttabile ripresa della lotta di classe con il conseguente ricongiungimento del proletariato al suo partito marxista rivoluzionario spinge la borghesia ad approntare le armi in vista dell’inevitabile futuro scontro rivoluzionario. Armi di varia natura che si concretizzano in un ventaglio che va da un inquadramento sempre più dittatoriale delle istituzioni statali, atte a togliere al proletariato ogni minima parvenza di autonomia e libertà di azione, fino alla costituzione di partiti opportunisti, agenti della borghesia infiltrati all’interno della classe storicamente nemica e destinata, dalla natura delle cose, ad abbatterla.
Lo spettro del comunismo che un secolo e mezzo fa si aggirava per l’Europa e con la sua “nefanda dottrina” (Pio IX) teneva “tanti animi dubbiosi e sospesi” (Cavour), questo stesso spettro oggi si aggira per l’intero pianeta, ed il fatto che attualmente il proletariato non dia segni di azione rivoluzionaria non rassicura, giustamente, il capitale internazionale. Il gigante proletario giace dormiente sotto l’effetto delle droghe soporifere democratiche, religiose, opportunistiche; il suo risveglio, che può essere ritardato ma non scongiurato, può avvenire improvvisamente e iniziare a preparare il suo terribile attacco rivoluzionario contro i bastioni mondiali del capitalismo. Con l’estensione del modo di produzione capitalistico a livello planetario a maggior ragione, oggi, “la moderna società borghese può paragonarsi allo stregone che non è più capace di dominare le forze degli inferi da lui stesso evocate” (Marx).
Quando gli uomini politici di destra, istrioni, per alcuni versi pittoreschi per non dire pagliacci, denunciano ad ogni piè sospinto il pericolo del comunismo non lo fanno di certo perché credono nella pericolosità dei loro democratici avversari nei confronti dei quali lo Stato capitalista ed i grandi borghesi hanno solo obblighi di gratitudine. Dalla stessa preoccupazione sono spinti coloro che scherniscono la psicosi del comunismo dichiarando pubblicamente la sua morte e sepoltura e l’impossibilità di un suo risorgere, sia come dottrina sociale sia come organizzazione di classe.
Sbandierare lo spauracchio del comunismo giocando sul terrore che la piccola borghesia, inetta e reazionaria, ha di perdere i propri privilegi di fronte all’imporsi del grande capitale; oppure negarne l’esistenza e la impossibilità di riorganizzarsi a scala internazionale, entrambi i metodi rispondono alla medesima necessità di classe: difesa incondizionata (e disperata) dell’attuale regime capitalista presentandolo come l’unico metodo di ordine sociale possibile ed attuabile. Oppure prepararsi a dare aperta battaglia, qualora il metodo della “convinzione” non abbia raggiunto gli scopi previsti, ed il proletariato si avvii sulla sua strada, quella della riorganizzazione autonoma, prima difensiva sindacale, poi politica e di partito per la presa del potere, l’abbattimento violento dell’attuale società e la conservazione di tale potere attraverso lo Stato a dittatura proletaria.
Quindi, se l’attuale compagine politica, a livello internazionale
e nazionale, è composta quasi esclusivamente da personaggi a dir
poco insignificanti ciò non implica che il capitalismo sia meno
rapace, tutt’altro; ogni giorno vediamo come esso continui ad affondare
i suoi artigli nelle carni delle classi sociali subalterne. È valida
la nostra definizione a suo tempo data nei confronti di queste comparse
chiamate a giocare un qualche ruolo nel teatrino della politica:
“Povere
marionette che si illudono di fare la storia”. Ma le marionette non si
muovono autonomamente, sopra di loro, nascosto, c’è il
burattinaio-capitale
che tira i fili di questi e di quelli. Lo stesso si può dire delle
loro bande politiche, che di partiti non si può parlare.
Daewoo
Guerriglia sindacale in vista di una battaglia più
grande
La crisi finanziaria del 1997 inizio del 1998 che ha colpito molti paesi del sud est asiatico si è abbattuta con particolare gravità sulla Corea del Sud, probabilmente proprio per il grado di sviluppo industriale raggiunto dalla sua economia, l’undicesima alla scala mondiale.
Sottoposta alla ferrea cura del Fondo Monetario Internazionale l’economia ha ricominciato a girare ma con gravissime conseguenze per una larga fascia di proletari che stanno pagando la crisi con salari ridotti, maggiore sfruttamento, un forte aumento della disoccupazione. Secondo i dati ufficiali, in un solo anno i disoccupati sono aumentati di 1.200.000 unità
Le elezioni presidenziali del dicembre 1997 si svolsero sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale, con cui il governo uscente aveva sottoscritto un accordo capestro appena un paio di settimane prima, riuscendo ad ottenere 58,35 miliardi di dollari di aiuti, la somma più consistente mai concessa dal Fondo.
Svolto il suo compito la vecchia classe politica, coinvolta negli scandali seguiti alle rivelazioni sui legami che la univano ai più grandi gruppi industriali del Paese, indicata all’opinione pubblica come responsabile del tracollo dell’economia e anche di aver perso la faccia con gli strozzini del FMI, passa la mano ad uno dei più “carismatici” oppositori alla linea politica dei precedenti governi, un “liberale di sinistra”, Kim Dae jung, imprigionato a più riprese dal governo militare e anche da quello civile.
Tra le tante dichiarazioni fatte in campagna elettorale, il nuovo presidente aveva solennemente promesso che in caso di vittoria avrebbe proclamato un blocco dei licenziamenti; promessa dimostratasi appunto “elettorale” e non mantenuta.
Un esempio emblematico dell’atteggiamento del governo, di completo sostegno, naturalmente, all’interesse del capitale, si è avuto nella vicenda della bancarotta di uno dei cinque più grandi complessi industriali (chaebol) della Corea, la Daewoo, vicenda che in queste settimane si sta risolvendo in maniera drammatica per migliaia di lavoratori.
Ancora un anno fa, nell’aprile 2000, la Federazione dei Sindacati Metalmeccanici della Corea del Sud (KMWF) aveva proclamato uno sciopero di una settimana per i 73.000 lavoratori delle principali quattro case automobilistiche nazionali coreane (Hyundai, Daewoo, Kia e Sangyong) contro la cessione della Daewoo Auto ad una società straniera.
La crisi della Daewoo ha coinvolto naturalmente anche i circa 300.000 dipendenti delle 500 principali ditte fornitrici, ma il sindacato KCTU (Confederazione Sindacale Coreana), a cui aderisce il KMWF, è quasi totalmente assente nella piccola e media industria e non riesce a mobilitare questi lavoratori, la cui forza sarebbe invece stata decisiva nello scontro attuale.
Con quella lotta, durante la quale venne arrestato il presidente del sindacato KMWF, si cercava di ostacolare le manovre della direzione della Daewoo e delle Banche creditrici per cedere l’azienda ad un grande gruppo internazionale (allora si parlava di General Motors, ma anche di Ford, di Daimler Chrysler, ecc). I sindacati temevano, giustamente, che la cessione avrebbe comportato tagli all’occupazione, ma giustificavano la loro azione anche con un sentimento nazionalistico ostile all’ingresso di stranieri in quella che, fino a pochi anni prima, era la seconda industria automobilistica coreana, come se anche l’esperienza di quest’ultima crisi non avesse dimostrato che un padrone compatriota si comporta esattamente come uno straniero e che il capitale non ha patria ma va dove riesce ad ottenere maggiori profitti.
Dopo lo sciopero ripresero le trattative, ma a novembre la situazione si era fatta ancora più tragica, gli operai rimasti al lavoro, ai quali erano stati ridotti gli stipendi del 30%, non venivano pagati da due mesi e lavorano a settimane alternate.
L’azienda, con l’appoggio del governo e sotto la sferza delle banche creditrici che avevano chiesto forti interventi di ristrutturazione per l’emissione di nuovi prestiti, annunciava un ulteriore taglio di 3.500 posti di lavoro e la vendita di alcune aziende possedute all’estero per consolidare la propria situazione finanziaria. Venne anche decisa una riduzione della produzione degli stabilimenti polacchi, dove lavorano 24.000 operai, contraendola da 220.000 a 126.000 unità all’anno. Con questa strategia il gruppo si aspettava di ridurre il deficit entro il 2001 e di incamerare per il 2002 quasi 9 miliardi di dollari.
A metà febbraio scorso l’azienda spedisce 1.700 lettere di licenziamento, interrompendo le trattative col sindacato e annunciando la chiusura per tre settimane della sua fabbrica automobilistica più grande, quella di Pupyong, 30 chilometri ad est di Seul ed in grado di produrre 500.000 vetture all’anno e 46.000 veicoli commerciali.
I licenziamenti sono stati facilitati dalla nuova legislazione sul lavoro, varata nel 1997, nonostante il sindacato KCTU vi si opponesse con tutte le forze.
Alla notizia dei licenziamenti, 700 operai, sostenuti dal sindacato dell’auto, venerdì 16 febbraio si sono barricati nella fabbrica in un disperato tentativo di respingere le decisioni aziendali. «Combatteremo contro i licenziamenti con tutti i mezzi possibili», ha dichiarato un dirigente sindacale della Daewoo. «Garantiteci il diritto alla sopravvivenza. Non abbiamo più niente da perdere», gridavano i manifestanti.
La polizia ha atteso il lunedì successivo per attaccare in forze. 4.000 agenti, con l’appoggio di ruspe e blindati hanno attaccato le barricate costruite dagli operai con rimorchi di camion e altro materiale. I lavoratori, appoggiati anche da compagni rimasti all’esterno, si sono difesi aspramente usando tubi di ferro e sparando acqua contro gli agenti con le pompe antincendio. La battaglia è durata tutto il giorno ma alla fine la polizia è riuscita ad occupare la fabbrica e gli agenti adesso ne controllano ogni angolo compresi gli edifici circostanti. Una trentina di ordini di cattura sono stati emessi contro i capi della rivolta.
Il 21 febbraio i lavoratori hanno interrotto il traffico sull’autostrada Seul-Incheon per 20 minuti, prima di essere dispersi dalla polizia.
Pare che la KCTU non abbia potuto fare altro che minacciare una campagna di boicottaggio delle vetture della General Motors, se dovesse rilevare la Daewoo Motors “scremata”. Ma questa era proprio la condizione essenziale posta dagli acquirenti; lo stesso Ministro delle Finanze ha sostenuto che i licenziamenti sono un passo inevitabile per permettere l’intervento di acquirenti stranieri. Certo tempo non ce n’è più molto: secondo la Korea Development Bank tenere aperta la Daewoo in questa situazione costa più di 120 milioni di dollari al mese, che si sommerebbero al debito che era, già a novembre, di ben 15 miliardi di dollari.
Nonostante la loro combattività gli operai Daewoo, e prima di essi quelli di altre centinaia di fabbriche coreane, sono stati sconfitti. Il padronato coreano e mondiale, che per anni ha accumulato profitti sulla loro pelle, fa adesso pagare loro le conseguenze tragiche della crisi, in una situazione che in Corea è particolarmente difficile perché non esistono “ammortizzatori sociali”.
Il movimento sindacale coreano rinato negli ultimi anni sulle ceneri dei sindacati filo-statali, in condizioni spesso di difficile clandestinità, non ha potuto sorgere che spezzettato in centinaia di piccoli sindacati aziendali che solo recentemente si sono collegati in Federazioni Nazionali. Il KMWF, la Federazione Metalmeccanica, è un coordinamento dei sindacati nei settori auto, cantieri navali, macchine utensili, elettronica, ed è affiliata alla confederazione KCTU. Alla KMWF nel 1999 aderivano 184 sindacati con circa 190.000 iscritti. Il tasso di sindacalizzazione rimane però piuttosto basso, circa il 15% della forza lavoro, ed è concentrato soprattutto nelle grandi fabbriche mentre nelle piccole e medie imprese la presenza sindacale è debole.
La strada è lunga e in salita, per la riorganizzazione della
classe operaia in questi giovani industrialismi, ma è già
tracciata.
Il capitalismo marcia in Cina
sulle orme insanguinate di tutti gli altri
A Fang Lin, un piccolo villaggio rurale della provincia dello Jangxi, nel Sud Est della Cina, è scoppiata la piccola scuola; tra le macerie sono morte 41 persone tra scolari e maestri. Non stavano studiando, stavano lavorando per produrre i petardi che la Cina esporta in tutto il mondo. I bambini di Fang Lin erano addetti ad inserire le micce nei tubi di esplosivo. «La pratica di far lavorare gli studenti alla fabbricazione di fuochi d’artificio durante l’orario scolastico andava avanti da almeno tre anni. La zona d’altra parte è una specie di polveriera, data la presenza di numerose fabbriche di petardi, per la maggior parte illegali. Una parte degli introiti andava alla scuola per pagare le sue spese, inclusi gli stipendi degli insegnanti, il resto andava ai governanti locali. Ai bambini nulla naturalmente, anzi venivano multati se non volevano lavorare (...) È dagli anni ’80 che si incoraggiano le scuole a ’mettersi in affari’ per integrare risorse sempre più scarse” (Il Manifesto, 9 marzo).
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro in Cina ci sarebbero 13 milioni di bambini tra i 10 e i 14 anni che lavorano in condizioni spesso terribili; poche settimane fa è stato denunciato il caso di una fabbrica di Shenzhen “zona economica speciale” alla frontiera con Hong Kong in cui giovani di 14-15 anni lavoravano dalle sette del mattino alla mezzanotte, ad imballare i peluches che la Mc Donald’s regala ai clienti.
Come mai si fanno lavorare i ragazzi quando in Cina ci sono milioni di disoccupati adulti? Ha risposto Federico Engels nel suo studio di fine Ottocento "La situazione della classe operaia in Inghilterra": perché si pagano di meno! Lo sfruttamento del lavoro infantile non è infatti un segno di arretratezza economica, come affermano i commentatori borghesi, ma caratterizza invece il modo capitalistico di produzione e se in Europa questa pratica si era ridotta nei decenni scorsi, questo era dovuto alla lotta decisa del movimento operaio per imporre delle leggi a difesa della classe lavoratrice!
Lo Stato cinese, che ancora si ammanta di un apparato scenografico “popolar-socialista”, ma che, come ha dimostrato la nostra critica, non ha mai avuto nulla a che spartire con il socialismo, cerca di “indirizzare” il caotico processo di sviluppo del capitalismo che ormai da decenni è in pieno corso nel paese: usa il suo potente apparato di polizia per cercare di spezzare la crescita di organizzazioni sindacali di classe, chiude i settori industriali “improduttivi” gettando sul lastrico milioni di lavoratori, taglia i fondi per l’istruzione primaria e allo stesso tempo aumenta quelli per il rafforzamento del suo apparato militare, aumentati anche quest’anno del 17,7%.
Uno Stato borghese che non garantisce l’istruzione primaria sta
percorrendo
già il ramo discendente della sua parabola storica: la Cina, alla
vigilia della sua entrata a pieno titolo nella Organizzazione Mondiale
del Commercio, dimostra al resto dei ladroni imperialisti di averne
pieno
diritto.
Uomo moderno, personificazione del Capitale
È certamente una banalità affermare che l’uomo “è egoista”, individualista e che si dà a norma il motto “mors tua, vita mea”, tanto che lo dice anche il prete, l’umanitario, ecc. e che, anche se condita di frasi pompose e autorevoli elucubrazioni, rimane una misera constatazione di alcuni fatti. L’estrema limitazione sta nel non comprendere che l’uomo non ha in assoluto una determinata essenza immobile priva di sviluppo, bensì, come qualsiasi essere vivente, è in continua trasformazione.
L’essere umano, più preciso, la specie umana, per essere completamente conosciuta e definita va considerata in un dato momento storico, in una data epoca, posta in rapporto alla proprie cause determinanti, alla propria origine. Si scoprirà che l’essenza dell’uomo è in costante divenire sotto l’influsso di cause materiali precise che la mutano continuamente, in un diretto rapporto con le trasformazioni continue delle stesse cause materiali. Insomma l’essenza dell’uomo è incomprensibile al di fuori del cambiamento del suo ambiente.
Ma nell’analisi di questo processo ben poco ci aiutano le descrizioni che l’uomo dà di sé stesso: l’uomo, diceva Marx, non lo si giudica da quello che crede di essere.
Tutte le critiche moralistiche e idealistiche sull’uomo egoista non possono (né vogliono) spiegare perché l’uomo è egoista: niente e nessuno libererà l’uomo dall’egoismo “connaturato” all’uomo, così parla colui che è totalmente immerso nella melma dell’ideologia dominante. Sul “nessuno” siamo d’accordo anche noi, che non abbiamo mai cercato santi od eroi che liberino con il loro genio l’umanità; sul “niente” no.
È curioso, per inciso, che tutti questi pomposi difensori dei “valori umani” e amenità simili alla fin fine abbiano una così bassa considerazione dell’”essere umano”. I ragionamenti anche dei massimi pensatori borghesi sono tutt’altro che logici e sensati: mentre ritengono l’uomo egoista in sé, allo stesso tempo decantano ancora la litania sull’irenico progresso spirituale e ideale in Occidente rispetto all’”essere umano” dei secoli di mezzo, cristallizzatosi, grazie alla volontà e al martirio di uomini giusti ed eroi, nell’odierna impalcatura democratica e nei suoi pretesi “valori”, nella sostituzione finalmente delle guerre ingiuste con quelle giuste, umanitarie, nella solidarietà del volontariato e della filantropia pseudocattolica, ecc. Insomma, anche secondo questo poco logico argomentare, nemmeno l’uomo egoista sarebbe poi così egoista, che anzi sarebbe in evoluzione verso una società borghese che si darebbe istituzioni che ne frenerebbero l’originaria natura belluina e tenderebbero a realizzare il pubblico bene nella libertà e nella democrazia.
In realtà il cosiddetto “egoismo umano” non è che la personificazione del capitale e delle sue leggi: non è l’uomo che possiede la ricchezza e la utilizza a sua misura e godimento, ma è la ricchezza, in forma capitalistica, che possiede l’uomo e lo plasma a sua immagine. Innalzando un certo tipo di uomo nei suoi tratti paludosi e cannibaleschi a modello ideale di grandezza spirituale di un epoca, in realtà si vuol cantare le lodi al Capitale, a un modo di produzione fondato sul mercato e sulla concorrenza, umanizzato e divenuto sinonimo di convivenza umana.
L’individuo, che crede di conoscersi, in realtà vede solo la sua immagine che gli ritorna riflessa nel mondo circostante. L’uomo moderno, “artefice della propria fortuna”, che è convinto di essere capace di volontà, di scelta e di “ragionare con la propria testa”, l’uomo “spirituale” dell’Occidente corre e si affanna per passare dall’alienazione materiale della vita proletaria all’alienazione autosoddisfacente della vita borghese, per essere, o almeno sembrare, un borghese. Tramontati tutti i miti di coraggio, cultura, progresso come pure di patria e di nazione, l’unico Valore che vale resta il Valore che si valorizza, il Capitale.
La specie umana fin da epoche che svaniscono nel mito ha dovuto produrre e lavorare per la propria sopravvivenza. Così operando ha eretto, inconsapevolmente, dei modi di produzione funzionali, al loro sorgere, ai bisogni e alla minor fatica umana ma che nei secoli, crescendo nuove forze produttive materiali più efficaci, sono andati in crisi e sono crollati per mezzo quasi sempre della violenza rivoluzionaria. Prima ha agito la rivoluzione delle forze produttive, poi delle classi sociali che finivano coll’identificarsi con quelle forze. Oppure invasioni di nuovi popoli, come le barbariche nell’Impero romano che fecero crollare il metodo ormai improduttivo dello schiavismo. Ogni modo di produzione, cui corrispondeva una classe di dominatori, ha poi eretto una sua sovrastruttura ideologica e cantanto, più spesso pianto, un tipo di uomo a propria immagine.
L’essere umano, ad esempio, membro della gens dell’antichità era frutto di un organico interagire fra gli uomini che vivevano tutti in una situazione produttiva-riproduttiva comunitaria: non era concepibile al tempo egoismo, gelosia, desiderio di potere, ecc. Quando però apparvero la proprietà privata e il commercio, senza una vera e propria intenzionalità, sorse la necessità dello Stato a garante della struttura sociale non più armonica. È l’uomo, in quanto in sé e per sé egoista, che ha voluto questa situazione? No. Il surplus produttivo – allevamento e agricoltura poi – rispetto al pochissimo che doveva bastare alla gens antica ha determinato la necessità dell’accumulazione, della divisione del lavoro, dello scambio per provvedere alla migliore soddisfazione dei bisogni umani. Lo sviluppo sempre maggiore dello scambio e della divisione del lavoro produssero il privilegio di classe e la proprietà privata.
Un esempio di come la condizione materiale diversamente determini l’uomo l’abbiamo nell’impossibile pacificazione fra gli Indiani d’America e i borghesi europei: da una parte un popolo fraterno e solidale, organico a sé e alla natura ospite, ma chiuso nei brevi cerchi di ristrette comunità, dall’altro bande di individuali tagliagole, mossi dal culto sanguinario del Dio-Denaro, ma determinati ad aprire un continente all’uomo-specie.
La coscienza dell’uomo è sempre in ritardo. In tutta la storia è arrivata per ultima, finita la festa. Per l’uomo è impensabile qualcosa di diverso da ciò che lo circonda. La massa dei proletari di oggi – con l’esclusione di quelli inquadrati nel partito marxista – non possono quindi essere comunisti né possono sposare la causa della sovversione sociale. I proletari diverranno comunisti quando le condizioni materiali faranno loro intravedere la dissoluzione del capitalismo e la necessità e possibilità di una nuova forma sociale. Solo nel 1789 la borghesia divenne anti-aristocratica ed anti-monarchica, quando l’aristocrazia e la monarchia erano già in piena e irreversibile dissoluzione.
Nel XVII secolo John Locke criticò duramente la concezione di Descartes secondo la quale le idee che l’uomo ha e la sua concezione del mondo sono già presenti alla sua nascita, gli sono innate. Per Locke il cervello di un bambino alla nascita è una tabula rasa, sgombro da pregiudizi, moralità e pretese certezze eterne: è l’esperienza che crea l’uomo. Nel secolo successivo Jean-Jacques Rousseau scrisse ulteriormente sull’argomento nel suo importante saggio L’Emile. «L’uomo è nato per la società – scriveva negli stessi anni Diderot – separatelo, isolatelo, le sue idee si scompiglieranno, il carattere gli si altererà, mille passioni ridicole gli nasceranno nel cuore; i pensieri più stravaganti gli germoglieranno nell’animo, come rovi in un suolo selvaggio. Mettete un uomo in una foresta, vi diventerà feroce; in un chiostro, dove l’idea di necessità si aggiunge a quella di schiavitù, peggio ancora. Da una foresta si esce, da un chiostro non si esce più; nella foresta si è liberi, nel chiostro si è schiavi» (La Monaca).
Questa, ennesima, “scoperta dell’uomo”, fra il XVII e il XVIII secolo, segnò una nuova conquista della specie in evoluzione. La borghesia rivoluzionaria dei tempi aveva partorito giganti del pensiero che espressero brillantemente, seppur non completamente, questa scoperta e portarono alla teoria della conoscenza enormi contributi. Ma quella di quei secoli era una borghesia nel pieno vigore rivoluzionario che stava conquistando il mondo.
La borghesia di oggi, invece, aggrappata ai brandelli dell’ormai storicamente cadutissimo tasso del profitto, rinnegata se stessa e la sua potenza conoscitiva del passato, arriva appena alla vecchia superstizione feudale per cui l’uomo è com’è... e mai sarà altro! A questo si riducono le sue armi nella guerra polemica e teorica contro il Comunismo!
Come tutti i modi di produzione storici il declinante Capitale finisce per considerare sé stesso lo stato di cose non solo naturale ma assoluto, il fine ultimo di migliaia di anni di sviluppo della specie, la fine della storia, come qualcuno meno cauto si è sbilanciato a teorizzare. Tutte le classi sono vittime di questa cecità della classe dominante.
In uno dei primi studi, risalente al 1844, Note su Eléments d’économie politique di James Mill, Marx scavò a fondo su ciò che rappresenta il denaro per l’essenza umana della nostra epoca e su come il denaro sia in grado di determinarla, come l’uomo sia completamente dominato dal lavoro e dal prodotto da lui stesso prodotto. Al di sopra di lavoro e prodotto sta il dominatore supremo, Sua Maestà il Denaro, che aliena il processo lavorativo e di produzione. L’uomo non sceglie e non può appellarsi a niente, in quanto è il Denaro che lo comanda per il suo bisogno di valorizzarsi. «In quanto è l’uomo stesso – nota Marx – che aliena questa attività mediatrice, in essa egli è attivo soltanto come uomo che ha perduto sé stesso, come uomo disumanizzato; la stessa relazione delle cose, l’operazione dell’uomo su di esse, diviene l’operazione di un ente che sta al di fuori ed al di sopra dell’uomo. Attraverso questo intermediario estraneo – mentre è l’uomo stesso che dovrebbe essere l’intermediario per l’uomo – l’uomo vede la sua volontà, la sua attività ed il suo rapporto con altri come una potenza indipendente da lui e dagli altri. La sua schiavitù giunge dunque al culmine. Che adesso questo intermediario divenga il Dio reale è chiaro, infatti l’intermediario è il potere reale su ciò con cui esso mi media. Il suo culto diventa fine a sé stesso. Separati da questo intermediario gli oggetti perdono il loro valore» (O.C., vol.III, pag.230).
Feuerbach scoprì che Dio era l’uomo stesso alienato da sé stesso, l’uomo al massimo delle sue possibilità idealistiche, l’uomo che ama, vuole e può al massimo grado, soltanto trasferito in un cielo di fantasia. Ciò che la religione ha rappresentato in questi termini, oggi lo rappresenta il Denaro. «Cristo è il Dio alienato e l’uomo alienato. Dio ha ormai valore soltanto in quanto rappresenta Cristo, e l’uomo ha valore in quanto rappresenta Cristo. La stessa cosa vale per il denaro» (pag.231).
L’uomo è diventato il Denaro, vale come Denaro, è confrontabile con un altro uomo per mezzo del Denaro; il Denaro a sua volta è diventato l’uomo. Nel commercio, come gli animali della fattoria di Orwell trovarono alla fine difficoltà nel riconoscere la differenza fra gli uomini e i maiali (in quanto come essenza spirituale erano divenuti la stessa cosa), è difficile comprendere la differenza che esista fra un acquirente e il suo denaro: il venditore stima, considera e ama l’uomo che si trova di fronte per il suo denaro, per ciò che esso è concretamente dinanzi a lui. L’amore e il rapporto fra essere umani sottostanno alla legge del valore e alle sue logiche e necessarie conseguenze. «Fatti annunciare dal denaro e le porte si spalancheranno», fa dire Shakespeare al borghese Ford, e Falstaff risponde: «Il denaro, signor mio, è una gran bell’ambasciatore, e sempre lo sarà» (Le allegre comari di Windsor).
I rincoglioniti scagnozzi della moderna società decantano oggi che essendo il denaro “superato” dal credito, col bancomat anche nelle tasche dei proletari, l’uomo si sarebbe infine liberato dal denaro. Anche di questo Marx si occupò in quel lontano 1844: «Nel credito, la cui espressione più compiuta è la banca, sembra che il potere della potenza materiale ed estranea sia spezzato, che il rapporto dell’autoalienazione sia soppresso e l’uomo sia di nuovo in relazioni umane con l’uomo (...) Questa soppressione della estraneazione, questo ritorno dell’uomo a sé stesso e dunque all’altro uomo non è se non parvenza; e tanto più essa è un’autoestraneazione, una disumanizzazione assai più infame ed estrema in quanto il loro elemento non è più la merce, il metallo, la carta ma l’esistenza morale, l’esistenza sociale, la stessa interiorità del cuore umano; in quanto, sotto le spoglie della fiducia dell’uomo verso l’uomo, esso è la massima sfiducia e l’estraneazione perfetta (...) Con il credito un uomo riconosce l’altro anticipandogli dei valori e (...) accorda al suo simile la fiducia che consiste nel non considerarlo un farabutto ma un “brav’uomo”. Per “brav’uomo” chi dà fiducia intende qui, come Shylock, un uomo in grado di pagare».
Oggi il credito rappresenta quasi sempre il denaro stesso e lo scambio corrispondente, in pratica il credito è diventato «il denaro stesso elevato ad una forma del tutto ideale», o, come è di moda dire oggi, “virtuale”. «Il medio dello scambio – scriveva già allora Marx parlando di “New Economy” – è dunque certamente tornato e trasferito, dalla sua figura materiale, nell’uomo, ma solo perché l’uomo stesso, estraniato a sé, è diventato egli stesso una figura materiale. Non è già il denaro ad essere superato nell’uomo, nel rapporto di credito, ma è l’uomo stesso che viene mutato in denaro, ovvero è il denaro che si è incorporato in lui. L’individualità umana, la morale umana è diventata essa stessa sia un articolo di commercio sia un materiale in cui esiste il denaro. Non più moneta e carta, ma la mia propria esistenza personale, la mia carne ed il mio sangue, la mia virtù ed il mio valore sociali sono la materia, il corpo dello spirito del denaro. Il credito strappa il valore del denaro non più dal denaro stesso, ma dalla carne umana e dal cuore umano. A tal punto tutti i progressi e le incoerenze all’interno di un sistema falso rappresentano il massimo regresso e la massima coerenza dell’infamia».
«A causa di questa esistenza del tutto ideale del denaro, la falsificazione non può essere intrapresa dall’uomo su nessun’altra materia che non sia la sua propria persona, egli stesso deve fare di sé una falsa moneta, deve carpire con inganno il credito, deve mentire ecc., e questo rapporto di credito – tanto da parte di chi dà la fiducia, come da parte di chi ne ha bisogno – diventa oggetto di commercio, oggetto di inganno e abuso reciproco. Qui si dimostra in modo eccellente come la diffidenza sia la base di questa fiducia economica; il ponderare con sospetto se il credito deve o non deve essere accordato; lo spiare i segreti della vita privata ecc. di chi chiede il credito; lo svelare difficoltà momentanee per eliminare un rivale annullandone improvvisamente il credito, ecc.».
Sempre in questo studio su James Mill, dopo aver passato a rassegna l’essenza dello scambio fra prodotti, Marx di nuovo torna su come lo scambio e il mercato alienano acquirente e venditore. Innanzitutto «ciascuno di noi – dice – vede nel suo prodotto nient’altro che il proprio egoismo oggettivato» e nel prodotto dell’altro «un altro egoismo oggettuale estraneo e indipendente dal proprio». Il fatto che tu hai bisogno del prodotto dell’altro fa sì che ti trovi schiavo del prodotto dell’altro e non ti basta la semplice volontà per ottenerlo. La tua essenza sta nel bisogno di quella merce, di cui non puoi fare a meno o non vuoi fare a meno, dunque la tua essenza di uomo non è dipendente dalla tua volontà, ma da quella merce che ti domina e ti fa strisciare ai suoi piedi. Il tuo essere un uomo è completamente vincolato al possessore di quella merce. L’altro ha prodotto la merce per te, ma non per dartela senza nulla in cambio, l’altro vuole ricavare qualcosa dal tuo bisogno, l’altro vuole rapinarti! «L’intenzione di rapinare e di frodare sta inevitabilmente in agguato, essendo infatti il nostro scambio egoistico, dalla tua parte come dalla mia, e tentando ogni egoismo di battere l’altro, ne segue che necessariamente noi cerchiamo di frodarci (...) Se è sufficiente la forza fisica, allora ti rapino direttamente. Se il regno della forza fisica è tramontato, allora tentiamo di abbindolarci a vicenda, ed il più abile imbroglia l’altro».
«Il nostro proprio prodotto si è levato sulle zampe posteriori contro di noi; sembrava nostra proprietà, ma in verità siamo noi la sua proprietà (...) L’unico linguaggio comprensibile che parliamo fra noi è quello dei nostri oggetti in relazione fra loro. Un linguaggio umano non lo comprenderemmo, esso rimarrebbe senza effetto; da una parte verrebbe inteso e sentito come una umiliazione, e quindi sarebbe proferito con vergogna, con un senso di degradazione, mentre dall’altra sarebbe interpretato e respinto come un’impudenza o una pazzia. Siamo a tal punto reciprocamente alienati dall’essenza umana, che il linguaggio immediato di questa essenza ci appare come una violazione della dignità umana, mentre il linguaggio alienato dei nostri valori di cose ci sembra la dignità umana, giustificata, fiduciosa in se stessa, che riconosce se stessa».
Mentre nel Medioevo quello del borghese era mestiere ritenuto da truffatori e aguzzini, ora un individuo non in grado di entrare negli ingranaggi del fare soldi, dello sfruttamento lavorativo, ecc. è nient’altro che un fallito, un degenerato, un buono a nulla.
Il bluff di questa convenzione sociale vede accrescersi smisuratamente la massa dei perdenti. La gran parte della popolazione umana vive in uno stato di grave spoliazione, per i quali il dogma della Libertà, protettrice del Commercio, viene a cadere. 800 milioni di persone al mondo sono alla fame, 2 miliardi sono in una situazione di estrema povertà. In Sudamerica, nell’Est europeo, in Cina e nel resto dell’Asia, uomini, donne e bambini lavorano nelle condizioni da capitalismo inglese dell’800, non avendo altra vita che il massacro nelle fabbriche, il poco dormire e il poco mangiare. Le ipocrite borghesie occidentali sventolano la bandiera dei diritti umani e della democrazia, quando le loro fabbriche dislocate nel resto del mondo massacrano giornalmente esseri umani non in grado di poter rispondere con la forza ad una simile schiavitù! Gli storici borghesi hanno spesso fatto un buon lavoro a descrivere le barbarie della schiavitù a Roma o la servitù dei “secoli bui” del Medioevo, non vedendo però quanto la schiavitù salariale del capitalismo sia di gran lunga più inumana.
Tanto conta l’essere umano per il Capitale! Migliaia di persone abbandonano ogni giorno i propri paesi per cercare qualcosa da mangiare e da spedire ai familiari. Ma in Occidente trovano la una schiavitù non migliore. La Confindustria quantifica la commissa alla tratta degli asiatici e magrebini secondo le necessità della macchina produttiva, mentre lo Stato vara una legge per segnalare tutti gli immigrati che entrano in Italia come delinquenti. Vivono nelle condizioni più abiette se non in nuovissimi, funzionali e democratici campi di internamento. Intanto il proletariato occidentale china il capo dinanzi al padrone e il cervello alla televisione.
Come il miglior uomo ingiusto è colui non solo che è ingiusto, ma sa fingere di essere limpidamente giusto, così la migliore alienazione e schiavitù è il credere di essere liberi, il credere la nostra “persona” libera, mentre nei fatti non è niente. Una delle più importanti lezioni che la borghesia ha imparato nella sua esperienza storica è il continuare a far credere l’uomo un cittadino libero, illuderlo che è da lui che emana lo Stato, espressione della sua volontà. In Russia la truffa secondo la quale era il proletariato che governava lo Stato capitalista ha retto, tra l’altro, da Stalin a Gorbaciov.
Non sarà così per sempre. Varia l’umore della classe proletaria al variare della sua condizione materiale. Allo stesso tempo varia la forza economica, poi politica, della borghesia, periodicamente sottomessa alle crisi catastrofiche. Un proletariato diverso da quello di oggi tornerà a difendersi e ad attaccare. Lo sconfinato esercito mondiale dei proletari ha già la potenzialità sociale per una radicale lotta di classe: noi attendiamo la sollevazione operaia, contemporanea e solidale nei paesi di vecchio e di nuovo industrialismo. Davanti al moto di un immenso proletariato, diretto dal partito della Rivoluzione, il Gigante-Capitale crollarà sotto i colpi di quella classe che esso stesso ha formato ed educato e che fino a ieri ha lavorato per i suoi profitti. Solo allora si verrà a dispiegare un altro “essere umano”. «La dissoluzione dell’umanità in una massa di atomi isolati, che si respingono a vicenda, è già in sé l’annientamento di tutti gli interessi corporativi, nazionali e particolari ed è l’ultimo stadio necessario verso la libera autounificazione dell’umanità. Il compimento della alienazione nel predominio del denaro è un passaggio inevitabile, se l’uomo deve ritornare a sé stesso come sembra in procinto di fare» (F.Engels, La situazione dell’Inghilterra, O.C., vol.III, p.516).
La oggettiva e irreversibile necessità del Comunismo si materializzerà dapprima in un partito di classe che la riconosce e la vuole, quindi in uno Stato politico deputato alla repressione delle forze incontrollabili residue dal Capitale mondiale. L’immediato dittatoriale superamento della forma denaro e della forma salariale del lavoro, la razionalità nel produrre soppiantante la precedente anarchia del mercato, l’obbligo al lavoro per tutti, libereranno il progressivo manifestarsi dell’uomo nuovo.
Trascorso il periodo di transizione lo Stato proletario, ultimo
della
storia, portato a compimento il proprio compito politico, l’abolizione
delle classi, a misura che si andrà affermando una società
armonica ed universale, si svuoterà di ogni sua funzione per lasciare
il posto all’ingranaggio economico del Comunismo, collaudato e
funzionante
“spontaneamente”, cioè senza costrizione, come nell’antica
gens.
Sarà allora solo un ricordo e materia di studio storico i tratti
egoisti ed individualisti dell’homo capitalisticus.
Petrolio, Monopoli e Imperialismo
PETROLIO E RENDITA
Il Manifesto del 15 settembre ha riportato questa dichiarazione di Yamani, fra i massimi esponenti del cartello OPEC: «l’età del greggio non finirà per il prosciugamento dei pozzi, ma per merito della tecnologia». Esclude, cioè, un imminente esaurimento delle riserve. Del resto nemmeno gli alti prezzi del petrolio sono bastati per il rilancio del nucleare, che gli indicatori dimostrano restare in una stasi tutt’altro che congiunturale: in Europa e in America si moltiplicano le dismissioni di impianti esistenti e da tempo non ci sono nuove commesse; anche nel resto del mondo il ritmo di crescita del nucleare è ormai prossimo a zero. È del tutto fuorviante elencare, come si usa, la serie di fonti energetiche alternative, non rinnovabili o rinnovabili, se non si fa un confronto fra le loro potenzialità e costi specifici, determinanti nell’attuale società basata sul profitto.
Quanto più il capitalismo è sviluppato, tanto più è sensibile alla scarsità di materie prime, tanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle fonti di materie prime. Da ciò nasce la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico nella lotta furiosa per l’ultimo lembo delle sfera terrestre non ancora diviso o per una nuova spartizione dei territori già divisi.
Il mercato mondiale del petrolio era nel 1905 sostanzialmente ripartito tra due grandi gruppi finanziari: la Standard Oil Company americana, fondata nel 1900 da Rockefeller, e i padroni del petrolio russo di Baku, Rotschild e Nobel. Questi da alcuni anni erano minacciati nelle loro posizioni di monopolio da avversari: la concorrenza della ditta Mantascev di Baku e le ricchissime ditte Samuel e Shell, legate al capitale inglese. Questi tre ultimi gruppi di imprese erano legati alle grandi banche tedesche con alla testa la più grande, la Deutsche Bank. S’iniziò una lotta per la spartizione del mondo. Riferisce Lenin che la lotta terminò nel 1907 con la completa sconfitta della Deutsche Bank che concluse con la Standard un accordo assai svantaggioso a tenore del quale s’impegnava a “non intraprendere nulla a danno degli interessi americani”. La Standard Oil Company pagò, tra il 1900 e il 1907, i seguenti dividendi: 48%, 48%, 45%, 44%, 36%, 40%, 40%,40%, in tutto 367 milioni di dollari. Tra il 1882 e la fine del 1907 sugli 889 milioni di dollari di utile netto conseguiti, vennero ripartiti 606 milioni di dividenti, e il resto assegnato alle riserve.
L’esaurimento delle riserve petrolifere d’America all’inizio del 1900 veniva compensato dalla scoperta di nuove in Australia, Romania e delle fonti petrolifere transoceaniche, specialmente nelle colonie olandesi. La corsa alla loro conquista da parte dei monopoli, per non essere minacciati da eventuali avversari, continua per tutto il XX secolo.
Oggi, 2001, i giacimenti sono tutti proprietà di Stati o di monopoli, che si dividono, come per la terra agraria, la rendita differenziale, propria dello sfruttamento capitalistico di risorse limitate.
Nel caso del petrolio il grosso del prezzo è rendita differenziale, cioè sovra-profitti. Il costo di estrazione varia da un minimo nel medioriente, oggi di circa un dollaro al barile, ai 15 dollari nelle zone peggiori del Mare del Nord, con costi intermedi nel Mar Caspio e negli Stati Uniti che vanno dai 5 ai 10 dollari. Divario accentuato dalla differenza qualitativa: i peggiori sono quelli del Mare del Nord e cinese, il migliore è quello libico.
Il petrolio ha raggiunto il primato nei consumi energetici, raggiungendo il 38%, contro il 29% del carbone il 20% del gas naturale. Perciò si riesce a collocare anche a prezzi alti, quando tutto il petrolio estratto viene consumato, con richiesta sempre maggiore dell’offerta. Il monopolio dell’offerta può tenere alti i prezzi fino a raggiungere il prezzo di produzione, a parità di calorie, del gas naturale, oppure del petrolio estraibile dagli scisti bituminosi il cui costo medio al barile è valutato fra i 30 e i 50 dollari, il doppio dei peggiori giacimenti del Mare del Nord. Ricorrere agli scisti innalzerebbe anche il petrolio del Nord ad alte rendite.
L’industria attuale è stata possibile, per gran parte, dall’esistenza del petrolio, l’industria dei trasporti stradali ed aerei non sarebbe mai esistita senza il petrolio, ecc. Le oscillazioni dei prezzi e le minacce di interruzione degli approvvigionamenti mettono in difficoltà gran parte dell’attuale tecnica ereditata dal XX secolo e fondata sul petrolio poiché nessuna altra fonte energetica è in grado per il momento di sostituirlo. Questo fattore si aggiunge ai rimanenti che attanagliano il sistema capitalista.
Una lotta intensa continuerà a svolgersi fra i paesi industriali per il possesso dei giacimenti più ricchi e che danno rendita maggiore, scaricandola sugli altri. Non è senza significato che una delegazione francese e una russa si siano recate in Iraq, a distanza di pochi giorni, dove Saddam Hussein ha dichiarato l’intenzione di vendere il petrolio solo contro Euro.
L’Europa, povera di petrolio a basso prezzo, si è volta al gas naturale: paventano che “cuciniamo tutti col gas della Russia”. Il 20% del consumo energetico europeo è fornito dalla Russia. Sarebbe a buon punto la trattativa fra la Comunità Europea e la Russia per il riassetto dell’estrazione e del trasporto del combustibile, del quale un’alta percentuale andrebbe dispersa, mettendo la fredda Siberia in grado di scaldare case e fornaci d’Europa; per contropartita la Russia cederebbe il combustibile a un prezzo modico. Questo richiama alla memoria la contesa del il 1905, con la differenza che allora si apriva l’era della rapina imperialista delle materie prime di paesi non ancora industrializzati, oggi, 2001, parte assai maggiore del mondo è vinta alla riproduzione del capitale ed ugualmente affamato e divoratore di minerali da rivestire con l’oro della forza lavoro.
È questa una lotta del capitale europeo, con alla testa la Germania, per sottrarsi al tributo da pagare, in rendita petrolifera, all’imperialismo americano, che diventa sempre più, in tutti i campi, compresa l’agricoltura, un paese redditiero, per rendite di differente fertilità e di monopoli. L’egemonia del capitale finanziario è sempre più imperiosa, comanda la Banca Centrale, in un prevalere sempre più evidente dell’economia sulla politica. Madama Democrazia ha una sola funzione (ben importante): nascondere la dittatura del capitale finanziario sulla classe operaia interna e a scala internazionale.
CAPITALE E MONOPOLI
Lenin, ne L’Imperialismo attribuisce a Marx la dimostrazione che, mediante l’analisi teorica storica del capitalismo, la libera concorrenza determini la concentrazione della produzione, e come questa, a sua volta, a un certo grado di sviluppo, conduca al monopolio. Il monopolio è ormai la legge universale dell’odierno stato di sviluppo del capitalismo. Per l’Europa si può stabilire con una certa esattezza della definitiva sostituzione del capitalismo moderno all’antico: è l’inizio del XX secolo. Il vero inizio embrionale dei moderni monopoli risale al massimo al 1860-1870. Il loro primo grande periodo di sviluppo è connesso alla grande depressione internazionale dopo il 1870 fino al 1890. Segue slancio degli affari alla fine del secolo XIX e crisi 1900-1903. Questa accelerò immensamente il processo di concentrazione, tanto nel sistema bancario quanto nell’industria, trasformando, per la prima volta, i rapporti industria-finanza in un monopolio effettivo delle grandi banche, e rendendoli più stretti e intensi. I cartelli diventano una delle basi dell’intera vita economica. Il capitalismo assurse alla sua fase imperialista.
Le associazioni monopolistiche dei capitalisti – ricorda ancora Lenin – cartelli, sindacati, trust, anzitutto spartiscono tra loro il mercato interno, e si impadroniscono, in modo più o meno completo, della produzione del paese. Ma in regime capitalista il mercato interno è inevitabilmente connesso col mercato esterno. Da lungo tempo il capitalismo ha creato un mercato mondiale. Ed a misura che cresceva l’esportazione dei capitali, si allargavano le relazioni estere e coloniali e le sfere d’influenza delle grandi associazioni monopolistiche, naturalmente si procedeva sempre più verso accordi internazionali tra di esse e verso la creazione di cartelli mondiali. Questo è un nuovo gradino della concentrazione mondiale del capitale e della produzione; un gradino molto più elevato del precedente, o super-monopolio.
Lenin porta l’esempio dell’industria elettrica che meglio di ogni altra rappresentava i progressi compiuti dalla tecnica e dal capitalismo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX. Essa si era sviluppata con maggior forza nei due nuovi paesi capitalistici più progrediti, gli Stati Uniti e la Germania. In questi due paesi sorsero due potenze dell’elettricità. Nel 1907 i due trust americano e tedesco conclusero un accordo, in forza del quale il mondo restò spartito. Anche nella navigazione mercantile la concentrazione, enormemente sviluppata, aveva condotto alla spartizione del mondo. Liefmann calcolava per il 1897 complessivamente circa 40 cartelli internazionali ai quali partecipava la Germania, e per il 1910 circa 100.
I cartelli internazionali mostrano sino a qual punto si siano sviluppati i monopoli capitalistici. Può mutare, e di fatto muta continuamente, la forma della lotta, a seconda delle differenti condizioni parziali e temporanee; ma, finché esistono classi, non muta mai assolutamente la sostanza della lotta, il suo contenuto di classe. I capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro malvagità, bensì perché il grado raggiunto della concentrazione li costringe a battere questa via se vogliono ottenere dei profitti. La forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico, che poi tale mutamento sia di natura puramente economica oppure extra economica, per esempio militare, ciò è questione secondaria, che non può mutar nulla alla fondamentale concezione del più recente periodo del capitalismo.
Quando la ripartizione dei prodotti, tra decine, centinaia di
milioni
di consumatori, avviene secondo un piano stabilito (Lenin fa
il
caso della distribuzione del petrolio in America e Germania da parte
della
Standard Oil Co.), allora diventa chiaro che si è già in
presenza di una socializzazione della produzione e non già
di un semplice intreccio di individuali produttori e
commercianti;
che i rapporti di economia privata e di proprietà privata
formano
un involucro non più corrispondente al contenuto, involucro
che deve andare inevitabilmente in putrefazione, dato che se ne
è impedito con la forza, artificialmente, la rivoluzionaria
eliminazione.
In questo stato di putrefazione potrà durare per un tempo relativamente
lungo (finché il proletariato mondiale non si liberi del bubbone
opportunista), ma, fatalmente, sarà infine eliminato.
Sul funzionamento delle riunioni dei gruppi territoriali del partito
Questo testo, suggerito dai giovani compagni di Caserta, tende a
dare una formulazione a quel modo di fare che è tradizionale per
i gruppi locali del partito. Fin dalla Prima Internazionale il partito
proletario si presenta strutturato in un Centro unico internazionale e
in sezioni territoriali, al Centro unico collegate senza
intermediazione.
Alle sezioni sono demandate tutte le funzioni proprie del partito, da
svolgersi
secondo una unicità di metodo e di azione disciplinata ad un piano
generale di lavoro fortemente connesso.
La sezione non è un livello gerarchico formale ma un ambiente
e strumento di lavoro atto alla sintesi di più forze. Il presentarsi
del partito articolato in sezioni, alle quali il neofita viene a chiede
l’iscrizione, niente toglie al fatto che l’adesione, fatto individuale,
è al comunismo e al partito e a nessun compagno può essere
impedito di corrispondere direttamente con Centro.
1. Prima presa d’atto collettiva del contenuto e distribuzione ai compagni della stampa appena pervenuta; la sezione riuscirà a rendersi edotta anche del sommario delle pubblicazioni del partito in lingua diversa dalla propria, apprezzando così il suo complessivo procedere e i suoi previsti atteggiamenti.
2. Lettura della corrispondenza proveniente dal Centro del partito ed altra. Incarico ad un compagno corrispondente della tempestiva, puntuale ed esauriente risposta.
3. Punto sul procedere dei costituiti gruppi di lavoro, sia inerenti alle attività prevalentemente di studio teorico sia di intervento esterno, che, a turno, segnalano le eventuali difficoltà da far presente al Centro e le richieste di ogni genere di aiuto dal Partito. L’aggiornamento reciproco fra i compagni su come procedono i rispettivi lavori non va inteso come semplice sunto ma esposizione delle strade percorse, degli ostacoli, delle sintesi cui si è addivenuti e di come si ha intenzione di proseguire. Tale esposizione è parte essenziale del lavoro e risultato di adeguata riflessione. Il gruppo di lavoro proporrà di dedicare il giusto tempo alla lettura e alla considerazione collettiva di testi inerenti la materia. I classici della nostra scuola, da Marx fino a molti decenni delle collezioni della stampa, saranno esemplificati, collocati e commentati. Tale parte della riunione destinata allo studio di testi impegnativi è spesso necessario si distribuisca su più sedute, lasciando il tempo per assimilare ed esordendo ogni volta con un breve riassunto di collegamento.
4. Sintetico commento sul corso delle maggiori manifestazioni della lotta della classe sul teatro mondiale e dello scontro interimperialistico. Critica delle posizioni assunte dei grandi partiti a noi nemici. Questo aggiornamento dovrebbe essere risultato di indagine affidata a uno specifico gruppo di più compagni che si aiuterà con la lettura collettiva del nostro giornale. Tutti i militanti saranno messi nelle condizioni di conoscere le posizioni analitiche del Partito riguardo le questioni e gli avvenimenti recenti che interessano il movimento operaio, atteggiamenti che potranno essere esposti nel migliore dei modi ai nostri interlocutori nel lavoro di propaganda e proselitismo, in modo da rendere possibile il discernimento del Partito e i dei suoi postulati da quelli di tutte le formazioni politiche avverse.
5. Propaganda politica di partito in loco. Il piano di preparazione, affissione e diffusione della stampa bisogna che sia il più organizzato e regolare possibile, con posti di strillonaggio e calendario fissi. Puntuale la consegna e il riscontro del giornale in librerie ed edicole. In caso di avvenimenti in città che commuovano la classe operaia si farà sentire la voce del partito con manifesti o volantini scritti appositamente. L’intervento in manifestazioni indette da altri partiti deve esser fatto in modi che non suscitino dubbi sulla nostra totale estraneità dall’insieme dei promotori.
6. Attività sindacale. Compito precipuo della sezione è seguire, documentarsi e tenere informato il partito sulle lotte operaie e sull’attività dei sindacati nella sua città. Questo va garantito anche quando sia nulla la nostra presenza nella classe, negli organismi difensivi e sui luoghi di lavoro, se necessario racimolando notizie dalla stampa cittadina e dalle conversazioni con gli operai. Le informazioni acquisite con questo lavoro costante, oltre ad esser confrontate ed inserite nel quadro più generale della nostra impostazione teorico-tattica della questione sindacale, saranno utilizzate dalla sezione per appoggiare l’intervento dei compagni nei sindacati, sempre dall’interno appena possibile, altrimenti dall’esterno. La stampa del partito sarà distribuita a tutte le manifestazioni pubbliche di tipo sindacale.
7. Compito della sezione è valutare le nuove richieste di adesione al partito e curare la formazione dei giovani militanti, che presto si inviteranno ad inserirsi nell’esistente disciplinato lavoro.
8. L’insieme dell’attività e della riflessione in sezione susciterà la proposta al partito di nuovi argomenti di lavoro e di intervento o di migliore impostazione di altri in corso. L’approfondimento di una particolare questione darà materiale per la redazione di note e corrispondenze per la stampa.
9. Raccolta delle quote, tenuta della cassa e versamenti periodici
al
Centro.
NOTIZIARIO - Repressione nel democratico Brasile
Il numero dei proletari agricoli assassinati in Brasile dai
sicari
dei fondiari è eloquente: dall’arrivo della democrazia, quindici
anni fa, gli omicidi sono quadruplicati rispetto all’epoca della
dittatura
militare. È fiorente l’organizzazione di bande di mercenari impiegati
dal padronato agrario e dal suo Stato contro quei proletari che si
oppongono
al loro brutale sfruttamento.
Nuovi Cicli della Scuola Elementare
Una riforma da rifiutare con la lotta e
coll’organizzazione
I processi di ristrutturazione che sconvolgono tutto il mondo del lavoro, hanno coinvolto, oramai da molti anni, anche il settore della scuola pubblica. Il fenomeno cronico dello sfruttamento del precariato è venuto vieppiù ampliandosi, creando una sempre maggiore insicurezza ed instabilità.
Sin dall’introduzione nelle scuole elementari dei “moduli”, passando poi attraverso la “autonomia scolastica”, per arrivare, oggi, alla riforma della scuola, i lavoratori del settore hanno dovuto subire un ininterrotto attacco alle loro condizioni di lavoro e alla sicurezza stessa dell’impiego. Migliaia di vecchi e nuovi “dannati” del precariato, hanno visto progressivamente sfumare il sogno di una sede di lavoro sicura. Ogni anno hanno dovuto subire la delusione di essere relegati in sempre nuove e diverse graduatorie, che si affermava fossero del tutto provvisorie nell’attesa di un concorso che non arrivava mai e che poi, quando è stato effettuato, non ha creato posti di ruolo, ma soltanto una nuova perversa graduatoria. Questa tendenza va avanti da anni: già la Finanziaria 2000 prevedeva 38.400 unità in meno rispetto al 1997, tra insegnanti, personale amministrativo, tecnici ed ausiliari. Il tutto per un risparmio pari a circa 600 miliardi, corrispondenti guarda caso, ai 597 miliardi previsti per la legge di parità, in altre parole per il finanziamento alla scuola privata.
Nel collegato per l’attuazione dell’autonomia scolastica si prevedeva: a) l’eliminazione delle cattedre ad orario, che si costituivano con ore di lezione da svolgere in scuole diverse; queste sino al 1997 erano circa 45.000: tutti posti di lavoro che, gradualmente, saranno soppressi; b) la sostituzione dei docenti temporaneamente assenti con personale dell’istituzione scolastica: anche qui dunque l’eliminazione progressiva degli 80.000 precari; c) affidamento delle responsabilità dirette delle classi ai tirocinanti che seguono i corsi di laurea. Un modo per mettersi in concorrenza con la scuola privata che riesce spesse volte a pagare gli insegnanti senza una lira o quasi, utilizzando il solo punteggio valido per i concorsi della scuola pubblica.
Oggi, nonostante non sia stato ancora “digerito” dai lavoratori quest’attacco, Governo, sindacati e Confindustria hanno fatto passare la riforma dei cicli scolastici, che a detta degli stessi artefici, ovvero il Ragioniere Generale dello Stato Monorchio, il ministro Visco ed il Ministero della P.I., porterà ad un blocco delle assunzioni e ad un ricorso strutturale al precariato, facendo risparmiare allo Stato ogni anno, per ogni lavoratore, dai 15 ai 20 milioni. Lo stesso Monorchio non ha avuto difficoltà ad ammettere che la riforma comporterà ampi effetti riduttivi delle dotazioni organiche necessarie. A questo vanno poi sommati gli effetti del passaggio allo Stato del personale proveniente dagli Enti Locali.
Questa riforma, al di là della banale propaganda di regime, è il più grosso attacco occupazionale degli ultimi cinquant’anni. Presentandosi come una cervellotica e burocratica revisione dello stato di cose attuale (la scuola elementare italiana è riconosciuta come una delle migliori al mondo) nasconde dietro ai problemi legati a programmi il tentativo di emarginare migliaia di lavoratori che per anni hanno tappato le falle del sistema scolastico.
Tagliando un anno senza una programmazione che tenga conto della forza lavoro da occupare, “retrocede” migliaia di perdenti posto al ruolo di precari ed espelle gli attuali precari dal mondo scolastico, non potendogli più neppure concedere la prospettiva aleatoria di una cattedra. Lavoratori trentenni e quarantenni si ritroveranno con un pugno di mosche dopo anni ed anni di sacrifici e di rinunce.
Nel frattempo la “privatizzazione” attuata attraverso l’autonomia, ha fatto stringere i cordoni della borsa a Direttori didattici e Presidi, obbligando, di fatto, professori e maestri a coltivare il cannibalismo intellettuale, litigando per pochi giorni di supplenza o per un incarico migliore. La scuola è sempre più “proletarizzata” trascinando questa non piccola parte del mondo del lavoro sullo stesso piano dei lavoratori del settore privato.
In questo caos l’opposizione organizzata, pur trovando importanti momenti di coagulo che hanno provocato grosse esplosioni di contestazione, anche con forti manifestazioni di piazza, rimane ancora o troppo interna a meccanismi di pura rivendicazione professionale (vedi Gilda o altri sindacati autonomi) o si divide tra l’appoggio supino al sindacatume tricolore o l’adesione ai COBAS. Questi, seppure dopo trent’anni di lotte, non intendono formare un saldo e continuativo terreno organizzativo sul puro terreno sindacale e nemmeno organizzano insieme lavoratori di ruolo, precari, di segreteria e bidelli.
Grandi momenti di lotta, come quello contro il “concorsaccio”, si alternano a lunghi periodi di stanca, dove prende il sopravvento la deriva intellettuale o l’appartenenza politica, condizioni che allontanano la massa dei lavoratori, ancora non del tutto consci del bisogno di una forza sindacale di base alternativa. Il ruolo stesso della scuola nella società è stato d’altronde sempre particolare, creando nella cultura di questi lavoratori la tendenza ad una mentalità di nicchia, quasi che i bassi salari o gli orari di lavoro sempre più pesanti ed impegnativi, potessero essere compensati dalla gratificazione del “ruolo”.
Oggi dunque più che in passato, anche in questa categoria, si
sta creando un terreno fertile per il lavoro dei comunisti, per la
rinascita
dell’organismo sindacale di classe, strumento indispensabile per
riappropriarsi
degli strumenti della lotta sindacale, autonoma dagli interessi
padronali
ed in opposizione alla politica collaborazionista dei sindacati di
regime.
Ovunque esisteranno le condizioni minime per un lavoro sindacale, là
i comunisti riproporranno la loro linea e la loro prospettiva.
Ma i ferrovieri si ostinano a scioperare contro l’accordo
A febbraio c’è stato il sesto sciopero dei ferrovieri contro l’accordo di novembre ’99 intercorso tra FS e Confederali, firma che avrebbe potuto, se seguita dai fatti, mettere la Confindustria in grado di procedere speditamente sulla via della ristrutturazione in tutto il settore. Quell’intesa prospettava ai ferrovieri nuovi esuberi, riduzione dei salari, diminuzione delle ferie, aumenti dei carichi di lavoro ma, soprattutto, era propedeutica all’introduzione della politica di separazione contrattuale, che tanti danni ha già procurato alle condizioni di vita e di lavoro dei telefonici, degli elettrici, dei postelegrafonici, insomma di gran parte del settore ex pubblico. Questa linea di condotta ha anche facilitato la massiccia introduzione, anche fuori di questi settori, di una flessibilità sempre più selvaggia del lavoro, nonché l’introduzione di una nuova, pesante, pericolosa divisione tra vecchi e nuovi assunti, per ciò che attiene sia la parte salariale sia quella normativa. Distruggere le sicurezze dell’aristocrazia del lavoro ha permesso il passaggio, anche “culturale”, ad un nuovo modo di lavorare, completamente svincolato da regole e diritti.
Il piano della borghesia si è potuto avvalere, ovviamente, del comportamento complice dei sindacati tricolore, che sempre hanno taciuto e spesso hanno “stimolato” questo cambiamento, sottoscrivendo contratti capestro che oppongono lavoratore a lavoratore.
Ma a quella firma non sono seguiti i fatti. Le Ferrovie sono state messe nella condizione di non poter applicare nessuno dei punti dell’accordo dalla difesa tenace dei lavoratori, che hanno costretto – per quello che vale! – anche il Ministro a prendere posizione a loro favore. La difficoltà a traghettare i ferrovieri verso questi nuovi lidi ha inceppato così la macchina confindustriale, che sembrava non dovesse trovare difficoltà alcuna nella trasformazione delle “vecchie”, relativamente migliori, condizioni di lavoro dei pubblici dipendenti. Questa zeppa, apparentemente piccola e debole, ha, al contrario, permesso di dimostrare all’intera classe lavoratrice che la forza proletaria è capace, se ben indirizzata, di stravolgere i tanto strombazzati “piani globali” che, nella fantasia comune, dipingono come imbattibile la macchina del capitalismo mondiale.
Cadute quelle convinzioni ci si è accorti che lo scontro “mondialista” è fatto solo di maggiore sfruttamento operaio. La bassa speculazione, l’imbroglio telematico, l’aggiotaggio e, nel caso specifico, l’accaparramento sfrontato del denaro pubblico sono inevitabili nel mondo borghese e, in fondo, secondari. Migliaia di miliardi dalle casse statali sono finiti nelle tasche della dirigenza FS (2.600 soltanto a fine gennaio a titolo di ricapitalizzazione per la nuova e quanto mai improbabile società di Cimoli). I capitali vanno dove c’è odor di rendita e di profitto, e non dove sarebbe tecnicamente razionale o socialmente utile e, nel capitalismo, non ha senso lamentare che con quei miliardi si sarebbero potuti realizzare tutti quei lavori strutturali ovviamente necessari per le ferrovie. Non dobbiamo meravigliarci per simili schifezze: è questo e soltanto questo il modo in cui si riproduce il capitale e di cui va fiero!
Sei scioperi, dicevamo, più i due che l’ORSA (sigla che raccoglie i macchinisti del Co.M.U. e gli autonomi della FISAFS) ha rimandato, suscitando la giusta rabbia ed il sacrosanto risentimento dell’intera base. Nei compartimenti dove ben si è lavorato si è avuta anche l’adesione fattiva dell’UCS (Unione Capistazione), che dall’ORSA era fuoriuscita, e, soprattutto, della FLTU, che sempre maggiormente è divenuta espressione della base ferroviaria. Nell’ultima tornata elettorale per le RSU sono stati eletti molti lavoratori iscritti od orbitanti nella sfera d’influenza di questo sindacato.
Il CoMU, che negli ultimi quindici anni ha tenuto il fortilizio difensivo contro le FS ed i sindacati confederali, dovrà fare i conti con la sua nuova struttura, che certamente svilisce i contenuti programmatici che sinora l’hanno contraddistinto (rappresentatività diretta, nessun distacco sindacale, opposizione totale agli interessi confindustriali), creando le premesse per una sua degenerazione non appena venisse meno il controllo della base, controllo sinora esercitato con forza ed attenzione.
Aver dato vita all’ORSA, presentata come necessità “tecnica” per battere i piani governativi sulla soglia di rappresentatività, è oggi una condizione da superare in fretta recuperando appieno la tendenza, per altro ben presente, ad ampliare la lotta a tutte le categorie, riavvicinandosi a quelle organizzazioni di base che potranno rappresentare il futuro della resistenza operaia. Andare oltre la categoria e gli interessi particolari diviene sempre più necessità primaria per battere il progetto confindustriale. Gli ultimi scioperi, con la loro forza e capacità d’attrazione, lo dimostrano.
Imporre la “clausola sociale” in FS, ovvero il contratto unico per l’intero settore, sarebbe, oltre che una vittoria dei ferrovieri, una vittoria di tutta la classe lavoratrice che risulterebbe rafforzata e nuovamente motivata nel recuperare il terreno malamente perduto negli ultimi anni.
Impegnarsi nella rinascita del sindacato di classe, che trova
l’incondizionato
appoggio dei comunisti, è l’aspirazione primaria per tutti quei
lavoratori, che, coscienti delle loro forze e della situazione,
capiscono
che soltanto ricreando un comune terreno rivendicativo ed organizzativo
si può arginare e battere l’attacco borghese, si possono smascherare
e spazzare via i servi sindacali, oramai da tempo identificatisi
appieno
con le prospettive e gli interessi capitalistici.
Licenziamenti ben manovrati alla vetreria Bormioli di Parma
Parma, la città sempre in testa alle classifiche nazionali sulla “qualità della vita”, ha partorito un’altra delle ormai innumerevoli sconfitte che la classe operaia è costretta a subire per l’assenza di una direzione di classe. Si vede che anche la qualità della vita subisce la sorte del proverbiale pollo della statistica: non ci sono “paradisi” per gli operai, il sistema di fabbrica è inferno e miseria, a Parma come a Caltanissetta, a Detroit come a Giacarta.
Questa volta è il turno della “storica” vetreria Bormioli. Il copione è il solito, rimasticato da decenni: «oddio, non ce la facciamo più, gli operai vogliono lo stipendio tutti i mesi, la concorrenza è forte, dobbiamo chiudere!» Un attacco non da poco, ma tipico dei borghesi. La storia della Bormioli l’hanno fatta i suoi operai, una storia di duro lavoro, spesso pericoloso e malsano, che ha consentito a Bormioli di tirar su più di dieci stabilimenti, sparsi un po’ dappertutto. Ora, dopo che i vetrai di Parma hanno lavorato duro, e con capacità, siccome lo stabilimento è vicino al centro città e obsoleto, il ringraziamento dei padroni è il lastrico per oltre 600 famiglie. Negli spazi lasciati liberi dallo stabilimento sarà sviluppato un lucroso progetto edilizio, con la benedizione di destra, sinistra e sindacati.
Ce ne sarebbe per una sommossa, figuriamoci per uno sciopero. Eppure i sindacati hanno gestito il malcontento operaio con molta cautela, e “senso di responsabilità”, guardandosi bene, tra l’altro, dal coinvolgere altre categorie operaie locali, che in questo fatto possono vedere solo un primo passo di un attacco che colpirà tutti. Ma la logica del sindacato, e che purtroppo gli operai per ora accettano, è che ognuno sta per conto suo, cosa che non fa di certo piangere i dirigenti della Unione Parmense degli Industriali.
La “lotta” è consistita in scioperi poco convinti, senza il coinvolgimento di altre categorie (eppure un giochetto simile era stato condotto qualche anno fa dalla Barilla, con la complicità della giunta di allora, di “sinistra”), di presìdi, di manifestazioni con cartelli, insomma in un’azione di retroguardia, minimale e condannata alla sconfitta.
Questa ricerca della “compassione” della borghesia non ha fatto che il gioco della Bormioli: si è formato un tavolo di “saggi” che alla fine “salva” lo stabilimento. Da seicento i dipendenti scenderanno a 180 (“solo” quattrocento circa saranno licenziati); l’azienda sarà ridimensionata e ristrutturata su due forni, quelli ancora capaci di produrre profitti perché lavorano vetri speciali. Gli operai licenziati (oggi si dice con pudore gli “esuberi”) saranno tutelati, dicono i bonzi, con la cassa integrazione e con la mobilità: figuriamoci! E questa passa per una vittoria, come tutte le sconfitte del proletariato degli ultimi venti anni, propiziate dal tradimento dei bonzi sindacali. Di queste “tutele” gli operai non sanno che farsene: meglio i nemici che questi “amici”.
Così la Bormioli è riuscita nella lucrosa speculazione edilizia che voleva, e al contempo a ristrutturare la fabbrica; il tutto sicuramente senza sborsare una lira, e apparendo sulla stampa locale come una caritatevole benefattrice, che nonostante le difficoltà dell’infame mercato globale si è sacrificata consentendo a un pugno di operai di continuare ad essere sfruttati, come e più di prima, visto che li faranno sentire come dei privilegiati rispetto a quelli che se ne devono andare.
Che il mercato del vetro non sia in crisi lo dimostra una frase sfuggita al capobonzo della CGIL «se funziona questa ristrutturazione ci sarà spazio per pensare in prospettiva a un nuovo stabilimento». Quindi l’ordine dei padroni, cui questi servi obbediscono senza battere ciglio, è: per ora licenziamo quanti più operai è possibile senza avere flessioni nei profitti, poi ne riassumeremo, con comodo, come e quando vogliamo noi, sfruttando le nuove forme di contratto a salari ribassati che la legge consente. Insomma, basta con il lusso del posto fisso, roba da medioevo; d’ora in poi il lavoro sarà un privilegio, da conquistarsi ogni giorno, e chi non ce la fa si arrangi.
Su venti milioni e seicentomila occupati in Italia, almeno quattro milioni sono in nero (ma quanti sono gli extracomunitari?), un milione e settecentomila sono “atipici” (ma saranno presto ribattezzati “tipici”), sei milioni sono i cosiddetti indipendenti, mai assunti, che lavorano con una varietà di contratti, anche collettivi. Oltre la metà dei lavoratori sono quindi non legati all’azienda da un contratto a scadenza indeterminata, il cosiddetto posto fisso che fisso non è mai veramente stato. Si tratta di una massa enorme, che si vende a prezzi bassissimi, poco o niente sindacalizzata, che non lavora sempre e che costituisce l’ideale per il padronato. Non dimentichiamo poi un paio di milioni di disoccupati.
Questo di Parma non è un padronato “retrivo”, come dicono, ma dei più moderni, quelli che viaggiano e parlano inglese, quelli globalizzati, insomma. I loro profitti richiedono che la classe operaia sia plastica come l’argilla, che sia pronta a lavorare come bestie quando serve, che si lasci cacciare quando non serve, che si accontenti di paghe da fame, magari baciando le mani del munifico padrone, senza la menoma velleità rivendicativa.
Questo paradiso del capitale può esser vicino, e i suoi sacerdoti sono i sindacati della triplice e quelli affini, quelli per intenderci che hanno per punto di riferimento l’economia nazionale, quelli che siedono al tavolo dei padroni a leggere i bilanci, quelli responsabili, quelli “credibili”, patriottici e democratici. Questi Giuda sono il primo ostacolo verso la ripresa della lotta di classe, le loro organizzazioni non sono che emanazioni delle organizzazioni padronali; queste non potranno essere battute finché non saranno distrutte quelle.