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1° Maggio 2001
La classe tornerà alla coscienza di sé
e dei suoi destini
e a preparare gli strumenti della sua emancipazione
In questo nuovo secolo il Capitale non cessa di smascherare la sua vera natura, quella che il marxismo originario ha visto e condannato già dalla metà dell’Ottocento. In economia sono caduti i miti di Pace e Progresso, di fronte ad una miseria proletaria e ad una insicurezza crescenti in tutto il pianeta; smascherata è la menzogna del “Socialismo in un solo paese”, che era nient’altro che Capitalismo di Stato, con tutti gli orrori tipici dell’accumulazione primitiva; tramontata è in politica la Democrazia, utile solo ad ingannare la classe, esclusa da ogni potere sia nei regimi fascisti, che per tutto il Novecento hanno schiacciato nel sangue ogni tentativo di organizzazione difensiva proletaria, sia nelle democrazie post-fasciste e anti-fasciste. Queste, non meno spietate contro la condizione operaia ed ugualmente chiuse nella difesa del Capitale, hanno del fascismo ereditato tutti gli insegnamenti, a partire da quello della necessità, per lo Stato borghese, di sottomettere i sindacati operai alle esigenze dell’economia nazionale. Il proletariato, in questa visione, è ridotto a classe subalterna perennemente sottomessa perché vivrebbe solo se vivono i suoi padroni.
Il capitalismo si è imposto ormai su tutto il mondo, anche nelle regioni meno sviluppate. Non ha più bisogno delle colonie perché tutto il mondo è ridotto a colonia del Capitale mondiale, un mondo di merci tra le quali la merce “forza-lavoro” è tra le più abbondanti e a buon mercato
Ma la classe lavoratrice, forte di centinaia di milioni di proletari, è lontana dall’avere coscienza della propria forza e dal saperla usare per abbattere questo regime infame.
La borghesia usa tutte le armi del suo immenso apparato di propaganda e di influenza per tenere divisi i lavoratori ed impedire che imbocchino la via della loro emancipazione. Il fondamentalismo religioso, le contrapposizioni etniche e razziali, la corruzione di capi politici e sindacali, tutti i mezzi sono usati per schierare proletari su fronti opposti, costretti a scontrarsi e a morire, per preparare la fornace ardente di una terza guerra imperialista.
In Medio Oriente, nei Balcani, in Asia centrale non si urtano interessi di popoli fra loro avversi ma le brame espansioniste degli imperialismi tendenti ad accaparrarsi materie prime o ad occupare teste di ponte in vista di una terza guerra mondiale.
La classe operaia nella incessante guerra sociale contro il padronato si trova oggi a battersi in difficili condizioni. E’ da una parte messa in concorrenza al suo interno per effetto della crisi economica che riduce la richiesta di forza lavoro. Ma essa deve anche scontare gli effetti del collaborazionismo col nemico e le concessioni di principio che i suoi dirigenti politici e sindacali traditori hanno fatto nei decenni trascorsi, prime tra queste l’illusione che fosse possibile una mediazione con la borghesia la quale, in cambio dei sacrifici da parte operaia, avrebbe, dicevano, raffrenato la sua rapacità. Altro tradimento è stato quello di rinunciare allo strumento dello sciopero generale, di disperdere la generale lotta di classe, che oppone tutto il proletariato a tutta la borghesia, in una guerriglia nella quale ogni piccolo reparto della classe, divisa in categorie e in fabbriche, si trova ad affrontare la sempre solidale classe borghese.
Questa politica continua oggi cercando di opporre i lavoratori assunti a tempo indeterminato agli interinali e a quelli delle imprese esterne, gli immigrati agli autoctoni, differenziando sempre di più le condizioni di lavoro e di salario, legandoli al merito, alla produttività; contemporaneamente sono state varate una serie di leggi limitative del diritto di sciopero e di organizzazione per cercare di ritardare la ripresa della lotta di classe.
Il teatrino approntato nelle scorse settimane in Italia tra Confindustria e CGIL, sotto l’alto patronato dello Stato, durante il quale il sindacato ha adottato toni “più duri” del solito, è fatto solo per ridar fiato alla truffaldina sinistra sindacale. Questa, sottoposta all’influenza di partiti come Rifondazione Comunista, erede della peggiore tradizione stalinista, da anni si limita ad atteggiamenti parolai che non sono mai riusciti ad influire sulla politica confederale, completamente succube del Capitale.
Spetta ai proletari più combattivi continuare la lotta per ricostituire un sindacato fedele agli interessi di classe, per ritessere la rete di solidarietà naturale per la difesa proletaria. Questo sindacato tornerà a far suoi i tradizionali e necessari principi della secolare lotta dei lavoratori: nessuna collusione col nemico né accettazione di alcun interesse comune né “compatibilità”; rigetto di qualsiasi regolamentazione nell’esercizio dello sciopero; rifiuto delle “concessioni” padronali come i distacchi che sono solo mezzi di corruzione; ritorno alla riscossione delle quote senza passare dalle casse padronali poiché il vero “riconoscimento” si ottiene solo con la lotta. Il sindacato di classe si batterà per la parità salariale, normativa e di diritti per tutti i lavoratori, interinali e immigrati compresi, solo mezzo per evitare la sconfitta generale di tutti.
Intrapresa questa lotta non facile, esso potrà ricollegarsi anche
al suo invariante programma di rivoluzione sociale, al suo partito storico,
il Partito Comunista Internazionale.
La collisione tra un aereo spia statunitense e un caccia cinese non è stata accidentale né può essere considerata un episodio marginale: rivela una situazione di alta tensione strategica nel Pacifico Occidentale.
Il regime di Pechino, alla guida di un paese capitalistico in rapida crescita economica, ma stretto tra mille contraddizioni, ha bisogno di una politica nazionalistica per compattare il “popolo” all’interno, contrastando le spinte classiste che stanno sicuramente risorgendo nel numeroso proletariato superfruttato. Allo stesso tempo la borghesia cinese deve necessariamente rafforzare e modernizzare l’obsoleto apparato militare per poter arrivare a contrastare efficacemente l’ingombrante presenza statunitense che nei prossimi anni potrebbe costituire un impedimento al suo sviluppo economico, necessariamente imperialista.
Già nel 1992 il Parlamento di Pechino aveva palesato le mire imperialiste dell’Impero di Mezzo votando la sovranità indiscutibile del Paese sull’intero Mar della Cina del Sud, tracciando una frontiera marittima che costeggia ad ovest la costa del Viet-Nam, a sud quella della grande isola del Borneo e ad Est l’isola filippina di Palawan. La Cina, ma anche Taiwan, rivendicano inoltre l’arcipelago delle Paracelso a nord e quello delle Spratleys a sud suscitando le reazioni indignate del Viet-Nam, delle Filippine, della Malaisia e del Brunei.
Il ministro cinese delle Finanze Xiang Huaicheng ha dichiarato nel marzo scorso che i fondi destinati alla difesa nazionale ammonteranno, per quest’anno, a 17 miliardi di dollari circa, il 17,7% in più rispetto all’anno precedente. Ma secondo l’Istituto Internazionale di Studi Strategici Pechino ha speso nel 1999 ben 40 miliardi di dollari per la sua difesa e non 17.
La dichiarazione del Ministro conferma l’importanza crescente attribuita dal Politburo all’esercito che, secondo alcuni analisti di politica cinese, dopo un periodo in cui si era impegnato soprattutto nella gestione di lucrose attività nella crescente economia di mercato e nell’assicurare la stabilità interna, dal 1999 ha rivalutato le attività produttive tradizionali (armi, industria pesante, macchinari, chimica) riportando al centro la modernizzazione dell’apparato militare e l’attenzione verso la politica estera.
Gli Stati Uniti, potenza predominante nel Pacifico da più di un secolo, non intendono naturalmente mollare la presa mentre la crisi economia mondiale contribuisce a rafforzare ulteriormente la spinta al rafforzamento del loro apparato militare.
Per giustificare la loro asfissiante presenza ai confini orientali della Cina (l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale Statunitense mantiene quattro stazioni di ascolto in Giappone mentre satelliti di osservazione sorvolano in permanenza il territorio cinese) gli Stati Uniti alzano la bandiera della difesa dell’indipendenza di Taiwan, la Cina nazionalista, che il regime di Pechino vorrebbe invece vedere riunificata in breve tempo alla “madrepatria”, come Hong Kong e Macao.
Washington segue con apprensione il rafforzamento della marina cinese che starebbe trasformandosi da costiera in oceanica. Per contrastare la minaccia di un blocco navale di Taiwan da parte dei cinesi ha in progetto la formazione di una flotta di quattro portaerei, che assicurerebbero la superiorità aerea, venti apparecchi Orion e Aries di sorveglianza marittima, ventiquattro navi di superficie e una quindicina di sottomarini d’attacco per scortare il traffico commerciale taiwanese, una formazione ancora più imponente della VII flotta americana che già domina le acque del Pacifico.
Per contro pare che Pechino, che, come afferma “Le Monde” del 6 aprile «contesta la pratica americana di utilizzo militare dello spazio internazionale fino ai limiti della sovranità territoriale cinese», stia ingrandendo la sua base missilistica vicino a Yangang, nella provincia del sud-est situata dinanzi all’isola di Taiwan. Gli Stati Uniti ne hanno approfittato per cercare di vendere a Taiwan quattro navi dotate di un sistema ultramoderno di difesa antimissilistica, provocando le ire di Pechino. La decisione definitiva per la fornitura di questi armamenti sarà presa nel prossimo maggio.
Non c’è dunque da stupirsi se il Pentagono alla fine di marzo ha designato la regione del Pacifico come il più probabile teatro di intervento per l’esercito americano.
In questo quadro si inserisce “l’incidente” dell’EP-3; il fatto che per il momento la crisi sia in parte rientrata avendo i cinesi accettato le mezze scuse di Washington, liberando i membri dell’equipaggio, non significa affatto che tutto sia sistemato, a partire dall’areo spia che resta per adesso in mani cinesi. Questo momentaneo “appeasement” della crisi può semmai essere interpretato col fatto che i due governi, stretti ambedue dagli imponenti interessi economici che legano le rispettive economie, sono riusciti ad evitare un aggravamento della tensione e quelle sanzioni commerciali che erano temute da entrambi; ma questa fase non durerà a lungo.
Anche in diplomazia i simboli hanno il loro valore e il fatto che il pilota dell’areo cinese scomparso in mare sia stato dichiarato eroe nazionale, come d’altra parte siano stati accolti come eroi gli aviatori statunitensi al loro ritorno in patria, significa che le gerarchie militari dei due paesi vogliono sfruttare l’incidente per un po’ di “utile” propaganda militarista in vista di un prossimo, più grave, confronto.
Infatti, col Giappone momentaneamente messo da parte da una profonda
crisi economica, Stati Uniti e Cina si ritrovano concorrenti diretti per
l’egemonia in Estremo Oriente.
Anche alla FIAT si è infranto il muro del silenzio, un silenzio che durava da oltre 20 anni, ovvero dalla cocente, e da noi prevista, sconfitta negli anni ’80, tanto da far apparire sul “Manifesto” un enfatizzato corsivo: “Eccoli qua gli operai di Mirafiori... dopo 20 anni di silenzio hanno paralizzato la fabbrica più grande con una rivolta improvvisa: scioperi spontanei, cortei interni, blocchi stradali”. In realtà nel corso di questo “ventennio” si è assistito alla triste metamorfosi di un reparto della classe operaia che, da combattivo e punta di diamante di dure lotte negli anni ’70, si è trasformato in un allineato gregge che subisce passivamente ogni ristrutturazione, qualunque intensificazione dei ritmi di lavoro e abbassamento dei livelli occupazionali.
Le ragioni oggettive che hanno determinato un tale ripiegamento della combattività vanno per intero attribuite alla vile e carognesca conduzione di quella battaglia di venti anni addietro da parte dei Sindacati di regime, che allora, dietro un apparente e strumentale radicalismo, tradirono questi operai relegandoli nell’angusto androne del loro stabilimento, non volendo generalizzare quella lotta a tutta la classe. Questo ennesimo tradimento fu ampiamente riconosciuto “benefico” da Romiti (per lui!) che nel famoso libro-intervista di Pansa tesse le lodi del fu-segretario CGIL Lama. Ma si ricorderà che questi maiali avevano già vinto la prova generale, comunemente concordata, dei 61 licenziati del ’78.
Gli attuali scioperi che da un po’ di mesi si articolano nei vari stabilimenti FIAT sono, purtroppo, la risposta ritardata dell’applicazione degli accordi, successivamente perfezionati di luglio 92/93 tra governo e Sindacati. Ricordiamo che essi prevedevano oltre a draconiani tagli al salario differito (sanità, pensioni, ecc), la totale liberalizzazione del mercato del lavoro con l’istituzione di agenzie di lavoro interinale, dei contratti a termine, già allora applicati ma non ancora generalizzati. Ricordiamo che allora si determinò un movimento di opposizione di ragguardevoli dimensioni a quella intesa nefasta che vide scendere in piazza intere categorie sia del pubblico impiego sia del privato e che furono organizzate dall’arcipelago COBAS, dalla minoranza della CGIL che fa capo a Essere Sindacato e da alcune Camere del Lavoro locali. In quella occasione il nostro Partito fu ampiamente mobilitato denunciando con forza lo sporco gioco dei Sindacati di regime che utilizzarono tutto il loro apparato per far passare gli accordi.
Oggi, dopo 8 anni di silenzio pressoché totale, tranne sporadici sussulti, la fetida pace sociale si è appena incrinata. Gli scioperi che timidamente si stanno susseguendo negli stabilimenti FIAT, Melfi e Cassino compresi, pur nella loro limitatezza (mezz’ora, un’ora a fine turno, mezza giornata), sono ampiamente riusciti. Sicuramente il dato positivo, oltre la partecipazione numerica, è dato dal fatto che non si è assistito alla “frattura generazionale”, possibile, considerato che i sopracitati accordi di fatto la provocavano. La concomitanza del rinnovo del contratto integrativo aziendale con il licenziamento di 147 giovani lavoratori interinali a Torino e di 300 con contratto a termine a Melfi ha stabilito una comune base rivendicativa tra operai precari e vecchia guardia, memore della sconfitta degli anni ’80. Non solo, il fronte si è allargato agli impiegati, da sempre, in passato, fedeli galoppini di mamma FIAT cascasse il mondo. Probabilmente recenti esperienze, quali la chiusura della Lancia di Chivasso nel ’92, hanno minato in loro ogni granitica fedeltà!
L’entrata della General Motors nella FIAT ha ulteriormente e drasticamente peggiorato le condizioni di lavoro e i livelli occupazionali creando così le condizioni per una ripresa della conflittualità. Va ricordato che le varie ristrutturazioni susseguitesi negli ultimi 20 anni hanno comportato un calo occupazionale di circa 75.000 lavoratori soltanto nell’area torinese. Attualmente questi sono 25/26.000 contro i 50.000 nell’89 e gli oltre 100.000 nel fatidico ’80. Questi dati, già significativi nella loro drammaticità, rischiano di essere superati nel momento in cui, nel 2003, la sinergia FIAT-GM sarà pienamente operativa con i nuovi modelli di motori e cambi. Già ora alla IVECO il 40% degli operai delle linee di montaggio sono interinali, quindi licenziabili in ogni momento! Il matrimonio FIAT-GM ha anche partorito la vendita della FIAT-Ferroviaria, della Marelli-Climatizzazione e la messa all’asta della restante Marelli, della Tecsid, arena prossima della Comau, la trasformazione delle vecchie meccaniche di Mirafiori in una nuova società denominata Powertrain, che quasi sicuramente verrà trasferita alla Opel in Germania. Tutto ciò con tagli occupazionali notevoli e non solo nazionali. Sono già annunciati 750 licenziamenti a Bielsko Biara in Polonia a cui faranno quasi sicuramente seguito quelli previsti in India, Argentina e Turchia, senza contare l’uso sistematico della CIG in Italia.
Da questo scenario, diretta conseguenza della cosiddetta globalizzazione, si comprende come solo uno scontro di classe sovranazionale potrà risultare adeguato ed efficace. Così come le varie borghesie, per scongiurare gli effetti catastrofici della crisi capitalistica, si aggregano in poli sovranazionali che permettono loro di vincere la guerra commerciale, finanziaria e produttiva arginando la caduta del saggio di profitto, altrettanto dovrà fare il proletariato uscendo non solo dal limitato ambito aziendale e categoriale ma nazionale. Ponendosi su quel terreno il proletariato potrà fare il salto di qualità necessario anche solo per difendere condizioni minime di sopravvivenza.
Intanto i sindacati irreggimentati dal regime borghese si muovono con estrema cautela e spesso si trovano spiazzati di fronte a scioperi spontanei, come è avvenuto a Cassino, e cercano a quel punto di ingabbiare il movimento non solo costringendolo all’aziendalismo, ma spezzettandolo nelle rivendicazioni (integrativo, lavoro in affitto e a termine). Lo si coglie anche dalla lettura della stampa opportunista, come il “Manifesto” che in un corsivo del 9 marzo affermava: «la lotta non può rimanere isolata alla FIAT, o il sindacato nel suo insieme se ne farà carico, oppure i lavoratori della FIAT rischieranno di passare di vittoria in vittoria fino alla sconfitta finale”. Ovviamente i bonzi sindacali, ben nutriti dalla borghesia nazionale ed europea, si guardano bene dal generalizzare questa lotta: sono pagati per innaffiare non per cospargere benzina.
Mentre alla FIAT si sciopera per i sopracitati obiettivi, la maggior parte dei contratti sono scaduti da tempo, ivi compreso quello dei metalmeccanici e alcune categorie hanno già scioperato (insegnanti, elettrici, ferrovieri). Un sindacato che avesse anche solo minimamente conservato tracce di classismo nel suo DNA proclamerebbe uno sciopero generale, cosa che con queste puttane non potrà mai accadere se non per imposizione dal basso. L’unica cosa che a questi teatranti da quattro soldi riesce bene è una patetica pantomima, talvolta, tra un finto radicalismo della CGIL e una melliflua disponibilità a tutto campo di CISL e UIL. Tutto ciò non è altro che fumo negli occhi per i proletari e ha una modalità d’uso smaccatamente elettorale: le tre comari non si azzanneranno mai tra loro finché ci sarà da mangiare.
Il proletariato non ha nulla da spartire con questi forcaioli. Se costoro hanno la spudoratezza di sottoporre a referendum (schifoso strumento democratoide) una bozza di contratto per i metalmeccanici di 116.000 lire lorde in due anni per il 3° livello (quello più numeroso), a fronte di una base salariale tra le più basse in Europa, ciò rappresenta, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la loro totale disponibilità ai diktat della borghesia nazionale. Purtroppo però dialetticamente dimostra anche la debolezza della classe operaia che non riesce ancora a rompere gli equilibri e gli schemi entro i quali l’hanno costretta l’opportunismo sindacale e politico.
Sicuramente queste timide ma salutari fiammate di lotta sono di buon auspicio. Ma solo avanzando rivendicazioni salariali e di lavoro fuori da ogni compatibilità capitalistica e sul piano intercategoriale la classe potrà invertire una caduta che, diversamente, rischia di inabissarsi ancor di più. Per la reale difesa operaia non bastano qualche centinaio di posti di lavoro o poche lire, occorrono aumenti salariali generalizzati e inversamente proporzionali, almeno uguali per tutti, il salario garantito ai disoccupati, la diminuzione reale della giornata lavorativa. Ma perché ciò avvenga è necessario che il proletariato si attrezzi con organizzazioni economiche che nulla hanno a che fare con le attuali. È necessario, e da sempre lo affermiamo con forza, che rinasca il sindacato di classe. Questo è un passaggio fondamentale perché il proletariato si attrezzi a ingaggiare efficacemente lo scontro che le borghesie mondiali hanno, con inaudita violenza scatenato contro di esso.
Il sindacato di classe dovrà risultare totalmente impermeabile
agli ammiccamenti dell’avversario, dovrà infischiarsene di ogni
legalismo, dovrà rifiutare di sottoscrivere i codici di autoregolamentazione
né far affidamento sul riconoscimento statale e, soprattutto, rendersi
indisponibile, per principio, ad ogni collaborazione di classe. Sicuramente
il Partito non può che gioire nel vedere operai che scendono in
sciopero pur tra mille difficoltà e limiti, e, non cadendo in un
fesso immediatismo, è ben lieto di vedere sollevarsi la cappa funerea
che fiacca il proletariato e fa godere padroni e lacchè! Ma sa,
e ricorda alla classe, che nella presente fase di imperialismo mondiale,
fascista nei contenuti se non nelle forme, ogni decisa battaglia difensiva
proletaria comporterà l’inevitabile scontro su un terreno più
alto, cioè quello generale e politico fra le classi. Noi marxisti
non aspettiamo altro.
Compagni, lavoratori,
la grande farsa elettorale è di nuovo in scena. Noi comunisti ribattiamo le posizioni di sempre che ci contraddistinguono: destra e sinistra, così come democrazia e fascismo, non sono poli opposti ma complementari; sono le due facce della stessa medaglia: la dittatura della borghesia, ossia l’asservimento di tutta la società, e del proletariato in particolare, alle esigenze del Capitale, forza sociale impersonale. Il “gioco” democrazia-fascismo è presto detto: se il proletariato subisce e si fa “pacificamente” sfruttare, allora si fa mostra di “democrazia”, che rabbonisce ulteriormente la classe operaia; se invece i lavoratori rialzano la testa, si dimostrano nella lotta risoluti ed intransigenti, ricostruiscono un vero sindacato di classe, danno crescente ascolto al partito comunista che difende solo i loro interessi contro quelli delle altre classi (o per dirla come i borghesi “del paese”), allora, quando evidentemente la democrazia non basta, viene ritirato fuori il fascismo e l’illegalità borghese. Democrazia e fascismo sono due marionette per mantenere sottomesso il proletariato; a muoverle è però sempre e solo la medesima borghesia.
Il livello da pagliacciata raggiunto dai contendenti al bottino si commenta da sé. Destra e sinistra devono sempre più alzare il tono, urlando e strepitando, aggredire il proletariato con la loro imbecille propaganda perché sempre più difficile gli riesce nascondere che sono la stessa cosa: il partito unico del capitale.
Rifondazione “Comunista” ha ereditato dal PCI l’essenziale funzione di puntello del capitalismo: pur schierandosi al di fuori delle due bande accredita in pieno il sistema democratico facendosene anzi il difensore più estremo e mantenendo viva la falsa contrapposizione democrazia-fascismo.
La via per la difesa degli interessi della classe lavoratrice non passa
per le elezioni ma per la ricostruzione di un vero sindacato di classe
fuori e contro i sindacati di regime, per la milizia nel solo partito del
proletariato, il Partito Comunista Internazionale.
Portare i “senza voce” ad alzar la voce in una istituzione del capitale sorda ai diseredati e ingannatrice come il Parlamento nazionale è già di per sé prova del carattere collaborazionista dello “zapatismo”.
Così gli incappucciati, depositate le armi, si sono recati in pellegrinaggio al tempio della democrazia, per essere alfine ricevuti, dopo giorni di anticamera, in quel covo di manigoldi ad esibire una ormai vuota retorica populista.
Infatti lo “zapatismo”, dichiarata fedeltà allo Stato messicano, rivendica la sua collocazione nello schieramento istituzionale come rappresentante delle istanze delle etnie indiane.
Si parla di “autonomia” e di “autodeterminazione”, di “diritti” e di “tutela” della cultura indigena. Non si parla della terra, che è la prima aspirazione del contadiname diseredato e la rivendicazione che lega i contadini, indiani e non.
Si inneggia invece alla democrazia e si auspica la conciliazione e la
concordia nazionale, quando l’unica possibilità per le masse rurali
e per il contadiname povero è che questa concordia vada in frantumi
e ritorni manifesto il loro antagonismo, prima di tutto fra la classe proletaria
e le classi possidenti e il loro Stato messicano, incarnazione degli interessi
del Capitale.
PAGINA 2
1. UNA PECULIARE CONFORMAZIONE DEL SUOLO
2. COME LA GEOGRAFIA DETERMINA LA STORIA
Inquadramento legale e sottomissione reale
delle Trade Unions inglesi allo Stato borghese
Già in vista delle elezioni del 1997 il “New Labour” di Blair aveva dichiarato che giammai avrebbe ammorbidito la legislazione antisciopero impostata dai Tory, i conservatori. Le chiamiamo “antisciopero” le leggi della Thatcher, più che “antisindacali”, poiché erano principalmente rivolte contro la capacità di mobilitazione dei lavoratori. I sindacati, divenuti responsabili per “le azioni dei loro associati”, cadono ora sotto la minaccia di multe, ma poche ne sono state elevate. Fece eccezione lo sciopero dei minatori del 1984-85, ma le multe non furono riscosse poiché i Scargill riuscì con un giro di movimenti a nascondere la cassa in conti all’estero (o almeno questa è la versione ufficiale che si somministra ai lavoratori; come se per il sistema bancario britannico non fosse possibile ripercorrere movimenti di capitale). Di fatto la legge funziona solo come copertura di lusso per i capi sindacali: «cos’altro possiamo fare, dobbiamo obbedire alla legge!».
Non si sarebbe quindi tornati, insistevano i laburisti, ai “tristi giorni” degli scioperi senza controllo. Nemmeno le Trade Unions sarebbero riuscite a capovolgere la politica che la Thatcher aveva decisamente orientato contro gli scioperi “non ufficiali”, extra-sindacali, in particolare dopo “l’inverno di scontento” del 1978-79 che aveva destabilizzato il precedente governo laburista di Callaghan. Del resto nemmeno i dirigenti sindacali desiderano il capovolgimento della legislazione antisindacale Tory, timorosi del diffondersi di scioperi “non ufficiali” e di movimenti al di fuori del loro controllo.
Per altro il precedente governo Tory nel 1996 aveva ampliato i cosiddetti “diritti del Lavoro”, facilitando ai lavoratori il ricorso ai Tribunali: il periodo di assunzione necessario per far opposizione legale fu ridotto da due ad un anno. Questo fu un altro regalino ai capi sindacali, facilitati nell’evitare gli scioperi contro i licenziamenti indirizzando la reazione dei lavoratori verso i tribunali, nella speranza della riassunzione o, almeno, di una compensazione monetaria: la vertenza finisce solo dopo sei mesi o più, quando i lavoratori sono già fuori della fabbrica e tutti si sono ormai scordati di loro. E’ evidente che il metodo individuale del ricorso ai tribunali è finalizzato a prevenire il vecchio sistema operaio, quello delle lotte, degli scioperi con manifestazioni e proteste, che solo consente ai lavoratori la possibilità di difesa collettiva.
Ecco dunque che arriva con il nuovo governo laburista la sbandierata riscossa dei “diritti dei lavoratori”. Il molto pubblicizzato “Minimo Nazionale dei Salari” ha avuto vita davvero breve. Rappresentanti delle organizzazioni del padronato si sono scalmanati nel dipingere i suoi terribili effetti sull’economia, con la distruzione di posti di lavoro e con la diffusione degli aumenti anche sui livelli più alti. In realtà è avvenuto esattamente il contrario: il Minimo Salariale Nazionale (NMW), fissato ora a meno di 4 sterline (12.500 lire) l’ora, è diventato non tanto un minimo quanto un punto di riferimento, la norma delle paghe basse, e il lavoro poco qualificato è quindi oggi pagato meno di pochi anni addietro. Riducendosi il livello medio dei salari, gli industriali sono adesso ben contenti del nuovo sistema: anche un padrone che paghi tale miseria si può vantare d’essere fra quegli imprenditori “responsabili” che “applicano la legge”.
Il riconoscimento dei diritti delle nuove Trade Unions
E’ ormai in vigore la legge sui Rapporti di Impiego (ERA) del 1999, legislazione che chiamano “per la Correttezza sul Lavoro” e che vantano essere «il maggior progresso legislativo per chi lavora e per i sindacati da più di 20 anni, modificando gli equilibri riguardo ai diritti di legge sul posto di lavoro». Si, ma li ha modificati a favore delle Trade Unions riconosciute dallo Stato, non in quello degli interessi dei lavoratori.
Ovviamente la Confederazione Britannica degli Industriali (CBI) l’ha denunciata come un Cavallo di Troia, che avrebbe scatenato le rivendicazioni operaie, sinora efficacemente trattenute, e il ritorno ad infinite ondate di scioperi, ma i loro timori si sono dimostrati infondati: il nuovo sistema è pienamente attuato ma i lavoratori sono ben lungi dall’assaltare i bastioni del potere! Metà della “Era 1999” è dedicata alla procedura per il riconoscimento dei sindacati. Fondamentale in questa trafila è l’istituzione di una Commissione Centrale di Arbitraggio (CAC), mentre altre meno note commissioni create dalla Thatcher perdono d’importanza; la funzione della CAC è la supervisione al “riconoscimento” dei sindacati. Il sindacato che chieda il riconoscimento deve indicare la “unità di trattativa” all’interno della quale ha iscritti. Ma perché la CAC conceda il riconoscimento il sindacato deve già aver ottenuto un “Certificato di Indipendenza”. Perché un sindacato possa essere considerato “indipendente”, un funzionario per la certificazione deve aver appurato che il sindacato è indipendente dal padrone, cioè non si configuri come un’associazione di dirigenti. Lo Stato si porrebbe quindi come garante della “indipendenza” dei sindacati, intesa però rispetto al singolo datore di lavoro, e non dalla classe borghese nel suo complesso. Lo Stato desidera che le vertenze sui salari mostrino almeno l’apparenza di efficacia, e che quindi i dirigenti sindacali non siano direttamente sul ruolo paga di singoli industriali. Ma se mai vi fosse un dirigente sindacale abbastanza ingenuo da pensare di poter essere realmente “efficace”, questi sarebbe spazzato via in un baleno.
Il resto della nuova Legge riguarda le procedure per i ricorsi, le modalità per le elezioni, gli scioperi, l’addestramento, ecc.
Traiettoria storica dei sindacati inglesi
Il processo dello sviluppo ed integrazione dei sindacati dapprima nella società borghese, successivamente nello Stato, è un processo assai irregolare, ricco di contraddizioni, di inversioni di tendenza, di incidenti di percorso. Cercheremo qui di darne una descrizione sintetica.
1) I primi sindacati stabili, quelli dei lavoratori qualificati, furono anche i primi a sopravvivere, all’inizio del 19° secolo, alle continue offensive dei padroni. Ma i dirigenti dei lavoratori qualificati furono presto corteggiati dalla borghesia in quanto rappresentanti della “aristocrazia del lavoro”. Fu questo gruppo di dirigenti sindacali che formò il Trade Union Congress (TUC) negli anni ‘60, e fu contro di essi che venne scagliata la rovente critica di Carlo Marx, che riteneva “un onore non essere scambiato per un capo di Trade Union”.
La deferenza di questi dirigenti sindacali verso gli interessi della classe dominante valse ai sindacati la prima protezione legale in quanto organizzazione: la Legge sui Sindacati del 1871, che servì a togliere all’attività sindacale la qualifica di “criminale”.
2) I nuovi sindacati. Il risorgere della lotta di classe e la formazione di sindacati negli anni 1880 si focalizzò nelle organizzazioni dei portuali, dei lavoratori del gas, ecc. Questi si guadagnarono il nome di “Nuovi Sindacati”, poiché erano di natura più generale (meno legati al mestiere), e guidavano i lavoratori non qualificati in lotte decise. Fu questo il movimento che suscitò in Engels grandi speranze, dopo i decenni di lotta contro l’imborghesito Trade Union Congress. Ma in un ventennio questi nuovi combativi sindacati furono assorbiti dall’imperante conformismo del TUC.
3) Inizio dell’inserimento nello Stato. La legge per le Assicurazioni Nazionali del 1911 trasferiva al sistema statale la maggior parte dei fondi delle Mutue dei sindacati. Il sistema assicurativo era finanziato con i contributi sia dei lavoratori sia dei padroni e dello Stato, al fine di provvedere ad un sistema unificato di previdenza per le malattie, la disoccupazione, la vecchiaia. L’apparato di solidarietà che i sindacati avevano creato divenne in larga misura inutile, tranne che per le casse di sciopero (nella misura in cui funzionavano) e per alcune minori provvidenze, come le case di convalescenza.
Intanto nei sindacati si concentrava ogni potere nelle mani degli organi dirigenti nazionali, escludendo la base dei lavoratori da qualsiasi decisione. Alle sezioni locali del sindacato, trasformate in uffici di raccolta delle quote e poco più, fu tolto il diritto di indire gli scioperi. Anche i Trade Council, le federazioni locali dei sindacati, furono escluse dal diritto di proclamare scioperi, che diveniva quindi monopolio del Trade Union Congress.
Tutto era pronto per montare l’ondata di patriottismo che travolse i capi sindacali allo scoppio della guerra nel 1914: nemmeno uno degli organismi sindacali si oppose.
4) Sorgere di movimenti extra-sindacali. L’inizio dell’integrazione degli affari sindacali nello Stato nel 1911 aveva già visto proprio in quell’anno il primo sorgere di scioperi “non ufficiali”, al di fuori e contro il controllo dei sindacati. Da qui il termine “non ufficiali”, che può essere applicato a diverse situazioni ed è da allora divenuto la più significativa espressione della classe operaia inglese.
Qualche volta si verificavano abbandoni dei sindacati, con tentativi di creare organizzazioni scissioniste, impietosamente però spezzati dall’azione combinata dei padroni e dei sindacati ufficiali.
L’unica eccezione fu la “Fuga dalla Prigione del Grande Nord”, sciopero dei portuali nei porti settentrionali, usciti dalla Transport & General Workers Union per dar vita alla Stevedores and Dockers Union (Sindacato Stivatori e Portuali), del quale abbiamo trattato altrove. I portuali riuscirono a darsi un’organizzazione indipendente per alcuni decenni, finché furono vinti per l’avvento del metodo dei container.
Il collaborazionismo patriottico dei boss sindacali che si comportavano come se disponessero personalmente dell’organizzazione portò ad un altro aspetto del movimento “non ufficiale”: l’organizzazione di base dei rappresentanti dell’officina, del reparto, insomma del posto di lavoro, in inglese “shop”. Gli “shop stewards” non avevano alcun diretto collegamento con l’organismo sindacale, non rispondevano quindi al sindacato di categoria né ai suoi rappresentanti, ma, in origine, solo alla base dei lavoratori, che li poteva sostituire in qualsiasi momento con altri lavoratori. Il movimento degli “shop stewards”, che tale si deve in quel periodo definire, fu un risultato della lotta di classe. Questa forma di movimento fu combattuta e schiacciata negli anni ‘20 e ‘30 dall’azione combinata dei capi sindacali e padronali. E’ da quel periodo che i sindacati ufficiali sono diventati definitivamente i pilastri di sostegno del capitalismo. Sono ad esso così integrati che non si possono ormai distinguere delle sue altre istituzioni.
Il Communist Party of Great Britain non poté avere negli anni ‘20 e ‘30 una chiara e uniforme linea sindacale, e oscillò sempre tra l’impegno nel tentativo di influenzare i sindacati aderenti al TUC e l’attività di agitazione alla base; entrambe le attività non avevano però come risultato l’unificazione delle lotte operaie, né potevano portare a una maggiore coscienza di classe dei proletari. Infatti le direttive di lotta, anche se decise e corrette, non mettevano in discussione il ruolo del TUC all’interno della classe. Nonostante che sia i sindacati ufficiali sia il Partito Laburista dessero continuamente prova di essere agenti borghesi all’interno della classe, i tentativi di penetrarli sia da un punto di vista sindacale sia politico non vennero mai meno, anche se costantemente frustrati. Questo impediva una chiara denuncia dell’opportunismo britannico di fronte alla classe operaia. D’altronde la necessità di sacrificare tutto pur di ottenere qualche risultato in difesa della Russia sovietica rendeva una politica veramente di classe impossibile. Anche quando i pericoli di attacchi all’Unione Sovietica e di una seconda guerra mondiale nei primi anni ‘30 cessarono, altri eventi di politica internazionale occuparono le energie del partito, e ne diressero le scelte, prima di tutte la guerra civile spagnola. Anche in Gran Bretagna, poi, la posizione degli stalinisti durante la seconda guerra mondiale seguì i giri di valzer della Russia, prima alleata di Hitler e poi sua nemica. Si arrivò infine al sostegno senza condizioni dello sforzo bellico anti-hitleriano, che sfociò in uno smaccato nazional-patriottismo che, come d’altronde in tutto l’occidente, divenne un carattere distintivo del CPGB e lo caratterizzò anche nel secondo dopoguerra.
5) La funzione degli shop stewards. Gli shop stewards fecero una nuova apparizione durante e dopo la seconda guerra mondiale, con un ruolo opposto rispetto a quello svolto nella prima guerra mondiale. Dal 1940 in poi gli shop stewards non erano più un movimento ma un apparato ufficialmente istituito per garantire che la produzione non si arrestasse. Divennero quelli che risolvevano i problemi, e si ricorreva a loro quando i lavoratori rifiutavano di collaborare o ponevano intralci alla produzione.
Uno strumento col quale la Gran Bretagna combatté la guerra 1939-45 fu l’uso degli incentivi monetari, basati sui risultati di produzione. Anche quando le distruzioni provocate dai bombardamenti tedeschi erano gravi e continue, la produzione continuava a crescere con impeto. Gli alleati sopraffecero l’Asse con il sistema dei premi in Inghilterra e con le catene di montaggio in Usa e in Urss, invece che col lavoro schiavistico adottato in Germania e in Giappone e col corporativismo in Italia. Per il funzionamento di questo sistema a premi di produzione gli shop stewards erano quel che ci voleva: erano essi che dovevano soffocare le proteste, trovare i compromessi, stipulare gli accordi, e molti di essi sarebbero poi apertamente passati dalla parte della direzione divenendo capi reparto, esperti dei tempi e metodi ed altre canagliate.
Dopo la guerra il sistema a premi rimase parte talmente essenziale dei salari come incentivo a mantenere elevata la produzione che gli shop stewards rimasero la struttura ufficiale per appianare la difficoltà e applicare gli accordi sindacali. Il ruolo degli shop stewards fu definito e regolato da accordi nazionali, regolamenti e altro. Non a caso la commissione governativa che redasse il Rapporto Donovan li dichiarò essere piuttosto un aiuto che un problema, un lubrificante per la macchina produttiva. Durante le lotte più dure si trovavano sempre presi nel mezzo, incastrati fra i loro capi, gli industriali e del sindacato, e gli operai che lanciavano loro insulti, ed anche qualcosa di più duro. Così si svolgevano di solito gli scioperi “non ufficiali”.
Il movimento degli scioperi non ufficiali rifletteva il reale potere economico dei lavoratori. Di tempo in tempo gli shop steward, volenti (per lo più in quanto militanti di organizzazioni politiche di sinistra) o nolenti (per non perdere il ruolo elettivo che comunque veniva sempre dai lavoratori) acconsentivano a scioperi, dando in genere una rappresentazione distorta della forza economica dei lavoratori in lotta.
Fu solo una questione di tempo prima che la classe dominante decidesse che il sistema di rappresentanza di fabbrica non era più capace di far fronte alla determinazione del lavoratori alla lotta. Il cambiamento fu aiutato dalle “riforme” sindacali della Thatcher, usate per introdurre innovazioni che si spacciavano atte a difendere la forma legale del sindacato e il suo finanziamento.
6) Cambiamento di funzione degli shop stewards e dei rappresentati sindacali. Questa evoluzione si era avuta via via in diverse categorie fin dagli anni ‘70 col proposito di interrompere il legame fra la base dei lavoratori e gli shop stewards. Questi non sarebbero più stati responsabili delle loro azioni di fronte ai lavoratori che li avevano eletti, ma verso i sindacati che ora rappresentavano formalmente. Il loro compito sarebbe quindi divenuto quello di resistere alla combattività dei lavoratori piuttosto che di adeguarsi ad essa. Uno dei primi esempi significativi di questo nuova posizione fu l’introduzione dello shop steward nei porti come una componente della “decausalisation”, cioè la fine del lavoro temporaneo, nave per nave. Anche qui lo shop steward fu reso responsabile nei confronti del sindacato e non nei confronti della forza lavoro. Era lì per prevenire gli scioperi, non per dare soddisfazione ai lavoratori. In sempre più posti di lavoro i rappresentati sindacali veri e propri sostituirono gli shop stewards vecchio stile, nominati dai lavoratori ma legati alla disciplina del sindacato.
La precedente pratica di uscire in massa dalla fabbrica e tenere un’assemblea per votare lo sciopero fu abbandonata: i funzionari sindacali dovevano essere “informati del problema”, rimandando ogni decisione finché non si fossero tenuti incontri con il padrone; solo dopo gli operai avrebbero potuto incontrarsi, sottoposti alle peggiori pressioni per evitare lo sciopero o altre forme di lotta.
E’ stato il peso combinato della recessione, con alti livelli di disoccupazione e con la deindustrializzazione di intere regioni, e della mutata collocazione dei rappresentanti sindacali di fabbrica, che per il momento ha reso impossibili nuove azioni non-ufficiali. Ancora non è dato scorgere ciò che potrà domani sostituirle. Ma quel che è certo è che l’ “eterno ottimismo”, la credenza che i sindacati possano ancora essere cambiati dall’interno, ha finalmente fatto il suo tempo.
Mutata natura del riconoscimento dei sindacati
Il nuovo “diritto” statutario al “riconoscimento” ha due aspetti fondamentali: primo, la “forza” del numero degli iscritti ad un sindacato non è più considerata; la contrattazione aziendale avviene fra funzionari sindacali e padroni, senza che sia richiesto alcun voto dei lavoratori sul posto di lavoro. Secondo, con la trattenuta delle quote sindacali per delega al padrone si rendono del tutto inutili le sezioni sindacali, riducendo ulteriormente ogni contatto con i lavoratori. Se qualche lavoratore viene licenziato, lui può fare la trafila del Tribunale, altri sono assunti e le quote continuano a correre. Nessuna meraviglia quindi che i capi sindacali siano ben contenti dei “nuovi diritti” sindacali: non si tratta infatti di alcun “diritto” per i lavoratori.
Il padronato è ampiamente soddisfatto del nuovo sistema di riconoscimento dei sindacati. Gli scioperi è difficile che si arrivi ad indirli perché i sindacati rimanderanno le assemblee a quando si sentiranno sicuri di controllare la situazione. La trimurti Stato-Padroni-Sindacati assicurerà che non riesploda il vecchio “male inglese” di scioperi scalmanati e poco eleganti. Per gli operai deve finire l’illusione di un possibile uso dell’apparato sindacale. Purtroppo per ora vi è soltanto un costante ripiegamento verso la ricerca di soluzioni individuali dei problemi, visto che non c’è la minima speranza che le istanze collettive vengano accolte. Ed a tutt’oggi non sono ancora apparse forme alternative di lotta.
La divisione, che confina nella fabbrica le lotte incanalandole all’interno
dell’apparato sindacale, affrontando così le questioni separatamente,
non è più una strada percorribile nemmeno per affrontare
i problemi parziali. Il sormontare gli interessi particolari, unendo i
lavoratori di una regione in quanto tali, e non come dipendenti di una
data azienda, sarà l’inizio della rinascita di una politica sindacale
di classe. L’organizzazione di classe, che raggruppi i salariati come tali,
è la necessità di domani come di oggi, così come è
stata quella di ieri. Le divisioni fra lavoratori devono essere superate,
sia che alcuni di essi abbandonino i sindacati esistenti (se sarà
loro consentito in futuro), sia che vi rimangano. La forma di organizzazione
che la classe sceglierà non è in sé importante, è
vitale che abbia un inizio, che si consolidi, che si estenda. Noi difenderemo
il diritto di rompere con i sindacati al fine di condurre delle lotte,
ma non nel senso di approvare un isolamento dal resto della classe. L’unificazione
dei lavoratori sul piano economico è la necessità di oggi
e di domani. E’ l’inizio del processo che porterà alla loro emancipazione!
La rivolta dei licenziati nella Cina del boom
Con nessun rilievo La Repubblica del 21 marzo pubblica un lungo articolo con questo titolo: «Il drastico, traumatico ridimensionamento della vecchia industria statale, iniziato dal Governo di Pechino nel ’98, mette ogni anno sulla strada tra i cinque e i dieci milioni di lavoratori (...) Il Governo del primo ministro Zhu Rongj sta in effetti l’uno dopo l’altro chiudendo migliaia d’impianti industriali, nonostante i contraccolpi – assalti a municipi, scontri tra disoccupati e forze speciali antisommossa – scaturiti in vari parti della Cina dalla chiusura delle fabbriche. E il programma di smantellamento o vendita delle imprese statali procederà quest’anno, ha detto Zhu durante la sessione parlamentare delle scorse settimane, a ritmo anche più rapido».
Nell’articolo si calcola che, dagli operai che escono dal settore pubblico, ai giovani che raggiungono nelle città l’età di lavoro, ai contadini che lasciano la campagna in cerca di impiego, l’economia cinese dovrebbe provvedere annualmente a 16 milioni di posti di lavoro solo per mantenere gli attuali livelli di occupazione, un compito assolutamente irrealizzabile tanto che, sempre citando, «il vertice comunista sembra deciso a rischiare le inevitabili turbolenze sociali di questa fase (e venendo meno una volta di più ai suoi principi politico-ideologici) pur di condurre in porto i piani di risanamento economico, indispensabili tra l’altro per allineare il paese ai criteri e regole dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio».
Sarà compito degli studi economici-storici del Partito apprezzare quanto lo sviluppo del modo di produzione capitalistico sia penetrato nelle pianure e nei deserti della Cina ex-maoista ed abbia assoggettato l’immensa riserva di mano d’opera del proletariato urbano e dei contadini cinesi, come il regime di Pechino saprà reggere la prova del terribile urto di forze sociali immense, che noi ci auguriamo anche potenti da infrangere lo spietato schieramento a difesa della inevitabile accumulazione capitalistica. Qui ci interessa rilevare come, nell’epoca della cosiddetta “globalizzazione”, pretesa nuova èra del modo di produzione capitalistico e del suo ciclo, il proletariato cinese, che già negli anni Venti dette prova di generosità e predisposizione alla lotta, regge l’urto ed istintivamente cerca ed impugna tutte le possibili armi arrivando anche ad atti terroristici che, non inquadrati in un generale piano di attacco alla struttura statale, sono solo dimostrazione di estrema disperazione.
Gli avvenimenti richiamano anche un’altra nostra tesi, cioè che il metodo democratico di inquadramento del proletariato che ben conosciamo in occidente, con tutta la sua impalcatura di istituti e provvedimenti che limitano le tensioni sociali e le loro inevitabili deflagrazioni, è un argine formidabile, di gran lunga il più efficace per limitare e sopire la lotta di classe. Questa inevitabilmente rompe gli argini quando le impalcature statali a difesa dell’economia capitalistica sono costrette, per diverse ragioni, ad usare non i raffinati metodi di convincimento e di corruzione tipici delle sviluppate economie e Stati di più vecchio impianto capitalistico, ma il rozzo “decisionismo” degli Stati di polizia che debbono assolvere ai dettami imperiosi dell’economia capitalistica e del suo mentore, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, facendosi forte soltanto della censura e della repressione dispiegata.
L’attacco è frontale ed il proletariato cinese, non irretito
e non confuso dall’opera conciliatrice di organizzazioni sindacali collaborazioniste
(i sindacati cinesi sono troppo collusi con le direzioni aziendali e con
lo Stato), si batte con tutte le armi che ha, rigettando compromessi e
“compatibilità”. È quello, però, che si verificherà
anche nell’occidente “avanzato”, quando verrà meno intorno alla
classe lavoratrice il cordone sanitario di partiti e sindacati collaborazionisti.
Flessibilità nella scuola
è lavoro straordinario e più sfruttamento
Sabato 31 marzo i lavoratori della scuola in sciopero nazionale, indetto congiuntamente da Cobas e Cub, hanno manifestato per opporsi alla riforma dei cicli della scuola elementare e per contestare i contenuti del contratto integrativo firmato dai sindacati confederali la notte del 14 febbraio, clandestinamente, alla solita meschina maniera oramai ben nota ai lavoratori di tutte le categorie sia del settore pubblico sia di quello privato.
La forza espressa dagli insegnanti nella tenace opposizione al “Concorsone” che avrebbe attribuito cospicui aumenti di salario (circa 6.000.000 annue) solo al 20% di essi, lasciando la restante parte dei lavoratori a mani vuote e, soprattutto, introducendo pericolosissimi elementi di divisione e di contrapposizione di interessi all’interno della categoria ha trovato seguito nel corteo di questo ultimo sciopero dove i lavoratori hanno reclamato forti aumenti salariali uguali per tutti per adeguare le paghe alla media europea e per recuperare la perdita del potere d’acquisto dei loro salari dal ‘92 ad oggi.
Si sono udite parole d’ordine contro CGIL-CISL-UIL che, nonostante l’adesione allo sciopero unitario del 7 dicembre, che aveva visto la partecipazione massiccia dei lavoratori, hanno poi firmato subito dopo, il 15, un’intesa con la controparte, non senza ottenere dal ministero poche briciole in più da potere sbandierare, complice la grancassa mediatica degli organi di stampa del regime borghese, come il raggiungimento di un vittorioso traguardo, sudato e meritato frutto della lunga vertenza. Briciole (comunque non elargite dal buon cuore del padronato ma sborsate per “intercessione” della triplice solo sotto la pressione della lotta) utilizzate per ottenere il definitivo sbollire del grosso della categoria ed isolare i lavoratori più combattivi inquadrati nel sindacalismo di base.
Con questa intesa, tradotta poi in pratica nel contratto vero e proprio firmato a febbraio scorso, gli aumenti reali in busta paga (cioè netti) non sarebbero superiori alle 160.000 lire di cui una buona fetta non pensionabili, fuori dalla tredicesima e dalla liquidazione; il personale amministrativo tecnico ausiliario è stato praticamente umiliato con aumenti ancor più bassi e risibili.
L’attacco peggiore ai lavoratori della scuola è rappresentato però dall’introduzione nel contratto di una somma considerevole, 416 miliardi, da distribuire a presidi e direttori con i quali dividere insegnanti e non insegnanti inducendoli ad accettare la “flessibilità” e a sgomitare per fare gli straordinari pur di avere un pugno di lire in più a fine mese.
Il sindacalismo di base (Cobas e Cub) con quest’ultimo sciopero nazionale ha rigettato i termini del contratto, ma è consapevole che i rapporti di forza nn sono tali da poter riaprire la contrattazione e che la maggioranza della categoria è rassegnata ancor una volta a ingoiare l’ennesimo rospo amaro confezionato da Cgil-Cisl-Uil. Chiede però la distribuzione in parti uguali dei 416 miliardi destinati alle scuole e il passaggio in paga base di tutti gli aumenti previsti dal contratto, in modo da renderli pensionabili.
I lavoratori più combattivi si apprestano ad organizzare la battaglia difensiva contro il riordino dei cicli, una ristrutturazione selvaggia della scuola stile Ferrovie dello Stato, che tagliando un anno al percorso scolastico, cancellando il tempo pieno nelle elementari e il tempo prolungato nelle medie, riducendo l’orario settimanale delle lezioni nelle scuole superiori determinerà la eliminazione di 132.000 posti di lavoro tra docenti e non docenti, gettando in mezzo ad una strada l’esercito delle migliaia di precari supersfruttati che rimarranno definitivamente fuori, e per sempre, dagli organici della scuola.
L’esito di questa battaglia difensiva, non solo nella scuola ma in tutti i settori, dipenderà dai lavoratori stessi e dalla forza che solo essi sapranno mettere sull’arena della lotta, sfidando fieramente e con tenacia tutti i nemici, dichiarati e mascherati, mandando gambe all’aria le centrali sindacali del regime. Occorre anche che il vigore della lotta classista soccorra a correggere la rotta dei vari COBAS, ondeggiante tra la risoluta difesa della categoria ed una pericolosa e perniciosa deriva cogestionaria ed interclassista. C’è un obiettivo materiale per il quale tutte le lotte e le esperienze che i proletari effettueranno non saranno state vane, al di la del raggiungimento o meno di risultati contingenti: la formazione di un unico, forte ed esteso Sindacato di Classe, difensore incondizionato degli esclusivi interessi proletari.
Questa è la dura strada che i comunisti indicano ai contingenti
di lavoratori che alzano il capo e s’apprestano a lottare.
Un remoto senso di fastidio disturba la società borghese
La notizia è di quelle che suscitano orrore. Poi si stemperano nel drogato "notiziario" quotidiano, che tutto macina e pareggia. Quando queste righe saranno comparse sul giornale, di sicuro sarà restato nelle coscienze soltanto un remoto senso di fastidio. Tutto nella norma del capitalismo, vien da dire. Ma la vicenda merita qualche rigo sulla stampa comunista, e non solo per l’indignazione che suscita.
Una nave stipata di fanciulli, disperati senza speranza alcuna, venduti schiavi da altri disperati per le piantagioni di cacao o di canna da zucchero dei paesi del Golfo di Guinea, naviga indisturbata da compiacenti autorità locali, che fanno finta di darle la caccia, facilmente scansando la "riprovazione" della "comunità internazionale". Magari fossero schiavi "adulti": non avrebbe suscitato tanto rumore.
Questo è un traffico di cui la suddetta comunità internazionale è perfettamente a conoscenza, che per qualche ragione (sicuramente ignobile) è arrivato alla notorietà di giornali e televisione, un fiorente traffico “in crescita vertiginosa”, come avverte il Comitato internazionale contro la schiavitù.
E in tanta frenesia di caccia per troncare l’odioso viaggio e salvare le povere creature, mentre il negriero al comando è conosciuto per nome e cognome ed inseguito da regolare mandato di cattura internazionale, mentre il mercante è additato al pubblico disprezzo, anch’egli con nome e cognome, la nave scompare, poi ricompare ma non è quella, bensì altra nave di disperati che non viene da nessuna parte e non va da nessuna parte. Si è mobilitato l’UNICEF, si sono messe in mezzo le mille associazioni umanitarie che temperano la cattiva coscienza di cotanta bestialità, ma la nave col suo carico disperato non si trova. Gli occhiuti Stati di occidente ed oriente con le loro telecamere orbitali, gli Stati “di diritto”, non vedono perché non vogliono vedere. Hanno fatto la loro parte con la denuncia: la coscienza nera del mondo borghese è a posto.
Per quel che ci riguarda, da questa infame vicenda tutta “dentro” al meccanismo di sfruttamento capitalistico, due brevi e fredde considerazioni fuori dal coro unanime del “non dovrà mai più succedere”.
Il sistema capitalistico di sfruttamento salariato del lavoro si è ormai imposto alla scala mondiale spazzando via ogni forma precedente di rapporto produttivo. Ma lo schiavismo sopravvive nei pori del generale lavoro “libero”, ad esso accomunato nella fase preistorica della divisione in classi della società.
Lo schema teorico è oscurato da connotazione emotive che mettono in primo piano la violazione dell’infanzia venduta al Moloch del profitto, bimbi che lavorano fino allo sfinimento ed alla morte nelle cave di pietra del Brasile, nelle miniere di Colombia, nelle tessiture d’India, nelle fabbriche del sud-est asiatico, le migliaia e migliaia di sfruttati in ogni modo a tutte le latitudini. Ma il vero orrore è la generale Legge del Profitto che impedisce oramai alla vita umana di vivere.
Il prodotto del lavoro “illegale” di quei fanciulli, infatti, una volta uscito dall’ambito in cui si giustifica in quanto “rende”, si nobilita, ritorna pulito ed onesto, e rientra tranquillamente nel giro della fisiologica produzione di merci; magari per le successive lavorazioni di operai adulti e quindi perfettamente legittimo e benedetto, concorrendo per la sua parte al sacrosanto incremento del "PIL". Il mercato mondiale tutto lava e candeggia. Basta e avanza che ci sia profitto.
Quindi i presunti bimbi-schiavi su cui tanto oggi si piagnucola, schiavi non sono, ma salariati al grado più basso: la loro paga è il controvalore in cibo quotidiano, e non altro, visto che hanno da mantenere soltanto se medesimi, e non figli, non famiglie, pagate queste una sola volta, all’atto della vendita. Al pari dei fanciulli maciullati nelle galere capitalistiche urbane della rivoluzione industriale, nati, vissuti e morti senza un nome, proletari e lavoratori come i loro familiari, questa moderna forza lavoro dei paesi del terzo mondo sta alla base del sistema di accumulazione capitalistica, fratelli a pieno titolo dei lavoratori dell’occidente industrializzato.
Il riscatto di questi, con la rivolta della non meno infelice, intimorita
e ingannata gioventù proletaria d’occidente, è, sarà,
il solo mezzo per la liberazione di tutta l’umanità lavoratrice.
Demagogia sgonfiona in Venezuela
Quel che valga la rivoluzione bolivarista è ormai evidente per la maggior parte dei lavoratori del paese, impegnati attualmente in scioperi e manifestazioni nelle principali città venezuelane. Il fatto che i lavoratori di un settore chiave come l’industria petrolifera siano scesi in sciopero ha fatto sì che il governo di Chaves mobilitasse anche l’esercito contro gli scioperanti. Ed esempio di come il governo bolivarista adempie ai suoi impegni c’è la mancata corresponsione dell’aumento del 15% accordato ai dipendenti pubblici a metà dell’anno passato.
Epidemie del bestiame
Che capitalismo e vita sana siano incompatibili è quel che si incaricano di dimostrare i fatti quotidiani della società mercantile. Le centinaia di migliaia di capi di bestiame inceneriti perché appestati a causa delle cattive condizioni in cui sono tenuti è la ennesima dimostrazione del fallimento del sistema borghese nel reggere i destini della società umana. Solamente la società socialista, che abolisce il valore di scambio dei prodotti e che considera solo il loro valore d’uso, potrà garantire che gli alimenti che consumiamo siano realmente alimenti e non veleno.
Sindacalismo d’alta quota
La nuova campagna del sindacato spagnolo UGT per l’orario settimanale di 35 ore fa ricorso ai metodi classici della lotta di classe come l’alpinismo. Hanno pensato infatti di piantare una bandiera con il motto delle 35 ore sull’Everest, mentre già l’hanno fatto sull’Aconcagua (in Cile, 6959 m!) e sul Kilimangiaro. E’ sicuro che prodezze simili produrranno effetto a brevissima scadenza e che i lavoratori di tutti continenti godranno presto della settimana di 35 ore.