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Dopo i terrificanti massacri negli Stati Uniti gli altoparlanti del regime, di destra e di sinistra, concordano che la guerra che si prepara, che, anzi, sarebbe già iniziata, è fra Nord e Sud del Mondo, fra noi ricchi e loro poveri. Una guerra per la nostra civiltà, la civiltà del Capitale.
Gli insanabili contrasti che stringono il capitalismo non sono, invece, fra Stati, ma al suo interno, si tendono fra i ricchi, sono crisi di sovrapproduzione, di troppa ricchezza prodotta e smerciata, e non fra chi ha troppo e chi troppo poco. Il conflitto che esplode non è culturale né religioso e nemmeno nazionale ma è una guerra di classi, fra le classi moderne dei più moderni paesi: una guerra della borghesia contro il proletariato. Il mondo non si divide fra Paesi ricchi e Paesi poveri, ma fra la internazionale classe borghese possidente e la internazionale classe lavoratrice spossessata, che dovranno tornare in aperta guerra a morte fra loro, tanto nel Nord quanto nel Sud.
Le sofferenze, spesso atroci, di popoli sottomessi come quello palestinese, algerino, ceceno, curdo, e di decine d’altri, sono quasi sempre il riflesso di uno scontro indotto e imposto dai loro “protettori” imperiali, sono guerre per procura. Proletari palestinesi ed ebrei sono costretti a farsi a pezzi per un gioco che va ben oltre quei pochi chilometri di pietraie (dei quali sono prigionieri ed ostaggi, ché volentieri molti se ne andrebbero, se potessero), che li precipita nella miseria, nel terrore, nella divisione e nell’odio, complici le borghesie arabe, palestinese ed ebrea, ma i fili si tirano a Wall Street, Londra, Parigi, Roma, Riad eccetera.
La grave crisi economica - la peggiore dal 1960, dicono le statistiche - che attanaglia ormai anche il capofila americano del capitalismo, con i corollari dei tracolli nelle borse, spinge sempre più gli Stati al confronto. Inesorabile si accresce la tensione fra i colossali, quanto spregevoli, egoismi delle classi ricche, in un gioco di potenza fra Europa, Giappone, Stati Uniti; all’interno delle vili borghesie europee, che stanno per darsi una moneta concorrente al dollaro; fra europei, giapponesi e americani e i grandi imperialismi emergenti in Asia.
A questa crisi e a questo conflitto inter-imperialista, che troppo a lungo si è costretto nei limiti delle contese commerciali, il capitalismo ad un certo punto deve dare sfogo militare. La guerra generale sarà fra gli imperialismi, fra i massimi blocchi imperialisti, come lo sono state la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. È la guerra che cova sotto le ipocrisie diplomatiche, le alleanze militari e le professioni di solidarietà.
Il militarismo è il vero volto del capitalismo, e in particolare delle capitalistiche democrazie.
Chiunque abbia dirottato i Boeing ha scelto il momento giusto per la conservazione del Capitale, così come gli obbiettivi, un edificio-simbolo militare ed uno pieno di lavoratori, adatti a ricompattare le opposte classi delle società occidentali. Preti barbuti svolgono la loro parte ingannando le masse diseredate dei paesi poveri e deviando la loro rivolta di classe verso il nazionalismo e il fanatismo religioso.
Nemmeno la classe operaia del Nord se aderisse alla guerra difenderebbe i suoi miseri, inesistenti, privilegi di cittadini dell’Occidente ricco, ma avrebbe solo da soffrirne morte e accresciuta miseria, come già l’esperienza di due terribili guerre e di due non migliori dopo-guerra dovrebbe averle insegnato.
Anche in Italia tutti sono scattati sull’attenti all’ordine dall’alto, tutti, partiti, giornalisti, sindacati del regime. «La guerra c’è - dicono - bisogna rispondere. Contro chi ve lo diremo poi, ma certo è che presto, voi proletari, dovrete andarci!»
Il proletariato, alla guerra borghese - che è guerra prima di tutto contro la lotta operaia e di reazione contro il Comunismo - oppone il principio della solidarietà internazionale dei lavoratori. I lavoratori devono opporsi alla guerra imperialista, e a questo fine non bastano le maledizioni o la pressione di pubbliche opinioni, ma occorre opporre alla forza borghese la forza della mobilitata classe lavoratrice.
Ma in mancanza del loro partito i lavoratori sono nelle mani degli
stregoni borghesi e opportunisti che li ipnotizzano con la rinascente,
imbecille, retorica guerrafondaia, razzista, religiosa, sciovinista. Quindi
può impedire la guerra solo un’organizzazione difensiva di classe
estesa,
allenata e combattiva. E occorre un Partito Comunista che la diriga,
perché solo con la guerra rivoluzionaria tra le classi per l’abbattimento
del regime infame dello sfruttamento del lavoro salariato il proletariato
potrà impedire l’ulteriore sopravvivenza del nostro feroce, preistorico,
nemico.
Periodicamente gli Dei del Capitale hanno sete di sangue ed esigono il colossale sacrificio di proletari di tutti i paesi. Ma se il capitalismo è gravido di guerra i borghesi non possono partorirla a comando, deve maturare con i suoi tempi necessari legati alla crisi economica generale e alla sua preparazione particolare, che è materiale, diplomatica e sociale.
«LA GUERRA C’È GIÁ»
Occorre sgombrare il campo della falsa alternativa pace-guerra, nella secolare continuità della crisi mondiale degenerativa del tardo capitalismo, al di sopra delle più generali visioni strategiche e delle contingenti analisi economiche. «Ma la guerra c’è già!», hanno detto in coro. Non ci stupiamo, è una nostra tesi, da noi sostenuta ben prima dell’attacco alle “torri gemelle”: il capitalismo è guerra sempre, anche quando si finge pacifico, fra Stati, fra capitali, fra aziende, fra classi. La guerra di tutti contro tutti. In tutto questo secondo dopoguerra – e così lo chiamano – la guerra non è mai cessata, né la corsa agli armamenti. E ovunque la minaccia di guerra. Occorre riproporre che «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi», anche e specialmente per gli imperialismi moderni?
Gli esperti militari borghesi occidentali si pongono il problema di definire le leggi, le tattiche e le strategie di questo nuovo tipo di conflitto elaborando il concetto di guerra asimmetrica. Prima di loro, dopo la guerra del Kosovo, i militari cinesi avevano studiato la guerra senza quartiere. Sta di fatto che da Est ad Ovest la borghesia abbandona le formule ipocrite di guerra umanitaria e di peace keaping ripiegando sul vecchio tipo di guerra di annientamento e di terrore nei confronti degli Stati, delle organizzazioni e degli individui che rifiutano di accettare la legge del più forte e più in generale l’ordine capitalistico.
Hanno così inventato la guerra al terrorismo, vuota espressione essendo questo solo uno strumento, una tecnica militare, che tutti possono usare e usano, non un nemico, un obbiettivo, una forza su cui prevalere. Ma ben s’attaglia alla permanente esigenza di cieca distruzione del Capitale. Così come sarebbero le infiltrazioni dei terroristi, il nemico del Capitale è annidato nel Capitale stesso, tanto più pericoloso e ostile quanto più è produttivo, modernamente occidentale (ma ormai l’Occidente è il Mondo, Islam compreso); il suo fronte di battaglia è diffuso nella sovrapproduzione del suo ipertrofico capillare apparato di produzione e distribuzione globale. Il suo reale storico avversario non è da cercarsi in una diversità di razze colorate, scismi religiosi o nazioni oltremare ma al suo interno, è la classe operaia che va immolata alla conservazione del Capitale, portatrice seppure ignara del Comunismo che – oggettivo e materiale – preme dietro la sempre più ignobile ma non meno istupidente cortina mediatica. Come la guerra al terrorismo cui si preparano, le guerre imperialiste non hanno un fronte, una strategia, un proprio obbiettivo geo-storico se non quello della distruzione indiscriminata di merci e di forza lavoro attraverso i continenti.
È la classe operaia che stenta ad accettare la sfida, incassa colpi nella guerra che incessantemente le muove il Capitale, perde terreno, si scompagina e ancora non riesce a riordinare il suo di eserciti anche solo a scopo difensivo contro il peggioramento delle sue condizioni. Dispersa e atterrita dalle grida del nemico viene facilmente ingannata e spinta davanti ai cannoni. Moralmente la classe è inerme se priva del suo partito.
Come potrebbe capire, come rispondere, priva dell’orientamento storico che solo il partito marxista detiene, alla vera guerra psicologica cui viene già sottoposta e della quale abbiamo sotto gli occhi i nauseanti prodotti. Si ricorre da parte del regime a tutti i tipici espedienti della propaganda di guerra, utilizzando senza remore i più schifosi pregiudizi razziali e religiosi. Si noti, altra vecchia tesi del comunismo di sinistra, che a montare la canea bellicista si trovano perfettamente attrezzati gli Stati a governo democratico e come la libera rappresentanza popolare non trattenga affatto da una rigorosa seppure auto-imposta censura di guerra: sul Corriere non hanno esitato ad emendare perfino un Padre-della-patria nonché Nobel come Dario Fo!
LE TORRI DI BABELE
Dopo il 1929 i rovinati magnati della finanza si gettavano dalle finestre dei loro uffici nei grattacieli di Manhattan. Stavolta a schiantare giù sono i palazzi stessi, con i loro abitatori, padroni e proletari. La fragorosa rovina del Centro dei Traffici Mondiali, centro sia reale sia nella orgogliosa simbolica capitalistica, ben rappresenta il dramma di una umanità lavoratrice che, costretta alla nomenclatura del Denaro e del Profitto, ha smarrito ogni parola realmente, semplicemente, umana, e, lacerata in questa inversione dei segni, non più riesce a lavorare, né a vivere, insieme.
L’inizio della fase recessiva delle produzioni a livello mondiale precede gli aerei-bomba su New York: sono arrivati al momento giusto. Con la crisi anche in Usa nessuna area capitalistica appare più in grado di far da traino all’economia; nemmeno del tutto convince il tentativo di costituire un polo economico-produttivo europeo che si ponga in concorrenza con quello americano. Intanto le ripetute crisi di borsa, rovinando i piccoli risparmiatori, spingono alla concentrazione verso i massimi gruppi della finanza.
Come presso le popolazioni primitive è sufficiente invocar l’acqua che piove, nel capitalismo basta chiamare la guerra che subito le borse iniazino a riprendersi; il tonico di una minaccia bellica basta a far star meglio gli sconvolti investitori e i cinici manovratori di capitali. Dove è guerra, per chi ha già tanti soldi, c’è da guadagnarne ancor di più.
E guerra vuol dire economia di guerra. Tutti i conti sono da rifare. Non importa che la guerra non sia dichiarata, che non si sappia nemmeno contro chi si faccia. Quale migliore occasione per svincolarsi da ogni impegno commerciale con i concorrenti, per giustificare con l’emergenza ogni sovvenzione e assistenza dello Stato ai capitalisti, precursori di nuovi protezionismi e isolazionismi. La forza torna a giocare il suo ruolo, per quel che può, sull’economia. La guerra è un ramo d’industria, che gode di un mercato particolarmente protetto: se lo protegge. E quale occasione addebitare al nemico talebano fallimenti già stramaturi, come quelli di alcune comagnie aeree!
CASUS BELLI
Pare che gli investigatori abbiano trovato le prove di colpevolezza, incredibilmente, già quasi il giorno dopo, di mandanti, complici ed esecutori del massacro; roba che pareva lo sapessero prima! Guarda caso, si scopre essere questi nella maggioranza di nazionalità saudita, di quell’infido e difficilissimo pseudo-alleato del Golfo, che ha però il pregio di controllare il fiume di petrolio che è il sangue del capitalismo, e della guerra. E nemmeno reclutati tra le miserabili masse arabe schiacciate dalla miseria e dallo sfruttamento, ma provenienti da strati alti del corpo sociale.
Si scoprono le responsabilità del terrorismo islamico, ieri usato spregiudicatamente contro altri predoni, ora minaccia della civiltà occidentale. Questa guerra, tra tanti apparenti ripensamenti e contorsioni strategiche, si sta approssimando al suo esito combattuto, pur nella forma paradossale ed incredibile di una superpotenza bardata di strumenti di morte oltre ogni immaginazione contro una banda di assassini-straccioni foraggiati sino ad ieri per destabilizzare l’influenza dell’imperialismo sovietico nella zona. Azione per giunta accompagnata – come ce ne fosse bisogno! – dall’apparente esultante accordo di tutto il resto del mondo che accorre prono alla chiamata del forte padrone.
Una volta che i rischi di destabilizzazione dell’intera area, che hanno consigliato poi prudenza rispetto all’iniziale piglio militaresco dei teatranti di Washington, saranno stati valutati e misurati e ritenuti accettabili, che l’apparato logistico sarà messo a punto, che gli interessi delle diverse lobbie statunitensi più o meno favorevoli al conflitto saranno adeguatamente mediati, la sanguinaria rappresentazione contro l’idra terroristica potrà avere in
Non ha nessuna importanza che gli studenti islamici (già, gli studenti...) siano stati fino ad ieri armati, mantenuti, sostenuti e difesi; non importa che da quella fonte scaturisca la metà della produzione mondiale di droga, che, anzi, parte dei proventi di quel commercio di morte sono stati, e lo sono tuttora, utilizzati per finanziarsi da parte di quell’Intelligence che pretende di combattere per la libertà dell’Occidente.
Ecco quindi che i nemici dell’Alleanza del Nord, satrapie macellaie e corrotte come gli avversari studenti di teologia, fino a questo punto sbandati ed abbandonati dal sostegno militare e finanziario americano che aveva scelto l’appoggio all’altro campo, diventano con uno straordinario coup de teatre i nuovi paladini della restaurazione legale in Afghanistan.
LA VIA DELLA SETA - E DEL PETROLIO
Il marxismo rivoluzionario, di fronte all’azione militare dell’11 settembre nei cieli d’America, al di là della vuota alternativa fra assoluzione-giustificazione-condanna, studia i fenomeni per comprendere ed agire. E nel caso specifico capire quali determinanti storiche hanno portato a quell’azione e quali effetti potrà avere sugli equilibri fra Stati e sui rapporti complessivi delle classi fondamentali.
L’inevitabile declino della potenza economica americana, come già fu per l’Inghilterra, li costringe ad elaborare una strategia per affrontare i gravi problemi geopolitici che si aprono sull’immensa area dell’Eurasia compresa nell’ovale di Brzezinski: il triangolo i cui vertici sono i Balcani, il Medioriente e il Caspio, con le sue propaggini caucasica ad occidente e dell’Asia centrale ad oriente. Da questi poli si irradiano potenti onde perturbatrici che percorrono tutta la regione.
La suddivisione dello Stato Iugoslavo nella penisola balcanica; la mancata soluzione della questione nazionale nel Medioriente, con l’indebolimento progressivo dello Stato mercenario d’Israele non compensato dall’asse Telaviv-Ankara; lo sbriciolamento delle oligarchie degli staterelli arabi asserviti all’occidente, hanno già costretto gli Usa ad esporsi direttamente nel 1991. La borghesia statunitense è consapevole della vulnerabilità dei propri interessi nell’Asia centrale, in cui si è creato un vuoto di potere col crollo dell’Urss, che gli Usa tentano di riempire.
L’Asia centrale è la seconda riserva mondiale di energia e per quanto riguarda il gas è all’altezza del Medioriente. Considerata l’alta instabilità dei paesi del Golfo è divenuto prioritario per i paesi imperialisti acquisire un vantaggio decisivo nella produzione e nel controllo delle vie di accesso al mercato. Il secondo aspetto collega direttamente la questione Caucaso-Caspio-Asia centrale con quella balcanica: chi controlla i corridoi tiene per la gola gli avversari. Da qui i contrasti Usa-Europa nei Balcani e Usa-Russia e Usa-Iran in Asia centrale. E si osservi che nemmeno la Cina può correre il rischio di essere emarginata dall’Asia centrale.
Fino al 10 settembre lo strumento principale di penetrazione Usa nell’area era costituito dal Pakistan-Afganistan, utilizzati per destabilizzare le repubbliche ex sovietiche dell’area e la Cecenia. Uno dei primi effetti degli attentati su New York e Washington è costituito dal riavvicinamento Usa-Russia che se si concretizzerà in alleanza strategica avrà effetti dirompenti ad occidente verso l’Europa e ad oriente verso la Cina. Su almeno due fronti dei tre vertici del triangolo Europa ed Usa sono in collisione, Balcani e Medioriente. E’ probabile che un’alleanza Russia-Usa aprirebbe alla lunga un terzo fronte in Asia centrale.
L’Europa, che ha già pagato un primo prezzo in termini economici per colpa delle manovre borsistiche degli investitori istituzionali americani, si è offerta, per eccesso di libidine, di servire anche sul fronte militare con l’accettazione dell’interpretazione estensiva dell’articolo cinque del trattato Nato fin dal giorno 12. Al solito toccherà al proletariato europeo pagare il prezzo della cambiale in bianco emessa a favore degli Usa dalla sua borghesia, che dal 1945 striscia prona sotto il knut americano.
È TERZA GUERRA?
Anche se il crollo delle torri di Manhattan ha colpito pesantemente l’immaginario collettivo della borghesia mondiale, che ha temuto per breve istante di essere sull’orlo del crollo del suo sistema economico, non ha cambiato nulla nella dinamica economica del ciclo capitalistico e nel quadro generale dei rapporti di forza interimperialistici. Siamo sempre nella fase del riposizionamento delle potenze imperialistiche sullo scacchiere mondiale, col solito balletto di alleanze che tutto sono meno che di ferro, dinamiche storiche già in atto e fornite d’una enorme inerzia interna.
La prossima guerra intercapitalistica non la sarà certo la guerra santa dell’Islam. Perché la guerra tra Stati si riaffacci prepotente alla ribalta dei tempi si attende la fase storica della crisi catastrofica e del riarmo degli Stati vinti nella seconda guerra, del risorgere del militarismo alla scala mondiale. Potrà anche assumere, in certe fasi e zone, i connotati della Jihad, ma nella sostanza sarà da entrambe le parti guerra del capitalismo e per il capitalismo.
Sempre sotto l’egida dello scontro del Bene contro il Male, dove in verità Bene e Male sono accomunati dalla stessa cinica e sanguinaria voglia di guerra, di rapina e di sfruttamento del lavoro salariato.
O Rivoluzione proletaria internazionale, o Terza guerra imperialista
mondiale; o guerra tra le classi, o guerra tra gli Stati.
Solo quando questo giornale sarà già stampato verrà approvata dal parlamento la Legge Finanziaria, ma già se ne conoscono i termini. Ulteriormente aggravata nei confronti della classe operaia col pretesto delle “spese di guerra”, è proposta da un governo di destra, ma per niente meno pesante sarebbe stata se la maggioranza fosse della “sinistra” opportunista.
La Finanziaria implicherà nuovi tagli alle già risicate prestazioni sociali del welfare, vista la demagogica promessa del governo di non introdurre nuove tasse. In particolare sarà reso più “flessibile”, per usare lo schifoso termine iper-abusato, il mercato del lavoro, “liberalizzando” totalmente i contratti a tempo parziale e a tempo determinato e introducendo il “contratto a progetto”. Al momento non sono chiari i contorni di questa nuova formula di rapporto di lavoro, con tutta probabilità è un modo elegante per descrivere la nota pratica della commessa in cui il lavoratore sarà utilizzato dall’impresa solo il tempo strettamente necessario. Vi sarà poi qualche legge che consentirà le nuove assunzioni in deroga allo Statuto dei Lavoratori, in particolare senza il vincolo dell’art.18 che in teoria vieta i licenziamenti senza giusta causa.
Ora i sindacati di regime, nonché i partiti e i partitini della ex maggioranza di governo fanno la voce grossa, ma dovrebbero spiegare come mai disegni di legge simili erano simbolo di modernità e di progresso quando a proporli erano il ministro ulivista Treu e i giuristi della sua stessa “area” come il prof. Giugni.
Per quanto riguarda il capitolo pensioni si vogliono abolire quelle di anzianità e ben prima del 2004, come previsto dalla riforma Dini, e la defiscalizzazione degli utili sulle pensioni private. “Momentaneamente” sembra ridimensionata la proposta di aumentare le pensioni minime, causa carenza di risorse.
È mantenuto però la promessa di una riduzione dell’Irpeg alle imprese, un bel regalo alle moltitudini di aziende che regolarmente lavorano in nero, sfruttando mano d’opera disperata disposta a tutto.
Previsti 500 miliardi al Viminale (prevedono quindi di aver bisogno di birri), mentre tutti gli altri ministeri saranno soggetti a tagli.
Ripetiamo ai lavoratori, ai disoccupati, italiani o immigrati, che responsabile
di tutto questo non è il “governo di destra” ma tutta la classe
borghese padronale. Occorre rifiutare i canti delle sirene “progressiste”,
ed unirsi in un unico fronte di classe contro il Capitale, organizzandosi
per la lotta in difesa delle esclusive condizioni operaie.
La centralizzazione finanziaria - [Resoconto esteso] La complessa dialettica fra partito e classe - New economy e Stati Nazionali - [Resoconto esteso: Italiano - Español ] Relazioni sulla attività sindacale.
La riunione autunnale del partito si è tenuta a Torino sabato 22 e domenica 23 settembre scorsi, alla presenza della rappresentanza di quasi tutti i nostri gruppi.
Come prevedibile abbiamo dedicato ampio spazio alle valutazioni dei gravi avvenimenti internazionali in corso, sia al primo incontro fra compagni al venerdì sera, sia nella riunione preparatoria del sabato mattina, sia nelle implicazioni che facilmente i relatori hanno tratto dall’esposizione dei rapporti, benché preparati prima della crisi. Abbiamo rilevato come la visione pessimista del marxismo di sempre sull’evoluzione del capitalismo e delle sue forme politiche trovi riscontro nella piega che sta prendendo lo scontro fra gli imperi, improntato al militarismo e all’orientarsi aperto di tutti gli strati borghesi e piccolo borghesi verso la soluzione bellica, di fronte alla messa in forse dei loro privilegi nel precipitare della crisi.
Il partito è cosciente che nessun movimento pacifista fondato sul convergere di più classi sarà mai in grado di arginare la catastrofe della guerra, compito che è atteso solo da una classe operaia in piedi, organizzata nei sindacati, allenata alla lotta e diretta sul terreno della comunismo dal suo partito rivoluzionario, la ricostruzione delle quali strutture e materiali esperienze sappiamo richiede tempi non brevi. Se compito del partito non è quello, con le sue sole forze, di fare la rivoluzione, ugualmente non è chiamato, a comando o per scelta, ad impedire la controrivoluzione. La funzione della nostra piccola compagine di partito – che non è fuori della storia ma è e deve rimanere sempre la stessa – è mantenere acceso e operante in vista alla classe il punto fermo indicante, nella presente totale oscurità, la rotta segnata verso la negazione rivoluzionaria del capitalismo.
Forse oggi un’avanguardia della classe, giunta al fondo di questo suo punto zero, da tutti apertamente tradita e abbandonata, è nelle condizioni di nuovamente intuire, schierarsi e comprendere i sui vecchi postulati e ordini di battaglia.
Oltre a questi argomenti non è stato trascurato l’ordinamento dei restanti temi di studio, dall’economia alle diverse questioni storiche, e al piano della nostra stampa periodica internazionale.
Diamo qui, come di consueto, un primo resoconto delle relazioni.
Il dominio
dell’Imperialismo
LA CENTRALIZZAZIONE FINANZIARIA
Il primo rapporto, esposto al sabato pomeriggio, ha proseguito nello studio sul capitale finanziario, legato allo sviluppo dell’imperialismo caratterizzato dalla centralizzazione delle grandi imprese “che governano il mondo”. Già all’inizio secolo, citazione riportata anche da Lenin, ci si chiedeva quante fossero le “persone” che dirigevano i destini economici mondiali: noi abbiamo riportano le attuali statistiche dei profitti delle maggiori aziende “globali” rispetto ai quali si riduce quasi a niente il Pil dei paesi poveri e “in via di sviluppo”.
Per meglio comprendere le linee principali della teoria marxista venivano
presentate e commentate una serie di citazioni dal secondo e terzo libro
de Il Capitale, nonché alcune altre da L’Imperialismo
di
Lenin. Venivano poi descritte le tappe del capitale finanziario tramite
i dati e la critica di due studi dell’attuale economia borghese, in particolar
modo quello del Fmi. Dai dati di quest’ultimo, suddividendoli in cicli
brevi, si commentava lo sviluppo dal 1900 alla Prima Guerra Mondiale, da
questa alla Seconda e da questa, tramite gli accordi di Bretton Wood, fino
al 1974. Dal periodo in cui si avvia la ricostruzione post bellica il movimento
del capitale finanziario è fortemente regolamentato dalle banche
centrali e dai governi degli Stati più forti e tocca il suo minimo
storico. La crisi economica del ‘74 pone fine a quegli accordi internazionali
ed apre un altro ciclo breve, fino ai nostri giorni, in cui si accentua
la centralizzazione finanziaria.
LA COMPLESSA DIALETTICA FRA PARTITO E CLASSE
Il rapporto, che ha seguito quello della riunione scorsa su Partito e Classe, concerneva la questione dei sindacati in Marx e in Engels. Si può sintetizzare nei seguenti punti:
1) L’attenzione prestata dai nostri maestri alla lotta sindacale è l’opposto dell’indifferenza che in materia esprimeva il socialismo utopistico pre-marxista. La lotta sindacale è insopprimibile fattore materiale e leva rivoluzionaria. Nello sviluppo della lotta cambia i proletari stessi e materialmente li spinge al superamento dei limiti di lotta categoriale e li avvia al raggiungimento di fini politici rivoluzionari. Ma, se la lotta sindacale viene chiusa all’indirizzo del partito rivoluzionario, di per sé rimane nei limiti della conservazione di questa società, che solo in brevi fasi del suo ciclo economico può consentire condizioni di vita appena meno dure per gli operai. Solo nella maturazione dei suoi fini difensivi in lotta politica per la distruzione del potere borghese, che può aversi con l’intervento nelle lotte sindacali dei comunisti, esse assurgono a strumenti della lotta rivoluzionaria;
2) Fino al 1847 l’attività di Marx ed Engels ebbe poca l’influenza sul movimento proletario, pur già radicale. Solo nel 1847 la Lega dei Comunisti, costretta a comprendere nei fatti l’esattezza della loro teoria, invitava i nostri alla guida dell’organizzazione e chiedeva loro di stendere un programma-Manifesto che superasse radicalmente i suoi precedenti limiti teorici. L’attività della Lega, guidata da Marx ed Engels, fra il 1847 ed il 1850, fu notevolissima sia sul piano teorico, con i vari lavori pubblicati nella Nuova Gazzetta Renana, sia sul piano pratico, con la partecipazione diretta dei suoi militanti, in quegli anni infuocati, alla Rivoluzione in Europa. Dal 1850, sconfitte le rivoluzioni, la potenza della controrivoluzione si fece sentire pesantemente sul movimento proletario. La sconfitta provocò fra i comunisti un attivismo ed un opportunismo che spinsero i nostri alla scissione. Fra le critiche che Marx ed Engels muovevano all’ala opportunista emergono le seguenti: «I democratici santificano la parola popolo, voi la parola proletariato. Come i democratici voi mettete la retorica rivoluzionaria al di sopra dello sviluppo rivoluzionario». «Ho sempre contrastato l’opinione corrente del proletariato».
Dal 1850 al 1864 i nostri rifiutarono di appartenere ad alcun partito, dedicandosi principalmente alla teoria, allo studio della dialettica storica e dell’economia politica, nell’attesa di poter tornare alla guida del movimento rivoluzionario, appena le condizioni materiali lo avessero permesso;
3) Nel 1864 Marx si ritrovò infatti a guida dell’appena nata Associazione Internazionale dei Lavoratori. Le lotte sindacali in questi anni si fecero notevoli ed in pochi anni numerose e potenti Trade Unions in Inghilterra aderivano all’Associazione. Ma i loro dirigenti non riuscirono mai a superare le concezioni più anguste della lotta economica. Le posizioni marxiste sulla questione sindacale, poste dai nostri già prima del 1848, in questi anni sono ribadite appieno;
4) Al Congresso dell’Aja Marx denunciò la corruzione delle Trade Unions inglesi, in quella nuova fase di controrivoluzione che si stava aprendo. Dopo affermata la «indispensabile costituzione del proletariato in partito politico», vi si codifica che «la coalizione delle forze operaie, già ottenuta attraverso la lotta economica, deve anche servire da leva in mano a questa classe nella lotta contro il potere politico dei suoi sfruttatori».
Negli anni che vanno dal 1872 al 1890 Marx, poi il rimasto solo Engels,
devono però criticare duramente la corrotta prassi dei sindacati
dell’epoca. A quelle lotte economiche Engels rimprovera soprattutto sia
la chiusura categoriale sia di difendere esclusivamente strati di lavoratori
qualificati. Col fatto che questi sindacati siano composti esclusivamente
dall’aristocrazia operaia, Engels ne spiega la mentalità conservatrice.
Cosciente che il movimento esteso e combattivo del proletariato non può
nascere per volontà di alcuno ma per il concorrere di date condizioni
materiali, soltanto nel 1890 Engels potrà salutare finalmente un
risorto, vasto, robusto e combattivo movimento difensivo abbracciante l’insieme
della classe operaia.
Alla domenica mattina ascoltavamo un esposto sugli aspetti politici – modernamente falsificati – dell’imperialismo. La questione Stato rimane centrale per noi, nonostante che nel panorama della new economy si tenti di far credere che tutto passi per il gioco delle Borse, con i suoi profitti ora impennati oltre limiti inimmaginabili, ora a capofitto, anche senza barbe talebane. Nel quadro della globalizzazione, che per il marxismo significa aumento e parossismo nello scontro fra gli Stati, non soltanto non è da illudersi a proposito d’un presunto governo mondiale, ma anche a proposito di organismi sovranazionali d’ordine territoriali o d’area, quali zona Euro.
Ciò non significa negare che determinati Stati e nazioni non tentino di trovare accordi politici e militari in grado di fronteggiare altre aree in sviluppo o in crisi. Significa sostenere, per tesi, che la competizione imperialistica non può evitare la distruzione creativa, come la chiamava Schumpeter, che per noi, in termini più crudi, comporta l’alternativa chiusa: guerra interimperialista o rivoluzione proletaria.
Poiché le condizioni del proletariato a livello politico mai avevano toccato un picco negativo così evidente, dopo il crollo del mito Russia e il passaggio armi e bagagli dello ex-opportunismo nel campo avverso, è difficile sostenere che la tendenza alla guerra possa oggi essere preventivamente rovesciata dal movimento operaio a livello mondiale. Ciò non toglie che i lavoratori saranno costretti ad aprire gli occhi e ad organizzarsi su una nuova base veramente classista, quanto più scopriranno che il gioco degli Stati e il legame con la loro appartenenza non produrrà che sottomissione ulteriore e rovina.
Compreso in questo affrontarsi fra gli Stati è l’utilizzo del terrorismo, sia locale sia internazionale, come è stato dimostrato dagli eventi d’America: il presunto nemico invisibile di cui si parla non è che lo scontro tra interessi che ancora non hanno trovato una sistemazione chiara di schieramento tra i colossi della guerra. Da ciò questo muoversi alla cieca, in nome della difesa della civiltà dalla barbarie, come già avvenuto in due guerre imperialistiche che hanno portato allo scompaginamento dell’organizzazione politica del proletariato.
Non è vero, quindi, che gli Stati non hanno più una
funzione! E c’è tempo per la comunistica amministrazione
delle cose, di cui parla Engels!
RELAZIONI SULLA ATTIVITÁ SINDACALE
Ascoltavamo infine tre brevi comunicati dei compagni impegnati, rispettivamente, fra i macchinisti delle FS, fra i telefonici e fra i ministeriali.
Dopo lo sciopero proclamato dall’ORSA ad inizio estate e rimandato per la precettazione governativa, stessa situazione si è verificata il 12 settembre, sciopero nazionale dei macchinisti CoMU contro l’introduzione da parte dell’Ente FS dell’apparecchiatura vigilante – necessaria a tener sveglio l’introducendo Agente Unico – a partire, dall’anno 2001, dalla Sicilia, Sardegna e Trentino Alto Adige sulle motrici diesel; a seguire su tutte le motrici, anche elettriche. Altra precettazione con motivazioni inconsistenti che dimostra che esiste da una parte la debolezza dell’apparato, compresi i Confederali, debolezza che è molto forte, dall’altra che la linea “nuova” del governo prevede approcci meno morbidi, vista l’inconsistenza della risposta operaia.
Il problema però non è certamente questo, che rientra nelle dinamiche della lotta sindacale, quanto la situazione interna del CoMU e, conseguentemente, della nascente ORSA. Quella che noi abbiamo sempre definito “sinistra sindacale”, e che nel CoMU ha i tratti di coloro che vogliono sempre e comunque trattare, ha rialzato la testa in concomitanza con l’offensiva di autunno delle FS. La Lombardia ed altri due compartimenti hanno siglato, contro la disciplina nazionale, accordi per l’estensione dell’Agente Unico e dei carichi di lavoro. Richiamati ed arginati su questo dagli altri compartimenti stanno dimostrando una doppiezza di condotta nuova per l’organizzazione: a Roma, dinanzi agli attacchi di Toscana Sicilia Bologna Calabria Sardegna Napoletano, fanno sempre un passo indietro per poi tornare a casa loro e gestire nella massima libertà direttive ed accordi. Occorrerebbe ormai dare il via ad una forma minima di organizzazione dei compartimenti sani, cosa che sinora non è mai stata fatta per la convinzione dei lavoratori che comunque, nei momenti topici, il Coordinamento saprà cavarsela. Qualche passo avanti è stato fatto, un minimo di collegamento telematico esiste ed anche l’ultima riunione nazionale è stata meno succube del carisma di singoli personaggi.
Certamente la situazione non è delle migliori perché nel frattempo niente si muove e l’ORSA rimane nelle mani dei “sinistri” e della FISAFS che può sfruttare la sua preesistente rete organizzativa.
Sui telefonici è stata data lettura della relazione che riportiamo per esteso in altra pagina di questo stesso giornale.
Concludevamo sulla questione sindacale e sulle nostre responsabilità di comunisti. Nella nostra attività sindacale noi dobbiamo rappresentare la coscienza storica di quello che dovrà essere l’organizzazione sindacale operaia. Fare ma soprattutto insegnare a fare, impegnarci ma soprattutto essere portatori delle nostre posizioni e critiche. Bisogna evitare che, dopo aver svolta la funzione dei critici indefessi e puri, senza batter ciglio facciamo nostra la posizione opposta, quella cioè del servitore del lavoratore, delle sue ubbie e debolezze. Il quesito reale, al quale non è certo facile rispondere, è se è possibile lavorare da comunisti, se cioè, oltre ad essere identificati come ideologicamente rivoluzionari, internazionalisti eccetera, si è identificati come portatori di atteggiamenti e comportamenti da comunisti, perché quello che si fa, che è per i lavoratori mille volte più importante di quello che si pensa e si dice, non può contraddire ciò che intendiamo per organizzazione di classe.
Non è facile stabilire un decalogo di comportamento che risolva i dubbi della nostra attività sindacale, ma possiamo certamente affermare che se dovessimo proprio enunciare delle regole di comportamento bisognerebbe incominciare da norme morali, che bisogna prima di tutto essere degli onesti compagni di lavoro, base indispensabile per meritare la fiducia dei lavoratori. Oltre questo generale stile personale, altre regole forse non bisogna nemmeno stabilirle, ed il militante nel condurre la quotidiana attività sindacale deve lasciarsi guidare dal buon senso e dalla coscienza che quasi mai bastano slogan e frasi fatte. Dopotutto che cosa è la questione sindacale, se non il rimanere a fianco dei lavoratori, che hanno sì le loro incertezze ed idee sbagliate, ma che, muovendosi, intuitivamente cercano la loro strada, cioè quegli atteggiamenti di classe su cui noi costantemente martelliamo?
Sono evidenti i limiti delle organizzazioni sindacali che ci vedono attivi e sicuramente è tutta la debolezza della situazione che è un primo ostacolo alla propaganda delle nostre posizioni e dei nostri atteggiamenti. L’arretrata situazione e tutti i limiti organizzativi ecc., non si risolvono né giustificano però un impegno a metà dei compagni coinvolti, i quali, inevitabilmente, in quanto comunisti, divengono un ingranaggio preciso inserito in necessarie determinazioni materiali, e si ritrovano, dopo aver svolto tutte le critiche possibili ed immaginabili, talvolta a partecipare ad iniziative e lotte sulle quali avremmo, in astratto, molto da ridire.
A queste contraddizioni fino a dove, fino a quando dovremo sottostare?
Fino a dove e fino a quando riterremmo necessario preservare l’unità
organizzative di quelle organizzazioni, fino a dove e fino a quando quelle
organizzazioni non si mettano di traverso e contro il processo della ricostruzione
dell’organizzazione sindacale di classe.
Demagogia sgonfiona in Venezuela
Quel che valga la rivoluzione bolivarista è ormai evidente per la maggior parte dei lavoratori del paese, impegnati attualmente in scioperi e manifestazioni nelle principali città venezuelane. Lo sciopero dei lavoratori di un settore chiave come l’industria petrolifera ha fatto sì che il governo di Chaves mobilitasse anche l’esercito contro gli scioperanti. Ad esempio di come il governo bolivarista adempie ai suoi impegni c’è la mancata corresponsione dell’aumento del 15% accordato ai dipendenti pubblici a metà dell’anno passato.
Epidemie del bestiame
Che capitalismo e vita sana siano incompatibili è quel che si incaricano di dimostrare i fatti quotidiani della società mercantile. Le centinaia di migliaia di capi di bestiame inceneriti perché appestati a causa delle cattive condizioni in cui sono tenuti è la ennesima dimostrazione del fallimento del sistema borghese nel reggere i destini della società umana. Solamente la società socialista, che abolisce il valore di scambio dei prodotti e che considera solo il loro valore d’uso, potrà garantire che gli alimenti che consumiamo siano realmente alimenti e non veleno.
Sindacalismo d’alta quota
La nuova campagna del sindacato spagnolo UGT per l’orario settimanale
di 35 ore fa ricorso ai metodi classici della lotta di classe come l’alpinismo.
Hanno pensato infatti di piantare una bandiera con il motto delle 35 ore
sull’Everest, mentre già l’hanno fatto sull’Aconcagua (in Cile,
6959 m!) e sul Kilimangiaro. E’ sicuro che prodezze simili produrranno
effetto a brevissima scadenza e che i lavoratori di tutti continenti godranno
presto della settimana di 35 ore.
6. BASI ECONOMICHE DELLA RIVOLUZIONE ALGERINA
(Continua dal numero scorso)
Progressi e contrasti fra i telefonici
La situazione di questi mesi ha confermato i termini fra i quali si viene a svolgere il lavoro dell’opposizione sindacale fra i lavoratori telefonici.
1) Si conferma l’estrema difficoltà della struttura sindacale confederale ad avere una apprezzabile influenza sui lavoratori ed anche alla sua stessa sopravvivenza. L’opportunismo sindacale basa essenzialmente la sua forza sulla possibilità di corrompere con mille prebende strati non trascurabili della categoria. Ma i nostri ultimi contratti sono stati delle autentiche bufale sia da un punto di vista salariale sia normativo. A livello salariale il contratto telecomunicazioni è praticamente uguale a quello metalmeccanico (nell’ultimo si è avuto un aumento medio biennale di £.75.000 contro le 135.000 dei metalmeccanici, che determinò la rottura della FIOM nei confronti di CISL e UIL) ed anche peggiore per alcuni aspetti normativi (soprattutto riguardo la flessibilità di orari, turni, ecc.) ed il ricorso alle diverse forme di lavoro precario. Dopo l’ultimo contratto imposto la struttura sindacale confederale di base si è praticamente dissolta e tutto è demandato ai vertici nazionali che fanno e disfanno accordi ed accordi su tutte le possibili ristrutturazioni. È qui che ancora l’opportunismo sindacale ha buon gioco perché, di fatto, le varie leggi sociali sono ancora un formidabile paracadute. In nemmeno due anni (dal 1988 al 2000) in Telecom si è avuta una riduzione netta di 13.000 persone, in buona parte accompagnate in pensione con il ricorso alla legge sulla Mobilità e CIGS, o passati ad altre aziende attraverso cessioni. Di fatto nessuna lotta condotta da qualsiasi sindacato di base sarebbe riuscita ad un atterraggio tanto morbido e favorevole per i lavoratori.
2) La piccola rete dell’FLMU è composta da lavoratori onesti ed apprezzati fra i compagni di lavoro, dandosi ad una defatigante attività sindacale. Ma, svolgendosi tutto al di fuori di qualsiasi tipo di riconoscimento contrattuale e di contrattazione, più che altro testimonia, avendo scarse possibilità di mobilitare vaste porzioni dei lavoratori. Con le attuali leggi sugli scioperi nei servizi pubblici qualsiasi sciopero è in Telecom praticamente destinato a non produrre alcun danno (in certi reparti i presidi minimi sono anche il 30% dei lavoratori e poi, con le attuali tecniche di telecomunicazioni, solo con il luddismo sarebbe possibile produrre un danno immediato) e questa situazione è chiaro che tolga ai sindacati di base la loro principale arma. Infine rimangono: propaganda, agitazione e ricorsi alla magistratura.
Pure per queste ragioni c’è una terribile fregola di RSU, viste come panacea da parte di tutti: dei lavoratori, che per qualunque sciocchezza hanno solo la possibilità di subire o di ricorrere alla lex, dei sindacati tradizionali, che sperano in qualche modo di ricostruire una loro rete di attivisti e bonzetti, dei sindacati di base che vedono una via di uscita dalle secche attuali, scioperi minoritari e innocui e ricorso alla magistratura.
3) Questa stentata vita sindacale, questa generale mancanza di apprezzabili movimenti di classe, produce fra i vari gruppetti FLMU-Telecomunicazioni polemichette di tutti i tipi, in particolare fra il gruppo di Firenze e quello di Roma, soprattutto per effetto delle nostre critiche. A parte la questione ultima, anche poco importante (è stato lo sciopero di un gruppo FLMU di Verona insieme ai Confederali, sempre per l’ennesima ristrutturazione e trasferimenti dei lavoratori) effettivamente non si ha un sentire comune, con il bel risultato che alla fine tutto si ripara sotto l’ala protettrice e tranquillizzante del localismo che impedisce qualsiasi sana centralizzazione ed ogni gruppo locale fa quello che più gli aggrada. In realtà tutto questo è inevitabile avendo i vari gruppi origini passate e modalità di essere diversi nel presente e per la mancanza di un movimento reale non trascurabile.
Il gruppo di Firenze gode di un riconosciuto credito e per tutta la sua attività gli viene riconosciuta una forza dirompente e positiva nei confronti di tutta l’organizzazione. Nel tempo abbiamo effettivamente svolto una minima funzione centralizzatrice sia con il bollettino “BIP-BIP” sia con una corrispondenza assai puntuale che ha suscitato irritazioni ed accuse di lesa maestà. È di ostacolo al funzionamento ed alla chiarificazione la mancanza di consolidati strumenti per selezionare una maggioranza ed una minoranza (i Coordinamenti dovrebbero prendere decisioni all’unanimità).
Potrebbe essere altrimenti? Evidentemente no. Solo con una più
significativa attività sindacale, con costante frequentazione, con
confronti e scontri, riusciremmo a realmente portarci tutti sul terreno
giusto, o invece definitivamente separarci. Tutti processi non volontariamente
determinabili. Anche la definizione di una Segreteria ha lasciato le cose
come erano, i vari gruppi possono fare solo una minima azione locale e,
non potendo mobilitare dalle Alpi alla Sicilia, alla fine la Segreteria
ha il solo scopo di facilitare lo scambio di corrispondenza fra i vari
gruppetti, circolazione di idee che ha anche i suoi aspetti positivi.
Divisione e sfruttamento dei lavoratori portuali
La visione ottimistica spacciata a Taranto da tutti gli apparati di consenso del regime (partiti destri e sinistri, sindacati, chiesa, media...) sulla “riconquistata” “vocazione portuale” della città e sua “centralità” sull’orbe terracqueo, neanche fosse la Quarta Roma, dopo l’apertura dello scalo container, foriero di attività indotte e ricchezze future, pur nella retorica di mussoliniana memoria, non può mascherare che l’Evergreen è comunque un’azienda capitalistica che fa profitti sullo sfruttamento del lavoro operaio e che produce anche infortuni e morte. Così come nel non lontano centro siderurgico dove ad agosto un operaio impegnato ad un treno nastri ha preso fuoco per un guasto ad un impianto.
E così dopo nemmeno due mesi di attività, pure a mezza forza, ecco già nel mese di agosto i primi infortuni gravi: un operaio cade da un alto container, un altro è colpito alla schiena da un gancio di una gru impazzita. Tutto questo in uno scenario dove le operazioni di carico/scarico in banchina avvengono con una fretta che presto sarà assassina. Giorno e notte dirigenti e armatori dettano i tempi col cronometro alla mano a giovani lavoratori inesperti – selezionati in questo modo illogico, senza badare alle esperienze maturate col tempo – per essere favoriti dallo Stato nelle agevolazioni contributive e ulteriormente risparmiare sul costo del lavoro.
Mentre a Taranto Evergreen, borghesi e opportunisti brindano con lo champagne all’apertura del terminal container, a Gioia Tauro si sbollisce la sbornia con l’esodo dell’Evergreen verso il porto ionico paventando sicure perdite di posti di lavoro al locale Med Terminal Container, abbandonato dalla compagnia taiwanese, a favore della quale i sindacati di regime avevano accettato, a suo tempo, forme contrattuali “locali” e “meridionali”. Contro il contratto d’area che impone salari più bassi rispetto al CCNL oggi in Calabria i portuali si stanno misurando in una vertenza condotta in un momento di pessima congiuntura internazionale, con traffici diminuiti per via del rallentamento dell’economia americana, e anche locale appunto per il minor numero di container e navi movimentate in seguito al trasloco delle attività Evergreen a Taranto. Si sono messi in concorrenza i lavoratori fra loro e imposti sacrifici “per l’affermazione dello scalo calabrese”, “un’incognita per il trasporto oceanico”, giustificavano lorsignori, come se il Mediterraneo non fosse lo stesso a Gioia Tauro come a Taranto per congiungere i mercati asiatici a quelli nord-atlantici!
Se adesso i portuali di Gioia Tauro sono minacciati dalla concorrenza che l’industria dei trasporti muove contro di loro, anche l’apertura dello scalo di Taranto avviene in un momento di crisi per eccesso di offerta. La crisi di sovrapproduzione, che noi marxisti conosciamo come tipica del capitalismo, è anche risaputa dai borghesi se è vero che un gruppo armatoriale britannico, la Clarksons, in un suo studio deve sostenere, suo malgrado, tale tesi, prevedendo che la flotta container mondiale, raggiungendo la capacità complessiva di 6 milioni di teu entro la fine del 2002, sarà in esubero per il calo dei traffici marittimi dovuto al rallentamento dell’economia mondiale. Tutto ciò significa che presto, nonostante i progetti faraonici di Evergreen a Taranto, i lavoratori legati al mercato del transhipment saranno colpiti da riduzioni di salario e licenziamenti, sul Tirreno come sullo Ionio come su tutti i mari, perché la crisi è mondiale e generale.
Nella stessa Taranto all’Ilva l’inquinamento ambientale ha portato al sequestro giudiziale della cokeria, foriero di 4.000 licenziamenti! Il destino degli impianti di Genova e di quello ionico portano il governo a meditare un disimpegno dalla siderurgia in nome del terziario avanzato.
La classe operaia, che sia primaria, secondaria, terziaria, o
quaternaria
sempre
più sfruttata, senza neanche una guida sindacale genuinamente classista
e allo sbando, dovrà stringersi in un fronte più generalizzato
che produca un organismo sindacale di classe fuori e contro i sindacati
di regime e tutti i loro capo-fila politici. Il partito sarà al
loro fianco.
(Continua dal numero scorso)
Si preparavano nel 1994 tempi ancora più duri per il proletariato. La vittoria elettorale di Berlusconi avviò un ulteriore processo di arretramento del fronte di classe, non per sé, ma in quanto si avviò una martellante campagna di stampa per convincere il proletariato ad attestarsi sul baluardo della difesa, “contro la destra”, delle vigenti condizioni politiche, delle convivenza democratica delle classi. Si invitò la classe a schierarsi a difesa dello Stato democratico e sociale e contro il nemico fascista.
I Cobas-Scuola e tutto il sindacalismo di base, che fino a pochi mesi prima sparavano ad alzo zero proprio contro la “sinistra” accusata di svendere tutte le conquiste del proletariato, con una contorsione a 180° negarono l’evidente continuità della politica antioperaia dalla sinistra alla destra borghese e invitarono anch’essi le avanguardie proletarie a porsi a baluardo contro la controffensiva “fascista”.
Il 29 maggio ‘94 sponsorizzata dal “Manifesto” viene lanciata una manifestazione per la difesa della scuola pubblica, che non fa cenno alcuno della condizione penosa di lavoro e salario degli insegnanti e Ata. L’E.N. dei Cobas-Scuola nel suo manifesto di adesione pubblicato dal “Manifesto” del 14 maggio parla della «necessità di un movimento stabile autorganizzato che, sulla base di un progetto complessivo di riqualificazione, intraprenda concrete azioni di lotta, in una dura contrapposizione e contrattazione con il governo e in un’energica opera di pungolo nei confronti di un’opposizione priva di idee e di voglia di combattere». Notare bene: “pungolare il polo progressista a combattere”, quello stesso polo che aveva bastonato sulla piazza i lavoratori nell’ottobre del ‘92 e aveva collaborato a distruggere tutte le conquiste operaie, compresa la scala-mobile. Lo stesso polo che, aiutato dagli imbecilli dell’Autonomia, dai Cobas e dai sindacati di base, avrebbe, con l’aiuto dell’allora “proletario” Bossi (vedi d’Alema), rovesciato Berlusconi, per riprendere a tartassare in sua vece il proletariato.
I Cobas-Scuola non possono nemmeno accampare la scusa di non sapere a cosa avrebbe portato il successo del “polo progressista” nella scuola. L’ancella critica-critica della “sinistra” Rossana Rossanda aveva scritto a commento della riuscitissima e interclassistissima manifestazione del 29 maggio: «Prendiamo la scuola. Sicuro che dobbiamo tenere fermo che è un diritto al quale vanno solo e tutti i mezzi dello Stato. Sicuro che degli insegnanti non è lecito fare strame. Ma quella scuola dobbiamo cambiarla. Anzi dobbiamo volerla cambiare. Non un’altra volta, adesso. Non va una scuola che si limiti a 4 ore, salvo usare madri, nonne o zie come bidelli fuori orario. Non va che gli insegnanti non mettano a disposizione tutte le loro 35 ore (...) Anche se si sono sentiti soprattutto gli schiamazzi di una categoria bistrattata, questa scuola maledetta è stata una grande fucina. C’è da raccogliere, mettere assieme, proporre, organizzare, battersi. Legare con studenti, famiglie» (“Manifesto”, 3 giugno).
Se le parole hanno un senso la Rossanda dice agli insegnanti che se la scuola pubblica non vuole essere spazzata via deve battere in “produttività” quella privata. Ora spendendo questa il 2% della spesa complessiva per l’istruzione con il 7,5% degli studenti ciò è unicamente possibile torchiando gli insegnanti pubblici riducendoli al livello miserevole di paga e di orario di buona parte degli insegnanti delle scuole private.
Prima di vantarsi di aver sconfitto il “concorsaccio” gli attuali Cobas-Scuola dovrebbero avere l’onestà di confessare che essi hanno contribuito alla creazione delle condizioni politiche che hanno permesso alla “sinistra” di minare alle fondamenta la scuola pubblica, realizzando un programma di privatizzazione dell’istruzione che 50 anni di “dominio democristiano” non avevano mai osato nemmeno proporre.
I Cobas-Scuola di Torino sono stati gli unici a non aderire e ad attaccare la manifestazione del 29 maggio ed hanno avuto il coraggio di presentarsi al corteo nazionale con l’organo di stampa del coordinamento territoriale autorganizzato di cui erano un’importante componente, che ricordava con un’eloquente foto ed un editoriale come i sindacati con in testa la CGIL e l’opportunismo avessero difeso la scuola pubblica il 2 ottobre ‘92: bastonando a sangue insieme alla polizia gli insegnanti Cobas che avevano osato contestare i bonzi sindacali.
I Cobas-Scuola torinesi invitavano l’organizzazione nazionale a smettere di occuparsi “dell’interesse sociale generale” (Manifesto E.N. 14 maggio ‘94) in abbraccio mortale con gli opportunisti vecchi e nuovi e di sostenere invece gli interessi “di parte” degli insegnanti in coerenza con quelli generali della classe proletaria.
Il resto è noto. Ripreso il testimone da Berlusconi la “sinistra” ha continuato il suo lavoro di smantellamento delle conquiste operaie: riforma Dini delle pensioni, robusta legislazione antisciopero, precarizzazione del lavoro, finanziamento della scuola privata.
Quello che rimane dei Cobas in un disperato tentativo di sopravvivenza
abiura progressivamente il suo passato istituzionalizzandosi, ed eliminando
quelli che non ci stanno. L’attuale dibattito in seno ai Cobas – assai
contraddittorio – è sempre centrato sulla questione organizzativa.
Una nuova fase si è aperta e potremmo dire che le date che ne
hanno segnato l’inizio sono il 10 dicembre ‘91 e, soprattutto, il 31 luglio
‘92. Le OO.SS. di regime, ossia Cgil, Cisl e Uil, hanno siglato in data
31 luglio ‘92 l’infame accordo che ha fornito il pretesto al governo per
avviare uno dei più massicci attacchi degli ultimi decenni al lavoro
dipendente.
LA CRISI CAPITALISTICA
La violenta crisi che da tempo sta sconvolgendo gli assetti economici che si ritenevano oramai consolidati, ha rivelato in maniera esplicita e meglio di qualunque “indagine”, che la cosiddetta “civiltà capitalistica” ha assunto le caratteristiche tipiche dell’imperialismo senile.
La borghesia mondiale non riesce a controllare le crisi che si susseguono in forme sempre più dirompenti ed è ormai chiaro che le linee di politica economica attuate in questa fase risultano essere l’attacco alle condizioni di vita del proletariato e la guerra commerciale e finanziaria su larga scala.
Le misure attuate hanno il solo scopo di garantire la conservazione dello status quo e lo strapotere delle oligarchie finanziarie dominanti.
I lavoratori dipendenti, gli strati più poveri e indifesi della società, sono esposti al caos del mercato capitalistico, senza alcuna forma di salvaguardia e di tutela. Le “tempeste monetarie e finanziarie” lasciano sul terreno milioni di lavoratori che perdono il posto di lavoro, e milioni di giovani che vedono allontanarsi inesorabilmente ogni possibilità di entrare nel mercato del lavoro.
Oltre a ciò, si prefigurano condizioni cha favoriscono la fuga verso “soluzioni” armate da parte delle borghesie dei paesi più sviluppati, sempre più intenzionate ad esportare, in tutte le aree del Terzo mondo, la politica degli “aiuti umanitari” attuate sotto la forma dell’intervento militare. E quando anche queste misure saranno reputate inefficaci vi è la possibilità, molto concreta, che le borghesie imperialiste sostituiscano le “guerre commerciali e finanziarie” attuali, con guerre tout court, tra loro.
Sul piano politico interno le borghesie puntano ad un esautoramento dei parlamenti a vantaggio di un rafforzamento degli esecutivi, mentre sul terreno economico si distruggono immense risorse di uomini e di beni.
In particolare per ciò che concerne l’Italia, il governo ha emanato, attraverso l’uso della delega, una serie di misure che hanno in poco tempo scardinato le conquiste che i lavoratori hanno strappato a caro prezzo nel corso di alcuni decenni. Alcune di esse sono sintetizzabili nei seguenti punti:
a) Gli accordi del 10/12/91 e del 31/7/92 che hanno eliminato la scala mobile, la contrattazione articolata e bloccato i contratti del Pubblico Impiego;
b) La manovra Amato che ha drasticamente ridotto Sanità e Previdenza a vantaggio della gestione privatistica (si prevedono esborsi da parte dei lavoratori di 40.000 miliardi in 10 anni a favore di banche, assicurazioni, holding finanziarie); ha aumentato tasse e contributi previdenziali e sanitari ed ha congelato le pensioni di anzianità. Bloccando i pensionamenti ed elevando l’età pensionabile ha aggravato ulteriormente il problema dell’occupazione. Ha privatizzato il rapporto di lavoro nel Pubblico Impiego estendendo a questo settore la precarizzazione e l’insicurezza del lavoro. La privatizzazione del settore produttivo, immobiliare, finanziario di proprietà dello Stato servirà unicamente a regalare alle lobby private le strutture produttive e finanziarie più efficienti determinando così lo sperpero del denaro pubblico e il saccheggio delle casse statali ad opera di quelle stese grandi lobby creditrici e finanziarie, dei grandi sottoscrittori di titoli pubblici che insieme contribuiscono alla crescita smisurata del debito pubblico;
c) Tutto ciò è accompagnato da misure d’ordine politico che mirano alla restrizione dei residui spazi “democratici” e a imporre gravi limitazioni ai diritti dei lavoratori e a criminalizzare ogni forma di dissenso alla politica “del bastone” imposta dalla borghesia attraverso governo e OO.SS. di regime e organi di repressione.
Non appena i lavoratori si mobilitano contro i tentativi del padrone
pubblico e privato, di scaricare su di essi le proprie crisi, le OO.SS.
di regime assumono il ruolo che è loro congeniale e si assiste ad
un miserabile gioco delle parti in cui il governo chiede “maggiori sacrifici”
e le OO.SS. confederali gli fanno eco asserendo che vi è una grave
crisi in atto e per “superarla” è necessario fare “uno sforzo comune”.
Non una parola viene spesa, ovviamente, sulle ragioni della crisi capitalistica
sulla sua inevitabilità, sulla necessità del superamento
del capitalismo, come conditio sine qua non, per pensare di cambiare la
qualità della vita di milioni di persone.
CRISI DEL CAPITALE E CRISI DELLE OO.SS. DI REGIME
Da questa situazione scaturisce la crisi del sindacalismo confederale tradizionale che mai come in questi ultimi tempi ha mostrato fino in fondo la sua vera natura collaborazionista e asservita agli interessi della grande borghesia.
Milioni di lavoratori sono scesi nelle piazze contro la manovra del governo Amato e contro la linea di Cgil Cisl Uil: alcuni con la consapevolezza che la politica dei sindacati confederali è totalmente di sostegno alla politica del grande padronato ed ha come unico fine quello di impedire che le masse lavoratrici si ribellino alla dittatura della grande borghesia; altri, più spontaneamente, si sono mobilitati per costringere il sindacato a fare “qualcosa” per contrastare il disegno governativo.
Tra questi ultimi lavoratori non è ancora sufficientemente chiara e approfondita l’analisi su quale contenuto di classe sia fondata la politica sindacale e, conseguentemente, la critica si limita a rilevare la mancanza di democrazia nelle OO.SS. senza giungere a criticare tutta la politica di collaborazione e a rompere definitivamente col collaborazionismo e col monopolio di rappresentanza di Cgil Cisl Uil. L’illusione di modificare il sindacato è ancora assai radicata e in questo terreno il lavoro dell’Autorganizzazione deve essere più incisivo.
Cgil, Cisl e Uil hanno, per molti anni, diseducato i lavoratori a formare e mantenere una coscienza di classe, hanno attribuito le sconfitte delle rivendicazioni e delle lotte sostenute dai lavoratori a fattori congiunturali, hanno schierato i lavoratori dipendenti gli uni contro gli altri: quelli privati contro quelli pubblici (usando, contro quest’ultimi, la demagogica arma dei presunti “privilegi”), favorendo oggettivamente fenomeni di corporativismo sindacale e analisi superficiali su questa o quella categoria.
Questo lungo lavorio delle coscienze ha svolto una grande funzione –
dal punto di vista padronale e governativo – poiché è servito
a “scaricare le tensioni sociali” all’interno delle masse lavoratrici lasciando
relativamente al sicuro la controparte.
LE OO.SS. CONFEDERALI E LA DEMOCRAZIA INTERNA
In questo quadro di compatibilità e di collaborazione gli apparati burocratici sindacali hanno deciso, con un colpo di mano e senza alcun mandato da parte dei lavoratori – come d’altronde è prassi ormai consolidata da anni – sulla pelle di questi di disdire la scala mobile, di rinviare la contrattazione e di lasciar comprimere oltre ogni limite sopportabile il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni.
Questa prassi rivela in modo inequivocabile che da un lato vi è il timore da parte degli apparati burocratici sindacali di essere messi in discussione – per tale motivo essi evitano in modo palese ogni forma di confronto con la base – e d’altro lato, il distacco che esiste fra vertici e base nel sindacato fa sì che i primi, ormai burocrati di Stato, si sentano sufficientemente “protetti” dal governo e dal padronato, così da infischiarsene del disaccordo della base o dal rispetto del mandato.
D’altronde, nella prassi delle OO.SS. confederali, non esiste un mandato vincolante, e ciò dimostra quanto la struttura stessa sia viziata gravemente sin dalle fondamenta: l’elezione dell’apparato decisionale avviene per cooptazione, e i limiti dei compiti dell’eletto non sono fissati o controllati dal basso. Ma ciò che è più grave è la mancanza di qualsiasi strumento di controllo da parte della base, quale ad es. il potere di revoca del delegato eletto, che sommato alla non rotazione delle cariche e degli incarichi, al “distacco perenne” dalla produzione e dal luogo di lavoro, rende tutta la strutture gelosamente ingessata, inamovibile e immodificabile.
La linea politica viene decisa in alto loco, la gestione delle vertenze che riguardano milioni di lavoratori viene decisa dalle segreterie e condotta nelle stanze del Palazzo dove ogni colpo di mano è possibile. Ai lavoratori viene “concesso” di apparire come semplici comparse tra uno sciopero “polverone” e l’altro, e al termine di ogni mobilitazione spontanea o decisa dai vertici viene detto loro “che più di così non si poteva fare ed ottenere”! Da decenni, purtroppo, questo copione-farsa si ripete puntualmente in ogni vertenza contrattuale.
In questo panorama desolante alcune forze ritengono che sia possibile cambiare il volto del sindacalismo confederale apportando qua e là qualche modifica in ordine a “presunte degenerazioni della democrazia interna”. Questa risulta essere la linea di recupero politico della corrente di “Essere Sindacato”, di alcuni “nuovi dirigenti” del CdF Autoconvocati, e di una parte della vecchia dirigenza Cgil.
Occorre ribadire, da parte nostra, che non si tratta di cambiare qua e là qualche norma di democrazia interna (come si è detto, non esistono meccanismi di controllo dal basso), ed è ormai evidente che deve essere cambiata l’intera struttura fin dalle fondamenta, però questa è un’operazione che non può essere gestita da coloro i quali hanno fino ad ora abusato della buonafede dei lavoratori.
Ma questo è solo un aspetto del problema, l’altro concerne la linea politica che un sindacato di classe deve perseguire: ossia la difesa intransigente degli interessi materiali e ideali dei lavoratori contro la politica della borghesia pubblica e privata, che oggi detiene il potere; in altre parole la difesa del potere d’acquisto dei salari, della qualità della vita e del lavoro, dell’occupazione, e lo sviluppo della coscienza di classe nell’approfondimento della critica al sistema capitalistico, ecc. che sono i compiti essenziali di un sindacato di classe in vista dell’abolizione dello sfruttamento dell’uomo su l’uomo.
Al contrario Cgil, Cisl, Uil, dal ‘45 ad oggi – lungi dal “mettere in discussione” il sistema capitalistico o, quantomeno dal rivendicare un più alto prezzo per la forza lavoro e migliori condizioni di vita delle masse lavoratrici (compito “minimo” che sarebbe del tutto normale per un sindacato che si muove sul terreno borghese!) – perseguono una politica di compromesso interclassista che ha progressivamente abbandonato ogni blanda e larvata posizione di classe, per giungere al totale vassallaggio nei riguardi del capitale verso il quale queste OO.SS. risultano speculari e complementari.
Grazie agli enormi profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse e della forza lavoro dei paesi del cosidetto Terzo mondo, il capitale monopolistico è riuscito a corrompere nei paesi “capitalisticamente avanzati” larghi strati del proletariato illudendolo e lusingandolo, e adoperandosi per la formazione di un corposo apparato sindacale compiacente.
Così, mentre cresceva e cresce vertiginosamente la miseria delle masse dei tre quarti del pianeta, nei paesi imperialisti i proletari venivano “narcotizzati” e si illudevano di non essere più colpiti dalla precarietà del posto di lavoro e della caduta del “tenore di vita”.
La crisi capitalistica, come abbiamo detto, ha fatto crollare ogni pia illusione, ha smentito le vuote e demagogiche affermazioni delle aristocrazie sindacali confederali, ha messa a nudo il loro ruolo opportunista.
Nonostante questo, assistiamo ancor oggi, a prese di posizione dei vertici sindacali, che pretendono di giustificare il loro operato ostinatamente, per salvaguardare pervicacemente il proprio scranno sindacale dal quale non intendono recedere. Di volta in volta cambiano le giustificazioni di fronte al malcontento dei lavoratori: ora è la necessità di “salvaguardare il posto di lavoro” (attraverso la Cassa Integrazione!), ora è la necessità di “uscire dalla crisi” (attraverso i sacrifici dei lavoratori!) come ci viene sbandierato in questi ultimi tempi. È evidente che dietro a tali affermazioni si nasconde il timore dell’aristocrazia operaia di perdere quelle poche briciole che il padronato si è degnato di destinarle.
In questo quadro l’azione corruttrice della coscienza attuata dalla borghesia con grande astuzia unita all’opportunismo delle burocrazie sindacali ha deviato l’attenzione delle masse lavoratrici su un terreno di illusoria compatibilità e “compartecipazione” con gli interessi del padronato pubblico e privato.
L’accettazione acritica delle analisi sulla crisi spesso nasconde uno smarrimento della coscienza che può essere rivelatore dell’insorgere di fenomeni reazionari assai gravi. Si pensi, ad esempio, a quanto scarso sia diventato lo spirito internazionalista di alcuni strati di proletari e delle masse lavoratrici, che obnubilate ed infiacchite nella propria coscienza, non si preoccupano dei loro fratelli dei paesi coloniali e semi-coloniali, né si chiedono da dove provenga la fonte del loro precario e falso “benessere”.
Sotto l’incalzare della crisi ci ritroviamo a fare i conti con fenomeni crescenti di xenofobia nei confronti dei lavoratori africani e asiatici immigrati. Tali fenomeni potranno ideologicamente e praticamente essere utilizzati dalle borghesie imperialiste in preparazione di futuri conflitti armati che si profilano sempre più minacciosi all’orizzonte.
Ferrovieri fra torture elettroniche
e sabotaggio di capitolardi in casa
Governo, Ente e sindacati Confederali stanno tentando di dare il colpo decisivo ai lavoratori delle FS con azioni che favorirebbero la disarticolazione del contratto di categoria, scaduto da anni e lontano dall’essere positivamente rinnovato. Il punto di arrivo è quello di eliminare il contratto unico del settore, per arrivare alle condizioni di debolezza e di divisione che ritroviamo, purtroppo, già in alcune categorie come quella dei telefonici o degli elettrici. Eliminare l’ostacolo della “clausola sociale” significa per il padrone avere la possibilità di ghettizzare le categorie, costringendole a rinchiudersi in una logica al ribasso, di fatto costringerle alla perdita progressiva della loro possibilità di lottare e contrattare.
Il Ministro, a distanza di tre mesi, ha precettato per la seconda volta i macchinisti ed i ferrovieri aderenti a CoMU ed ORSA. L’Ente, da parte sua, tenta di introdurre maggiori quote di agente unico ed accordi separati compartimento per compartimento, mentre i confederali e gli autonomi fungono oramai soltanto da paravento padronale e rivendicano il loro progetto contrattuale che prevede 20 mila esuberi, riduzione del salario (per la concorrenza), aumento dei ritmi (idem), diminuzione delle ferie, parificazione – in basso – dei vari contratti esistenti nel settore ferroviario; insomma tutto l’armamentario già visto e sperimentato in tante altre categorie. Dal novembre 1999 questo piano è stato bloccato e la fine delle tabelle Dini per le aziende in ristrutturazione pongono le FS nella condizione o di risolvere i problemi entro questo dicembre o di iniziare ad adoperare la tanto temuta cassa integrazione, scrivendo la parola fine sull’approccio morbido che ha sempre contrassegnato la ristrutturazione in ferrovia, ristrutturazione che, non dobbiamo scordarlo, è costata centomila posti di lavoro più altre migliaia nell’indotto.
La resistenza opposta negli ultimi quindici anni ha portato a galla il vero motivo dello scontro, che viene oramai gestito in prima persona da Agens/Confindustria, ovvero una ristrutturazione del sistema ferroviario che non soltanto voleva e vuol dire mazzette da centinaia di miliardi, ma anche – e soprattutto – l’eliminazione del potere contrattuale di una categoria, di un settore, che si sta ancora opponendo alla normalizzazione capitalista.
Lo sciopero di settore, prima boicottato, poi regolamentato, poi ingabbiato da mille vincoli rappresenta ormai un’arma spuntata e la precettazione è proprio la dimostrazione della debolezza del movimento, che permette allo Stato di utilizzarla contro i pochi che ancora si muovono, tradendo nel contempo anch’esso i suoi lati vulnerabili. Unica consolazione è la sempre maggiore mancanza di fiducia dell’apparato verso i suoi cani da guardia, oramai impotenti sui posti di lavoro a gestire la sfiducia della base.
Lo sciopero annullato di settembre aveva visto i macchinisti uniti come da anni non succedeva, decisi a lottare contro l’annunciata introduzione dell’apparecchiatura vigilante sui treni ad agente unico, che prefigura un domani da agente solo, appena anche la figura del capotreno sui treni locali verrà soppressa a favore di squadre volanti di controlleria. Il treno insomma come un bus di linea. L’apparecchiatura nonostante la si voglia far passare per innovativa, è la stessa degli anni quaranta, degli anni – non a caso – della guerra. Nonostante il richiamo alla sicurezza, in realtà è un apparecchio che è poco più di una sveglia continua che renderebbe la vita del macchinista un inferno, costretto a premere un pedale ogni cinquanta secondi al suono del cicalino per evitare una frenata automatica. Un ordigno che attirerebbe l’attenzione del macchinista all’interno della cabina invece che all’esterno, suonando ogni minuto per otto ore di lavoro e che, ritmica risposta meccanica ad un impulso, non garantirebbe altro che la permanenza in vita del macchinista e non certo la sua capacità di attendere allo stato della via e dei segnali, grado di stato vigile che, per altro, è in relazione alla velocità, al tipo di tratta, eccetera.
Ma in realtà alle FS ben poco importa la sicurezza tanto che nessuno si sogna di fare reali investimenti in questo campo, come dimostrano ampiamente gli ultimi incidenti, dove sono risultati coinvolti quasi sempre macchinisti in straordinario, che operano dopo dieci, unici ore di lavoro, vuoi per un guadagno personale che va contro gli interessi generali, vuoi per la pressione psicologica esercitata dai capi, costretti, a loro volta, a lavorare sotto pianta. Ma se non interessa la sicurezza, interessa invece eliminare altri 5 o 6 mila macchinisti, magari rimpiazzandoli con giovani a contratto formazione-lavoro o a part-time, o magari con il genio ferrovieri. Condizione ideale per liberarsi di forza lavoro, ma anche per poter ridimensionare il potere contrattuale della categoria.
Mentre sempre più vergognosi divengono questi attacchi confindustriali, via via che i tempi della ristrutturazione volgono al termine, i problemi maggiori vengono però dall’interno del CoMU, dove le componenti che fanno più o meno esplicito riferimento alla “sinistra sindacale” negli ultimi tempi sono venute allo scoperto per difendere la politica aziendale, creando, di fatto, una divisione interna. Divisione che non è stata formalizzata grazie all’azione dell’ala più combattiva dei macchinisti, che non considera proficua, in questo momento, una spaccatura del movimento. Le disponibilità di questi signori sono state ricacciate indietro, ma rimane il problema della gestione di queste forze, sempre pronte a sgambettare il Coordinamento. Da parte nostra, lavoriamo perché si fortifichi l’intesa di quella parte dell’organizzazione che ha come obiettivo la difesa strenua delle regole, dell’orario di lavoro, della dignità dei lavoratori, del mantenimento dei favorevoli rapporti di forza. Cerchiamo di far capire che le frazioni, nel sindacato, sono cosa normale e positiva e che soltanto attraverso un’unione salda delle forze sane si possono combattere con successo gli atteggiamenti ambigui, concertativi, della parte filo aziendale. Il successo di questo lavoro resta lontano nel tempo, ma la sua importanza non si discute, se si vuol procedere sulla strada della ricostruzione dell’organismo sindacale di classe.