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PAGINA 1 – Rancida sceneggiata fra destra e sinistra borghesi.
– Dal fronte: - Guerra e Affari
- Doppia misura - Antiterrorismo anche in Georgia -... e in Gran Bretagna.
– Un passo avanti verso
la riorganizzazione di classe.
– Sciopero generale del 15 febbraio:
No alla Concertazione - Per la difesa della classe operaia.
– L’Argentina è il mondo.
PAGINA 2 – RIUSCITA RIUNIONE GENERALE DI LAVORO - Firenze, 26-27 gennaio [RG82]:
CORSO della CRISI ECONOMICA - Il RIARMO degli STATI - Il CICLO dello STATO nella STORIA UMANA - La BORGHESIA ITALIANA a la SUA VIOLENZA di CLASSE - ORIGINE dei SINDACATI in ITALIA - MARXISMO CONTRO le TEORIE BORGHESI sulla POPOLAZIONE.
PAGINA 3 – ALGERIA,
IERI E OGGI: 7. L’insurrezione algerina, rivoluzione
tradita del proletariato agricolo e del fellah (1954-1962) - 1) Storia moderna del proletariato algerino.
PAGINA 4 – Il dominio dell’Imperialismo - LA CENTRALIZZAZIONE FINANZIARIA [
1 - 2 -
3 - 4 ]
- Parte I: Partiamo da Marx - Le tappe del capitale finanziario - Le loro
interpretazioni
- Guerre e cicli economici
PAGINA 5 – L’Argentina è il mondo: CRISI SOCIALE E PATACONES GOVERNATIVI (Continua dal numero 287):LE DIFFICOLTÁ DEGLI ANNI ’90 - LA SITUAZIONE ECONOMICA
ODIERNA
- LA RISPOSTA OPERAIA - LE VICENDE IN CORSO - COMPITI DELL’OGGI.
PAGINA 6 – Ferrovieri fra CoMU e ORSA.
– La lotta degli appalti nelle FS.
La maggioranza parlamentare impone leggi che fanno gli interessi del capo e delle cosche che ha intorno: rogatorie, falso in bilancio, conflitto di interessi... L’opposizione esce dall’aula parlamentare per dare un segnale forte all’indignazione del Paese. Si è risentito parlare di Aventino, di questione morale, ci si è appellati al Capo dello Stato. C’è stato pure chi ha ricordato come le peggiori dittature del XX secolo si siano insediate al potere utilizzando il metodo e gli istituti democratici...
Bisogna riconoscere che i destri, ostentando modi così politicamente scorretti e totale mancanza di senso civile e democratico, vengono a costituire l’ultimo, estremo e insperato puntello degli emaciati ed esangui figuri e partitucoli del centro e della sinistra. Che scopo avrebbero le esternazioni farsesche del presidente ridens o il latrare disarticolato dell’Umberto padano?
La banda di Arcore non avrebbe alcun bisogno di mostrare i muscoli (si fa per dire!) per continuare tranquillamente a fare i suoi interessi, come i democratici partiti parlamentari della cosiddetta Prima Repubblica hanno fatto per mezzo secolo.
Chi meglio dei precedenti governi di centrosinistra ha tutelato gli interessi cavallereschi, chi ha preparato la strada e lasciato il passo all’alternanza? Il centrosinistra, se solo avesse voluto, avrebbe avuto il modo, il tempo ed il sostegno popolare per rendere inoffensivo il Cavaliere con tutta la scuderia. Ma questo il centrosinistra non ha fatto perché questo non rientra nel suo programma.
Fra il personale politico del Capitale, ad eccezione di baruffe per meschini interessi di servidorame e per la spartizione di posti e portafogli, non esiste opposizione; i vari governi svolgono, di concerto, tutti quanti lo stesso ruolo di salvaguardia degli interessi sia del Capitale, sia degli stessi singoli capitalisti, santificati o demonizzati a seconda dei casi. Fascismo e antifascismo si compenetrano perfettamente.
Nè il Cavaliere, d’altronde, può dirsi fascista, che sarebbe far torto al primo fascismo italico, che non fu solo farsa, come questo, ma un reale tentativo di riforma, a fini di conservazione, degli istituti sociali e politici borghesi. Il ridicolo travolge ormai tutti i personaggi della scena parlamentare.
Ma se gli interessi "di Berlusconi" sono stati così ben salvaguardati dal centrosinistra, che mai come durante il suo governo hanno avuto così florida espansione, perché scandalizzarsi che sia Berlusconi stesso a difendere gli interessi di Berlusconi?
Il problema, per il Capitalismo, è sia di forma sia di sostanza. Di sostanza perché un governo che rappresenti gli interessi di un determinato gruppo economico, poiché tende innanzi tutto a far quadrare i propri conti, non dà garanzie sufficienti di salvaguardia dell’interesse generale e collettivo del Capitale, che muove prescindendo o perfino contro singoli capitalisti e singole categorie di interessi.
Il problema di forma è ancor più semplice da capire; come si fa a far credere al proletariato che lo Stato è al di sopra delle parti e delle classi quando chi rappresenta il potere politico rappresenta contemporaneamente anche il potere economico? È a questo inconveniente che si cerca di ovviare con la corrente carnevalesca campagna giacobina, fuori tempo massimo, che dai tubi catodici spara le ormai vuote parole borghesi di Repubblica, Libertà, Giustizia, Democrazia...
Per il capitalismo, non c’è dubbio, l’ideale sarebbe quello di potersi presentare con un capo di governo proletario, meglio se onesto, non assetato di denaro e con un programma demagogicamente popolare. L’Italia del primo dopoguerra ricorse al socialista Mussolini, e la Germania ad Hitler che anch’esso, si ricordi, era nullatenente, personalmente onesto, ecologista, vegetariano, nemico di bacco tabacco e venere e rifuggente le inutili violenze; infatti fece mettere fuori legge la vivisezione animale. Ma quelle sono soluzioni che possono essere prese solo in determinati svolti storici, cioè quando il pericolo non è il conflitto di interessi fra borghesi, ma qualcosa di più grave, ossia la difesa degli interessi generali della classe capitalista dalla minaccia concreta dell’attacco rivoluzionario da parte del proletariato.
Oggi il proletariato vive in uno stato di narcosi e nessuno, né destre, né tantomeno sinistre ha interesse a che si desti e quindi tutta la lotta politica viene circoscritta in un ambito virtuale e spettacolare: se il divo della maggioranza è padrone delle televisioni anche i capi dell’opposizione vanno ricercati nel campo dello spettacolo: ecco allora che scendono in campo i cinematografari, i Nanni Moretti, gli Ettore Scola i Dino Risi e poi i Benigni, le Ferilli e tutto il variopinto zoo di una umanità socialmente inutile.
Il proletariato non si lascerà distogliere per questo strepito
dai problemi della sua classe, per la cui difesa si organizzerà
e continuerà a lottare schifando le grottesche pose di entrambi
gli schieramenti.
Guerra e Affari
Sull’inserto di Repubblica, Affari e Finanza del 25 febbraio leggiamo che il giornale americano “on line” Salon ha immaginato un fondo azionario “del male” sul quale puntare. Questo pacchetto di azioni è riferito a 12 aziende americane leader nel settore difesa, tra cui, Northop Grumman, produttore dei famosi aerei da guerra Stealth Bomber, General Dynamics, produttore di sottomarini, Raytheon, produttore dei missili Tomahawk e la Loockeed Martin colosso della difesa. Questo “Fondo del Male”, nel suo insieme, dall’11 settembre all’11 ottobre è cresciuto del 127% mentre il Dow Jones è sceso del 2,7%. Con lo stesso paniere dall’11 settembre al 5 febbraio l’incremento è del 185% contro una crescita del Dow Jones dello 0,83%.
Doppia misura
Il governo di Pechino ha chiesto all’Afghanistan l’estradizione dei cittadini cinesi che hanno combattuto al fianco dei talebani. Questa richiesta ha impressionato negativamente gli Stati Uniti, perché le attività degli islamisti cinesi nello Xinjiang non sono considerate terrorismo. Lo ha detto chiaramente il generale americano Francis Taylor: «Gli Stati Uniti non hanno detto né considerano terrorista la Organizzazione del Turkestan Orientale». Gli attentati del terrorismo e la guerriglia saranno sempre condannati dai borghesi come spaventosi e disumani se si indirizzano contro il proprio Stato, per definizione sempre culla della libertà e della democrazia; la cosa si inverte quando si fa in casa del rivale, nel qual caso diventa lotta per la libertà. E la Cina oggi è rivale agli Usa sul piano commerciale, ma domani, molto probabilmente, anche su quello militare.
Antiterrorismo anche in Georgia
Il fantasma di Bin Laden e di al-Quaeda si aggira per il mondo. Gli Usa con la scusa della lotta al terrorismo non perdono occasione per posizionare forze militari nei punti più strategici sparsi per il mondo. In questi giorni il governo Bush, per soddisfare la richiesta di “aiuto” del presidente Shevardnadze (che attualmente ne ha abbastanza dell’”aiuto” russo), ha deciso l’invio di forze speciali in Georgia. I militari si stanzieranno tra le gole della regione del Pankisi dove sarebbero concentrati militanti islamici e reduci afghani legati, senti senti, a Bin Laden. La Russia, che da parte sua accusa il governo georgiano di dare rifugio ai terroristi ceceni, non ha gradito questa decisione né di trovarsi militari USA ad uno sputo dai suo confini. Imprevisti della guerra al terrorismo
... e in Gran Bretagna
Al riparo della situazione creatasi a scala mondiale dopo gli attentati
del mese di settembre negli Stati Uniti, il governo “di sinistra” di Blair
si adopra ancora a smascherare la finzione democratica e liberale. Il progetto
di legge antiterrorista che propone, che prevede la sospensione delle sacre
garanzie costituzionali come la presunzione di innocenza e la celebrazione
di regolare giudizio per gli accusati di terrorismo, ha sollevato le ire
retoriche della cosiddetta ala sinistra del laburismo. Ancora una volta
i fatti si incaricano di dimostrare la validità della tesi marxista
dell’alternanza e intescambiabilità fra democrazia e fascismo, con
un’infinita varietà di trapassi e di combinazioni di entrambe le
alternative al governo capitalista.
Lo sciopero generale del 15 febbraio e la manifestazione tenuta nell’occasione a Roma (alla quale abbiamo diffuso il testo qui sotto) sono stati indubbiamente un successo per tutte le organizzazioni cosiddette “di base” che, muovendosi unitariamente e su obbiettivi precisi, hanno coinvolto anche molti lavoratori ancora organizzati nei sindacati confederali.
Bisogna riconoscere che la riuscita dello sciopero non è stata solo da ascrivere alla volontà unitaria delle sigle che si richiamano al sindacalismo “alternativo”, che un buon aiuto è stato fornito dalla politica apertamente filopadronale delle confederazioni tricolore, che prima hanno indetto lo sciopero generale del pubblico impiego per lo stralcio dell’articolo 18 e per la firma dei contratti, poi lo hanno ritirato dopo l’ennesimo accordo bidone col governo nella notte del 4 febbraio.
La giornata del 15 febbraio ha rappresentato comunque un episodio importante nel percorso che dovrà portare alla ricostituzione di un vero sindacato di classe; essa ha infatti dimostrato almeno due cose: primo che è possibile trovare l’unità sul terreno della lotta contro l’attacco generale alle condizioni dei lavoratori, pubblici e privati, precari e no; secondo che non c’è nulla da aspettarsi dai sindacati confederali, né dalla sola CGIL, né dalla FIOM, né dalla cosiddetta “sinistra sindacale”, e che compito del sindacalismo anticoncertativo è lavorare concretamente per strappare ai sindacati di regime la presa che ancora mantengono su ampi settori della classe lavoratrice.
La manifestazione del 15 febbraio, la più grande messa in campo dalle opposizioni sindacali, va quindi considerata un punto di partenza per proseguire sulla strada dell’unità nell’azione.
Più accidentata appare la strada verso l’unità degli attuali organismi. Questo basilare obbiettivo non è semplice da raggiungere per molteplici fattori tra cui non ultimo la tendenza di questi, sebbene in misura diversa, a considerarsi più degli ibridi sindacato-corporazione-partito che organi deposti alla difesa economica della classe lavoratrice. Il futuro rinato Sindacato di Classe, nel quale ovviamente si inquadreranno ed in cui profonderanno le loro energie e consigli i comunisti e i lavoratori loro simpatizzanti, si fonderà su bisogni, su sentimenti e sul frutto di esperienze immediatamente propri di tutti i lavoratori, scaturenti direttamente dalla loro posizione sociale di salariati e sfruttati. Unico presupposto necessario è il porsi inequivocabilmente al di fuori e contro sia alla classe padronale, sia alla sua economia e ai suoi interessi e compatibilità, anche quando spacciate per comuni a tutte le classi, sia alle istituzioni statali denunciate nemiche in ogni loro articolazione.
Un problema di vicina scadenza che si pone è quello dallo sciopero generale indetto dalla CGIL per il 5 aprile, proclamato, ad oggi, in rottura con CISL e UIL. Nonostante la CGIL abbia tutt’altro che una posizione chiara sulla incondizionata difesa dell’articolo 18, può diffondersi l’ingannevole speranza, fra i lavoratori del settore privato ma anche fra i pubblici, dove il sindacalismo “alternativo” ha maggiore presa, che quello sciopero sia pur sempre “qualcosa” in difesa della classe operaia, una lotta cui la CGIL si concederebbe vuoi per l’arroganza governativa e padronale, vuoi per considerazioni “politiche” circa la natura dell’attuale governo, atteggiamento questo da cui il proletariato potrebbe trarre un qualche vantaggio, almeno in senso difensivo e del “meno peggio”.
Questo è un grave errore. Come è falso che esista uno reale scontro politico fra la “destra” e la “sinistra” borghesi, che consenzienti si alternano al governo per colpire la classe operaia da “destra” e da “sinistra”, ugualmente, sul piano sindacale, la CGIL non sarà mai disponibile a mobilitare seriamente i lavoratori nemmeno contro il governo che finge “nemico”, come non lo era contro quello “amico”.
Non è affatto escluso che da qui al 5 aprile i grandi capi ciggiellini “ci ripensino” e ritirino lo sciopero. Nel frattempo non cesserà di tormentare il sindacalismo anticoncertativo il dilemma se, non diciamo “aderire”, ma se e come far coincidere con quel giorno la sua mobilitazione, preso nella morsa fra gli appelli “unitari” in malafede della sinistra sindacale da una parte e un certo settarismo e poco senso delle proporzioni sulle forze in campo dall’altra.
Finché la classe operaia riterrà utile scioperare con i sindacatoni “tradizionali” seppure di regime e, come certo avverrebbe il 5 aprile, si mobilitasse in massa dietro alla CGIL, noi restiamo convinti che è inevitabile far confluire fisicamente nella lotta le forze, quelle che sono, delle opposizioni sindacali, e i loro validi e sempre più condivisi argomenti. Nessuno può ormai negare che è stato utilissimo inseguire il nemico CGIL in rotta il 15 febbraio, al fine del chiarimento e come punto di riferimento per i lavoratori che ne disertano. Ovviamente occorre non illudere sulla possibilità di un’alleanza con quei capi, al contrario mettere in evidenza le motivazioni e le aspirazione del sindacalismo di classe, in irriducibile contrapposizione di principi e di organizzazione a quelle del sindacalismo confederale, borghese, di regime, filo-statale e concertativo, della CGIL e della sinistra sindacale.
Un’indicazione diversa sarebbe compresa dai lavoratori come una conferma
della più o meno giustificata impressione che i sindacati “di base”
sono una minoranza in un certo qual modo chiusa alla generalità
della classe, o “estremista”, e che tali vogliono rimanere.
Il padronato e i suoi governi continuano ad attaccare il salario e impongono carichi di lavoro accresciuti su un numero di lavoratori sempre più ridotto. Loro interesse costante è rifarsi degli effetti della crisi economica, per mantenere i profitti nella loro guerra commerciale sul mercato internazionale. Solo per questi meschini interessi di classe borghese riducono paghe e pensioni e tagliano i servizi sociali, in primo luogo sanità e scuola. I giovani lavoratori non hanno più alcuna protezione dallo sfruttamento, costretti a prolungare il loro orario al di fuori di ogni regola, disorganizzati, divisi, sottopagati e ricattati.
In questo la politica economica dell’attuale governo delle destre non è diversa, se non nelle intonazioni, da quella dei precedenti governi di sinistra, politica sfacciatamente borghese e già decisa, ben prima delle ultime elezioni, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Comunità Europea. Fra partiti del Polo, partiti dell’Ulivo e partito della Rifondazione non vi è alcuna reale “opposizione” ma consensualmente si alternano al governo per ingannare la classe operaia. Berlusconi è il killer che a tutti conviene incolpare del lavoro sporco contro i lavoratori, di vergare l’ultimo tratto su licenziamenti, pensioni, Tfr, ecc, provvedimenti sulla necessità dei quali sono però tutti d’accordo e che anzi hanno preparato. La destra non fa che realizzare il programma della sinistra borghese, e intanto la fa apparire meno peggio.
Di queste manovre antioperaie sono complici i Sindacati confederali, divenuti strumenti del regime borghese. La concertazione, che Maroni ha solo fatto finta di voler smantellare, significa la partecipazione di questi Sindacati di regime all’opera di sottomissione della classe operaia al Capitale. Ove è concertazione lì non è né lotta né difesa di classe. Concertazione significa ammettere che esistono degli interessi comuni agli operai e alla economia nazionale e che, dialogando, sia possibile trovare un giusto compromesso. L’esperienza dimostra che lo spietato padronato, pubblico e privato, si piega solo se costretto dalla forza organizzata dei lavoratori. L’Argentina dimostra a cosa è servita alla classe operaia la politica peronista e il modello stalino-fascista della sua funzione nazionale.
Mentre si impongono precariato e tagli a salari e pensioni viene aumentata la spesa militare, tendenza questa comune a tutti i massimi Stati capitalistici che reagiscono alla loro crisi col riarmo, ponendo così le premesse per una nuova guerra imperialistica a scala mondiale. Già gli Stati Uniti di fronte ad una grave recessione, con il pretesto della guerra al terrorismo, cercano di liberarsi delle loro scorte di bombe scaricandole, intanto, sull’Afghanistan dove diseredati e contadini affamati devono affrontare l’inverno in città distrutte. La guerra è inseparabile dal capitalismo, di tutti i paesi, del Nord e del Sud del mondo, Europa compresa. Nessuna forza borghese, sia pure pacifista, può fermarla ma solo la mobilitazione internazionale del proletariato nell’affermare la sua società comunista contro quella mortifera del Capitale.
Lo sciopero di oggi, proclamato da tutto il sindacalismo di base, che
si dichiara anti-concertativo, è un passo importante verso la riorganizzazione
del movimento dei lavoratori. È necessario proseguire su questa
strada, che è quella della ricostruzione del Sindacato di Classe,
ricercando l’unità nella lotta, lavorando per superare ogni diffidenza
tra lavoratori pubblici e privati, con i precari e tra le diverse categorie,
processo questo agevolato dal fatto che le condizioni si vanno unificando
verso i trattamenti peggiori. Un sindacato che torni alle grandi tradizioni
di lotta e solidarietà della nostra classe, aperto a tutti i lavoratori
senza distinzione di nazionalità, razza, religione e fede politica,
e che non ponga alcun limite alla sua azione in difesa degli sfruttati
né in presunte compatibilità del regime né
in fedeltà alle istituzioni che dagli sfruttatori emanano e solo
ad essi rispondono.
La mondiale crisi capitalistica di sovrapproduzione miete un’altra vittima: l’Argentina.
In questo paese le condizioni in cui versa la stragrande maggioranza del proletariato, del sottoproletariato e della piccola borghesia, da decenni colpiti dalle pesanti ristrutturazioni economiche, imposte dal Capitale argentino in combutta con l’imperialismo, sono divenute insostenibili ed hanno condotto la classe operaia agli scioperi dei giorni scorsi.
Sfidati con il mancato pagamento dei salari, con la loro riduzione d’imperio e con ulteriori massicci licenziamenti i lavoratori sono tornati in strada nelle principali città industriali di tutte le province, manifestazioni di cui hanno approfittato le moltitudini affamate del paese che hanno alimentato la ennesima rivolta per il pane e i saccheggi ai supermercati. Nella capitale Buenos Aires la folla si è indirizzata verso Plaza de Mayo, ove sorge il palazzo presidenziale, reclamando a gran voce le dimissioni del presidente della repubblica De la Rúa.
Il regime, ovviamente, ha risposto agli scioperi con la proclamazione dello stato di assedio in tutto il paese e con l’impiego diretto dell’esercito. Le pesanti cariche che le forze di polizia hanno effettuato contro i dimostranti (i quali hanno risposto anche approntando barricate) hanno lasciato sul terreno 27 morti e centinaia di feriti. Si contano a centinaia se non forse a migliaia gli arresti.
La situazione sembra si sia poi, temporaneamente, “normalizzata”.
I fatti accaduti in Argentina sono il naturale epilogo della situazione di profonda crisi recessiva in cui versa da anni l’intera economia del paese, letteralmente strangolata dall’oramai ingestibile debito estero, giunto alla cifra di 160 miliardi di dollari.
L’Argentina è di fatto in bancarotta: lo Stato ha congelato i depositi bancari per frenare la fuga dei capitali (da marzo a dicembre oltre 15,3 miliardi di dollari sono fuoriusciti dal paese) imponendo ai correntisti il divieto di prelevare più di 250 dollari alla settimana; la classe media è in preda all’isteria.
Lunedì 27 dicembre Frigeri, ministro delle finanze del nuovo governo ad interim del peronista Rodriguez Saa, insediatosi alla casa Rosada dopo le rocambolesche dimissioni del presidente in carica De la Rúa, ha annunciato con effetto immediato la sospensione dei pagamenti in scadenza del debito.
Il governo di Saa, come quello che verrà eletto nelle elezione anticipate previste per marzo e come tutti i governi borghesi che seguiranno, continuerà la nefasta opera dei suoi predecessori, consistita nel far pagare al proletariato i costi della crisi economica che morde il paese, col varo di ennesime misure di austerità per consentire il salvataggio delle rendite finanziarie locali e straniere.
Il futuro è nero per il proletariato argentino, ma non è migliore per il proletariato del resto del mondo.
Gli economisti borghesi e i giornali pagati profumatamente dal Capitale sostengono che il default argentino sia una fatto isolato, ma mentono. Non è infatti che il collasso argentino è determinato dalla corruzione della classe politica locale o dalla incompetenza dei dirigenti, militari, giustizialisti o democratici; la crisi argentina non è invece che un momento della più generale ed avvolgente crisi mondiale dell’assetto economico capitalistico. Tutti i borghesi del mondo lo sanno e si preparano al peggio.
Sotto i colpi della crisi economica generale di sovrapproduzione, di merci e di Capitali, saltano gli anelli più deboli dell’economia mondiale, gettando la classe operaia nella miseria e rovinando rapidamente i ceti medi che vanno ad ingrossare le file dei poveri. La globale crisi capitalistica si abbatterà devastante sull’intero modo di produzione capitalistico, nei paesi d’Europa, d’America o d’Asia, siano essi cosiddetti “ricchi” o evidentemente poveri.
Alla crisi che attanaglia l’intero sistema borghese non ci sono soluzioni pacifiche e le potenti forze economiche spingono gli Stati grandi e piccoli, “giovani” e “vecchi”, verso un nuovo terribile scontro per risuddividersi i mercati, per distruggere le merci in eccesso, compresa la forza lavoro, cioè la vita di milioni di proletari. Il dramma che sta vivendo l’Argentina in queste ore è solo quindi un’anticipazione del futuro che attende tutte le nazioni del mondo, d’oriente e d’occidente, settentrionali e meridionali.
La mai cessata guerra del Capitale contro i proletari diviene ogni giorno sempre più aperta e spietata.
Le borghesie di tutto il mondo procedono allo sprofondare il proletariato nell’abisso dell’indigenza, licenziando ed abbassando i salari per ridurre il costo del lavoro, e quindi delle merci, nel tentativo disperato di reggere la concorrenza su un mercato sempre più saturo ed approntano i propri apparati repressivi in previsione del risveglio del moto proletario. Gli Stati conducono una politica estera sempre più aggressiva per catapultarsi nelle aree di crisi del pianeta a reclamare la propria parte nella spartizione del bottino, aumentando le spese militari e mantenendo la società in uno stato di mobilitazione bellica permanente.
Dal canto suo il proletariato, invece, non è ancora in grado di rispondere sullo stesso terreno, che è quello della preparazione alla risposta aperta ed organizzata ai colpi della classe avversa. Anche gli avvenimenti argentini, se sono ennesima prova del coraggio e della volontà di battersi della classe operaia, nello stesso tempo dimostrano quanto le masse siano ancora impreparate e disarmate di fronte al nemico. Questa impreparazione si traduce, in Argentina, nell’influenza delle ideologie nazionaliste che finiscono sempre per sottomettere la lotta operaia alla solidarietà con gli sfruttatori e alla liturgia patriottica “antimperialista”. Veicolo di questo tradimento sul piano ideologico è il peronismo, sul piano organizzativo i sindacati da questo diretti.
Infatti, per l’ennesima volta nella storia del paese, è bastato un cambio di governo, del tutto privo di contenuto se non di cosmesi e demagogia elettorale, per far revocare gli scioperi. Questi sono deviati, quindi, da strumenti per il soddisfacimento delle rivendicazioni operaie, in supporter elettorali dell’ultimo chiacchierone peronista di turno. Perché, altrimenti, non è stato indetto lo sciopero generale fino al pagamento dei salari?
Manca gravemente, insomma, alla classe operaia anche in Argentina la visione strategica e tattica complessiva e generale dello scontro sociale in atto, visione che solo il Partito Comunista rivoluzionario possiede e può fornire. I fatti di Buenos Aires mostrano quanto impellente sia la necessità della riorganizzazione politica della classe proletaria a livello internazionale.
Il capitalismo prepara con il dispiegarsi delle sue stesse contraddizioni l’esercito proletario che lo sconfiggerà, un esercito che uscirà allo scoperto ed ingaggerà la battaglia per la vita contro il capitale per deterministico effetto delle spinte economiche; ma che conseguirà in questa battaglia la vittoria definitiva solo se combatterà sotto la guida del Partito Comunista e sotto le direttive politiche dedotte dalla scienza economica e sociale marxista.
Questo da Buenos Aires a New York, da Roma a Seoul...
RIUSCITA RIUNIONE GENERALE DI LAVORO
Firenze, 26-27 gennaio 2002
[RG82]
Abbiamo aperto la riunione con un ricordo del compagno Enzo che da poco ci ha lasciati. Enzo, come tutti coloro che nella trincea del comunismo si sono allineati, la rivoluzione l’ha vista e vissuta e, oltre che materialmente fatta, in un certo senso l’ha anche vinta. Di costituzione proletaria, scevro dalle borghesi pose estetiche e personali che da marxista lo facevano sorridere, silenzioso sapeva e silenzioso sempre ha messo a disposizione le sue forze, in un ritmo continuo e sereno di impegno comunista, che non dev’essere né affannoso né rilassato. Su questo indispensabile, naturale ma a volte difficile, stile di milizia ci ripromettiamo e ci sforziamo di continuare il suo e nostro lavoro.
Anche questo ultimo impegnativo convegno ha visto il confluire della quasi totalità delle nostre forze, in parte arrivate nell’arco del venerdì e gli ultimi il sabato pomeriggio. Sono stati passati in rassegna gli impegni di studio, quelli a lunga scadenza e quelli che sembrano più impellenti, della crisi economica e del riarmo degli Stati, con suddivisione degli incarichi su più compagni.
Qui i resoconti schematici delle relazioni, che appariranno nel testo
esteso nel prossimo numero di Comunismo.
Risultato dei dati raccolti da più compagni, si erano predisposti i grafici sull’andamento dell’ultimo ciclo dell’economia capitalistica e del nuovo precipizio nella recessione nei principali paesi. I quadri coprivano l’arco gennaio 1999-gennaio 2002 per la produzione industriale e dal 1996 in poi per le quotazioni di borsa.
Si rilevava un nuovo sincronizzarsi del ciclo nell’economia delle principali potenze, tutte attualmente passate dall’espansione alla contrazione, con segni negativi già intorno e al di sotto del 5% e per il Giappone addirittura dell’11,5%.
Per gli Stati Uniti è stato agevole dimostrare come la crisi recessiva si fosse già pienamente manifestata il fatidico 11 settembre, comprovando che la mutata temperie nazionale e internazionale non ha provocato, ma nemmeno aggravato la crisi, come si è andato blaterando; al contrario, i dati provvisori indicherebbero che la caduta delle produzioni dopo l’11 settembre avrebbe rallentato.
Considerando l’insieme dell’ultimo ciclo americano eravamo portati, per le nozioni storiche generali della nostra dottrina, a sospettare della piena attendibilità della misura ufficiale dell’accumulazione Usa. L’industria di quel vecchio capitalismo dal 1985 al 1998 sarebbe cresciuta, più velocemente della media mondiale, al tasso medio annuo del 3,3% per 13 anni, il che è davvero difficile da far credere. Forse le statistiche del governo americano si sono basate sui bilanci di aziende redatti con il metodo della fu-Enron... Ulteriori confronti dovranno confortare questo nostro sospetto.
Si illustravano quindi i grafici dell’andamento delle borse valori delle principali piazze mondiali nei trascorsi otto anni, di andamento pressoché parallelo. Enorme é la crescita dal 1995 fino al culmine nei primi mesi del 2000, con moltiplicarsi delle quotazioni dalle 2 alle 3 volte e anche più. Qualcuno si è arricchito, se ha venduto, per l’ovvio motivo che altri, gli ultimi entrati nel gioco, gli hanno fornito i loro risparmi. La curva delle borse non è detto che si mantenga sempre parallela a quella del ciclo economico, anche se le profonde recessioni hanno sempre implicato, o sono state anticipate, da crolli in borsa, come si è verificato nel 1929 e, in proporzioni minori, nel 1974. Così sembra succedere adesso, quando le quotazioni scendono e già si sono rimangiate un quattro anni di “furore”.
Si mostravano quindi delle tabelle atte ad addivenire ad un raffronto fra la potenza industriale dei massimi paesi del mondo. Un primo quadro, aggiornamento di vecchi lavori di partito (riprodotti nel “Corso”), rappresentava la ripartizione percentuale della produzione industriale mondiale, traendone significative conclusioni. I dati partono dal 1870: a quella data la Gran Bretagna domina coi 432 millesimi del “condominio” capitalistico mondiale, Germania e Francia seguono col 170 e 144 e Stati Uniti con 179 millesimi. Ma questi ultimi ancora in ascesa, gli altri in lenta ma regolarissima caduta. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale i tre vecchi paesi si collocano, rispettivamente a 82, 43, 24 e all’enorme 536 americano. Tranne che per la distruttissima Germania, che ha poi breve ripresa, tutti sono poi in continua caduta, Stati Uniti compresi, incalzati dai giovani e vitali industrialismi Russo, Giapponese e via via quelli uscita dalle emancipazioni nazionali d’Asia.
Al 1985, prima dello smembramento dell’Urss e della riunificazione tedesca, avevamo, sempre per i tre, 22, 43, 13 e 244 gli Usa, incalzati dai 200 russi, più lontani i 62 giapponesi, questi ultimi, allora, ancora in aumento. L’aggiornamento che abbiamo tirato al 1998, con i dati ufficiali, darebbero 18 millesimi a Gran Bretagna, 11 a Francia, 17 ad Italia, 55 al Giappone, tutti in calo, ma ben 260 agli Usa, in forte aumento, il che non dovrebbe essere e dato sul quale, prima di rifiutarlo, ulteriormente studieremo, per non far la figura di Don Ferrante. (Ma quello del Manzoni è solo stupido pessimismo borghese e spocchioso verso il Seicento, nel quale tormentato secolo invece affondano le radici della scienza moderna).
Altra tabella, utile per il confronto, riportava la popolazione e il
consumo, sempre in millesimi, di elettricità: in essa figurano molti
più paesi, compresi i cosidetti nuovi industrialismi. Di questi
assurgono a rilevanza mondiale la Cina, l’India e il Brasile, non solo
in quanto a popolazione ma come consumatori di energia, benché i
consumi pro-capite siano ancora distanti da quelli dell’occidente.
Anche il terzo rapporto, ed ultimo del sabato pomeriggio, ha concorso allo studio sul confronto fra la potenza degli imperialismi. È stato mostrato e commentato un quadro riportante, in ordine decrescente, l’ammontare della spesa militare, espressa in milioni di dollari, sostenuta nell’anno 2000 negli Stati del mondo in cui è risultata più rilevante.
S’intende che solo in prima approssimazione tale grandezza indica la reale potenza di uno Stato sul piano militare, essendo poi da rapportare al costo della vita, al PIL e al numero degli abitanti di ogni singolo paese, e da valutare in relazione alla sua ripartizione fra le varie voci: personale, equipaggiamento, sviluppo e ricerca, operazioni, nuove commesse, etc.
Al primo posto ritroviamo senz’altro gli Stati Uniti con il valore di 280.000 milioni di dollari, che li distanzia nettamente da tutti gli altri e li qualifica come l’unica vera super-potenza del momento. L’andamento degli ultimi decenni è anticiclico rispetto a quello della crisi e della ripresa economica: crescita del 46% dal 1975 al 1985 (crisi economica), calo dal 1985 al 1998 (ripresa economica), lieve tendenza alla crescita dal 1998 al 2000.
Se si considera l’andamento delle singole voci si rivela una riduzione della spesa per il personale ed una notevole crescita per “ricerca e sviluppo”, laddove si può notare la tendenza a rafforzare sempre più la posizione di predominio dell’industria americana nel mercato mondiale delle armi. È in larga misura su questo settore che il capitalismo USA conta per ridare fiato ad una economia che punta verso la recessione. Ciò concorre a spiegare l’attuale politica internazionale sempre più aggressiva, se non provocatoria, tesa a determinare scenari di guerra e ad imporre la generale corsa agli armamenti.
Questa tendenza può certamente esser condivisa da un partner di rilievo, la Russia, che, per una tradizione consolidata, conta sulla produzione ed esportazione di armamenti come fattore determinante della sua ripresa economica.
Qui la spesa militare ha subito un crollo (nel 1998 si era ridotta ad un quarto di quella dell’ex URSS del 1991) che la colloca nel 2000 al valore stimato di 43.900 milioni di dollari, potenza non più paragonabile agli USA (che spendono 6,4 volte tanto) bensì nel gruppo degli inseguitori a distanza. Questo nonostante la forte ripresa negli ultimi anni della spesa e della produzione militare, rispettivamente del 43% e del 68% dal 1998 al 2000.
L’Europa comunitaria non è un’unica entità statale né quindi può essere considerata unica potenza militare. Se tuttavia sommiamo gli importi della spesa militare arriviamo a 176.586 milioni di dollari (il 63% degli Usa), indicando un mercato degli armamenti ragguardevole. Inoltre la spesa è sempre meno rivolta al personale, in generale diminuzione in tutti i paesi, e più verso gli equipaggiamenti più moderni. Quindi l’area europea è certamente uno degli sbocchi su cui punta l’industria bellica statunitense, tuttavia in concorrenza con quella locale.
Forte dunque è la pressione verso il riarmo esercitata a tutti i livelli: dei singoli governi, della Alleanza Atlantica, delle istituzioni comunitarie, etc., che si giustifica attraverso il delinearsi di scenari che richiedono sempre più l’impegno militare da parte dei singoli Stati, in nome della salvaguardia della sicurezza e della stabilità, che si dicono minacciate da aggressioni, terrorismo, etc.
Subito a seguito della Russia, il gruppo degli Stati più impegnati militarmente comprende, in ordine decrescente, le maggiori potenze industriali: Francia, Giappone, Inghilterra e Germania, con valori che rimangono compresi nell’intervallo fra i 40.000 e i 30.000 milioni di dollari. Segue la non tanto pacifica Italia che giustifica la sua presenza fra i potenti del mondo con la non disprezzabile spesa di 23.787 milioni, affiancata dalla Cina il cui dato di 23.000 milioni, solo stimato, richiede approfondimento.
Rimane un gruppo di disparati “paesi emergenti” i cui valori stanno fra i 20.000 e i 10.000 milioni di dollari: Arabia Saudita, Brasile, India, Turchia e Corea del Sud, la cui presenza nella classifica li evidenzia come i principali attori in aree determinate dello scenario imperialistico.
In generale si nota che, se la tendenza generale, dopo la fine della
guerra fredda, fu di riduzione della spesa in quasi tutti i paesi, quella
degli ultimi anni è verso il riarmo di tutti gli Stati e molto probabilmente
una brusca accelerazione in questa direzione sarà sicuramente il
dato che si potrà rilevare nei primi anni del secolo, sicuramente
dopo il fatidico 11 settembre e la dichiarazione dello stato di guerra
permanente più volte dichiarato dagli Stati Uniti d’America.
Il CICLO dello STATO nella STORIA UMANA
Riprendevamo domenica mattina con il seguito del rapporto sulla Stato. La parola Società ha due significati: può essere concepita da un lato come tipo di società, ed esistono, pertanto, nella storia umana diverse società, quali la feudale, la capitalistica, eccetera, dall’altro come società umana in generale. In tal caso, esiste una società che si evolve nella storia attraversando varie fasi in cui assume diverse forme. Per non confondere spesso usiamo per questa la parola specie umana. Così lo Stato può essere definito in un senso di continuità come lo Stato che si è evoluto nel tempo, ovvero nel senso della discontinuità, come Stato schiavista, asiatico, eccetera.
Fondamentale è cogliere la funzione di questo organo, opposta e negazione di quella di cuore ed cervello collettivo unitario che esiste anche, in disparate forme, nelle società a comunismo primitivo. Funzione dello Stato nelle società di classe, e fino al capitalismo industriale, è quella del gendarme. Lo Stato, organizzazione di uomini armati, nasce dalla divisione della società in classi ed ha la funzione di mantenere con la forza l’ordine sociale, cioè il dominio di una di esse sull’altra. La classe che s’impadronisce del potere sulla società soppianta la precedente classe dirigente distruggendone i vecchi apparati di controllo sociale. Lo Stato non è da intendersi come una macchina che vede l’alternarsi dei suoi utilizzatori, ma come una emanazione specifica di una classe dominante. Ogni classe rivoluzionaria non ha rinnovato il vecchio Stato, non lo ha riformato ma violentemente distrutto e ricostruito per le proprie esigenze.
Stati diversi corrispondono a diverse forme produttive e fasi di tali forme. Accennato agli Stati preborghesi ci si è soffermati sul più complesso di essi, come lo è la relativa società: lo Stato borghese e capitalistico, che schifiamo e di cui abbiamo il gran piacere di attenderne la rovina!
Si anticipano poi i punti fondamentali che caratterizzeranno lo Stato
della dittatura del proletariato, esso stesso gendarme, ma coordinatore
al fine del superamento del capitalismo mercantile e salariale e della
distruzione delle classi sociali. Con la risoluzione del conflitto sociale
la funzione di gendarme si rende inutile e quindi lo Stato si estingue,
lasciando così convergere, nel pieno comunismo, la gestione unitaria
delle cose umane in un punto di scienza e di volontà di specie,
che forse non sarà solo virtuale, evoluzione questo non dello Stato
ma semmai del Partito rivoluzionario di classe.
La BORGHESIA ITALIANA e la SUA VIOLENZA di CLASSE
Il rapporto che è stato esposto, e che rappresenta il primo di una serie, ha voluto ribadire e dimostrare come, nella società divisa in classi, la violenza non sia un fenomeno anomalo scaturito da disfunzioni dell’apparato statale e dell’organizzazione sociale, ma sia un fatto ineliminabile, come ineliminabile è la lotta di classe. Non a caso il Manifesto del Partito Comunista inizia con la categorica affermazione che «la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi».
Come i marxisti hanno tutto l’interesse ad evidenziare il carattere violento e classista della società, ed in modo particolare della società capitalistica, la classe dominante ed i partiti opportunisti ad essa asserviti hanno convenienza a nascondere al proletariato questa verità.
Così, quando questo incessante contrasto tra le classi si palesa esteriormente assumendo aspetti di vera e propria violenza dispiegata, anche in questi casi si cerca di negare la realtà lanciando reciproche accuse di rottura del patto sociale che armonizzerebbe ed equilibrerebbe gli interessi di classe. Avviene allora che, da parte dei partiti borghesi, si lancino stridule grida contro la violenza scatenata da teppisti e da quanti vogliono minare le basi della civile convivenza democratica. Dal canto loro, da sinistra, i partiti opportunisti fingono di scandalizzarsi e, a loro volta, rispondono con invettive contro quella violenza, messa in atto da parte del governo o solo di una parte della polizia. A questo modo, anche se ognuno accusa l’altra parte di essere in malafede, di voler strumentalizzare a fini di bottega gli eccessi (vuoi delle forze dell’ordine borghese, vuoi dei dimostranti), sia da destra sia da sinistra, tutti e comunque si auspicano una società ordinata dove le proteste e le divergenze di opinioni non travalichino i limiti imposti dall’ordinamento legale propri del sistema democratico rappresentativo.
È per il marxismo fuori discussione che, in una società divisa in classi, la classe dominante da sola detiene il potere, e ha tutto l’interesse a che regni armonia e pace sociale. Quindi potremmo dire che, in un certo senso, sono i borghesi ad avere ragione quando affermano che il ricorso alla forza ed alla repressione da parte dello Stato sono dovuti a necessità e non certo ad un gusto sadico di sopraffazione. Per loro la migliore delle condizioni sarebbe, se fosse possibile, il cristallizzarsi degli attuali rapporti sociali.
I partiti opportunisti esistono proprio allo scopo di mantenere questo equilibrio fra le classi all’interno dell’ordinamento e del modo di produzione capitalistico. Sono queste organizzazioni che, lanciando contro governo e capitalisti l’accusa di fomentare la violenza e di scatenare la lotta di classe, fanno balenare agli occhi del proletariato lo spettro di un ritorno all’aperta dittatura fascista. Il loro slogan potrebbe essere: “disarmare gli animi per non disarmare la democrazia”, o qualcosa di simile. La democrazia rappresenterebbe il regno della pace, della tolleranza, della libertà; il fascismo quello della guerra civile, della violenza, della illegalità.
Infatti, quando si parla di fascismo, almeno all’interno di quella che viene definita l’area o la cultura democratica, si intende un regime dove qualsiasi legge viene calpestata e dove domina sovrana la violenza indiscriminata ed irrazionale.
Non c’è dubbio che il fascismo abbia privato i cittadini delle libertà democratiche, abbia istituito uno Stato di polizia moderno ed efficace, in una parola non c’è dubbio che il fascismo non sia stato una dittatura nel vero senso del termine. Ma noi marxisti abbiamo però sempre messo in evidenza che le sopraffazioni fasciste colpirono soprattutto una certa parte di quella piccola e media borghesia che, non bisogna dimenticare, aveva visto con entusiasmo il nascere e lo svilupparsi del fenomeno fascista. Sul proletariato si abbatté tutto il peso del fascismo, nel senso della dittatura di classe dello Stato capitalista, ma il proletariato non si accorse granché del passaggio delle consegne tra liberalismo democratico e fascismo perché la dittatura democratica pre-fascista non era stata assolutamente meno violenta di quella instaurata nel corso del ventennio nero. Come, d’altra parte, non fu migliore la dittatura demo-catto-comunista scaturita dalla Seconda Guerra.
Ciò premesso, si dimostra come sia una grande menzogna quella che vuole attribuire solo al fascismo lo scatenamento della brutale, quasi irrazionale repressione nei confronti di ogni tipo di dissidenza e la creazione di speciali apparati e misure di polizia per il controllo del dissenso politico. Il capillare controllo di polizia non fu affatto inventato dal fascismo, da esso venne perfezionato e modernizzato. Del resto l’apparato della polizia, come il rapporto andrà a dimostrare, anche sotto il regime mussoliniano mantenne sempre ampli margini di autonomia. L’apparato repressivo di classe infatti non rappresenta gli interessi né di un governo né di un regime, bensì quelli dello Stato capitalista. A riprova è stato accennato alla vicenda di tanti dirigenti della polizia fascista che, transitati regolarmente dal precedente regime, superarono indenni la parentesi badogliana, il successivo periodo della Repubblica Sociale per essere poi tranquillamente travasati ai vertici dell’apparato repressivo democratico.
Dopo questa premessa di carattere generale si passava ad illustrare il percorso storico della formazione dello Stato italiano, partendo dal preunitario Regno sabaudo attraverso i successivi ampliamenti territoriali, mettendo in evidenza come l’unificazione italiana si inserisse nel quadro di un riassetto degli equilibri tra le grandi potenze che era scaturito dal congresso di Vienna e che oramai nessuno aveva più interesse a conservare.
Ma soprattutto uno Stato unitario italiano rappresentava per tutti una
garanzia contro la rivoluzione. «Non dobbiamo dimenticare – scriveva
Engels nel 1854 – che in Europa esiste anche una sesta potenza che in determinati
momenti afferma la sua egemonia su tutte e cinque le cosiddette grandi
potenze e fa tremare ciascuna di esse. Questa potenza è la rivoluzione.
Dopo che si è mantenuta a lungo silenziosa e riservata, essa viene
chiamata ora sul terreno della lotta dalla crisi commerciale e dalla scarsezza
dei generi alimentari. Da Manchester a Roma, da Parigi a Varsavia e a Pest,
essa è onnipresente, solleva la testa e si desta dal sonno leggero».
Questo temevano gli Stati europei, l’avvento della “sesta potenza”, e la
costituzione dell’Italia in Stato nazionale unitario, dopo il declino del
gendarme internazionale austriaco, costituiva una garanzia contro tale,
per loro, funesto evento.
ORIGINE dei SINDACATI in ITALIA
Il capitolo dello studio esposto alla riunione riferiva dell’atteggiamento che la neonata Lega Industriale Italiana auspicava si tenesse nei confronti della C.G.d.L. A seguito del Congresso operaio del 1908 il Bollettino della Lega affermava non potersi evitare la presenza della organizzazione generale dei lavoratori ma che questa poteva essere diretta in modi che tornassero vantaggiosi alla pace sociale, con la moderazione delle iniziative locali e delle singole associazioni aderenti.
Si vantava, anche allora, la “vittoria” del movimento economico sul partito politico, che rendeva «più piana la via alla collaborazione di classe».
Vi si ammette il concetto nostro della “cinghia di trasmissione” quando si afferma che «dal suo atteggiamento in un senso piuttosto che in un altro consegue una diversa orientazione del movimento operaio». In una felice sintesi dialettica il padronato italiano concludeva che «certo anche per gli industriali l’abbandono dei movimenti ciechi ed impulsivi non può che rappresentare un vantaggio nel regolare sviluppo della produzione economica. Ma non crediamo che il riformismo confederale e il neo-marxismo operaio siano meno temibili e pericolosi per la classe industriale».
Oltre ad una sostanziale tregua dell’azione di classe, l’associazione padronale auspica «un vasto disegno di trasformazione istituzionale del sindacato, attraverso il riconoscimento giuridico e la regolamentazione delle sue strutture interne, in organo pubblico di mediazione e contenimento della spinta delle masse lavoratrici, offrendo in cambio una collaborazione sul piano della legislazione sociale”.
Se ne illustrava il caso emblematico della Cassa di maternità
per la quale nel 1909 si vide la convergenza della C.G.d.L. e degli industriali
nel presentare allo Stato un memoriale comune al fine di ottenerne il contributo.
Questo veniva presentato dalla Lega Industriale come primo felice esempio
di quella collaborazione che avrebbe fatto premio sulla lotta di classe,
possibile qualora lo Stato si fosse fatto carico dei suoi compiti, che
poi saranno detti “corporativi”.
MARXISMO CONTRO le TEORIE BORGHESI sulla POPOLAZIONE
In fine di riunione ascoltavamo il resoconto di una approfondimento su un nuovo tema, la questione della popolazione e le sue leggi di incremento, fondamentale per il marxismo sul piano programmatico e per le implicazioni sulla tattica del Partito. Come pressoché in tutti i campi la borghesia ha enormemente accresciuto i dati per una conoscenza positiva del mondo, ma è del tutto incapace di poterli interpretare sia per interesse di classe sia perché non dispone di un ben strutturato metodo organico. Anche nella demografia, la scienza della popolazione, la borghesia naviga al buio, sia quando sbandiera cifre catastrofiche che individuano la causa della miseria crescente del pianeta nella troppa popolazione, sia quando invoca metodi malthusiani di controllo delle nascite (che, se da una parte cercano di evitare il crescere di un’enorme massa di proletari un domani minacciosa, dall’altra riducono oltre il necessario l’esercito del lavoro). In dottrina è rimasta alla teoria malthusiana, di nulla validità scientifica ma utile al Capitale per convincere il proletariato che questo è il migliore dei mondi possibili.
Nella relazione si è dimostrato innanzitutto l’errore di Malthus, secondo il quale la popolazione crescerebbe in progressione geometrica, mentre la disponibilità alimentare soltanto in progressione aritmetica. I dati riportati nella relazione e le ammissioni degli stessi statistici borghesi dimostrano che la crescita della popolazione ubbidisce a leggi assai più complicate e che, nella realtà storica, è cresciuta in proporzione molto minore della disponibilità alimentare, almeno per quanto riguarda quell’Occidente moderno per il quale Malthus fondò la sua teoria.
Il Partito considera fattore rivoluzionario la crescita numerica del proletariato nel pianeta, concetto a opposto a quello borghese e alle sue ciniche “soluzioni” al problema della “sovra-popolazione”. Per il materialismo dialettico «il momento determinante della storia è la produzione e la riproduzione della vita immediata» (Engels). Inoltre «non è l’individuo che ha sviluppato e nobilitata la specie, è la vita di specie che ha sviluppato l’individuo» (Fattori di razza e nazione). «Ogni grado di sviluppo ha una sua propria legge di popolazione», diceva Marx e se è la struttura economica a determinare la quantità di popolazione, quest’ultima a sua volta agisce sull’economia.
Ogni modo di produzione ha le sue leggi specifiche di popolazione. Come è stato tra l’altro dimostrato dalla conoscenza di tribù arretrate contemporanee, pigmei e amazzonici, non è, ad esempio, vero che in società preistoriche come quelle fondata sulla caccia e raccolta, la crescita di popolazione fosse “geometrica” per la mancanza di freni “morali” o “politici” alla procreazione e limitata solo dalla morte per fame dei troppi nati poiché già si conoscevano ed applicavano metodi razionali di controllo delle nascite. È con l’invenzione dell’agricoltura che la popolazione poté aumentare.
Soltanto con la nascita della società capitalistica la quantità di popolazione perde ogni sua misura “naturale” e “razionale” poiché saranno le convulse necessità di questo modo di produzione a richiamare o a respingere la popolazione, indipendentemente se questa abbia spazio e alimenti per sopravvivere o meno.
Ancora nel modo di produzione schiavistico la quantità di popolazione era dovuta alla richiesta di schiavi da parte dell’economia, dalla fertilità del territorio e dal grado di sviluppo dei latifondi. Solo con la crisi di quel modo di produzione l’Impero Romano visse una forte crisi demografica, e l’invasione dei prolifici barbari comportò prima di tutto una rivoluzione demografica.
Il modo di produzione feudale, superata la fase di guerre continue fra V e VIII secolo, presentò una lenta crescita di popolazione la cui causa era anche la possibilità del servo di poter lavorare la terra e vivere pacificamente, data la protezione militare offertagli dal nobile cavaliere. Carestie ed epidemie di peste fecero duramente decrescere la popolazione fra il XIV e il XV secolo.
La Spagna feudale, che manteneva bassa la crescita della popolazione, non poté mantenere l’espansione coloniale e commerciale; Olanda e Inghilterra, che vedranno trasformazioni radicali al proprio interno in senso capitalistico, sfrutteranno la crescita di popolazione per la conquista coloniale in tutti i continenti.
Nell’oggi capitalistico «accumulazione del capitale è aumento del proletariato» (Marx). Al Capitale occorrono numerosi proletari da cui trarne plusvalore e numerosi proletari in eccedenza affinché il costo del lavoro si tenga basso. L’esplosione demografica coincide in una data regione con la rivoluzione industriale. Europa e Nord America hanno avuto forte aumento demografico dal XIX secolo, mentre paesi quali Cina, Russia, India, di rivoluzione tardiva, l’hanno avuto soltanto in questo secolo.
Esiste una la legge della caduta tendenziale del saggio di popolazione, strettamente correlata a quella della caduta tendenziale del saggio di profitto. Se è vero che nel suo esplosivo sviluppo il Capitale richiede moltissimo proletariato, è altrettanto vero che con l’evoluzione dell’economia capitalistica vi è un aumento della parte spesa in capitale costante rispetto alla parte investita in capitale variabile, che relativamente diminuisce. Questa caduta di entrambi i saggi, dell’accumulazione come della riproduzione, si osserva graduale e costante nell’Occidente di vecchia industrializzazione, dove sono oggi pressoché a zero. In Africa si è ancora in fase di espansione dell’incremento.
Si è concluso poi con un tentativo di anticipazione delle leggi di popolazione del Comunismo futuro, che ipotizzammo in lenta crescita.
* * *
La relazione del lavoro sindacale era esposta da due compagni, delle
quali quella che riguarda i ferroviari è già riportata per
esteso in queste stesse pagine.
7. L’INSURREZIONE ALGERINA, RIVOLUZIONE TRADITA
DEL PROLETARIATO AGRICOLO
E DEI FELLAH (1954-1962)
(continua dal n. 288)
1) Storia moderna del proletariato algerino
Il dominio dell’Imperialismo
LA CENTRALIZZAZIONE FINANZIARIA
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3 - 4 ]
Il processo di centralizzazione, che abbiamo descritto nell’articolo “Le prime 200 imprese che governano il mondo” nel n° 279/2000 di questo giornale, interessa in diverse proporzioni tutti i livelli e le sfere della produzione capitalistica, non è un fatto isolato e specifico di qualche branca del settore produttivo ma si estende a tutto l’insieme del modo di produzione capitalista; in più tale processo non è un fatto eccezionale ma ne è invece punto inevitabile e costitutivo e ne indica quindi il grado di sviluppo raggiunto.
Inoltre centralizzazione industriale e centralizzazione finanziaria non si sviluppano indipendentemente o con traiettorie opposte o diverse ma sono correlate e dialetticamente congiunte: per realizzare la prima occorrono grandi masse di capitali, condizione favorita dalla centralizzazione finanziaria. Ma le grandi masse di capitali disponibili sono il risultato di enormi quote di plusvalore già prodotto e già accumulato dai capitalisti ed ottenuto tramite un sistema produttivo altamente sviluppato, in parte già centralizzato e diffuso in tutto il globo.
Parallelamente, anche se il mercato finanziario si amplia come massa di capitali disponibili e numero di piccolo-borghesi in esso coinvolti, il gruppetto di grandi capitalisti che direttamente posseggono, o hanno a disposizione per investire le enormi masse di capitali delle grandi centrali del capitale, si riduce di numero in modo che sembra essere inversamente proporzionale al crescere del denaro. La vetta dell’Olimpo capitalista s’innalza ma si restringe lo spazio a disposizione! Viene attribuita a W. Rathenau, industriale tedesco e fondatore dell’AEG, la celebre affermazione pronunciata nel 1909: «Trecento uomini, che si conoscono tutti personalmente, dirigono i destini economici dell’Europa e scelgono fra di loro i propri successori». Questa frase fece eco per la sua lapidaria attestazione di potenza proferita da un personaggio che nel gruppetto di testa sicuramente aveva un ruolo di primo piano.
Lenin riporta nel secondo capitolo de L’imperialismo titolato Le banche e la loro funzione una citazione da un articolo del 1914 che sembra una rielaborazione o una continuazione della precedente: «Altre banche seguiranno la stessa via – scriveva a proposito dell’elevamento del capitale della Disconto-Gesellschaft a 300 milioni di marchi la rivista tedesca Die Bank – e delle trecento persone che oggi governano economicamente la Germania, col tempo, non ne rimarranno che cinquanta, venticinque o anche meno». Oggi, dopo circa un secolo dalla prima affermazione, non sappiamo quanti siano i posti a sedere intorno alla tavola rotonda per i nuovi cavalieri e che nome abbia il nuovo re Artù anche perché, al di là della rivendicata loro privacy, il complesso intreccio dell’attuale sistema finanziario rende praticamente indecifrabile il vertice di tanta piramide economica. Dalle statistiche delle varie istituzioni borghesi riusciamo però ad avere un’idea di quanto lavoro socialmente prodotto e non retribuito si trovi concentrato in così poche mani.
Dall’articolo: Sviluppo, una parola da cancellare pubblicato in “Le Monde Diplomatique/Manifesto” del maggio 2001 riportiamo il seguente passo: «Secondo l’ultimo rapporto del programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp), se la ricchezza complessiva del pianeta è aumentata di sei volte dal 1950, il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 paesi recensiti è in piena regressione, così come la loro speranza di vita. Le tre persone più ricche del mondo hanno un reddito superiore al Pil dei 48 paesi più poveri del mondo messi insieme. Il patrimonio dei 15 uomini più ricchi del mondo supera il Pil di tutta l’Africa subsahariana. Infine, quello delle 84 persone più ricche oltrepassa il Pil della Cina, che conta 1,2 miliardi di abitanti». Se lo dicono loro dobbiamo ben crederci. E qui si tratta solo di patrimoni personali, ma se andiamo a riferirci a quelli centralizzati nelle grandi anonime istituzioni finanziarie le cifre sarebbero da sbalordire qualunque illuso sul progresso della democrazia all’interno degli Stati e dell’uguaglianza delle nazioni all’esterno, smentendo ogni utopia di un ultra imperialismo pacifista e consolatore dei deboli. «L’imperialismo – dice Lenin nel capitolo IX, Critica dell’Imperialismo, dedicato a demolire le posizioni sostenute da Kautsky – è l’epoca del capitale finanziario e poi dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, non già alla libertà».
A riguardo dei grandi capitali gestiti in maniera centralizzata anticipiamo alcune righe tratte da un articolo pubblicato in “Problemès économiques” n°2.495/1996: «Da soli, i tre più grandi fondi d’investimento americani inondano il pianeta con i loro 1.000 miliardi di dollari, pari al 65% del Pil francese». L’articolo parla di “operatori” senza volto che quotidianamente manovrano cifre colossali, pur solo sul mercato dei cambi, alla ricerca di un rapido guadagno ottenuto tramite la speculazione sulle anche minime oscillazioni che le monete hanno nell’arco della giornata.
Queste cifre a distanza di pochi anni sono ulteriormente aumentate, segno di un processo continuo e non reversibile, che culminerà nella generale crisi di sovrapproduzione. Questo crollo, già previsto dalla teoria marxista, è ormai considerato inevitabile anche da ampi settori dell’attuale scuola economica borghese che, pur nella sua contraddittorietà (per cui non si può minimamente parlare di teoria economia borghese imperialista), lo prevede ampio ed in un futuro non troppo lontano, se pur limitato a parte del settore borsistico e bancario.
Iniziamo con un breve sunto storico dell’integrazione dei mercati finanziari
nello sviluppo storico del capitalismo, leggendo l’attuale documentazione
attraverso alcune citazioni tratte dal Libro III de Il Capitale di
Marx, oltre a quelle del succitato testo di Lenin e dei nostri precedenti
lavori, che caratterizzano la nostra lettura classista.
Partiamo da Marx
Citazioni dalla Quinta Sezione del Terzo Libro, Suddivisione del profitto in interesse e guadagno d’imprenditore, ci permetteranno di inquadrare meglio i dati che analizzeremo A chi ci rimprovera che è roba vecchia di un secolo e mezzo fa e che i valori attuali sono quantitativamente così diversi che necessitano di nuove teorie, ecc. ecc., rispondiamo brevemente che l’essenza del capitalismo è rimasta sempre la stessa ed ha percorso la traiettoria dal Marx prevista appunto già un secolo e mezzo fa e che il nostro lavoro di oggi e di sempre è quello di verificare la correttezza di questa nostra teoria attraverso lo studio e la critica degli sviluppi dell’economia capitalista, lavori che non fanno altro che riconfermarla. Sì, “roba vecchia”, e ben collaudata!
Al capitolo 21°, Il capitale produttivo d’interesse, si analizza il caso di un possessore di una somma di denaro che la dà ad altro per utilizzarla come capitale che produce un profitto, per il periodo di un anno e al saggio medio di profitto; così facendo «gli trasmette la possibilità di produrre un plusvalore che non gli costa nulla e per il quale non deve sborsare alcun equivalente». Al termine del periodo convenuto il secondo paga al primo una parte del profitto creato, egli in tal modo paga il valore d’uso del denaro ricevuto come capitale per generare profitto. «La porzione di profitto ceduta viene definita interesse, che è solo un nome particolare per una porzione di profitto che il capitale attivo deve dare al proprietario di esso invece di appropriarsela».
Poco più avanti sulla giustizia più o meno naturale di queste forme di transazioni così si dice: «Le forme giuridiche in cui si presentano queste transazioni economiche come atti volontari di coloro che vi prendono parte, come risultato della loro volontà comune e come contratti al cui adempimento i singoli contraenti possono essere obbligati dal potere giuridico, non possono, proprio perché sono semplici forme, determinare questo stesso contenuto. Esse si limitano a manifestarlo. Quando corrisponde al modo di produzione, quando è conforme ad esso, questo contenuto è giusto. E’ ingiusto se con esso è in contraddizione».
Nella prima citazione abbiamo la chiave dello stretto legame che accomuna sempre le due sfere con cui si presenta il capitale e quello della loro reciproca necessità: quello industriale e quello finanziario. La seconda, con tutti gli strumenti ed artifici finanziari, le forme giuridiche, che il modo di produzione capitalista si dà, non è l’espressione di un capitalismo nuovo o diverso, ma sono solo forme in cui si manifesta e si attrezza, compreso il potere giuridico, per produrre e spartirsi nuovo plusvalore alla scala sempre più grande.
Altro elemento caratteristico di questo fluire di capitali che “produce” interessi è che «La proprietà non è ceduta, perché non ha luogo nessuno scambio, non si riceve nessun equivalente. Il ritorno del denaro dalla mano del capitalista industriale in mano al capitalista che presta, completa semplicemente il primo atto della cessione del capitale. Anticipato in forma di denaro, il capitale, tramite il processo ciclico, ritorna al capitalista industriale di nuovo in forma di denaro. Ma poiché il capitale non gli apparteneva al momento della spesa, così non gli può appartenere al momento del ritorno».
Alla fine del capitolo 23° Marx così definisce il rapporto che si instaura tra i due diversi tipi di capitalisti: «Il capitalista industriale è, rispetto al capitalista monetario, un lavoratore, ma un lavoratore in quanto capitalista, ossia in quanto sfruttatore di lavoro altrui. Il salario che egli domanda e riceve per questo lavoro corrisponde esattamente alla quantità di lavoro altrui che si è appropriato e dipende direttamente, in quanto egli si sottomette alla necessaria fatica dello sfruttamento, dal grado di sfruttamento di questo lavoro, e non dal grado dello sforzo che gli costa questo sfruttamento e che egli con un pagamento moderato può riversare su di un dirigente». Il lavoro sporco e più faticoso tutti i capitalisti lo lasciano alle loro schiere di sottoposti; che il lavoro sia durissimo, che i lavoratori siano sottoposti ad uno sfruttamento bestiale, per loro sono solo condizioni inevitabili per ottenere il loro “salario” senza macchiarsi mani e abiti. Questo è capitalismo!
Rispetto alla necessità del processo industriale Marx già nel libro II così scriveva: «Il capitale industriale è l’unico modo di essere del capitale in cui funzione del capitale non sia soltanto l’appropriazione di plusvalore, rispettivamente di plusprodotto, ma contemporaneamente la sua creazione. Esso è perciò la condizione del carattere capitalistico della produzione; la sua esistenza implica quella dell’antagonismo di classe tra capitalisti e operai salariati», e, alla pagina successiva: «Il processo di produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male necessario per fare denaro». Questo male necessario del capitale industriale per creare plusvalore è alla base della riproduzione del capitale, sia alla stessa scala di grandezza, cioè semplice, sia su scala più ampia, o allargata, quando una parte del plusvalore appropriato dalla classe dei capitalisti viene trasformata in capitale ed incomincia a fungere da capitale ex novo per produrre una nuova massa di plusvalore, in altri termini quando la riproduzione «non descrive un cerchio, bensì una spirale».
Qui non approfondiamo lo schema illustrato da Marx sullo scambio fra le due Sezioni in cui si divide il capitale industriale (quella che produce beni di consumo e quella che produce mezzi di produzione) poiché qui ci interessa il legame che intercorre tra il capitale finanziario e quello industriale nel processo di centralizzazione capitalistica nella fase dell’imperialismo, ove si esalta al massimo la condizione in cui il capitale si presenta e viene offerto come una merce il cui valore d’uso sta nel creare profitto. «Nel capitale che rende interesse il rapporto capitalistico giunge alla sua forma più esteriorizzata e più feticista. Noi abbiamo qui D-D’, denaro che produce più denaro, valore autovalorizzantesi, senza il processo che serve da intermediario tra i due estremi». Così lapidariamente inizia il 24° capitolo e più oltre precisa: «Soltanto nel capitale monetario il capitale è diventato merce, la cui qualità di valorizzare se stessa ha un prezzo fisso che è registrato volta per volta nel saggio d’interesse».
Centro di convergenza e di intermediazione dei singoli capitali monetari sono le banche ed i banchieri, i quali «divengono gli amministratori generali del capitale monetario» che giunge loro attraverso diverse vie a partire dal piccolo risparmio fino ai fondi di gestione e riserva delle grandi imprese ed istituzioni pubbliche. La concessione di questo capitale monetario da parte delle banche attiva «il credito (che) consente al singolo capitalista, o a colui che viene considerato come capitalista, di disporre entro certi limiti del capitale e della proprietà di altri. La possibilità di disporre del capitale sociale che non gli appartiene gli consente di disporre del lavoro sociale» (cap.27°). Questo ultimo importante concetto che, in particolare, dobbiamo sempre intravedere dietro le gigantesche transazioni finanziarie, viene così ribadito all’inizio del 30° capitolo: «La forma particolare dell’accumulazione di capitale monetario e di patrimonio monetario, che abbiamo sinora esaminato, si è ridotta infine a un’accumulazione di diritti della proprietà sul lavoro».
Lo sviluppo del sistema creditizio, sorto come reazione nei confronti dell’usura, che comunque aveva svolto una funzione rivoluzionaria nei modi di produzione precedenti al capitalismo in quanto centralizzava i patrimoni monetari laddove i mezzi di produzione erano frazionati, è stato continuo e sempre attento, come già ricordato, a non essere mai in contraddizione al modo di produzione. «Nel moderno sistema creditizio il capitale produttivo d’interesse viene adattato nell’insieme alle condizioni della produzione capitalistica». Marx a riguardo dell’usura afferma poi che essa non solo continua ad esistere, ma è stata liberata dagli antichi vincoli legislativi, di volta in volta modificati in quanto sono mutate le condizioni in ci essa opera. Il sistema bancario in regime di monopolio – valga il recentissimo esempio italiano – ha poi applicato nel tempo tassi d’interesse, definiti usurari, molto più alti del saggio medio del profitto. Come spiega Marx al cap 22° circa il saggio “naturale” dell’interesse: «il saggio medio del profitto deve essere considerato come il limite massimo assoluto dell’interesse». Così commentiamo con Lenin da L’imperialismo: «Il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usurario minuto, termina la sua evoluzione mettendo capo ad un capitale usurario gigantesco».
Da queste premesse possiamo ricostruire a grandi linee lo sviluppo del
capitale finanziario, commentando con Lenin i testi attuali in materia.
Le tappe del capitale finanziario
Anche dobbiamo attrezzarci con due citazioni di Lenin che sottolineano le precedenti di Marx: «In generale il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale o produttivo, di separare il “rentier”, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale importa una posizione predominante del “rentier” e dell’oligarchia finanziaria, e la selezione di pochi Stati finanziariamente più forti degli altri. In quali proporzioni si verifichi tale processo, ci è dimostrato dalla statistica delle emissioni di titoli di ogni specie» (cap.3°). La seconda citazione apre il capitolo successivo ed è la più esplicativa: «Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di “merci”; per il recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di “capitale”».
Lenin nel 1916, quando scrive L’Imperialismo, situa con molta cautela all’inizio del XX secolo, dopo la crisi del 1900, il passaggio di fase del capitalismo, dal dominio del capitale industriale al dominio del capitale finanziario. La cronologia degli attuali economisti, sviluppandosi su un arco temporale maggiore ed usando parametri diversi articola in modo differente i periodi dei movimenti dei capitali. Noi non ci poniamo come fondamentale il problema di stabilire la data esatta del passaggio del predetto dominio perché queste trasformazioni non sono mai nette e istantanee, tanto che anche in passato sono sorte in merito non poche polemiche. Noi, chiaramente, ci basiamo sulle valutazioni di Lenin.
Per quanto riguarda il periodo precedente, visto che nulla sorge dal nulla, facciamo riferimento alla nota 8 di Engels nel capitolo 30 de Il Capitale in merito alle crisi cicliche, nella quale situa gli inizi del commercio mondiale nel periodo 1815-47, da cui prendiamo questo passaggio: «Dopo l’ultima crisi generale del 1867 si sono verificati dei profondi cambiamenti. Con il colossale sviluppo dei mezzi di comunicazione – transatlantici a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, il canale di Suez – il mercato mondiale è divenuto una realtà operante. Accanto all’Inghilterra, che precedentemente deteneva il monopolio dell’industria, troviamo una serie di paesi industriali che le fanno concorrenza; al capitale che si trova in eccedenza in Europa vengono offerti in tutte le parti del mondo campi di investimento infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si ridistribuisce in misura molto maggiore, mentre la sovraspeculazione locale viene superata con maggiore facilità».
Mentre le navi a vapore, un’articolata rete ferroviaria presente in
30 paesi nel 1870 e il canale di Suez, aperto nel 1869, riducevano in modo
considerevole il tempo di circolazione delle merci, il telegrafo elettrico
divenne strumento indispensabile per tutte le transazioni economiche a
scala mondiale: ordini, accrediti, cambiali commerciali, operazioni di
borsa raggiungevano i mercati più lontani nel tempo massimo di due
giorni e avevano corso tramite la continua messa a punto di un adeguato
sistema unico multilaterale dei pagamenti internazionali. Il rapido sviluppo
della rete telegrafica così lo attesta: 1852 Londra-Parigi con cavo
sotto la Manica; 1864 New York-S.Francisco, 5 anni prima del collegamento
ferroviario; 1866 secondo cavo sottomarino tra l’Europa e l’America; 14
anni dopo erano attivi 9 cavi attraverso l’Atlantico. Nei due anni successivi
una linea partendo da S.Pietroburgo attraverso la Siberia arrivò
a Vladivostok e da lì a Nagasaki, Shanghai e Hong Kong. Nel 1870
3 cavi sottomarini univano Londra con Bombay; l’anno successivo divenne
operativo il collegamento tra Londra e Darwin in Australia con una tariffa
di 8,9 sterline per 20 parole tra le due città, mentre occorrevano
100 franchi per inviare lo stesso messaggio dall’Europa all’estremo Oriente.
Le loro interpretazioni
Tra le varie interpretazioni in circolazione ne scegliamo due la cui critica ci può aiutare nel nostro lavoro.
La prima, che possiamo definire di tipo “politico”, è rappresentata ad esempio in Multinazionali ed esportazione di capitali (Editori Riuniti, 1976). Il testo, nonostante espliciti riferimenti a Marx, Hilferding, Lenin, Bucharin e Luxemburg, si fonda sulla falsa opposizione fra capitalismo privato e capitalismo di Stato. Separando indebitamente i momenti di Stato e di Capitale, in regressione dal concetto storico-dialettico di Stato del Capitale, sostiene i noti errori dello Stato guida dell’economia e del capitalismo di Stato. Aumentando il ruolo dello Stato, in quanto il capitale sarebbe sempre meno capace di vita “autonoma”, suddivide lo sviluppo del capitalismo nei seguenti periodi. Una prima fase dal 1870 al 1880 definita del capitalismo della “libera concorrenza”, «caratterizzata da una relativa immobilità internazionale del capitale: l’accumulazione si svolge quasi esclusivamente su base nazionale, nonostante qualche esempio di espansione all’estero; mentre si verifica in questa fase una certa mobilità internazionale della manodopera, quella del capitale resta ridotta poiché l’accumulazione allargata sul mercato interno non incontra ancora limiti importanti». In questo periodo, come ricorda Engels, si formano le basi per l’espansione su scala mondiale del capitalismo. Con il glorioso esempio della Comune di Parigi del 1871 e il proletariato sceso sul terreno dello scontro armato contro il capitale, inizia anche il cammino della lotta di classe organizzata. L’epoca successiva, definita concordemente da questo e dagli altri economisti borghesi come classica dell’imperialismo, è a sua volta suddivisa in due momenti diversi: 1880-1914, del «capitalismo monopolistico privato», e 1914-1940, del «capitalismo monopolistico di Stato». Seguirebbe poi un terza, dal 1945 alla data del testo, definita come epoca del «capitalismo monopolistico di Stato mondiale».
In breve possiamo dire che l’impianto generale di questa lettura, compresa la datazione, risulta basata sullo scontro tra capitale privato contro quello di Stato e successivamente tra i vari capitalismi di Stato a livello mondiale che ci porta alla vecchia teoria dei blocchi contrapposti tra Usa e Urss, per altro mai menzionata, quasi sinonimo di male contro bene; è questa un’analisi che non ci appartiene e che rifiutiamo anche se usa un frasario marxista.
La seconda, che possiamo definire “tecnica-economica” è tratta
da uno studio del Fondo Monetario Internazionale del 1997, pubblicata in
“Problèmes économiques” n°2541-42/1997, che si basa sul
flusso dei capitali esteri in percentuale rispetto il Prodotto interno
lordo di 12 paesi capitalisticamente più sviluppati, ex Urss esclusa,
calcolata su una media mobile, ovvero la media aritmetica dei valori rilevati
in un arco temporale sempre eguale, in questo caso di cinque anni. Questo
tipo di analisi, con i suoi grafici, ci mostra la variazione positiva o
negativa della quota esterna del flusso dei capitali ma non la massa di
essi; essendo in percentuale del Pil qui non abbiamo nessuna indicazione
circa la massa assoluta del flusso dei capitali interessati, cresciuta
enormemente, e che altre fonti ci forniranno. I paesi, in ordine alfabetico,
sono: Argentina, Australia, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Italia,
Giappone, Norvegia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti.
Guerre e cicli economici
Questo studio evidenzia 3 grandi cicli che vanno dall’inizio, posto al 1870, al più grande massimo storico, sempre inteso come percentuale, calcolato al 1918; il secondo da questa data al più basso dei minimi storici indicato intorno al 1970; il terzo da quel minimo al 1996. Il primo periodo di 48 anni, inizia con un valore del 3% nel 1870, cresce al 5% nel 1890, torna al 3% con la crisi del 1900 per salire decisamente al 6% durante tutta la prima guerra mondiale. L’accelerazione più forte è durante il conflitto, ulteriore conferma che le guerre sono un ottimo affare su cui i capitalisti bisogna assolutamente che si buttino. Il secondo periodo, di 49 anni, evidenzia la continua discesa dal 6% del 1918 al 2% del 1929, la stasi a quel valore fino al 1939 ed una ripresa al 3% in occasione del secondo conflitto mondiale per poi discendere al minimo storico dell’1% a cavallo del 1970. Il terzo periodo, di 29 anni, mostra che la debole ripresa al 2% si esaurisce rapidamente prima del 1980 e rimane costante su quel valore fino alla fine tabella. Non ci risulta essere pubblicato l’aggiornamento fatto con gli stessi criteri dalla stessa fonte.
Periodo-durata Anni % Export.Capitali / Pil 1870-1918 48 1870 3 1890 5 - massimo 1900 3 - minimo 1918 6 - massimo dei massimi 1918-1967 49 1929 2 - minimo 1939 2 - minimo 1942 3 - massimo 1967 1 - minimo dei minimi 1967-1996 29 1980 2 1996 2.
Questa analisi inizia la sua datazione al 1870. Lenin, lo ricordiamo, propone di datare dalla crisi del 1900 l’inizio dell’epoca imperialista. Ma se utilizziamo questi dati del Fmi iniziando dal 1900 e spezziamo il ciclo lungo 1918-1967 in due brevi fra le due guerre possiamo fare altre considerazioni. Innanzi tutto le guerre, maggiormente quelle mondiali, sono un fatto economico determinante: la guerra è un tremendo bagno di sangue, distruzione e morte per il proletariato, mentre invece è un bagno rivitalizzante per il capitalismo perché, distruggendo in modo massivo ed organizzato capitali e forza lavoro in esubero, può ricominciare un nuovo ciclo con nuove possibilità di smercio.
Abbiamo così i seguenti cicli brevi: 1900-1914; 1914-1940; 1940-1974 e 1974-1996.
Il primo, 1900-1914, è di espansione finanziaria incontrollata, non esistendo restrizioni ed accordi internazionali di alcun tipo; unica garanzia per la libera circolazione dei capitali era che la maggior parte dei paesi del mondo aderiva al riferimento aureo (Gold standard) il cui ruolo chiave era la garanzia della convertibilità in ogni momento delle monete nazionali in oro.
L’esportazione di capitale riguarda soprattutto gli investimenti “di portafoglio”, cioè azionario, circa i tre quarti del totale, che si dirigono verso le colonie e i nuovi paesi, ovvero Stati Uniti, Canada, Argentina, Uruguay, Sud Africa, Australia e Nuova Zelanda. Questi paesi assorbono il 40% degli investimenti totali che sono diretti al controllo delle materie prime, alla costruzione di ferrovie, oltre che ad attività puramente speculative, come la gestione del debito estero che i governi di questi paesi usano per esigenze militari, per il loro funzionamento e il potenziamento delle loro strutture. Il flusso di denaro viene ripagato con un allettante “taglio di cedole”. In questo periodo gli investimenti all’estero di Francia e Gran Bretagna triplicano in valore, mentre crescono ancora di più per la Germania che recupera così il suo ritardo. La Gran Bretagna in questo periodo detiene saldamente il primato: negli anni tra il 1905 e il 1913 i flussi verso l’estero di capitale da tale paese erano pari in media al 7% del suo reddito nazionale, raggiungendo addirittura il 9% nel 1914. L’investimento diretto all’estero nel settore produttivo costituisce ancora una minima parte sul totale; esso è un fenomeno soprattutto di imprese originarie di piccole potenze, Svizzera, Olanda, e sono rivolti verso settori non strategici.
Sempre in questo periodo si assiste al cambio di segno del saldo del flusso di capitali del Canada, che nel breve periodo del Primo conflitto mondiale passa da -15% alla parità, mentre gli Usa da una posizione di parità salgono al 4%: a causa degli impegni bellici la massa di capitale da investire all’estero si riduce enormemente in quanto si introducono restrizioni nazionali ai movimenti finanziari mentre si richiamano dall’estero altri capitali per alimentare la macchina dell’industria di guerra.
La prima guerra mondiale segna una svolta importante ed apre il secondo ciclo breve. L’epoca dal 1914 fino al 1940 è di caduta dell’investimento internazionale: nel 1914 assommava in totale a 44 miliardi di dollari, di cui più di 20 miliardi dalla sola Gran Bretagna; nel 1924 si era scesi a 33 miliardi, per poi risalire a 47 nel 1929 e a 53 nel 1938; ma a prezzi costanti 1914, nel 1938 si era in realtà ancora a 30 miliardi, il 68% del ’14.
È in questo periodo che gli Stati Uniti si affermano come potenza economica principale.
Allo scoppio della Prima Guerra la convertibilità in oro delle monete nazionali è sospesa dai paesi belligeranti, restando sicuri solo i lingotti d’oro, ma si introducono stretti controlli sui cambi e sui flussi di capitali. Dopo la guerra l’insieme delle restrizioni sono smantellate ed è reintrodotta la convertibilità delle monete per una sostenuta mobilità di fatto dei capitali, ma i rapporti di scambio del dopo guerra non hanno lo stesso valore e credibilità di prima.
Il nuovo Gold exchange standard, inizialmente approntato per normalizzare e stabilizzare gli scambi, prevedeva che le banche centrali detenessero come riserve, valute (di solito sterline o dollari) convertibili in oro invece che oro stesso. La giustificazione tecnica di tale manovra consisteva nel modesto incremento della produzione aurifera in quegl’anni. Ai primi avvisi di burrasca però la richiesta di cambiare carta con oro rivelò la fragilità del sistema. Con l’inizio della crisi del 1929 la maggior parte dei paesi impose misure restrittive anti crisi sul tasso di scambio, svalutazioni competitive e fu sospesa la stessa convertibilità. Progressivamente il mercato finanziario si inceppò: alla vigilia della Seconda Guerra mondiale il flusso di capitali si era praticamente interrotto.
Il terzo ciclo che si apre dopo il Secondo conflitto mondiale vede il definitivo imporsi degli Usa come prima potenza economica e militare mondiale al posto dell’impero britannico e la divisione in due aree di influenza e controllo dell’intero pianeta tra Usa ed Urss. Sul piano tecnico le due guerre presentano fondamentali differenze che si ripercuotono sul piano economico: nella Prima gli eventi bellici riguardavano in maniera quasi esclusiva gli eserciti regolari, le loro linee di movimento ed il loro armamentario; città, popolazioni civili ed impianti industriali non erano coinvolti se non in misura molto marginale. I bombardamenti a lunga distanza, tipo i cannoni delle acciaierie tedesche della Krupp, la grande Berta, erano un fatto isolato. Nella Seconda invece, dato l’enorme sviluppo ed impiego degli aerei a lungo raggio, gli eventi bellici hanno colpito massicciamente le grandi città con i bombardamenti “a tappeto” degli impianti industriali collegati alle forniture militari, delle infrastrutture ferroviarie, stradali e portuali e dei quartieri proletari fornitori della forza lavoro necessaria alla produzione; in un certo senso venne a cessare la distinzione tra obbiettivo civile e militare, divenuti entrambi bersagli da colpire.
«Nel 1944, il 22% della forza lavoro inglese era nelle forze armate e il 33% aveva un’occupazione legata alla guerra; per l’America tali dati erano rispettivamente il 18,5% e 21,5%», scrive Foreman-Peck. L’obiettivo della guerra capitalista è la distruzione massiccia dell’impianto produttivo dell’avversario, sia nella parte dei mezzi di produzione sia della forza lavoro proletaria, condizione necessaria per riavviare poi un nuovo ciclo di accumulazione. Le bombe atomiche sul Giappone hanno poi collaudato il sistema di enormi distruzioni con singole operazioni. Per quanto riguarda la Prima Guerra Mondiale troviamo a pag. 424 del Nuovo Atlante Storico Garzanti Ed.1997 alla voce Perdite Umane il totale di 8.690.000, suddiviso fra tutti i paesi partecipanti; alla voce Spese di Guerra c’è un totale di 956 miliardi di marchi oro.
Per quanto riguarda la Seconda Guerra da un corrente volume di storia troviamo altra serie dettagliata di tabelle da cui ricaviamo una stima complessiva di 55 milioni di morti, così ripartita fra i due continenti: Europa, soldati caduti e dispersi in totale 19.070.000 per i 18 paesi coinvolti; morti civili in totale 14.730.000 fra i 17 paesi considerati; ebrei uccisi in totale 5.978.000 fra i 17 paesi. Il totale dei morti per l’Europa è di 39.778.000 con il 52% dei morti fra i civili. Per l’Asia la tabella così dice: soldati caduti e dispersi 5.330.000 fra i 6 paesi coinvolti mentre i morti civili sono 10.000.000 per la Cina e 360.000 per il Giappone. Il totale dei morti i Asia è di 15.690.000 di cui il 68% fra i civili.
Sul piano della circolazione finanziaria dopo la Seconda Guerra Mondiale il sistema monetario internazionale, ratificato a Bretton Woods nel 1944 sulla falsariga dell’esigenza del capitale americano, secondo le indicazioni dei due economisti Keynes e Dexter White, attribuiva grande importanza all’applicazione di nuove regole multilaterali, precise restrizioni ai movimenti di capitali, la reintroduzione della convertibilità del dollaro in oro, che fu fissata in 34 dollari l’oncia, e un sistema di cambi fissi ma ritoccabili rispetto alcune monete più forti.
Il tutto era modulato dall’urgente bisogno di denaro, prevalentemente dollari, necessari a finanziare la ricostruzione post bellica, i risarcimenti e i prestiti fatti durante la guerra tramite il Piano Lend-Lease, Affitti e Prestiti. Mediante questo accordo circa il 5% del reddito nazionale americano fu trasferito durante la guerra verso l’impero britannico e non veniva richiesto il pagamento in contanti per munizioni, equipaggiamenti e per gli alimenti conservati spediti in Gran Bretagna da impianti costruiti appositamente negli Usa. Alla fine del 1945 l’intero debito britannico residuo, pari a 16 milioni di dollari, fu annullato da parte americana.
Un’ulteriore invasione economica americana avvenne in questo modo: «Dal 1948 al 1952 il Piano Marshall mise a disposizione dell’Europa circa 13.150 milioni di dollari. I paesi che ricevettero di più furono il Regno Unito (3.176 milioni di dollari), la Francia (2.706 milioni di dollari), l’Italia (1.474 milioni di dollari), la Germania occidentale (1.389 milioni di dollari), l’Olanda (1079 milioni di dollari), la Grecia e l’Austria (700 milioni di dollari ciascuna)».
Le due fondamentali istituzioni economiche sorte da Bretton Woods per il rilancio economico, erano il Fondo Monetario Internazionale, che doveva mantenere la stabilità dei cambi e risolvere i problemi collegati alla bilancia dei pagamenti, e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS). Il Fmi stabilì come pregiudiziale che i paesi membri devono fissare il valore nominale delle loro valute in relazione all’oro o al dollaro, valore che può essere modificato per correggere eventuali squilibri. Il Fmi agiva come una banca che faceva prestiti e riceveva depositi dai paesi membri che versavano le loro quote stabilite in base al reddito nazionale, al commercio ed alle sue riserve internazionali, e poteva aumentare lo stock delle sue riserve internazionali. Un quarto delle quote doveva essere pagato in oro o dollari americani ed il resto nella valuta nazionale del paese partecipante. Lo Stato così forniva la sua valuta nazionale in cambio della valuta di un paese con economia e riserve più forti. Era consentito un accesso automatico al credito fino al 25% della propria quota. Uno Stato membro poteva accedere a prestiti fino al punto in cui il Fondo avrebbe posseduto valuta pari al 200% della quota del paese richiedente.
Poiché i prestiti erano fatti in dollari, un fiume di essi invase ben presto il mondo ma i grandi economisti del capitale non seppero prevedere la necessaria crescita delle riserve per venire incontro all’aumento degli scambi internazionali. Inoltre lo stato caotico in cui versavano tante economie nell’immediato dopoguerra provocò grandi difficoltà a tutto il sistema e le sue regole furono ben presto ignorate, anche in seguito alla disastrosa esperienza inglese di reintrodurre la convertibilità della loro moneta nel 1947. Inizialmente i prestiti venivano erogati senza troppi vincoli poiché lo scopo era di riavviare l’infernale ciclo della produzione capitalista e di arginare il “blocco comunista” formato dall’Urss e da i suoi paesi satelliti. Col tempo però il Fmi imporrà, soprattutto verso i paesi più deboli, severe “norme di aggiustamento strutturali” per contrastare la generale crisi economica. In questo modo l’economia di questi paesi veniva fortemente condizionata dai vertici del Fmi e di fatto si è sempre tradotta in un profondo peggioramento delle condizioni di vita per il proletariato.
La Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, poi chiamata Banca Mondiale, disponeva di un capitale complessivo che era composto dai versamenti di singoli paesi: il 2% da versarsi in oro o dollari, il 18% da versarsi nelle valute dei paesi membri, mentre l’80% costituiva il fondo di garanzia. In questo modo anche i paesi più poveri potevano con una minima quota partecipare ai programmi di finanziamento economico.
Ma tutti i buoni propositi degli economisti furono ampiamente disattesi in breve tempo; il sistema apparentemente funzionava solo perché la ricostruzione post-bellica aveva dato una boccata d’ossigeno e di apparente giovinezza al sistema di produzione capitalistico; ma per ottenere ciò si doveva incatenare il proletariato mondiale a nuove e più dure condizioni di sfruttamento in tutti i luoghi di lavoro, mentre ogni organizzazione capitalista, sia come gruppo nazionale sia multinazionale, cercava di trarre un proprio immediato vantaggio secondo le leggi della “libera concorrenza”.
Il sistema legato agli accordi di Bretton Woods entrò in crisi anche a causa di grosse manovre speculative di grandi masse di capitali privati che trovarono il sistema di aggirare i suoi vincoli e le riserve auree americane vennero pesantemente attaccate da più parti. Nel 1967 il generale de Gaulle convertì in oro tutte le riserve francesi di dollari, con pesanti ripercussioni sul mercato mondiale dell’oro. Nel 1971 Nixon abolì la convertibilità del dollaro in oro, come atto ultimo della progressiva riduzione dell’indice di copertura fra oro delle riserve e valuta in circolazione, già precedentemente sceso al 10%, e il sistema nato dalla Seconda Guerra Mondiale collassò definitivamente. In quegl’anni il flusso dei capitali esteri scende al minimo storico dell’1% e contemporaneamente, nel 1974, si ha la prima grande crisi di sovraproduzione del secondo dopoguerra, subdolamente definita “petrolifera”, che segna la fine della ricostruzione e dell’effimero boom economico degli anni ’60.
Il sistema finanziario internazionale fu costretto a passare ad un regime di tassi di cambio mobili tra le divise più forti e, nell’arco di un decennio, i principali paesi via via smantellarono i loro controlli sul movimento dei capitali: Stati Uniti e Germania nel 1974, Regno Unito nel 1979, Giappone per le linee generali nel 1980 ed il resto dell’Europa alla fine degli anni ’80. Il rigido sistema del riferimento aureo e del controllo sui cambi da parte delle banche centrali, precedentemente in vigore, era assolutamente incompatibile con la completa mobilità dei capitali richiesta dall’esplodere del mercato finanziario a scala mondiale, condizione necessaria per effettuare anche le grandi operazioni di centralizzazione produttiva, genericamente indicata come globalizzazione.
Nel periodo dalla crisi del ’74 ai giorni nostri si verifica un nuovo ciclo di grandi ristrutturazioni tecniche nella sfera della produzione che determina un vertiginoso aumento della composizione organica del capitale industriale; ciò porterà alla progressiva riduzione della forza lavoro, in modo marcato nelle grandi aziende, lo spostamento di intere produzioni a basso contenuto tecnico verso i paesi in via di sviluppo dove il costo della forza lavoro è sensibilmente più basso rispetto i paesi europei e del Nordamerica, nella ossessivo sforzo di contrastare la progressiva caduta tendenziale del saggio del profitto.
Il tutto si riflette nei saloni di un giganteggiante mercato finanziario in continua fase di centralizzazione, che da una parte fornisce le masse monetarie necessarie alle grandi multinazionali e dall’altra si affanna incessantemente per tutto il pianeta alla ricerca di quel sopralavoro operaio di cui si nutre e che, unico, lo mantiene in vita.
L’Argentina è il mondo
Crisi sociale e patacones governativi
(Continua dal numero
287)
LE DIFFICOLTÁ DEGLI ANNI ’90
Nel 1989 il debito estero era cresciuto a 63 miliardi di dollari; successivamente nel 1995 salirà a 77,4. Il rapporto rispetto al Pil era del 28% e quello pro capite di 8.920 dollari, il più alto nell’area ed ora di poco inferiore a quello del Cile, mentre il rapporto tra servizio del debito, gli interessi da pagare, sulle esportazioni era passato alla ragguardevole quota del 31,8%.
A questo punto lo Stato, per uscire dalla fase di stallo e scongiurare la bancarotta, fu costretto a varare tutta una serie di misure per riuscire a raccogliere i fondi necessari a pagare gli interessi sul debito in modo da potere soddisfare il pescecanismo dei creditori internazionali.
Ebbe inizio nel 1989, con l’elezione del presidente peronista Menem, una fase caratterizzata da una profonda ristrutturazione della economia, portata a compimento nei suoi tratti essenziali entro la prima metà degli anni ’90, avente per obbiettivo il raggiungimento della stabilità monetaria e l’incameramento da parte dello Stato di quanti più soldi possibile per poter far fronte agli obblighi finanziari internazionali che necessitavano di essere adempiuti ad ogni costo, anche se ciò comportava nel concreto lo smantellamento dell’economia pezzo per pezzo per consegnarla nelle mani delle oligarchie finanziarie internazionali e soprattutto l’affamamento del proletariato argentino e la rovina dei ceti medi.
Le iniziative di risanamento si indirizzarono in tre direzioni principali: privatizzazioni; liberalizzazione commerciale e riforma tributaria; riforma finanziaria e monetaria.
Il piano di privatizzazioni, inserito nel contesto della Ley de Reforma del Estado ha portato alla svendita con la messa all’incanto di praticamente tutte le principali aziende pubbliche operanti nei più svariati settori: comunicazioni e telefonia, linee aeree, impianti petrolchimici, attività estrattiva, imprese siderurgiche, centrali idroelettriche e termiche, reti e centrali elettriche, banche provinciali, poste, aeroporti. Nel periodo tra il 1990 e il 1994 più del 60% degli investimenti nei settori privatizzati era di origine estera; i flussi provenivano principalmente da Stati Uniti, Spagna e Italia, ma in minor misura anche da Cile, Francia, Canada e Gran Bretagna.
Nell’ambito commerciale e tributario vennero ridotte le tariffe doganali ed aumentate le imposte.
La riforma finanziaria e monetaria comportò principalmente la completa liberalizzazione dei mercati finanziari, l’eliminazione dei controlli sui tassi d’interesse e l’entrata in vigore della legge di Convertibilità nell’aprile del 1991, che in sostanza introduceva il sistema della parità di cambio tra Dollaro e Peso nel rapporto fisso di 1:1.
Le misure portarono la stabilizzazione finanziaria e, con l’abbattimento violento dell’inflazione che scese a livelli europei, la tanto invocata dagli affaristi della finanza internazionale stabilità monetaria, ma erano null’altro che toppe su falle irrimarginabili.
Per qualche tempo assicurarono allo Stato i soldi per pagare il debito e restituirono alle lobby capitalistiche la fiducia nel sistema finanziario argentino, tanto che tutti gli organismi dell’alta finanza internazionale, le banche, il FMI, le svariate cricche del credito e della intermediazione mobiliare tessero lodi sperticate al governo argentino, alla sua “dinamica politica economica” condotta con “spregiudicata efficacia”, ed altri ruffianamenti simili simboleggianti la crassa soddisfazione dei borghesi per la messa in salvo delle loro rendite.
Nel frattempo la disoccupazione schizzava dal 6,9% del maggio 1991 al 18,4% del maggio 1995 con punte di oltre il 20% nella città di Buenos Aires (Fonte INDEC).
Ma la tanto vantata stabilità, costruita sulla miseria e sulla fame, era solo un fuoco di paglia, gli interessi sul debito succhiarono avidamente in breve tempo i fondi rastrellati con le privatizzazioni e il rischio di bancarotta fece di nuovo la sua minacciosa comparsa all’orizzonte. Il primo segnale fu la crisi finanziaria che investì nel 1994 il Messico e che ebbe conseguenze destabilizzanti in tutta l’area latino-americana (“effetto tequila”).
Nel 1996 il presidente argentino Menem si impegnò per la rinegoziazione di un credito dal Fmi di 800 milioni di dollari garantendo di poter ridurre di 1,75 miliardi di dollari la spesa pubblica e di aumentare di 4 miliardi di dollari le entrate fiscali: l’evasione fiscale è uno dei mali endemici argentini oltre la corruzione ed il clientelismo. Questa garanzia voleva dire ridurre drasticamente l’assistenza pubblica in fatto di sanità, istruzione e previdenza e spremere soldi all’aristocrazia operaia ed alle classi medio-basse tramite la tassazione dei conti bancari, giacché difficilmente sarebbero state colpiti, vista la generale corruzione, gli appartenenti alle classi medio alte che, soprattutto quelle di origine ispanica, usano Svizzera e Spagna come deposito principale delle loro ricchezze. Come conseguenza di queste misure di austerità arrivarono anche capitali privati internazionali per stimolare l’economia, che però si esaurirono in fretta poiché i cosidetti “fondamentali dell’economia” invece di migliorare peggioravano a causa dei provvedimenti adottati per contenere il disavanzo della bilancia commerciale, portando il sistema economico alla recessione. Il prezzo pagato per ottenere un sensibile avanzo della bilancia commerciale nel 1995, ad esempio, di 1 miliardo di dollari, contro un disavanzo di 4,9 dell’anno precedente, è stata la riduzione del Pil del 4,4% rispetto l’anno precedente ed un aumento del tasso di disoccupazione al 19%. In pratica hanno esportato al massimo, ridotto all’essenziale le importazioni, chiuso gli impianti ritenuti improduttivi ed onerosi e privatizzato e venduto quelli più competitivi.
L’Argentina torna nuovamente sull’orlo del baratro e la crisi mondiale del capitale si appresta a fare un’altra vittima. Gli impotenti economisti borghesi, che attoniti aspettano gli eventi, nulla di buono possono fare per il Capitalismo. Con la crisi storica del ’74-’75 è terminato il ciclo di espansione post-bellica legato alla grande ricostruzione consentita dalle immani distruzioni del secondo conflitto mondiale, ed è iniziato il cammino verso la crisi catastrofica generalizzata. A questa crisi, che condurrà alla storica alternativa guerra-rivoluzione, il Capitalismo senile è condannato dalle sue stesse leggi interne e dall’avanzare del ciclo economico caratterizzato, al di la delle alternanze congiunturali, dalla sovrapproduzione, da un andamento fiacco e incerto della produzione e da basso tasso di accumulazione.
Tale tendenza si è rafforzata negli anni ’90 in tutto il mondo come dimostra il lungo arresto della produzione industriale in Giappone e in Russia; il precoce invecchiamento dei giovani e, fino a poco tempo fa, rampanti capitalismi asiatici, anch’essi giunti al termine di una lunga e duratura fase espansiva nel ’97-’98; il rallentamento del commercio mondiale; il calo dei prezzi delle materie prime; l’aumento cronico della disoccupazione; l’anarchia delle quotazioni di borsa; i sistematici fallimenti di tutte le politiche economiche varate dai governi per cercare di tamponare gli effetti della crisi; la maggiore frequenza con la quale si sono susseguite in questi anni le crisi finanziarie e monetarie propagatesi incontrollate e incontrollabili da un punto all’altro del globo.
Dopo l’uragano finanziario messicano del dicembre del 1994, un nuovo sisma si è diffuso, a partire dall’estate del 1997, dalla Thailandia alla Corea del Sud, dall’Indonesia alle Filippine, da Hong Kong a Singapore e a Taiwan, in rapida micidiale sequenza, per poi trasmettersi nel ’98 alla Russia, nel ’99 al Brasile, minacciando poi di colpire la Turchia e l’Argentina con un sinistro vigore che non si sa fino a quando risparmierà i centri nevralgici del Capitalismo. L’intero sistema è stretto, dal saggio di profitto declinante, nelle torsioni della catena interminabile dei debiti e dei crediti.
Al culmine della crisi, nel 1998, il debito estero argentino è
salito a 150 miliardi di dollari e, a seguito del piano di privatizzazioni
imposto dal Fmi, in circa 10 anni lo Stato ha incassato 39,6 miliardi di
dollari ma solo il 74% di tale cifra e stato destinato al pagamento del
debito. Secondo la rivista “Clarin” di Buenos Aires nel 1999 i fondi della
borghesia nazionale depositati all’estero, stimati in 90 miliardi di dollari,
rappresentano il 60% del debito estero mentre in Argentina vivono 13 milioni
di poveri su una popolazione di 36 milioni di abitanti, pari al 36% del
totale, e ben 3,5 milioni sono nell’indigenza assoluta, pari ad un decimo
degli argentini.
LA SITUAZIONE ECONOMICA ODIERNA
È uno Stato allo sbando, dove la borghesia nazionale ha rinunciato al suo ruolo di sviluppo delle forze produttive e si è rintanata nella parassitaria vita da rentier occupandosi di nascondere il massimo di denaro possibile all’estero, controllare la situazione interna tramite corruzione, clientelismo, traffici di dubbia chiarezza, con l’assistenza anche di gruppi paramilitari privati, dopo aver garantito il rispetto del programma della restituzione dei prestiti, loro primaria giustificazione al governo.
In queste condizioni è ovvio che la situazione non può che deteriorarsi ancora nonostante l’Argentina possegga un’industria leggera ben sviluppata, quella pesante non trascurabile, compresa quella nucleare, ed un’importante produzione agroalimentare mentre ora invece la produzione nazionale di beni è fortemente ridotta in favore delle importazioni di merci straniere. La generale crisi mondiale non ha fatto altro che accentuare questa dipendenza straniera ed il nuovo presidente argentino De la Rùa si è trovato nella stessa situazione dei suoi predecessori, a batter cassa presso il Fmi, il quale si è dimostrato sempre più cauto nell’allentare i cordoni della borsa nonostante il debito estero sceso a solo 128 miliardi di dollari, pari però al 40% del Pil, ma anche perché il programma di entrate fiscali, tassando in pratica solo la classe media, non ha prodotto gli effetti desiderati.
La situazione di dissesto economico dell’Argentina ha continuato ad aggravarsi.
Il contesto di stagnazione (il PIL, che, secondo quanto afferma “Le monde diplomatique”, si era già ridotto dal 1985 al 1994 del 6,2%) ha peggiorato notevolmente il critico stato debitorio: nel 2001 il debito estero ha raggiunto la ragguardevole cifra di 150 miliardi di dollari (più del 50% del PIL), e il deficit pubblico, cominciato nuovamente a galoppare dopo aver prosciugato tutti i soldi ricavati dallo Stato con le privatizzazioni dei primi anni ’90, ammonta a 132 miliardi di dollari. Le finanze pubbliche rischiano quindi di scoppiare da un momento all’altro, essendo ben il 23% del bilancio pubblico nel 2001 destinato al rimborso del debito.
Nel disperato tentativo di salvaguardare la tenuta del sistema finanziario mondiale, che potrebbe subire duri contraccolpi dall’affondamento dell’Argentina in un momento di generale difficoltà per l’economia borghese, e per garantirsi il pagamento degli interessi maturati sul debito estero argentino, nel dicembre del 2000 il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Banca interamericana di sviluppo, varie banche e fondi pensione ed il governo spagnolo (che intende difendere i cospicui investimenti della propria borghesia nell’area latino-americana) avevano concesso al governo argentino un prestito di 39,7 miliardi di dollari in tre anni, esigendo come garanzia per il rimborso l’adozione da parte dello Stato di tutta una serie di ulteriori misure draconiane per ridurre la spesa pubblica.
Per arginare le crisi locali intervengono queste grandi istituzioni finanziarie del capitalismo. La più importante fra queste, il Fondo Monetario Internazionale, costituito nel 1945 per vigilare sulla circolazione mondiale delle monete, ha nei suoi compiti istituzionali l’erogazione di crediti a paesi in difficoltà con la bilancia dei pagamenti e, in casi di particolare necessità, vere e proprie operazioni di salvataggio dalla bancarotta di interi Stati. Ma sia i normali crediti sia gli interventi di grande emergenza sono vincolati all’accettazione di pesanti “aggiustamenti strutturali”, ovvero precise imposizioni di politica economica nazionale che si possono riassumere brevemente così: i soldi prestati vanno resi a scadenza, e con gli interessi, facendo lavorare di più e con maggior sfruttamento tutti i lavoratori, riducendo contestualmente la spesa pubblica in campo sociale. I governi nazionali divengono così gli esecutori ed i garanti delle politiche del Capitale mondiale, e se essi non si dimostrano all’altezza del compito, in una maniera o nell’altra si provvederà alla loro “sostituzione”, altrimenti: niente più crediti. Così, in passato, alla fine degli anni ’70 si è salvata in extremis la Polonia, poi alla metà degli anni ’80 il Messico, e questo paese più volte successivamente, poi è toccato recentemente alle cosiddette “tigri asiatiche”, ovvero Corea, Indonesia e Filippine. Anche la Russia e la CSI, dai tempi di Eltsin, con particolare premura e avallo del governo americano, ottengono aiuti con pesanti contropartite. Ora era giunto il momento di salvare l’Argentina.
Il FMI le concedeva un’altra tranche di 30 miliardi di dollari nel marzo 2001, che però non è riuscita ad arginare la situazione e in settembre De la Rùa ne ha chiesti ancora 8 promettendo altri tagli alla spesa pubblica. Quali non si sa giacché la maggior parte dei lavoratori argentini non vede lo stipendio da mesi e teme di fare la stessa fine dei lavoratori delle 100.000 aziende che hanno chiuso i battenti negli ultimi due anni e di doversi arrangiare con saltuari lavori al nero o con lavori di strada.
Nel corso del 2001 è andato definendosi il “piano di aggiustamento” varato dal governo che, per rispettare gli impegni presi con il FMI, intendeva ottenere il pareggio delle entrate e delle uscite nel bilancio statale. Il piano prevedeva un aumento generalizzato delle imposte, ma soprattutto una riduzione del 13% delle paghe dei lavoratori statali e delle pensioni superiori ai 500 pesos. La manovra, pianificata a lungo termine, era però più ampia e prevedeva il congelamento della spesa pubblica per cinque anni e la riduzione dei fondi alle province. Complessivamente i tagli annunciati ammontavano a 4,5 miliardi di pesos nei prossimi due anni e ad 8 miliardi entro il 2003.
Questi provvedimenti, che rappresentano una boccata d’ossigeno per le finanze statali, secondo “Le Monde” colpiscono direttamente 800.000 persone, ma indirettamente tutti i lavoratori salariati.
Tutti i principali osservatori internazionali erano però concordi nel dichiarare che, essendo l’indebitamento ormai cronico, l’Argentina rischiava il tracollo finanziario, pericolo che va accentuandosi con l’aggravarsi della crisi mondiale ed in particolare di quella statunitense, come hanno dimostrato i dati economici di settembre che evidenziano la discesa ulteriore delle esportazioni, della produzione e del consumo interno. I capitali stranieri, avendo scorto il pericolo di bancarotta, stavano “emigrando” altrove, incrementando in questa maniera le probabilità di un crack borsistico.
Ultima è stata la “soluzione” del governatore della provincia di Buenos Aires che, non avendo denaro per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, ha introdotto una specie di “buoni merce”, spendibili al posto dei soldi e che i commercianti possono far circolare in attesa di tempi migliori. Questi buoni sono stati subito chiamati da tutti “patacones”: dicono che deriva da “Patagonia” ma è inevitabile imparentarli alle nostre “patacche”.
Anche dal punto di vista sociale la situazione è diventata insostenibile. La disoccupazione, tenendo conto anche della quota di lavoratori sottoccupati, è ormai giunta al 30%; il numero di poveri è arrivato a 14 milioni su una popolazione di circa 37 milioni di abitanti. Le condizioni di vita e di lavoro della classe proletaria sono divenute infernali, la concorrenza spietata che i lavoratori si fanno reciprocamente in un contesto di così alta disoccupazione ha determinato una discesa del salario medio operaio ad appena 300 dollari mensili (circa £ 600.000), ma è stato calcolato che ormai due argentini su cinque guadagnano soltanto 100 dollari al mese.
L’annunciato colpo di scure ai danni dei lavoratori, pur se plaudito
dal FMI, non è riuscito a calmare le acque agitate del sistema finanziario
argentino. Nemmeno è stato accolto con entusiasmo dagli analisti
finanziari borghesi, che hanno continuato a temere il peggio, il piano,
presentato dal ministro dell’economia Cavallo quest’estate, di conversione
dei 29,4 miliardi di dollari del debito estero in titoli di Stato a breve
e a medio termine (che nel loro complesso ammontano a 66 miliardi di dollari,
ossia circa il 40% del debito estero argentino) in nuovi titoli a scadenza
pluriennale. A ciò si aggiunga che sempre quest’estate – nonostante
la legge di convertibilità e i più o meno velati imperativi
degli USA a non toccare il cambio fisso Peso-Dollaro – sotto la pressione
imperiosa della asfissia economica il governo è stato costretto
di fatto a dar corso ad una svalutazione, da alcuni definita “virtuale”,
della propria moneta per cercare di stimolare le esportazioni e non far
peggiorare il disavanzo della bilancia commerciale, pur se con lo stratagemma,
che gli salvasse la faccia di fronte all’alleato statunitense, di creare
una nuova moneta detta “Peso Commerciale”, usata solo per gli scambi internazionali,
con un prezzo dell’8% inferiore a quello del dollaro. E per quanto il presidente
De la Rùa continuasse ad assicurare che la convertibilità
non si sarebbe toccata, quest’ultima mossa ha provocato un’ulteriore fuga
di capitali timorosi che possa ritornare una instabilità monetaria
stile anni ’80.
LA RISPOSTA OPERAIA
In questa situazione, mentre una parte dei lavoratori, causa il ricatto del posto di lavoro, non reagisce o ricorre ai prestiti di banche e finanziarie che promettono denaro a tassi inesistenti, altri hanno incominciato a scioperare, coinvolgendo pian piano altri lavoratori i quali incominciano ad usare la loro principale arma di classe per la difesa immediata delle loro condizioni di vita.
Sul fronte sociale la situazione si faceva così arroventata. Nell’ultimo anno si sono moltiplicati gli scioperi, anche generali, contro il peggioramento delle condizioni di vita e contro la disoccupazione e l’incertezza dilaganti, ma questi slanci anche generosi del proletariato argentino sono stati contenuti dall’opportunismo dei sindacati di Stato, fortemente influenzati dall’opposizione peronista. Il gioco consiste nel deviare il malcontento entro i classici sfiatatoi democratici ed elettorali, costringendo i proletari alle urne per dare credito e nuovo tono al sempre fuorviante ed ingannatore benché logoro meccanismo parlamentare.
Ma il gioco non sempre è riuscito. Nelle province più
povere la miseria, giunta al limite della sopportazione, spingeva la collera
operaia ad esprimersi in tenaci episodi di schietta lotta di classe che
mandavano in crisi l’apparato di controllo sindacal-opportunista. Il Capitale
è stato così costretto per reprimere le istanze proletarie
a gettare la maschera democratica e a mostrare la sua vera essenza di mostro
spietato assetato di sangue disposto a tutte le peggiori nefandezze pur
di conservare il dominio sugli sfruttati ribelli. Già lo scorso
giugno nella provincia di Salta, situata nel nord del paese presso la frontiera
con la Bolivia, contro i duri picchetti degli operai edili in sciopero,
che bloccavano un’importante arteria stradale per combattere contro l’abbassamento
del loro salario orario da 2,50 pesos a 1,50, la democratica gendarmeria
apriva il fuoco provocando l’uccisione di 2 uomini e decine di feriti.
LE VICENDE IN CORSO
Il proseguire della fuga di capitali ha costretto il ministro Cavallo a compiere la mossa che ne ha determinata la rovina, il blocco dei conti bancari, col permesso di ritirare solo 250 pesos alla settimana, una misura, secondo molti, ormai inutile perché decine di miliardi di dollari erano ormai stati portati all’estero. Alla mobilitazione del proletariato si è unita la rabbia dell’ex aristocrazia operaia, della piccola borghesia e la disperazione del sottoproletariato delle immense periferie metropolitane; scioperi spontanei e moti di protesta violenta si sono verificati in molte città, una vera rivolta per il pane che ha visto anche numerosi episodi di assalto ai negozi e ai grandi magazzini. Il regime ha risposto con estrema violenza alle manifestazioni popolari; a Buenos Aires i manifestanti sono stati attirati in trappola dalla polizia che li attendeva con i fucili spianati; la polizia ha effettuato migliaia di arresti. Alla fine sono rimasti sul terreno una trentina di morti e centinaia di feriti. Immediatamente è stato dichiarato lo stato d’assedio.
La spontaneità e la decisione di questi moti ha costretto il presidente Fernando De la Rua a scappare in elicottero dalla Casa Rosada. A succedergli è stato chiamato il peronista Adolfo Rodriguez Saà, un semi sconosciuto governatore di provincia che avrebbe dovuto solo preparare le nuove elezioni. Si è dato un gran daffare; ha immediatamente riconfermato lo stato d’assedio, ha annunciato una moratoria sul debito estero e prospettato addirittura la creazione di una nuova moneta, l’argentino, cercando di guadagnare consensi per proporsi come candidato alle elezioni presidenziali. Ma il gioco non gli è riuscito: abbandonato dalla maggioranza del suo stesso partito ha dovuto dimettersi a sua volta. A ruota si è dimessa anche la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato, e si è arrivati al presidente della Camera, Eduardo Camanio: quest’ultimo ha convocare l’assemblea legistativa che, rinunciando ad indire nuove elezioni, ha nominato Eduardo Duhalde nuovo capo dello Stato, che dovrebbe rimanere in carica fino al 2003.
Nessuno spiega il perché si sia rinunciato a portare ancora una volta la popolazione al rito elettorale, in genere un buon sistema per spargere fumo negli occhi del proletariato, illudendolo di poter decidere (con la scheda!) del suo futuro. È possibile che il gotha della politica e dell’economia argentina, e mondiale, abbia valutato che era necessario prendere provvedimenti urgentissimi. Il presidente designato Duhalde è un pezzo grosso del peronismo, è stato vice presidente all’inizio del mandato di Carlos Menem nel 1989 e poi governatore di Buenos Aires; è riuscito ad ottenere l’appoggio della maggioranza dei peronisti ma anche quella dei radicali che non volevano andare alle elezioni troppo presto dopo le carognate fatte da De la Rua. Al peronista Duhalde tocca adesso di disfare quello che il peronista Menem aveva fatto dieci anni fa con l’aggancio unilaterale del peso al dollaro statunitense.
Duhalde nel discorso d’investitura si è battuto il petto dichiarando
che l’Argentina è «fallita, affondata» che il paese
è una «bomba a orologeria» ed in effetti la borghesia
argentina sta camminando sul filo di un rasoio. La vecchia volpe peronista,
dopo aver dichiarato che ispirerà la sua azione «alla dottrina
sociale della chiesa», ha aggiunto che è necessario «mettere
fine ad un modello esaurito che ha portato alla disperazione la stragrande
maggioranza del popolo» e si è posto tre obbiettivi: ricostruire
l’autorità politica istituzionale nazionale, garantire la pace sociale
e porre basi per il mutamento del modello economico e sociale. Il consiglio
nazionale giustizialista, presieduto da Carlos Menem, ha espresso il suo
appoggio al “nuovo” governo: «Di fronte alla peggiore crisi di cui
abbia memoria l’Argentina il giustizialismo è tornato a rispondere,
unito e solidale, al suo dovere storico di porre la salvezza della patria
al di sopra di qualsiasi altro interesse meschino e personale».
COMPITI DELL’OGGI
La svalutazione del peso di quasi il 40%, deciso dal governo, non è una misura che va incontro ai bisogni e alle esigenze del proletariato ma rappresenta, come dieci anni fa la “dollarizzazione”, il tentativo delle classi ricche di salvare i loro privilegi, il loro regime. I provvedimenti del nuovo governo certamente innesteranno nuova inflazione, che non potrà che aggravare ancora le condizione di vita dei salariati e dei pensionati.
A scala internazionale indubbiamente si profila uno scontro tra il regime argentino, la lobby finanziaria e bancaria e i grandi cartelli che hanno interessi rilevanti nel Paese sudamericano, tra cui vi sono anche importanti gruppi spagnoli e italiani, ma ancora una volta la vera sconfitta dalla manovra sarà la classe lavoratrice, chiamata a protrarre i suoi sacrifici per salvare la patria (borghese) dai ladri, dagli incapaci, dagli imperialisti.
Il proletariato dovrà tenersi fuori da questo scontro che non lo riguarda direttamente ma nel quale può disperdere le sue forze, aggregandole al carro del radicalismo borghese. Deve invece lottare in difesa dei suoi esclusivi interessi di classe, contingenti e storici. Il proletariato argentino ha dimostrato più volte nel secondo dopoguerra di non mancare di coraggio e di volontà di lotta, lo stanno a dimostrare le migliaia di lavoratori e di organizzatori sindacali massacrati dalla giunta militare per spezzare ogni resistenza operaia alle esigenze del regime borghese. Il problema dell’oggi, il “che fare”, consiste quindi, per prima cosa, nel distinguere definitivamente l’organizzazione e gli interessi proletari da quelli delle classi nemiche, borghesia e proprietari fondiari. Ai lavoratori spetta in primo luogo il compito di ricostituire dei sindacati di classe degni di questo nome, cioè non compromessi con lo Stato, col padronato, con i Partiti borghesi; dei sindacati che si pongano l’obbiettivo primario della difesa delle condizioni di vita e di lavoro senza sottomettersi alle esigenze dell’economia nazionale borghese; dei sindacati dove le posizioni del comunismo rivoluzionario possano essere difese e propagandate. Non sappiamo se il proletariato argentino ha già intrapreso questa strada né quanto vi abbia proceduto: ce lo mostrerà la sua azione nei prossimi mesi.
Sul piano politico il proletariato d’Argentina deve convincersi che non ha alcuna “patria”da difendere, la sua patria è quella del socialismo che oggi non ha luogo e che domani si estenderà al mondo. Il proletariato d’Argentina non ha niente da guadagnare né dal liberalismo, né dal giustizialismo, né dal radicalismo democratico borghese. La storia tragica dell’Argentina dell’ultimo mezzo secolo (un lasso di tempo che non può non fare parte della memoria proletaria) dimostra la perfetta continuità antiproletaria tra il regime peronista, quello militare, quello radicale o di “sinistra” che si sono sempre passati la mano evitando di lasciare spazi alle classi oppresse. Tutte queste “forme” di governo hanno sempre difeso l’interesse delle stesse classi, dello stesso regime, allentando o ritirando la briglia ma tenendo sempre il proletariato delle città e delle campagne, sottomesso agli interessi della borghesia industriale, finanziaria, fondiaria.
Il proletariato argentino, in una prospettiva di ripresa generale del conflitto di classe, saprà rigettare anche la falsa e reazionaria consegna, spacciata per “antimperialista”, del riscatto democratico e nazionale, imperativo primario dagli opportunisti del peronismo, della socialdemocrazia, del post-stalinismo e del trotskismo. Si ritroverà così unito alle lotte e alle esperienze del proletariato mondiale formando un unico esercito che, sotto le direttive tattiche e strategiche del Partito marxista mondiale, si potrà porre l’obbiettivo supremo della rivoluzionaria presa del potere. Al di fuori di questa prospettiva internazionale ed internazionalista ogn’altra strada è prolungamento del regime dello sfruttamento dell’uomo operato selvaggiamente ovunque dal Capitale.
“Argentina specchio dell’Europa”, abbiamo scritto qualche anno fa. Non
ci sbagliavamo. La crisi di sovrapproduzione, sotto i cui colpi l’Argentina
è stata uno dei primi paesi a crollare, colpisce già adesso
gran parte dei massimi paesi industrializzati e si fa più vicina
quella crisi generale del sistema capitalistico che porrà al proletariato
internazionale l’alternativa: adesione alla guerra mondiale imperialista
o adesione alla rivoluzione comunista internazionale. Il proletariato d’Argentina
sarà uno dei reparti dell’esercito rivoluzionario.
Ferrovieri fra CoMU e ORSA
La fine del 2001 ha coinciso, in ferrovia, con il termine ufficiale della ristrutturazione. FS e Confindustria avevano sin dal 1999 sbandierato la decisione di diminuire di altre 20 mila unità l’organico; obiettivo fallito, nonostante l’applicazione della terza tabella Dini, riservata alle aziende in crisi con esuberi accertati. La Società è riuscita a malapena a mandare in pensione gli inidonei, ma ha dovuto fare i conti con le forti carenze d’organico nei settori macchina e viaggiante. Il presupposto per l’ulteriore diminuzione avrebbe dovuto essere lo sfondamento dell’agente unico su gran parte dei treni regionali, magari all’ombra del “vigilante”, rozzo meccanismo che attraverso la richiesta ripetuta di riconoscimento dovrebbe sorvegliare l’efficienza psicofisica del macchinista.
Il progetto padronale, infatti, di abbattimento del costo del lavoro passa soprattutto attraverso l’eliminazione della forza contrattuale dei ferrovieri e dei macchinisti in particolare; forza che subordina pesantemente qualsiasi programma che punti all’eliminazione delle regole e delle sicurezze in ferrovia.
I macchinisti, grazie al CoMU, sono riusciti ad arginare l’attacco, sostenuto senza remore dai sindacati confederali che sin dal novembre ’99 avevano firmato un preaccordo contrattuale che avrebbe significato per tutta la categoria non soltanto forti perdite economiche ed aggravi considerevoli dei carichi di lavoro, ma l’accettazione completa dei piani padronali, costringendo così anche i macchinisti nel recinto dove, purtroppo, sin troppe categorie del mondo del lavoro sono da tempo state costrette.
Certamente la battaglia non è stata indolore ed ha provocato vittime: gran parte della rete ferroviaria è oramai un deserto, controllato a distanza e gestito praticamente soltanto dal personale dei treni, sempre più esposto a rischi, stress ed errori. Personale che deve destreggiarsi tra mille ordini di servizio che mascherano le falle che via via si formano e che, spesso, sono anche pericolosamente in contrasto con i regolamenti o con la legislazione vigente.
Su questi lavoratori pesa anche l’attacco padronale, che non può permettersi sacche di resistenza che siano d’esempio all’interno della ferrovia ed alle altre categorie del mondo del lavoro.
E per resistere a questa crescente pressione, contro la quale è sempre più evidente l’inadeguatezza di una risposta dei soli macchinisti, il CoMU si è visto costretto a cercare delle solidarietà. Si è rivolto verso le qualifiche che sente più prossime e, seguendo il criterio del numero degli iscritti, che sul piano sindacale è certo importante, ha dato vita all’ORSA, la nuova Confederazione che in ferrovia viene ad unire FISAFS e CoMU e che comprende molti altri sindacati del settore trasporti.
È evidente però che quello che si impone non è il frutto della maturazione d’organizzazioni già impegnate in una lotta comune, o soltanto concomitante, e che la sua nascita viene ad aumentare i rischi di degenerazione che già albergavano nello stesso CoMU, in spregio a quella caratteristiche, sia di principio sia di moduli organizzativi sia di forme di lotta, che hanno costituito la sua forza e peculiarità.
La confluenza nell’ORSA, infatti, potrebbe di molto cambiare le cose, consentendo ai “normalizzatori” interni al CoMU di appoggiarsi efficacemente sulla preesistente struttura FISAFS, modulata sul tipo del “sindacato autonomo”. Il vero problema è, quindi, interno al Coordinamento: negli ultimi cinque anni è diminuita la minor spinta proveniente dalla categoria, e di conseguenza si è ampliata l’influenza di quei settori e di quegli individui che hanno sempre cercato di indirizzare il CoMU verso la linea consociativa, che hanno sottoscritto accordi locali asserviti alle logiche di FS e Confindustria, che cercavano di propagandare la debolezza dei macchinisti in spregio alle loro positive lotte di resistenza. È una corrente che taglia trasversalmente destra e sinistra sindacale, unite nel tentativo, oggi meno coperto, di distruggere le basi proprie dell’organizzazione. Da questi sicari viene il tentativo di adoprare la forza del Coordinamento per dirigerlo verso i lidi dove già hanno approdato CGIL CISL UIL e SMA, dando vita ad una nuova formazione, l’ORSA, pronta a convergere verso la difesa dell’economia societaria e nazionale, diametralmente opposta al progetto di opposizione sindacale che è stato del CoMU.
Contro questa politica si batte la parte sana del Coordinamento: sui posti di lavoro, nei Congressi Regionali ed in quello Nazionale di febbraio, resistendo alla fusione col chiedere il mantenimento dell’autonomia organizzativa e politica del CoMU all’interno dell’ORSA.
È infatti indispensabile mantenere l’attuale forza contrattuale, per rintuzzare l’attacco che Confindustria e Federtrasporti stanno cercando di portare alla categoria attraverso la firma del nuovo contratto di lavoro, che prevede l’estensione dell’orario di lavoro, l’imposizione dello straordinario, la diminuzione del salario attraverso la ridefinizione delle quote legate alla produttività ed alle competenze accessorie, nonché ad un ridimensionamento della scala classificatoria. Troppo audace l’attacco di F.S. per poter far breccia fra i ferrovieri, un attacco frutto delle debolezze messe in luce dalla Società e non del suo strapotere, ma pur tuttavia sempre pericoloso, perché appoggiato più o meno scopertamente dai sindacati tricolore, che tentano di far cuneo in qualsiasi breccia che si apra nello schieramento di lotta.
L’ORSA, come dicevamo, apre a tal proposito scenari nuovi, difficili da analizzare e pericolosi da esplorare, dove la resistenza della base del CoMU sarà determinante per mantenere in piedi una reale e conseguente resistenza alla politica societaria e padronale.
* * *
Appena chiuso il Congresso Nazionale ancora non siamo in possesso dei documenti ufficiali. La mozione toscana ha raccolto un terzo dei voti, concentrati soprattutto tra Toscana, Liguria ed Emilia. Le linee concesse sono state convinte e dopo un intervento contro hanno allineato i loro sei voti. Anche Sardegna e Sicilia hanno infine votato per la nuova linea.
La dirigenza, che rappresenta la maggioranza, spinge per conformare il CoMU-ORSA alla politica degli altri sindacati. Quella posizione politica e "culturale" torna fuori in un momento di minore combattività, dopo quindici anni di lavoro sotterraneo. Approfittano ovviamente della nuova struttura che gli permette di utilizzare appieno il metodo democratico e le pratiche consociative e burocratiche.
Dunque si va allo scioglimento del CoMU che ha già assorbito il SAPENT, i macchinisti della FISAFS che hanno accettato lo statuto CoMU. La nuova formazione è l’embrione di “Macchinisti Uniti”, rappresentanza di categoria dei macchinisti nella Confederazione.
È stato indetto un grande sciopero per il 3 marzo, e sarà
essenziale vedere come sarà accolto dai lavoratori.
Febbraio di lotta per i lavoratori degli appalti delle pulizie in ferrovia. Forte risalto su giornali e televisione alle manifestazioni che hanno bloccato molte stazioni italiane, già ridotte a pattumiere maleodoranti dopo tre giorni di sciopero consecutivi. Forme di lotta che ovviamente hanno raccolto critiche da parte di tutti i partiti, nonché delle associazioni “dei consumatori”, figlie di quelli, ma che tuttavia sono rimaste sotto il controllo della triade sindacale.
E’ vero che la spinta a radicalizzare la lotta è stata trasversale ed ha coinvolto sia la base confederale sia quella autonoma, ma non si è indirizzata verso la costruzione di un’organizzazione indipendente che potesse gestire direttamente la lotta, magari anche come solo pungolo all’azione dei sindacati tricolore. Questa mancata condizione probabilmente farà sì che la forza espressa non maturi i risultati sperati: è vero che le scadenze sono state prorogate alla primavera, ma la mediazione dei sindacati di regime porterà inevitabilmente a riduzioni di organico e a diminuzioni del salario, visto che proprio i confederali, con gli accordi del 1999, hanno creato le attuali critiche condizioni.
In quell’anno furono, infatti, firmati due preaccordi contrattuali, quello dei ferrovieri e quello per gli addetti delle ditte di pulizia. Il canovaccio era lo stesso, prevedendo al ribasso tutte le attuali condizioni salariali e normative. In ferrovia, grazie all’azione del CoMU ed all’insorgere di tutti i ferrovieri, quell’accordo rimase lettera morta, tant’è che viene riproposto oggi, mentre negli appalti passò senza colpo ferire.
Sul momento le percentuali di risparmio stabilite, crearono soltanto un piccolo peggioramento delle condizioni di lavoro, ma oggi, dinanzi alle nuove gare d’appalto, i nodi sono venuti al pettine e le ditte vincitrici hanno riproposto in soldoni le condizioni capestro insite in quell’accordo. O si licenzia o si riducono fortemente i salari (da 1.700.000 ad 1.200.000), o, meglio ancora, l’uno e l’altro.
Il padronato negli ultimi anni ha scelto la via dell’attacco dove poteva, creando in alcune zone più deboli le condizioni con le quali ricattare poi anche gli altri lavoratori.
La tattica è vecchia, ma purtroppo, oggi i proletari, privi di un sindacato di classe che li difenda, sono troppo intimiditi o miopi per riuscire a spezzare questa catena. Soltanto creando organizzazioni indipendenti, gestite direttamente dagli stessi lavoratori, si può sperare di poter resistere allo strapotere padronale, sostenuto dai suoi fedeli cani da guardia, che oggi gridano allo sciopero (magari generale), ma soltanto per illudere gli operai, facendoli sfogare in lotte limitate per poi accordarsi sempre a livelli inferiori ai precedenti. I contratti rinnovati sinora hanno sempre “armonizzato” al ribasso, riportando indietro di trent’anni le condizioni dei salariati.
Questa, come altre lotte, ha dimostrato che esiste un grande potenziale nella classe lavoratrice, che deve organizzarsi ed essere indirizzato per potersi validamente opporre agli interessi padronali. Si deve muovere fuori e contro gli attuali sindacati tricolore, creando i presupposti per la rinascita di un’organizzazione sindacale complessiva della classe.