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La guerra scatenata dallo Stato d’Israele contro le città e i villaggi della Cisgiordania si dimostra sempre più chiaramente antiproletaria, più simile al conflitto in Libano che alle guerre precedenti. L’esercito, non solo con la distruzione sistematica delle infrastrutture civili palestinesi e con l’eliminazione fisica dei militanti delle sue organizzazioni politiche, ma con i rastrellamenti e gli arresti indiscriminati di civili, con le ruspe che si fanno strada tra gli ammassi di casupole dei campi profughi ecc., si propone, in primo luogo, non la proclamata “guerra al terrorismo”, ma la represione e la sottomissione delle masse proletarie della regione. Come a Sabra e Chatila venti anni fa, a Jenin, a Ramallah, a Nablus, a Hebron si è assistito non ad episodi di una guerra fra Stati ma ad una guerra civile contro la classe lavoratrice.
Solo quei proletari, del resto, a differenza delle imbelli e corrotte forze della “Autonomia Palestinese”, hanno saputo ritardare l’avanzata delle preponderanti truppe israeliane e anche infliggerle delle perdite.
Che lo scopo dell’impresa non sia quello di “combattere il terrorismo” lo dimostrano gli attentati che quasi giornalmente continuano a scuotere e terrorizzare gli abitanti delle città israeliane, benché Cisgiordania e Gaza siano strette in un cerchio di ferro e di fuoco.
Veniamo ai precedenti.
Gli accordi di Oslo erano assai vantaggiosi per la borghesia israeliana, che non avrebbe avuto alcuno scopo di riaprire la questione territoriale, né per motivi economici, né sociali, né militari. Quegli accordi, accettati dalla pavida e corrotta borghesia palestinese, prevedevano la creazione di uno Stato fantoccio, un “bantustan”, dove prometteva di tenere rinchiuso il proprio proletariato, da utilizzare sul posto o in Israele come mano d’opera a basso prezzo.
La borghese Autorità Nazionale Palestinese, dotata di un forte apparato di repressione, rifornito ed addestrato da israeliani ed americani, si assunse il compito di mantenere l’ordine in cambio della possibilità di svolgere i suoi affari all’ombra di Israele e di eque prebende da parte dei paesi arabi e dell’Europa, interessati a spartirsi e perpetuare il controllo su quella regione strategicamente così importante, con la pace così come avevano fatto, tutti, per 50 anni, col mantenere i palestinesi (ma anche gli israeliani) in ostaggio di guerra.
Quegli accordi sono stati difesi fino all’assurdo per anni dal gruppo dirigente palestinese, la cui sottomessa collaborazione alla borghesia e allo Stato israeliano è stata totale. La polizia e i servizi segreti palestinesi hanno collaborato pienamente con la polizia e i servizi segreti israeliani e con i servizi segreti statunitensi; hanno fornito informazioni per colpire non solo i loro oppositori del momento ma anche i più combattivi gruppi proletari, quando non riuscivano con le loro forze direttamente a reprimerli e a mitragliarli nelle piazze. E i capi sindacali palestinesi hanno presto conosciuto le carezze della loro “autonoma” polizia.
Anche sul piano economico la collaborazione tra padronato israeliano e palestinese era stretta: «Al di là degli stessi legami formalizzati negli accordi di autonomia – scrive N. Pacadou su “Le monde diplomatique” del marzo 2001 – la realtà della dipendenza economica dei territori palestinesi nei confronti dello Stato ebraico mantiene reti di interessi che uniscono il “complesso militar-mercantile” vicino all’Autorità nazionale Palestinese ai responsabili israeliani, senza i quali il monopolio delle importazioni dei prodotti di prima necessità di cui godono le società pubbliche palestinesi non potrebbe esercitarsi». Continua l’articolo: «L’ambiguità iniziale dello status di autonomia condanna così l’Autorità palestinese ad una scommessa impossibile: portare avanti la lotta nazionale collaborando con l’occupante».
Quegli accordi sono falliti perché l’apparato repressivo palestinese non è stato all’altezza del compito di sbirro che il capitalismo mondiale gli aveva assegnato, né poteva esserlo.
Nella coscienza di questo, oltre che per i suoi interessi, lo Stato d’Israele non ha mai cessato la politica espansionista, impiantando nuove colonie, appropriandosi della terra e dell’acqua, opponendosi ad ogni ipotesi di ritorno per milioni di profughi che ancora vivono nei campi sparsi per tutto il Medio Oriente.
Di fronte alla tragedia di queste settimane, Arafat è stato accusato di avere rifiutato l’accordo di pace offertogli dal governo Barak nel 1999 e dunque di essere responsabile della sua rovina e di quella del popolo palestinese. Ma non è così. La vecchia volpe, questo simbolo vivente del fallimentare irredentismo palestinese, aveva dimostrato di essere disposto a firmare quell’accordo ma non ha potuto farlo perché contro quella vera e propria capitolazione si sono mobilitate le masse diseredate, quelli che avrebbero dovuto pagarlo, ancora una volta, col loro sangue e col loro sudore.
Ami Ayalon, capo dei servizi segreti di sicurezza interni israeliani dal 1996 al 2000 in un’intervista a “Le Monde” del 23 dicembre, da buon conoscitore dei suoi nemici ha affermato su questa questione due concetti interessanti: «La loro (dei palestinesi) non è follia ma disperazione senza fondo (...) Contrariamente a quanto ci viene martellato in testa Yasser Arafat non ha né preparato né scatenato l’intifada. L’esplosione è stata spontanea contro Israele per mancanza di speranza riguardo alla fine dell’occupazione». Sono stati i lavoratori di Palestina, quelli con i salari da fame, quelli che vivono nelle baracche e in case fatiscenti, rinchiusi nei campi profughi e che non hanno speranza di vita migliore, a spontaneamente scendere in piazza e ad opporsi con i sassi e con i pochi fucili, non solo all’artiglieria corazzata e all’aviazione dell’esercito d’Israele, ma anche alle pallottole della superpagata polizia palestinese. Questa seconda intifada, si è caratterizzata per il suo contenuto di classe, per la lotta contro il corrotto governo palestinese, la polizia, i sindacati venduti, i padroni sempre più esigenti; un’oppressione di classe che si somma e fa tutt’uno con l’oppressione militare dello Stato d’Israele, che rende la vita ancora più difficile, dura, insostenibile. L’intifada è quindi proseguita nonostante gli arresti in massa e le “esecuzioni mirate” dei militanti più combattivi, eliminati dall’esercito d’Israele sulla base delle liste fornite dall’Autorità Palestinese.
In quella tensione sociale si sono potuti inserire i partiti dell’estremismo islamico, che godono di correnti di finanziamento provenienti sì da Stati borghesi ad Est e a Sud, ma forse anche da alcuni ad Ovest. Non è difficile spingere all’autodistruzione degli adolescenti, specie se cresciuti nell’umiliazione di cotante ingiustizie. Ma quella del terrorismo contro la popolazione civile d’Israele è una politica suicida e controproducente prima di tutto nei confronti della “causa palestinese”. Nella nostra visione del conflitto su basi di classe quel terrorismo svolge una funzione complementare, anzi necessaria, a quella dei governi: mantenere separati i due popoli, quello israeliano reso cieco dal terrore, cosa agevole da ottenere, dati i precedenti. Quel terrorismo tanto riesce utile e tanto “puntuale” interviene che vien da pensare che sia, se non suscitato, almeno non impedito dai servizi segreti di entrambe le parti. Solo le stragi di civili hanno giustificato gli interventi militari sempre più brutali contro la popolazione palestinese; solo quelle stragi hanno consentito di trascinare gli ebrei ancora una volta a morire in guerra.
Certo alle determinazioni sociali si sommano i contingenti problemi dell’economia capitalistica mondiale e in Israele. La crisi economica da mesi sta attanagliando l’industria israeliana, facendo svanire quel “miracolo economico” basato soprattutto sulle industrie di punta, informatica, elettronica, telecomunicazioni e ricerca. La recessione mondiale dell’economia verificatasi nell’ultimo anno ha colpito ulteriormente.
La stessa necessaria risposta militare alla crisi economica che ha costretto i capitalisti degli Stati Uniti a trovarsi un nemico e a scatenare la guerra in Afghanistan (che si ripromettono di estendere in Medio Oriente con l’attacco all’Irak), ha spinto il potente apparato militare-industriale capitalistico di Israele a scatenare la “guerra totale” contro i territori, pur in mancanza di una qualche necessità d’ordine strategico o “nazionale”.
In questa guerra la diplomazia dello Stato d’Israele non è isolata, come una interessata propaganda in tutto il mondo vuole far credere: gli Stati Uniti sono al suo fianco ed anche Russia ed Europa, questa primo partner commerciale di Tel Aviv, nonostante gli strepiti, hanno tutto l’interesse di profittare della crisi per guadagnare posizioni in quell’area a danno di Washington. Tutti, al di là di belle dichiarazioni, sono d’accordo con Sharon: prima di ogni trattativa bisogna che sia “finito il lavoro”, bisogna che centinaia di proletari finiscano nelle fosse comuni delle periferie, che i loro quartieri siano devastati, le loro organizzazioni distrutte.
Soli sono i proletari palestinesi. E soli i proletari israeliani, entrambi vittime sacrificali di una catena di colossali interessi e calcoli capitalistici che avvinghia il mondo, stretta dai Bush i Putin e i Solana quanto dagli Sharon, i Peres, i Mubarak, gli Arafat.
Molto di questo hanno sicuramente intuito quei riservisti israeliani che si sono pubblicamente rifiutati di andare ad umiliare ed uccidere i loro fratelli di classe nei territori. È un segno dello sgretolarsi di quella unità di tutte le classi che anche in Israele costituisce la base della stabilità dello dittatura borghese. Significativo ed istruttivo è il fatto che quella reazione, per debole e mancante di visione generale di classe che sia, è stato il solo atto concreto di solidarietà che il proletariato di palestina ha ricevuto. Un popolo che ne opprime un altro non sarà mai libero. Il proletariato d’Israele non potrà emanciparsi che assieme al proletariato palestinese e dei paesi arabi vicini.
Le manifestazioni che si sono verificate nelle principali città
mediorientali in solidarietà con la Palestina vi dimostrano certo
la gravità della situazione sociale ma, mancando al proletariato
mediorientale ogni indirizzo politico di classe, l’indignazione viene
facilmente
indirizzata in senso nazionalista, conservatrice, “irredentista”,
religioso,
se non addirittura pro-governativo. Si indica alle masse sfruttate il
nemico
in Israele quando il nemico è nei loro Paesi, nelle classi dominanti
legatissime e succubi dell’imperialismo, che da decenni fanno della
retorica
filo-palestinese uno strumento per mantenersi al potere. Quelle
borghesie
sono corresponsabili quanto lo Stato di Israele della condizione di
non-uomini
dei palestinesi, e fanno parte a pieno titolo dell’alleanza
internazionale
che schiaccia i lavoratori del mondo intero.
Il sindacalismo di base chiama oggi i lavoratori ad un nuovo sciopero
generale dopo quello importante e riuscito del 15 febbraio, per
rivendicazioni
chiare e condivisibili: contro la modifica dell’articolo 18 e il “Libro
Bianco”; contro la concertazione; per significativi aumenti salariali;
contro lo smantellamento del sistema pensionistico; contro lo scippo
delle
liquidazioni; contro la legge sull’immigrazione; contro la politica di
riarmo e di guerra.
Questa giornata è un nuovo passo sulla strada della costituzione
del sindacato di classe.
Oggi anche i sindacati confederali hanno chiamato i lavoratori a scendere in piazza, dicono, in difesa dell’articolo 18, ma allo stesso tempo rivendicano e richiedono al governo di riaprire la “concertazione”. Ma è proprio con la politica concertativa degli ultimi anni, cioè con la collaborazione diretta tra sindacato, padronato e governo, che si sono introdotte tutta una serie di leggi che hanno reso il mercato del lavoro in Italia uno dei più “liberi” e “flessibili” d’Europa.
E’ con la concertazione che si sono ridotti i salari, smantellate le più grandi industrie, attaccato il sistema pensionistico e cancellato, in cambio di un piatto di lenticchie, dai cuori di gran parte dei lavoratori il concetto stesso di lotta tra le classi.
La gabbia concertativa diventa sempre più intollerabile per tutti i lavoratori, in particolare i giovani, sbattuti sul mercato del lavoro senza nessuna protezione. Di fronte all’incalzare del padronato e dei suoi governi costretti a non mascherare più il loro ghigno di schiavisti è sempre più necessario tornare al metodo e ai principi della organizzazione e della aperta lotta di classe. Cgil-Cisl-Uil intendono portare i lavoratori ad un’altra sconfitta, come è stato, con modalità quasi identiche, per la vertenza delle pensioni, risolta per i giovani lavoratori in una totale disfatta, e poco meno per i vecchi.
Anticipando il momento della generale disillusione sul metodo fascista-democratico-concertativo, che già i giovani precari stanno apprezzando nel suo vero valore, le avanguardie della classe operaia devono lavorare fin da ora alla ritessitura di quella rete di organizzazioni di battaglia sindacale che dovrà necessariamente, nel percorso del suo rafforzamento, denunciare e rifiutare senza titubanze tutto il bagaglio del marcio sindacalismo borghese:
Il tour operator Cgil ha organizzato il 23 marzo scorso una gita a Roma. La scampagnata ha avuto enorme successo. C’erano dai 700 mila, secondo la questura, ai 3 milioni, secondo gli organizzatori, di variopinti partecipanti, dai politicanti ad un numero impressionante di funzionari sindacali, dagli intellettuali ai... proletari. I cortei quando hanno raggiunto il Circo Massimo sono stati accolti da una banda musicale che intonava l’inno nazionale.
Il tutto non è uno scherzo, ma la parata tipica di un regime di stampo “sovietico”, o mussoliniano se preferite; questo si è voluto che fosse la manifestazione di Roma. Benché indetta contro la modifica all’articolo 18 e in preparazione ad un successivo sciopero, il ritorno del “terrorismo” è servito perfettamente per far unire tutti, padroni e lavoratori, contro le “nuove BR” e in difesa della democrazia. Così Cofferati, nel suo commovente discorso, le parole “salario”, “liquidazioni”, “pensioni”, “orario” e “guerra” non le ha pronunciate nemmeno una volta!
I proletari, quelli veri, si sbagliano di grosso se pensano che
il
governo delle “forze di sinistra” voglia significare la benché minima
difesa delle loro condizioni ed è del tutta infondata la loro fiducia
in simili fratellastri. Le lotte operaie che saranno
necessarie,
quelle, sono un altra cosa.
UN TEMPISMO SOSPETTO
Dopo tre anni dall’omicidio D’Antona le brigate rosse escono di nuovo allo scoperto ed il 19 marzo a Bologna un loro commando ammazza Marco Biagi, professore di Diritto del Lavoro e uomo-spalla di Maroni e Confindustria.
Con questa azione le Brigate Rosse, come recita il proclama fatto pervenire agli organi di informazione, si ripropongono di attaccare «la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana per la quale l’accentramento dei poteri nell’Esecutivo, il neocorporativismo, l’alternanza tra coalizioni di governo incentrate sugli interessi della borghesia imperialista e il “federalismo” costituiscono le condizioni per governare la crisi e il conflitto di classe in questa fase storica segnata dalla stagnazione economica e dalla guerra imperialista». Questa, in sostanza, la sintesi del lunghissimo documento delle Brigate Rosse.
I brigatisti potranno anche essere convinti di «indebolire l’Esecutivo» ammazzando ogni tre anni un suo «collaboratore qualificato»; ma, cosa che balza agli occhi di tutti, le loro azioni armate contro la «progettualità politica della classe dominante» avvengono, guarda caso, nel momento in cui lo Stato può trarre da esse il maggiore vantaggio. C’è stata ed è tutt’ora in corso una terribile campagna bellica condotta dagli Stati Uniti e dai loro “alleati” contro le misere popolazioni afgane; ci sono stati e si svolgono tutt’ora cruenti atti di banditismo e di sterminio perpetrati ai danni delle popolazioni del Medio Oriente; ci sono stati i fatti di Argentina, situazioni tutte che hanno colpito emotivamente il proletariato e che avrebbero permesso ad un’organizzazione rivoluzionaria di diffondere la sua opinione all’interno della classe lavoratrice. Ma le Brigate Rosse hanno taciuto: non un documento, non un volantino, silenzio assoluto. Quando si sono ridestate? Nel momento in cui è necessario inquadrare il proletariato all’interno delle istituzioni democratiche ricostituendo quell’equilibrio di pace sociale che potrebbe incrinarsi.
Da una parte c’è il governo Berlusconi/Fini, manifestamente “dei padroni” che, al contrario di quanto potevano riuscire a fare quelli dell’Ulivo, non può camuffarsi da arbitro super partes degli interessi antagonistici tra Capitale e Lavoro. Dal lato opposto ci sono i partiti della sinistra, squalificati a tal punto che per ridare loro un po’ di vitalità sono stati necessari i girotondi organizzati dalle varie figure zoologiche del mondo dello spettacolo. I sindacati confederali, sebbene guardati con sospetto da una parte crescente dalla classe operaia, tentano, ed in certa misura riescono, di riconquistare terreno facendo propria la battaglia per la difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Ma il loro compito si mostra arduo ed anche pericoloso, come del resto è sempre la tattica dell’opportunismo: vi è la necessità di mobilitare i lavoratori per non perderne il controllo, ma nello stesso tempo è necessario contenere quella mobilitazione entro i limiti consentiti dalle possibilità borghesi. Infatti la campagna della CGIL, dietro il paravento della difesa dell’articolo 18, batte soprattutto la grancassa del ritorno al regime della concertazione, regime che forse la borghesia oggi non può più permettersi ma che tanto bene ha garantito ai padroni ed allo Stato il mantenimento della pace sociale.
Il partito di Bertinotti riceve attestati di benemerenza da parte dei massimi rappresentanti della politica borghese quali Giulio Andreotti ed il ministro della Funzione Pubblica Franco Frattini che in un’intervista al Corriere della Sera afferma: «Se riuscirà a ricondurre in Parlamento la voce della sinistra antagonista, credo che la sua sarà un’operazione perfino utile. Ma sono preoccupato perché, se gli sfugge di mano la situazione...».
Questa è la costante preoccupazione dello Stato. Preoccupazione non infondata quando i lavoratori danno qualche segnale di ripresa della lotta di classe e di capacità di azione ed organizzazione fuori e contro i sindacati di regime. Lo sciopero e manifestazione del 15 febbraio scorso ne rappresentano l’ultimo positivo esempio.
In questa situazione un morto per mano dei “rossi” non poteva mancare, come non poteva mancare una rivendicazione che parlasse di “lotta di classe”, in modo confuso e sconclusionato ma quanto basta perché lo Stato borghese potesse far quadrare l’equazione: “lotta di classe uguale terrorismo” e che, per respingere la medesima equazione, partiti e sindacati opportunisti lanciassero moniti alla classe operaia di non accettare “provocazioni”... rinunciando alla lotta di classe.
Unanime è stato il coro di indignazione per l’assassinio. Ma l’indignazione della borghesia travalica l’atto in quanto tale. La borghesia, lo Stato, i partiti ed i sindacati di regime non si indignano per una vita spezzata, altrimenti cosa dovrebbero fare per la carneficina proletaria che quotidianamente viene immolata sul fronte del lavoro per gli interessi del Capitale? Ma la morte dei proletari è vita per il capitalismo! La borghesia ed il suo Stato strumentalizzano la morte di un loro rappresentante ai fini dei propri interessi di classe.
Immediatamente i lavoratori sono stati costretti ad esprimere la
loro
fedeltà al regime attraverso gli scioperi imposti; simbolici sì,
ma con il chiaro significato di partecipazione forzata della classe
operaia
ai riti, alla politica capitalistica ed ai destini della classe
dominante.
Fra le voci indignate ha primeggiato quella del segretario della CGIL,
Sergio Cofferati che subito si è mostrato offeso del gesto incivile
ed ha invitato a lottare sì per la difesa dell’articolo 18 e contro
gli attacchi del governo Berlusconi a danno dei proletari, ma
soprattutto
ha ammonito la piazza proletaria sul dovere di ergersi a paladina della
pace sociale e della democrazia. Ancora una volta tutto è avvenuto
come se il canovaccio fosse prestabilito nei dettagli: se gli operai
scendono
in piazza, bisogna che vi scendano giurando la loro fedeltà all’ordine
democratico.
CHI INFILTRA CHI
Ancora una volta, come in precedenti casi e soprattutto dopo l’omicidio D’Antona, da parte dei mezzi di informazione e di uomini di Palazzo si è ipotizzata l’esistenza di “talpe” infiltrate dal gruppo terrorista all’interno degli apparati riservati dello Stato, in grado di controllare uomini e conoscere segreti, soprattutto le strategie elaborate dal potere per il mantenimento dell’ordine e della pace sociale. Appunto, come si legge nei loro proclami, rompere questo equilibrio, «disarticolare» questi organismi, colpendone gli elementi «più influenti e qualificati», è il programma dichiarato delle B.R.
Ma il fatto che si parli con tanta insistenza di infiltrati essenzialmente significa che tra gruppi terroristici e Stato non vi è soluzione di continuità e che se un flusso di notizie transita in una direzione, cioè dallo Stato alle B.R., niente impedisce che non esista un flusso in senso opposto, dalle B.R. allo Stato. Mentre è abbastanza eccezionale la prima ipotesi, la seconda è molto più verosimile perché ogni Stato che si rispetti, volendo, ha la possibilità di controllare una piccola organizzazione, sia essa legale o clandestina, di tenerla sotto osservazione, se del caso reprimerla o tentare di indirizzarne a proprio vantaggio l’azione tramite suoi agenti infiltrati. Al contrario è pura idiozia pensare che un’organizzazione di cospiratori, carpiti dall’interno i segreti dello Stato capitalista, uccidendo ogni tanto uno dei suoi innumeri consulenti possa «disarticolarne» le strutture e vanificarne le strategie economiche, politiche, sociali.
Altra ipotesi che si sente spesso avanzare è quella che i gruppi terroristici non siano composti da rivoluzionari “veri”, votati all’idea ed al sacrificio, ma, in realtà, siano semplicemente delle emanazioni di servizi segreti, nazionali o di potenze straniere, nemiche od addirittura alleate. La questione è delicata e, visti i precedenti storici, non da escludere. Anche se effettivamente la loro natura è molto sospetta, ed in modo particolare quella dell’attuale riedizione delle Brigate Rosse, non abbiamo elementi per saperlo. La questione non è però essenziale perché quello che conta è avere la chiara convinzione di dove portano simili esperienze, di chiunque siano figlie: sono funzionali al regime e di intralcio alla rinascita delle organizzazioni di classe e della contrapposizione sociale.
La rivoluzione è il frutto del violento scontro di masse umane contrapposte in classi sociali, non un complotto. Nel corso della storia umana non si è mai verificato che un partito rivoluzionario abbia preso il potere attraverso l’azione di spie infiltrate all’interno dello Stato Maggiore nemico, come non si è mai verificato che l’azione di spie della polizia abbiamo mai potuto impedire una rivoluzione quando le condizioni sociali erano mature. I poliziotti infiltrati all’interno del partito bolscevico, fino nel suo comitato centrale!, non salvarono lo zarismo e non impedirono la rivoluzione d’Ottobre.
Certo nessuna organizzazione, per quanto clandestina possa essere, può pretendere di essere immune dall’infiltrazione poliziesca: la polizia, se vuole, è in grado di penetrare dovunque. Ma i danni che questa può arrecare alla struttura in cui si è infiltrata sono molto diversi a seconda che si tratti di un partito, con una dottrina, un programma ed una tattica ben definita e che affondi le proprie radici nell’esperienza ed nel bilancio delle lotte passate, oppure si tratti di un raggruppamento, armato quanto si voglia, ma senza una tradizione, senza principi e soprattutto senza una solida dottrina rivoluzionaria. All’interno dei gruppi terroristici pochi agenti provocatori sono in grado di condizionarne le scelte operative finalizzandole ai disegni strategici dei massimi organi del potere capitalista, disegni che sfuggono nel modo più totale alla debole intelligenza del raggruppamento armato. Lo Stato facilmente può impossessarsi di queste strutture armate clandestine e “gestirle” per i propri scopi politici e di classe, e ciò a prescindere dal fatto che il brigatista sia e resti personalmente convinto di lottare e aver lottato per il comunismo e per la rivoluzione.
Nel caso di un partito veramente rivoluzionario l’azione della
polizia
può sì colpirne, ed anche gravemente, la struttura organizzativa,
ma non ne potrà mai condizionare l’azione perché questa non
viene stabilita dai congressi, non viene dettata dai capi, non viene
elaborata
da commissioni di studio. Il partito è protetto, sul terreno
organizzativo,
dal suo metodo di lavorare basato sul centralismo organico.
RIFORMISMO ANTILEGALITARIO
La giustezza della condanna data dal nostro partito al terrorismo brigatista già al tempo dei cosiddetti “anni di piombo” è provata non tanto dal fatto che i capi storici del partito armato, come la stragrande parte dei suoi aderenti, abbiano dichiarato la loro sconfitta, quando non siano addirittura passati al servizio dello Stato (ed anche questo ha la sua importanza), ma soprattutto dal fatto che dall’esperienza del terrorismo non si è sedimentata alcuna dottrina o posizione storica degna di questo nome, mentre il partito di classe, anche dalla sconfitta dell’Ottobre rosso e dallo sfacelo dell’Internazionale Comunista, come dalle sanguinose sconfitte del proletariato internazionale, ha saputo trarre delle lezioni feconde, indispensabili per il conseguimento della vittoria nel futuro assalto al potere capitalistico mondiale.
Nei confronti dei gruppi cospirativi armati abbiamo sempre svolto una critica impietosa, non per emettere sentenze morali di condanna per avvenimenti che, piaccia o non piaccia, scaturiscono anch’essi dagli scontri immancabili in una società divisa in classi, in gruppi e sotto-gruppi sociali antagonistici. La nostra ricusazione è contro la pretesa di comunque avvicinare la pratica brigatista alla tradizione del comunismo rivoluzionario e alla difesa immediata della classe. Non è una repulsa di ordine etico.
Affermiamo anche che i riflessi pratici che simili azioni armate ripercuotono sul proletariato hanno effetto negativo sulla coscienza della classe operaia, per niente stimolano nella classe sentimenti di odio verso i capitalisti né la illuminano sulla necessità della rivolta e dell’uso della sana violenza di classe. Il proletariato, quando avrà ricostituito le proprie organizzazioni di difesa economica e sarà tornato a riconoscersi nel suo partito comunista, al contrario, si leverà in armi costretto da forze materiali e non dietro ordine di qualcuno che pretenda di avere acquisito, nella sua scatola cranica, il concetto che «la violenza è levatrice di storia».
E’ verissimo, ad esempio, che i sindacati tricolore costituiscono il sostegno dello Stato e dell’economia capitalista e svolgono un ruolo di veri e propri cani da guardia della classe lavoratrice. Non è una scoperta dei gruppi armati. Ma, al tradimento dei sindacati, passati al nemico da svariati decenni, il proletariato deve opporre una rinata organizzazione economica di classe, non un colpo di pistola sparato ad un sindacalista. L’uccisione di un «esperto» di politica del lavoro non priva la borghesia di un funzionario, non lascia un buco nella sua struttura; permette però allo Stato di utilizzare la facile accusa di terrorismo nei confronti delle deboli organizzazioni che, attraverso molti ostacoli, indecisioni e tentennamenti, cercano tuttavia di ritessere delle strutture di classe e di mettere in atto delle azioni per la difesa del salario, dell’occupazione, della sicurezza sui posti di lavoro. La cosa non dispiace alle Brigate Rosse, che negano alle lotte rivendicative la caratteristica classista e addirittura la condannano come «una tendenza all’economicismo che, svuotando le istanze di autonomia di classe del loro contenuto politico generale, le ha indirizzate verso uno sbocco di subordinazione in quanto riferite ad istanze rivendicative, parziali, storicamente prive di prospettiva, proprio per le delimitazioni del piano di lotta assunto».
Tale attitudine determina una pratica terroristica proprio nei confronti della classe operaia che teme di intrupparsi in esperienze avventuriste e nei confronti dei proletari che si distinguono per la loro combattività i quali, a loro volta, con l’accusa di essere dei “terroristi”, si trovano costantemente sotto la minaccia della repressione borghese.
L’opportunismo demo-legalitario, socialdemocratico, di “destra”, non
è il solo responsabile degli ostacoli posti tra il proletariato,
l’azione di classe ed il partito. Non meno pericoloso è l’opportunismo
di “sinistra”, ed in particolare quello “armato” che, proprio perché
di tanto in tanto sparacchia, si presenta ed è presentato come
“rivoluzionario”.
In apparente opposizione, integra il lavoro del confratello legalitario
ad impedire la riorganizzazione della classe lavoratrice, sia da un
punto
di vista economico di classe, sia dal punto di vista politico
comunista.
Del resto il brigatismo, nei piani della loro strategia
riformista-antilegalitaria,
non contempla né l’organizzazione del proletariato sulla base delle
rivendicazioni economiche né la sua partecipazione alla lotta
rivoluzionaria.
È il gruppo armato che elabora la strategia rivoluzionaria e la
mette in opera nel corso delle sua “campagne” stagionali. Per gli Zorro
del 3° millennio il ruolo della classe proletaria è quello del
semplice, assiso, spettatore.
Soffoca nel sangue e sotto le macerie la guerra afgana, muoiono tra le spire dell’Anaconda americano gli ultimi talebani ufficiali, mentre milioni di poveri e di proletari soffrono fame, freddo e sete tra le montagne e nei campi profughi, oramai non più interessanti per i media di tutto il mondo. La Guerra Permanente è, per ora, terminata, nell’attesa di passare alla fase due, che tutti danno per certa e inevitabile: c’è solo da attendere la decisione di oscuri onnipotenti e inappellabili portaborse del Capitale se si farà in Iraq o in Somalia, o forse in Iran, ma può darsi in Iran e in Iraq insieme, oppure in Libia o, più in là, in Corea... Non è la storia del lupo e dell’agnello, ma di lupo borghese contro lupo borghese.
Nell’occidente gonfio di merci, nella nostra Italietta, gli schizofrenici media del regime hanno tolto la copertura al macello imminente per dirottare le passioni sull’articolo 18 e sulle diatribe interne. La frastornata classe operaia confida e si accoda, per l’ennesima volta, al carro rassicurante e poco costoso dei sindacati tricolore e si illude sul poco che pretende di salvare della concertazione, incapace, per ora, di raccogliere la sfida dei padroni e rispondere con la lotta di classe, quella vera, alla lotta di classe.
Il sistema del Capitale fa delle guerre il suo elisir di lunga vita, e ai lavoratori occidentali fa credere che la questione non li riguardi, che la guerra sarà coloniale e che la catastrofe affliggerà soltanto i poveri disperati del terzo o del quarto mondo.
La Prima Guerra mondiale ebbe nei nazionalismi e negli irredentismi la sua spinta psicologica. Benché condannata come un caino macello dalla parte sana dei partiti socialisti, per quattro anni milioni di lavoratori, dagli uguali interessi, dovettero dividersi sotto opposte bandiere per macellarsi a vicenda. Nella Seconda, trovata sponda nella lotta al fascismo e alle dittature, lo stalinismo portò le masse operaie ad inneggiare ai liberatori, nuovi padroni ancora più fascisti ed imperialisti di quelli abbattuti. La Terza, lo dicono loro, sarà al terrorismo, fantasma inafferrabile che le cancellerie imperiali possono segretamente evocare quando, dove e come loro conviene. Come le precedenti sarà, in realtà, per la conservazione violenta del modo di produzione capitalistico e contro qualunque forza tenda a ribellarsi al suo dominio.
Gli effetti coreografici creati per scatenare le guerre sono peggiorati nel tempo, più terrificanti di fronte alle sue prospettive sempre più bestiali: dall’attentato all’Imperatore, all’attacco alla flotta navale, a quello che, domani, supererà l’abbattimento delle Torri Gemelle. La trappola funziona quando assistiamo al dirompere di violenza che tanto travalica la nostra individuale concezione del soffrire, quando la contingenza è così incomprensibile, incommensurabile. Inevitabilmente il generoso proletariato, ignaro dei perché ed incredulo che le classi dominanti possano giungere a tale furia belluina, si ritrovano soli in balia dei media, che ad arte, peggio che mentire, amplificano o nascondono. Dinanzi a quell’esplosione di sentimenti, di paure personali ed ataviche, gli è chiesto di prendere posizione, viene, di fatto, imposto di prendere posizione. Cade così nel calcolo, uguale e complementare, delle parti opposte, di chi ha ordito l’attentato e di chi l’ha subito, o l’ha provocato, o non l’ha impedito. Da una parte, è chiaro, sta l’aggressore, e dall’altra l’aggredito, col quale è impossibile non solidarizzare al di sopra dei confini di classe.
Difficile è comprendere i fatti mentre si stanno svolgendo. Occorre essere informati sulla crisi generale del capitalismo mondiale, sulle sue linee di frattura interne, e occorre conoscere i conflitti sociali che dilaniano i vari popoli a diverso grado di sviluppo e la loro storia. E questo mentre lo schiamazzo dei media confonde abilmente fatti e concetti. Per questo alla classe operaia occorre il suo partito, un organo speciale, separato ed opposto alla società borghese, istruito ed allenato a comprendere questo mondo nemico. Solo il partito comunista, che si pone già fuori il gioco degli imperialismi e si dà per compito di distruggerli, può oggi dire la verità alla classe operaia.
Solo se diretto dal suo partito l’insieme del proletariato riuscirà
a indirizzare nel giusto senso antiborghese la sua emotività. Cuore
caldo e mente fredda. Solo l’indirizzo del partito può smascherare
le facili tesi che insistentemente gli si offrono, evidenti,
manichee, rassicuranti, in realtà macchinazioni del Capitale
per trascinare la classe nella sua sporca guerra. Solo se diretto dal
suo
partito il proletariato vedrà chiaramente che lo scontro reale,
che tutti negano, è contro la classe lavoratrice all’interno
d’ogni civiltà e a tutte le latitudini.
Nella puritana America le vicende Enron e collegate hanno sollevato un gran putiferio, salvo a concludersi poi col più classico dei vogliamoci bene. Se poi il sistema pensionistico che si fondava sull’azionariato di quella sciagurata Società va a rotoli, ciò rientra nella sana accettazione del rischio in un sistema assicurativo privatistico.
I casi americani, con i fallimenti, gli imbrogli ai danni dell’azionariato e le truffe a livello degli Stati, sono l’aspetto esteriore del sistema capitalistico da sempre. Quindi il fallimento della mega-compagnia Enron, strettamente connessa con la beffarda truffa ai danni dell’immenso azionariato di piccolo-borghesi e aristocrazia operaia che la sosteneva, non hanno dato quel colpo mortale alla credibilità del sistema che tanti economisti fingevano di aspettarsi. Al contrario, malgrado si sia ormai diffusa la coscienza che questi fatti non sono l’eccezione ma quasi l’usuale prassi delle aziende, e altri casi clamorosi si paventino, il mulino non cessa il suo macinare. Si confida che lo Stato, l’assoluto garante del sistema capitalistico, intervenga per mettere la solita grande pezza con i soldi della collettività. Ma questo non sarà sempre possibile.
Anzi, da qualche parte, già culla del diritto (inessenziale è il luogo) c’è pure un governo che pensa di depenalizzare il falso in bilancio, almeno fino al 5% dell’utile di esercizio, modificando il tale Articolo del Codice Civile. A quelle dimensioni aziendali sono cifre colossali, alla faccia della trasparenza dei bilanci e delle garanzie per gli investitori. «Far investire gli ignudi», scrivemmo molti, molti anni fa...
La natura intimamente truffaldina e ladronesca del borghese e dei suoi teorici si smaschera nella stridente contraddizione tra il richiamo reiterato all’ordine e al rigore dei metodi di “certificazione” dei suoi affari e l’aumento, almeno quantitativo, delle sue malversazioni. Se un tempo le società si affidavano, per la correttezza dei loro bilanci, ai “sindaci revisori” che in proprio rischiavano avallandoli, i tempi presenti ricorrono a grandi Società di revisione, che hanno trasformata la revisione stessa in una merce. Al solito, chi revisiona i revisori?
Non sappiamo quanto questa congiuntura mondiale, questa crisi che è produttiva e finanziaria continuerà a svolgere le sue spire di recessione. Sulla sua profondità non è da dubitare: il ciclo perdura da molto tempo e per alcune aree particolarmente critiche, da anni.
Naturalmente non diamo alcun credito alle giaculatorie sulla ripresa che sarebbe ormai proprio dietro l’angolo, a portata di mano; o sono propaganda per ridar fiducia ai mercati, o speranza di quel che si vorrebbe succedesse. Quella dell’imbonimento di alto livello è un’attività nella quale eccellono i ministri economici col loro codazzo di assistenti, i governatori delle banche centrali, i capi di governo negli incontri internazionali. E’ sufficiente l’ombra di una variazione positiva di un qualunque indicatore per far tirare il sospiro di sollievo sulla crisi che “sta passando”, perché la frenesia si riaccenda, nulla, apparentemente, importando tutti gli altri segni in negativo.
Il capitalismo si svolge ed opera costantemente sul ciglio dell’abisso: rallentare la sua iper-accumulazione, in previsione di crisi più intense, gli è impossibile; anche se questo rende più grave la sua situazione, deve continuare la corsa forsennata.
Di tutte le tipologie del mercato, quella borsistica è la forma più alienata di questo distorto meccanismo. Pronto a deprimersi e deprezzare quella particolarissima forma di merce che sono i titoli della proprietà di quote di capitale, altrettanto pronto a scatenarsi senza freni col rialzo dei prezzi nella speranza del ritorno del capitale investito, indica nel modo più duro e feroce quanto sia ormai immane la quantità mondiale di capitale finanziario esistente, che per non fermarsi, per remunerare, è costretto ad impegnarsi nella scommessa, nell’azzardo e non solo nel ciclo della produzione di merci, della creazione di valore. Non importa se il processo produttivo segna il passo, se la guerra sui mercati divampa violenta e i fallimenti sono lo spettro quotidiano dell’economia: basta uno spiraglio di ottimismo, l’annuncio di una qualche “buona notizia”, e la massa immane di liquidità in circolazione riprende a girare nel mulino delle borse mondiali.
Non ci sono “lezioni” che contano per i partecipanti a questo girotondo, sublimazione dello spirito del capitalismo. Ogni momento è come fosse un’eccitante prima volta, i “cadaveri” vengono subito rimpiazzati da nuove forze pronte alla scommessa giornaliera. I sussulti del capitalismo si riflettono in questo specchio distorcente, grottescamente alterati, amplificati o sminuiti secondo il particolare momento o la volenterosa regia degli apprendisti stregoni che sovrintendono questi riti: governatori delle banche centrali, investitori istituzionali, finanzieri. Tutti convinti che il bene del capitalismo sia un valore comune da difendere ad ogni costo, ma pronti a divorarsi l’un l’altro senza esclusione di colpi e soprattutto a prosciugare l’immane quantità di piccoli risparmiatori, che così riconsegnano a questa deità mostruosa la quota loro concessa del plusvalore socialmente estorto alla internazionale classe dei lavoratori.
Il processo effettivo della crisi è altra cosa.
E proprio nello svolgersi della crisi reale, fino ad oggi flaccido e vischioso, senza che ancora si manifesti la rottura traumatica studiata e prevista dalla nostra scuola, accade di assistere alle manifestazioni spontanee del capitalismo, che nella truffa, nell’inganno, nella sopraffazione trova la sua espressione visibile, la suo più naturale e ovvia decorazione.
Un distinguo è d’obbligo. Il capitalismo studiato dalla nostra scuola è riferito, per necessità di analisi, ad una struttura “ideale”, ad un modello che ha permesso di definire la sua forma reale ed effettiva. Il modello, che prevede lo scambio delle merci ai loro valori, spiega perfettamente e compiutamente il capitalismo, e aderisce al processo storico reale con eccellente verifica empirica. Ma invero la forma sociale non è mai pura come quella supposta nell’analisi. Abbiamo la consapevolezza che la sua natura effettiva è peggiore del modello sul quale svolgiamo la nostra critica e deduciamo le nostre leggi e previsioni. Non sono quindi le sue episodiche infamie a muovere l’odio programmatico e di classe che gli portiamo e a confermarci la necessità storica della sua distruzione.
Lo stupirsi per finta e l’angosciarsi per le nefaste conseguenze delle storture di amministratori disonesti li lasciamo ai commentatori liberal, ai sinistri che discettano di capitalismo migliore, o peggio, a quella nuova e postmoderna sottospecie di immediatisti, conformisti ed antirivoluzionari che negli slombati tempi d’oggi va sotto il nome di no global.
Resta quindi ben inteso che i comunisti non si stupiscono né
si scaldano più di tanto per l’autorizzazione alle truffe finanziarie
e per gli scandali nei rovesci borsistici, né confidano sulla pretesa
moralità degli Stati borghesi e delle loro leggi. Ben altra è
la “ingiustizia” che vogliono risolvere, quella cui è sottoposto
il proletariato quando viene ad onestamente e consensualmente vendere
la
sua forza lavoro contro il “giusto” salario. “Trasparenza” e
“certificazione”
sono parole del linguaggio degli avversari della Rivoluzione atte a
nascondere
le bugie sociali. Questo mondo capitalistico è infame e disumano
prima
e senza la Enron; la nostra morale rivoluzionaria non
ha
nulla da spartire con la pretesa moralità di un capitalismo “secondo
le regole”. Questo anche se è vero che il capitalismo è la
Enron, e dovrà perire come quella è fallita, nella truffa
e nell’inganno.
Parte II - a) Di crisi in crisi dal 1974 ad oggi
La crisi è produttiva, non petrolifera
Per meglio comprendere il processo di centralizzazione finanziaria in atto occorre descrivere il contesto economico generale in cui esso avviene. A séguito della parte precedente, partiamo dalla crisi del 1974, che conclude il ciclo economico profondamente vitalizzato dalle gigantesche ricostruzioni del secondo dopoguerra. Al termine di un trentennale periodo di espansione, mai lineare né pacifico ma costellato di piccole e brevi crisi intermedie, appare infine per i capitalisti la temutissima crisi di sovrapproduzione.
La nostra stampa di Partito ha ampiamente e profondamente descritto anche questa attraverso l’analisi marxista dei dati economici di tutto il periodo dimostrando che non fu determinata dalla speculazione petrolifera, come altri sostennero, ma fu la genuina crisi ciclica capitalista, già da tempo prevista
Se il male necessario, ovvero il processo di produzione, si inceppa tutto il resto della piramide capitalistica vacilla. Vista quindi la sua importanza riassumiamo alcune parti più significative tratte dalla serie di rapporti tenuti alle riunioni di partito titolate: Il ciclo di accumulazione e catastrofe del capitalismo mondiale, che, per questo periodo, partono dal n° 25/1976.
Come descritto nella parte precedente di questo rapporto la crisi non sopraggiunse improvvisa perché i primi segnali si erano avvertiti già dal 1967, con la svalutazione della sterlina per favorire le esportazioni, e sempre nello stesso anno il governo francese aveva trasformato prudentemente in oro tutte le sue riserve in dollari: queste furono espressioni immediate sul piano monetario della crisi produttiva che ormai si presentava con un ritmo quadriennale.
La tabella illustrata in quel numero raccoglieva i dati delle percentuali di incremento della produzione industriale rispetto all’anno precedente a partire dal 1964 dei sei paesi più industrializzati. La Gran Bretagna nel 1965 aveva un indice di incremento di +3,7 che l’anno successivo scende allo +0,9 e ristagna sempre allo +0,9 nel 1967; gli Usa nel 1966 sono al + 9,6 e crollano allo +0,8 l’anno dopo; la Germania passa dal +1,8 nel 1966 a -1,8 del 1967. Il Giappone manifesta il suo giovanile capitalismo salendo da un +13,3 al +19,1 nello stesso periodo; la Francia resiste dal +6,4 al +3,4 e l’Italia scivola da +11,2 a +7,6. La breve crisi interessa quindi maggiormente l’Inghilterra, l’America e la Germania mentre gli altri, Giappone escluso, rallentano ma restano con indici positivi. Nei due anni successivi c’è una ripresa per tutti eccetto per l’Italia a causa dei massicci scioperi dei lavoratori, oltre 300 milioni di ore di sciopero con una media di 23,7 ore di sciopero per dipendente nel 1969, che bloccano il settore produttivo e i suoi infernali indici di sfruttamento.
Nel 1970/71 la crisi si ripresenta in modo più incisivo: ora abbiamo Gran Bretagna 0,0 nel 1970 e 0,0 anche l’anno dopo; Usa -3,8 e 0,0; Germania +6,6 e +2,0; il Giappone scende dal +13,6 allo 0,0; la Francia +6,4 e +4,0 e l’Italia ripiomba da +6,8 a 0,0. Resiste a mala pena la Francia mentre gli altri cinque avvertono un duro colpo. Segue una breve ripresina e poi il crollo per tutti: la Gran Bretagna nel 1974 presenta rispetto l’anno precedente un -3,5 che scende a -4,7 nel 1975; gli Usa accusano un -0,9 che diviene -0,8; la Germania da -1.8 scende a -5,4; il Giappone crolla da -2,4 a -11,3 e l’Italia precipita da +5,2 a -10,0. La tabella ha il solo dato al +2,5 della Francia per il 1974 ma nei successivi rapporti, titolati Corso della crisi, nel n° 31/1977, una dettagliatissima serie con indici trimestrali presenta un minimo di -11,7 nel terzo trimestre del 1975.
È evidente che tre crisi in 10 anni, che interessano tutti i sei paesi più industrializzati, illusero molti di un imminente crollo automatico di tutto il sistema economico capitalista, mentre altri pensarono di accelerarne la caduta e risvegliare il proletariato attraverso azioni terroristiche contro i simboli umani e materiali del sistema, posizioni che a suo tempo sottoponemmo alla dovuta critica.
Per sostenere il sistema produttivo che stava entrando in recessione, i governi, a partire dal 1970-71, non trovarono altro immediato rimedio che stampare carta moneta per favorire un forzato aumento dei consumi privati e degli investimenti, decisione che provocò l’alterazione della scala dei prezzi per variazione dei soli segni cartacei. Così l’inflazione crebbe a ritmi preoccupanti, a più del 20% l’anno in Giappone, Gran Bretagna ed Italia, a più del 10% in Usa e Francia.
L’aumento del prezzo del petrolio, nella misura del 120% nell’autunno del 1973 e del 300% al primo gennaio 1974, fu una delle conseguenze del forte deprezzamento del dollaro, la moneta con cui veniva acquistato, che dal 1971, dopo che la sua copertura aurea era scesa al 10% rispetto la massa della cartamoneta, non poté più essere convertito in oro. Secondo i nostri criteri questo aumento rappresentò una diversa richiesta e spartizione del plusvalore, dell’intera classe lavoratrice mondiale, tra capitale internazionale e rendita fondiaria, pretesa principalmente dai paesi dell’Opec, il cui fatturato passava dai 10 miliardi di dollari del 1973 ai 90 del 1974. Va ricordato che il costo del petrolio greggio dei paesi arabi è mediamente costituito per un 5% da costi di estrazione e per il rimanente 95% dalle cosiddette royalty, che per noi si traduce in Rendita destinata alla classe dei proprietari fondiari, siano essi singoli individui o lo Stato.
Soltanto da questi pochi elementi si vede che non fu l’aumento del greggio la causa prima della grave crisi del 1974, come si volle a tutti i costi far credere alla cosidetta opinione pubblica, scaricando sugli avidi e spendaccioni sceicchi il malcontento per i rincari del costo della vita conseguenti, senza precisare mai che il prezzo finale dei carburanti è per un terzo determinato da costi di produzione e trasporto, ma ben due terzi sono tasse ed imposte governative.
Inerente al nostro discorso interessa chiederci che direzione finale prese questo ingrossato ed impetuoso fiume di denaro, che fin dagli inizi dello sfruttamento dei pozzi andava in senso inverso a quello del petrolio. In merito a ciò leggiamo una tabella sui conti che il Tesoro americano fece nel 1974 nelle tasche dell’Opec (i maggiori paesi produttori di petrolio che concordano tra loro le rispettive quote di estrazione del greggio per regolarne il prezzo in funzione della domanda), espressa in miliardi di dollari. Esportazioni Opec 95,0, di cui petrolio 90,0. Importazioni Opec 35,0. Il surplus, 60,0, è impiegato nel modo seguente: eurodepositi 21,0; invii negli Usa 11,0 così ripartiti: titoli di Stato 6,0; depositi bancari 4,0; acquisti immobiliari 1,0). Altri invii: in Gran Bretagna 7,5; in altri paesi Ocse 5,5; ad istituzioni internazionali (Banca mondiale, Fmi) 3,5; ai paesi sottosviluppati 2,5. Impieghi sconosciuti 9 (da: Comito, Multinazionali ed esportazioni di capitali).
La circolazione del flusso di denaro era garantita dalla presenza in tutti i paesi interessati di banche a partecipazione mista dei paesi arabi ed europei che avevano poi il compito di reinvestire quella massa finanziaria in completa autonomia, andando ad accrescere quel capitale finanziario privato che, soprattutto dai paradisi fiscali, sfuggiva ad ogni controllo. Curioso, e misterioso, l’alto valore registrato alla voce “Impieghi sconosciuti” che crea un lecito sospetto di affari loschi oltre il limite.
Come si vede più di un terzo di quella rendita si trasformava in importazioni, prevalentemente beni di lusso, faraoniche costruzioni di regime, infrastrutture sovradimensionate e apparati militari e polizieschi modernissimi, mentre poco o nulla si investiva nell’industrializzazione di quei paesi e poco andava alle classi inferiori. L’allora Scià di Persia Reza Pahlavi era considerato il più grandioso sperperatore fra tutti e le sue rendite petrolifere erano stimate in mezzo miliardo di lire al giorno, secondo quanto poi fu pubblicato, dopo la sua caduta, nel 1979.
I due terzi circa del surplus ritornava quindi all’origine nei paesi importatori di petrolio sotto forma di capitale finanziario di carattere speculativo o, in misura minore, produttivo. Fu significativo, almeno per l’Italia, l’acquisto da parte di Gheddafi, tramite la Lybiam Arab Foreign Bank alla fine del 1976, di una consistente quota del capitale Fiat, operazione con cui la multinazionale torinese si fece avanti per ottenere un finanziamento di 450 miliardi di lire necessario per le sue ristrutturazioni aziendali che non riusciva a trovare sulle piazze finanziarie tradizionali, già sotto forte pressione per analoghe richieste di tutto il settore automobilistico in quegl’anni in forte crisi. In seguito, nel settembre del 1986, messa la Libia sul libro nero dei paesi che sostenevano il terrorismo internazionale, oggi detti “Stati canaglia”, ed avvisata mediante alcuni bombardamenti americani, la Fiat non volle essere accostata, per questioni d’immagine, a tale regime e vedersi boicottate le vendite nei mercati internazionali. La Fiat poté riscattare solo sfavorevolmente dalla Lafico, la finanziaria libica che controllava il 15% del gruppo torinese, con 3 miliardi di dollari, quelle quote che invece aveva cedute a Gheddafi ad un prezzo ridotto per l’urgenza. Questo fu il raro caso in cui un predone beduino fregò un altrettanto predone ma capitalista ed europeo, visto che, in soldoni, i libici incassarono una cifra sette volte l’investimento.
Per completare il quadro petrolifero aggiungiamo che per contrastare l’aumento della “bolletta energetica” si ridussero i consumi nei paesi più industrializzati, inaugurando il periodo della austerity, anche perché nel gioco della domanda e dell’offerta l’Opec diminuì l’estrazione per tenere alti i prezzi. Dopo la caduta dello Scià di Persia nel 1979, inoltre, si fermarono tutte le esportazioni di greggio dall’Iran e furono i pozzi dell’Arabia Saudita a fornire (ovviamente a pagamento) buona parte della sua quota. Nel gennaio 1980 il prezzo al barile era di circa tre volte più alto rispetto un anno prima.
Le cose si complicarono ulteriormente quando nel settembre 1980 scoppiò la guerra Iraq-Iran: in quel periodo il prezzo del greggio salì, massimo storico, a 42 dollari al barile e furono ancora i pozzi dell’Arabia, del Messico e quelli nuovi del Mare del Nord ad integrare la produzione. L’Arabia Saudita da quel momento, vista l’instabilità che l’Iraq determinava nell’area, accettò, in cambio di denaro sonante, il ruolo di calmiere dei prezzi al di fuori dei vincoli Opec. Tanto fu organizzato il piano internazionale anti-crisi che nel 1990, con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, non si ebbero particolari contraccolpi ed il possibile ricatto petrolifero fu controllato.
In concomitanza del periodo di crisi dal 1967 al 1974 c’è il minimo storico dell’indice del flusso dei capitali esteri, che ristagna all’1% del Pil dei 12 paesi considerati nella prima tabella presentata sul flusso del capitale finanziario; risale dopo la ripresa generale del 1975/76. «La dimensione dei capitali in prestito sull’euromercato è passata da 63 miliardi di dollari nel 1976 a 69 nel 1977 fino a 51 miliardi nel solo primo trimestre del 1978. Tali enormi masse di denaro provengono per gran parte dal deficit della bilancia commerciale americana che dall’inverno del 1976 all’estate del 1978 è passata da uno stato di eccedenza su base annua di 10 miliardi ad un deficit di 33. È il segno della fine del predominio americano come potenza commerciale, incalzata da vicino dalle più produttive concorrenti giapponesi e tedesca. L’imperialismo statunitense compensa l’ammanco commerciale con le esportazioni massicce della propria moneta verde. Anche se, rapportato al prodotto interno americano, tale ammanco non rappresenta che poche unità percentuali, l’effetto inflazionistico sui mercati mondiali è determinante». Così scrivemmo sul primo numero di Comunismo nel 1979, ma un altro studio, usando evidentemente criteri di calcolo più sfavorevoli verso l’economia americana (La crise du systeme monétaire international, Parigi 1974), esponeva in grafico l’evoluzione del deficit cumulato degli Usa e la crescita del mercato degli eurodollari tra il 1965 e il 1970: l’intersezione delle due linee, della crescita del mercato dell’eurodollaro e del deficit, avviene già alla fine del 1968, sulla cifra di 22 miliardi dollari, e successivamente quella del mercato dell’eurodollaro supera quella del deficit.
Questa “valanga selvaggia” di dollari fu poi fatta capro espiatorio della successiva crisi, del 1982, che schiacciò il tasso di incremento medio annuo a -9,5% negli Usa, -2,5 in Germania, -9 in Italia (nell’anno successivo) e a -3 in Giappone; il solito trucco di scambiare la causa con l’effetto, ribaltare la successione degli eventi e nascondere il vero stato delle cose.
Questa politica economica, meglio sarebbe dire l’economia americana,
non è cambiata, si è mantenuta e prosegue tutt’ora. Un articolo
a proposito della sua massa di debiti, con l’eloquente sottotitolo: “Un
capitalismo drogato”, ci informa senza stupirci che: «Quest’economia
ammalata di debiti ha bisogno di iniezioni stimate sui 400-500 miliardi
di dollari all’anno per essere tenuta in vita (...) Attualmente gli
Stati
Uniti si accaparrano l’80% del risparmio mondiale (...) In altri
termini,
stampando denaro gli Stati uniti pagano i loro acquisti con
riconoscimenti
di debito, privilegio imperiale di cui non gode nessun’altra nazione
(...)
Il governo e il grande capitale degli Stati uniti non hanno né la
volontà né i mezzi per saldare il loro debito». Ma,
aggiungiamo noi, hanno portaerei e missili a sufficienza con cui
difenderlo!
(Le Monde Diplomatique-Il Manifesto, maggio 2001).
Le crisi continuano, anzi precipitano
Nel 1975 si costituisce in modo permanente il gruppo dei rappresentanti dei cinque paesi più industrializzati, il G5, comprendente Usa, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna, che dopo alcuni anni si allarga a Canada e Italia divenendo il G7, con l’iniziale intento di attuare politiche antinflazionistiche ma per estensione, come super-vertice del capitalismo internazionale, tutto quanto possibile per contenere l’insorgere delle sempre più profonde crisi, sia a carattere locale sia generale.
In quegli anni il mercato finanziario era fortemente condizionato dalla circolazione dei petrodollari, diretti successori degli eurodollari investiti nell’euromercato, che rappresentò, dopo il vertiginoso aumento del greggio, l’ennesimo artificio per drogare l’economia e allontanare la crisi.
Con le espressione euromercati ed eurodollari ci si era riferiti, nel senso più largo, ai depositi nelle varie monete, e non solo in dollari, situati al di fuori del paese di origine della moneta stessa, e non solo in Europa, che avevano iniziato a formarsi dopo la fine delle restrizioni ai movimenti monetari a partire dal 1957-58. Sull’onda della prima crisi petrolifera, il mercato dell’eurodollaro divenne lo strumento principale per riciclare l’enorme massa dei petrodollari dei paesi Opec, che cresceva continuamente e necessitava, come tutta l’altra quota del capitale finanziario, di autonomi spazi di manovra. In particolare furono per buona parte riciclati nel finanziamento dei “Paesi in via di sviluppo”, fino alla crisi del 1982 dopo la quale intervennero nuove regole economiche che interessarono anche il mercato petrolifero.
Alla riunione di Tokyo del 1979 del G5 «si prese atto che le relazioni monetarie internazionali si erano profondamente trasformate ed era necessario passare da un sistema internazionale diretto dai governi nazionali ad uno regolato dal mercato a scala planetaria». Liberismo e monetarismo, “più mercato e meno Stato”, sono le nuove parole d’ordine dei santoni del capitalismo, che esprimono tutt’altro che scelte economiche bensì il riconoscimento di impotenza a qualsiasi regolazione delle anarchiche e distruttive forze del capitalismo. Negli strati bassi della società si iniziò ad assistere al lento e concertato ma inesorabile smantellamento delle garanzie sociali conquistate con dure lotte operaie.
I governi nazionali con le loro banche centrali furono e sono i grandi sconfitti, soprattutto dopo la completa apertura dei mercati finanziari imposto ovviamente dai capitalismi più forti, dove i Fondi pensione americani e britannici svolgono un ruolo dominante. Il nuovo Sistema monetario internazionale è caratterizzato dallo scontro tra grandi investitori privati e banche centrali, che possono solo intervenire nei loro rispettivi mercati regolando i tassi d’interesse a breve termine e concordando tra loro regole internazionali allo scopo di prevenire rischi e speculazioni improvvise, mentre si va imponendo una totale deregolamentazione. Sorge immediatamente una grande contraddizione tra la necessità di profitti a breve termine dei Fondi di investimento, che normalmente ottengono con repentini spostamenti di capitali ove i tassi sono anche di poco più elevati, e la necessità di finanziamenti durevoli e stabili delle imprese industriali, che sono quindi alla mercè delle speculazioni delle grandi finanziarie che non riconoscono altre frontiere che quelle del maggior profitto.
Nell’agosto del 1982 si manifestò la crisi del debito messicano e il crollo degli indici della produzione dei paesi più industrializzati; l’anno successivo si aprì anche quella delle Casse di Risparmio degli Stati uniti che si concluderà nel 1989 con il loro obbligato salvataggio da parte dello Stato, avvenuto a caro prezzo, come ha recentemente ricordato il Governatore della Banca d’Italia: «Negli Stati Uniti, riassestare le Casse di Risparmio è costato quanto la Seconda Guerra mondiale».
La ripresa che seguì è caratterizzata da oscillazioni continue e cessa con la crisi del 1991/92 dove risalta con grande evidenza l’affondamento dell’Urss e la sua totale disgregazione, che si trascina dietro la crisi balcanica. Le successive ripresine mostrano subitanei rallentamenti e non sono in grado di ristabilire indici di crescita costanti e sicuri per un buon periodo. Infatti nel 1997 esplode la crisi detta delle “tigri asiatiche”, ossia di Thailandia, Corea del Sud ed Indonesia, ma specialmente quella del Giappone che si protrae ancor oggi; a ruota segue la crisi del Brasile e di altri paesi dell’America latina.
Da alcuni anni tutte le previsioni degli analisti borghesi indicano un ritorno al bel tempo... ma sempre fra sei mesi; una specie di “campa cavallo che l’erba cresce” rivolto soprattutto all’enorme massa mondiale di piccoli e medi risparmiatori le cui mosse economiche vanno sempre pilotate... in favore di quelli più grandi. Per questo lanciano messaggi di fiducia. In questo, che utilizza uno studio della famosissima London Business School sull’andamento degli indici globali delle Borse, si legge che la probabilità, calcolata su di un arco temporale fra il 1900 e il 2001, di crisi borsistica di 1 anno sarebbe del 31%; 11% di crisi di 2 anni consecutivi; 4% per 3 anni consecutivi; 1% per crisi di 4 anni consecutivi e un rassicurante 0% per periodi superiori (“Sole 24 Ore” del 24 febbraio), in quanto in un secolo non si sarebbero segnalati deprezzamenti in borsa di quella durata. Quindi niente panico, la statistica non mente! La prestigiosa School non ci imbroglia: i secoli non rotolano gli uni sugli altri sempre uguali; queste crisi cicliche non sono possibili all’infinito, non sono state né saranno eguali fra loro indefinitamente. La caduta tendenziale del saggio del profitto le farà sempre più ravvicinate o più profonde. Economia traballante in teoria e in matematica!
Il momento attuale è di fibrillazione, gli indici di crescita ipotizzati sono al massimo di modestissimi 2% e non si contano più gli articoli inerenti le discussioni sulle frazioni decimali; tutto ciò indica l’assoluta incapacità della loro pretesa scienza economica, nonostante i Nobel del settore si sprechino, e dei loro modelli matematici elaborati da potentissimi computer, di poter effettuare alcuna valida previsione. Il capro espiatorio di questa crisi con cui si è aperto il terzo millennio ha un volto, un nome e una data precisa: l’11 settembre 2001 con gli attentati nel centro di New York diabolicamente organizzati da Bin Laden. È a tutti evidente invece che nei diversificati centri del capitalismo si vive alla giornata raschiando il fondo del barile evitando accuratamente di non menzionare mai la parola recessione.
Sulle riviste del settore si recita il fitto rosario di crisi, aggiustamenti, piani economici di salvataggio, invenzione di nuovi strumenti finanziari, e ancora crisi intervallate da guerre locali e di riassestamento, fallimenti di potentissime multinazionali che per anni hanno contraffatto i libri contabili i cui alti dirigenti, prima di chiudere i battenti, si sono attribuiti superliquidazioni, di banche ed interi Stati, ultimo fra i quali l’Argentina, mentre già si mormora della possibile bancarotta del Giappone che è la seconda potenza economica mondiale ed il maggior creditore degli Usa: un vero “de profundis” del capitalismo che ancora scalcia nel letto di morte.
A chi ci taccia di essere teorici rispondiamo con i freddi numeri degli indici che copiamo dal prospetto di “Affari & Finanza” del 18 febbraio “L’economia nei principali paesi industrializzati”, quelli del G7, per la serie di dati che ci interessano, riferiti per la maggior parte al dicembre 2001 rispetto il dicembre 2000 ed espressi in percentuale. Per la Produzione Industriale gli Usa registrano un bel -5,8; segue il Giappone con un drammatico -14,9; la Germania a -4,5; la Francia -0,9; il Regno Unito a -4,6; il Canada a -6,0 e l’Italia a -5,7. A quell’epoca Bin Laden e soci erano ancora lì a contare i soldi ricevuti dalla Cia per i loro servizi resi a suo tempo in Afganistan contro i russi!
La disoccupazione, tenuto conto dei diversi metodi di calcolo, è in percentuale sulla forza lavoro del 5,6 in Usa; del 5,6 in Giappone; del 9,6 in Germania; del 9,0 in Francia; del 5,1 nel Regno Unito; dell’8,0 in Canada del 9,3 in Italia. Il Pil degli stessi paesi è ben compensato, ma anche camuffato, dagli attivi derivati da tutti gli altri settori economici di ciascun paese fra i quali primeggia il complesso comparto dei Beni e Servizi in cui il vortice delle cifre è difficilmente controllabile. Così sappiamo che il Pil americano si troverebbe a +0,1; quello giapponese a -0,5; quello tedesco a +0,3 mentre la Francia reggerebbe con +2,0, il Regno Unito la seguirebbe con +1,9, il Canada con +0,8 e l’Italia con +1,9.
Sono questi gli indici “complessivi” di crescita dai quali si traggono poi tutte le speranzose proiezioni fidando sulla nascita di settori economici in grado di “trainare” tutta l’economia; ricordate la grande spinta prodotta alcuni anni fa dalla cosidetta “new economy”: un razzo subito esploso dopo il suo lancio!
Alla fine di ogni crisi c’è stata sempre una ristrutturazione per rendere l’apparato industriale più produttivo ed efficiente a battere la concorrenza, possibile questo solo con nuovi investimenti, fatto che noi chiamiamo una diversa e cresciuta composizione organica del capitale. I capitali necessari sono rastrellati e resi disponibili tramite una più efficiente e centralizzata rete finanziaria che mediante un sistema di prestiti e finanziamenti mette in moto un vasto mercato internazionale, in totale deregolamentazione, di capitali disponibili per tutti i bisogni e gli aggiustamenti.
Nel contesto di tutto questo periodo il flusso della circolazione del capitale finanziario riprende lentamente la sua risalita dal minimo storico legato alla crisi del 1974, attivando tutti quei processi di centralizzazione e ristrutturazione necessari. La sua massa aumenta notevolmente nonostante gli indici economici crescano con sempre minore slancio, confermando puntualmente il declino storico del saggio del profitto descritto dalle leggi economiche di Marx.
7. L’INSURREZIONE ALGERINA, RIVOLUZIONE TRADITA
DEL
PROLETARIATO AGRICOLO E DEI FELLAH (1954-1962)
(continua dal n. 289)
2) L’insurrezione (1954-1962)
Per scoprire i nessi tra guerra ed economia non è necessario scomodare i classici del marxismo: di questi tempi basta dare un’occhiata ai giornali.
Guerra e affari sono andati sempre a braccetto, e certamente le grandi manovre dell’industria bellica Usa, il cui spazio vitale coincide con il mondo intero, non sono cominciate dopo il famoso 11 Settembre, anche se l’occasione porterà a una nuova fase di concentrazione tra le imprese in vista dei colossali profitti assicurati da una spesa militare che, per il solo bilancio del Pentagono, passerà da 329 a 379 miliardi.
Queste rosee prospettive hanno fatto crescere in borsa i titoli della difesa del 127%, a fronte di un calo del 2,7% del Dow Jones nello stesso periodo. La parte del leone la sta facendo la Northrop Grumman, produttrice del bombardiere strategico B-2 Spirit (l’aereo più costoso del mondo, 2,2 miliardi), che ha dato prova di sé nella guerra contro la Iugoslavia, dove in 50 missioni ha sganciato 700 bombe. Dopo il riuscito test afghano pare che il Pentagono ne acquisterà altri 40 esemplari, grazie anche ai buoni uffici del segretario dell’aeronautica James Roche, ex “testa d’uovo” della Northrop.
Ma, come apprendiamo sempre dal Manifesto, la guerra in Afghanistan è stata preziosa per questa “società globale della difesa” (come ama autodefinirsi la Northrop) – con 18 miliardi di fatturato, 100 mila addetti e con attività in 25 diversi paesi – perché ha potuto sperimentarvi alcuni prototipi del “Falco globale” (naturalmente), un aereo senza pilota che volando a 20 metri di quota localizza con i sensori gli obiettivi da colpire, anche di notte e con la nebbia. La prova (dicono) è andata a gonfie vele e il 5 febbraio la Northrop ha ricevuto un primo contratto per iniziarne la produzione. Ma l’appetito vien mangiando: essa guarda ancora più in alto, allo spazio, allo “scudo” antimissile, con il suo cavallo di battaglia, lo Sbirs, un sistema satellitare destinato «a proteggere gli Usa contro gli attacchi missilistici da note fonti di minaccia come la Corea del Nord, la Cina, la Russia e altri paesi che destano preoccupazione» (Program Descriptions, 2002). E contemporaneamente guarda in basso, agli oceani: con l’acquisto delle Litton Industries è diventata la maggior costruttrice di navi da guerra. Ha il monopolio assoluto delle portaerei e, insieme alla General Dynamics, monopolizza la costruzione di sottomarini nucleari.
Ma siccome alla fame di profitti non c’è limite, e dato che nella finanza come in guerra il tempismo è tutto, visto che attualmente i titoli del comparto sono stati retrocessi dagli analisti da strong buy a buy perché cresciuti troppo, scommettiamo che il buon Bush se ne inventerà un’altra?
* * *
Non occorreva aspettare la nuova occupazione dei territori da parte dell’esercito israeliano perché, in barba a tutte le Convenzioni di Ginevra di questo mondo, fossero trucidati di altri due medici della Mezzaluna Rossa (l’organizzazione araba gemella dell’occidentale Croce Rossa), fermi sulle loro ambulanze bloccate dai militari in attesa di avere il via libera per entrare nei campi a soccorrere i feriti degli scontri e dei raid aerei, per lo più donne e bambini, che nel frattempo morivano dissanguati.
La notizia non è di quelle particolarmente sconvolgenti, immaginiamo, in un’epoca in cui i palati sono abituati a ben altri piatti forti, serviti quotidianamente dalla cosiddetta informazione: carneficine di civili in Afghanistan, stragi di clandestini nei mari delle vacanze, la Shoa dei campi profughi palestinesi, i morti a milioni nell’Africa infelix...
Spinti dalla crisi capitalistica mondiale che inasprisce i contrasti fra gli Stati e accende i conflitti, per ora a livello locale, borghesia e opportunismo invocano sempre gli stessi argomenti (difesa della nazione, della civiltà, della pace, ecc.) per “giustificare” i loro massacri. E i preti di tutte le religioni sempre hanno concorso a quest’opera di “giustificazione”, venendo prima la guerra, poi, come sottoprodotto, la religione, o la “cultura”, come si dice, della guerra.
In questo caso, l’autorizzazione a sparare sulle ambulanze
proverrebbe
direttamente dal Talmud e gli ortodossi, guide spirituali,
insegnano
ai per nulla convinti e recalcitranti soldati israeliani che «in
tempo di guerra uccidere i gentili diventa un dovere religioso»,
esattamente come ai loro, una mano sul cuore l’altra sulla Bibbia, o
sul
Corano, pontificano Bush e Bin Laden, e domani faranno i buoni,
saggi
e pacifici borghesi europei, i loro preti e governanti.
Il pesce puzza dalla bocca
Uno “studio” della multinazionale del tabacco americana Philip Morris tendeva a dimostrare al governo ceco i vantaggi che il “piacere” del fumo arreca alle casse dello Stato. La inopportuna pubblicazione dei risultati del suddetto studio ha sollevato la polemica, giacché si è risaputo che vi si affermava che il tabacco, provocando la morte prematura dei suoi consumatori, permette il risparmio di grosse somme che altrimenti andrebbero spese per le pensioni di vecchiaia.
La “solidarietà” araba
Come abbiamo sempre rilevato, il conflitto palestino-israeliano non può trovare soluzione nel quadro della società capitalista. Che la “solidarietà araba”, la “fraternità” non sia che retorica lo dimostra l’atteggiamento degli Stati arabi di fronte alla causa palestinese. I proletari palestinesi possono sperare solo nella solidarietà e nell’appoggio dei loro fratelli di classe del resto del mondo, e, nonostante tutto, del proletarito di Israele, che è chiamato storicamente a giocare un ruolo importante nella prossima rivoluzione proletaria che, non terrà una denominazione nazionale ma internazionale.
Patto antioperaio alla SEAT
La direzione dell’impresa automobilistica spagnola SEAT e i sindcati UGT e CCOO hanno firmato un accordo molto ben accolto dall’opinione pubblica. È perché come l’hanno presentato dà l’impressione di favorire l’accesso dei giovani ad un posto di lavoro nell’impresa, quando in realtà si tratta di difarsi dei lavoratori con più anzianità e sostituirli con mano d’opera più giovane, che riceverà un salario notevolmente inferiore al resto del personale (intorno al 25-30% in meno). L’accordo registra l’intenzione di convertire in fissi i nuovi contratti ed equiparare i salari al resto del personale; cosa che la direzione della SEAT e i Sindacati eviteranno rescindendo anche questi nuovi contratti ed assumendo ancora altro personale.
Mancano gli alloggi in Algeria
La speculazione regnante nel settore edilizio in Algeria, insieme
alla
disoccupazione e alle sempre peggiori condizioni di vita della
maggioranza
della popolazione, è stata una delle cuse delle mobilitazioni in
Cabilia e in altre zone del paese. L’Ufficio Nazionale di Statistica
riconosce
che vi sono oggi circa 900.000 appartamenti vuoti mentre cresce senza
fine
la domanda di alloggi in un paese con uno dei tassi di occupazione per
vano più alti del mondo.
La caduta tendenziale del saggio di profitto spinge le imprese, e di conseguenza le politiche dei vari Paesi, a cercare di essere sempre più “produttive”, cioè a ridurre l’incidenza del capitale variabile diminuendo i salari ed il numero dei lavoratori, sostituendoli con macchine sempre più efficaci, aumentando il plusvalore estorto per singolo lavoratore.
Nasce da questa esigenza del capitale, oltre ai tagli di quello che la borghesia chiama Stato sociale (sanità scuola etc...), di rendere sempre più “flessibile”, sia “in entrata” sia “in uscita”, il mercato del lavoro.
La borghesia italiana per quanto riguarda le norme che regolamentano la flessibilità “in entrata” ha già intrapreso la strada opportuna per i propri interessi di classe, anche se rispetto alla media UE, secondo fonti del Sole 24 Ore, la percentuale della forza lavoro “atipica” sul totale degli occupati è del 9,1% rispetto al 17,7%. Il settore che in proporzione al numero degli occupati fa registrare la quota più consistente di lavoro a tempo parziale è l’agricoltura con 14,8%. Nel settore costruzioni ed industria questo tipo di contratti è meno diffuso, solo il 4-5% degli occupati. Il numero medio delle ore lavorate a settimana è calato da 24,6 del 1995 a 23,9 del 2001.
Le agenzie che propongono la merce-lavoratore sono affiliate a due associazioni di categoria, la Ailt-confindustria e la Confinterim; Adecco, leader nel mondo, Lavoro Temporaneo, Temporany, etc. continuano ad espandersi in tutta Italia. La Kelly Service, prima agenzia nata al mondo, nel 1946 a Detroit, che oggi ha circa 1.800 uffici sparsi in 27 paesi tra cui l’Italia con 57 agenzie, per bocca del suo amministratore delegato Lorenzo Caporaletti (un nome un programma!), dichiara che il 2002 sarà un anno di consolidamento delle agenzie aperte con il raddoppio delle stesse a livello nazionale. Enzo Mattina presidente della Confinterim, sempre dalle pagine del Sole 24 Ore del 20 febbraio, sostiene che sarebbe necessario modificare la legge per adattare il massimale di ricorso all’interinale alle dimensioni dell’azienda, l’8% infatti essendo troppo vincolante per le piccole aziende, mentre potrebbe andare per le grandi.
Molte agenzie interinali guadagnano anche sui contratti a tempo indeterminato. Alcune di loro chiamano questo servizio Permanent. Tra breve arriverà la riforma del collocamento e ci saranno delle modifiche. Attualmente un’agenzia che procura forza lavoro ad una azienda che cerca personale a tempo indeterminato, percepisce “dall’azienda” (in realtà dal lavoratore) circa il 10% del salario lordo del primo anno.
Anche internet è utilizzato per quella che, in inglese ovviamente, viene chiamata recruitement on-line. Nei siti di Clicca Lavoro, Jobpilot, Job on-line etc. ci si può registrare lasciando tutti i dati ed il curriculum vitae creando così una banca dati di senza-lavoro o di chi vorrebbe cambiare lavoro.
Contratti a termine, part-time, a progetto, collaborazioni coordinate e continuative e tante altre tipologie simili servono solo al padronato, primo, perché può sfruttare al meglio la forza lavoro seguendo l’andamento del mercato, e, secondo, perché divide la classe e rende difficile la difesa di un lavoratore che si trova un mese in un’azienda e il mese successivo in un’altra, ben ricattabile se dietro non ha una forte organizzazione sindacale che tuteli gli interessi dell’intera classe.
Quindi conquistata la “flessibilità in entrata”, che è già avviata e senza l’opposizione proletaria continuerà indisturbata, la classe borghese è passata ad attaccare anche la “flessibilità in uscita” sopprimendo il divieto di licenziamento senza “giusta causa” nelle aziende con più di 15 dipendenti. In Italia infatti un lavoratore, ammesso che riesca a dimostrare in tribunale di esser stato licenziato senza “giusta causa”, ha due possibilità: essere reintegrato più un risarcimento commisurato alla retribuzione dal giorno del licenziamento a quello della reintegro, oppure, rinunciando al reintegro, ottenere un indennizzo pari a 15 mensilità. Questo diritto, concesso nel periodo del pieno impiego, il governo, per opera del Ministro del Welfare (ridagli!) Maroni, intende ora far cessare.
Questo non è che l’inizio di un duro attacco alla condizione
operaia. Solo un’organizzazione sindacale, che difenda gli interessi di
classe, nata dall’unione dei lavoratori pubblici o privati, delle
diverse
categorie e di qualsiasi nazionalità, potrà tutelare ed arruolare
nel proprio esercito anche i lavoratori “atipici”, oggi alla mercè
dei padroni.
Vanno innanzi tutto registrati gli importanti successi dello sciopero nazionale ORSA del 2-3 marzo e di quello compartimentale per la Toscana del 25. Rilevanti soprattutto per il clima di lotta in cui sono stati effettuati, un clima che non si riscontrava da un paio d’anni, fortemente stimolato dagli attacchi sempre più pericolosi ed arroganti di FS e Confindustria. La combattività dei macchinisti ha impedito, a tutt’oggi, l’applicazione del pre-accordo del novembre ‘99, siglato con i Confederali, ma quell’intesa rimane il sostegno principale dell’odierno piano aziendale, ipotesi che non soltanto attacca pesantemente orario di lavoro e salari, ma mette in dubbio tutto il quadro giuridico del lavoro in ferrovia, subordinandolo agli obbiettivi di programmazione. Questo significherebbe la perdita assoluta del potere contrattuale conquistato in anni di lotte e di sacrifici, nonché il definitivo ridimensionamento dell’organico FS.
In questo clima rovente si è inserito il Congresso nazionale del CoMU, che doveva ratificare la scelta di confluire nell’ORSA, dando immediatamente vita a “Macchinisti Uniti”, sindacato di settore per il macchina, cui aveva già aderito il SAPENT/FISAFS. La scelta, passata a maggioranza, contrari i Compartimenti toscano, emiliano e ligure, è frutto di mesi di discussioni interne. A queste ci pare avesse dato una buona soluzione il Compartimento della Toscana, che nel suo Congresso aveva preconizzato il mantenimento dell’indipendenza del CoMU, pur all’interno dell’ORSA, a garanzia di conservazione delle caratteristiche che hanno reso forte ed affidabile il Coordinamento negli ultimi diciassette anni.
Il problema dell’aggregazione con forze maggiori scaturì, anni fa, per la necessità di contrastare la minaccia dello Stato di imporre percentuali minime di rappresentanza. La naturale ricerca di estendere il fronte è risultato di una certa debolezza e non frutto di percorsi comuni in settori diversi, tant’è che di molti sindacatini ed organizzazioni che avrebbero dovuto esserle madri l’ORSA è poi rimasta orfana e, in pratica, è oggi soltanto l’unione di CoMU, FISAFS e poco più.
Il disagio interno, lievitato quando già il notaio aveva messo il “bollo tondo” sulla nuova organizzazione, deriva dalla difficoltà di molti a prendere coscienza che i veri pericoli non stanno soltanto “fuori” dall’organizzazione, ma ben annidati al suo interno dove frange, non minoritarie, hanno da tempo imboccato la strada che porta al consociativismo dei cugini confederali, “fratelli-coltelli” cui vorrebbero, domani, far concorrenza. Una situazione inevitabile, se si pensa che il CoMU, a suo tempo, aveva tagliato trasversalmente tutte le organizzazioni sindacali, trascinando al suo interno anime diverse.
Il controllo che la minoranza più combattiva del CoMU aveva sino a pochi anni fa potuto esercitare, e che ha salvato nel tempo l’organizzazione, non è riuscito a prevalere sulla deriva, che dicono “burocratica” e “dell’ORSA”, ma che si scopre compatibile con le aspirazioni di molti, che non sono in malafede o prezzolati dalla Società, ma semplicemente incarnano determinate posizioni politiche che la fine della ristrutturazione cerca di mettere prepotentemente in prima linea.
Certo, come si vede, continua a premere la voglia di lottare dei ferrovieri ed ogni loro richiesta, ogni loro rivendicazione, ogni sciopero tendono a porsi, “naturalmente”, sulla strada giusta, seppure lunga e difficile. Ma ai lavoratori non si può chiedere di lottare ogni giorno, senza mai un attimo di riposo. Appunto per questo serve la buona organizzazione, perché l’avversario di classe rimane invece in agguato, per la sua stessa sopravvivenza, giorno e notte.
Vi sono state delle defezioni, e alcuni compartimenti hanno fatto la
scelta di mantenere in vita la vecchia organizzazione all’interno
dell’ORSA.
Starà a loro rifiutare qualsiasi atteggiamento di isolamento
“regionale”
e opporsi all’emarginazione che gli si volesse imporre. Si deve dare
corpo
ed organizzazione ad una opposizione interna che rappresenti la
posizione
che non vuol subordinare gli interessi dei lavoratori a quelli del
padronato;
una diga ad una maggioranza che troppo pericolosamente sta scivolando
verso
il collaborazionismo (si è vista perfino sotto un documento la firma
dell’Orsa accanto a quella della CGIL) e che potrebbe contribuire a
vendere
i ferrovieri, non tanto per poltrone e prebende, ma per la “gloria” di
aver contribuito al “risanamento societario”, di questi tempi sul mito
di un’Italia “libera, democratica, antifascista” e, ultimissima,
“controterroristica”.
Nel marzo del 1996 scrivevamo sul nostro giornale: «Alla Zanussi vince la “flessibilità”». La vertenza di allora riguardava il turno notte. La Zanussi assunse 350 operai, soprannominati poi “pipistrelli”, per farli lavorare di notte. Il padronato successivamente accordò con i propri rappresentanti Cgil-Cisl-Uil di estendere il lavoro notturno a tutti gli altri 1700 operai. Gli operai bocciarono questo accordo al referendum. Il padronato ricattò con il trasferimento della produzione. La cosiddetta “opinione pubblica” accusò i lavoratori di scarsa sensibilità al problema dell’occupazione. In definitiva dopo mesi di tira e molla senza usare l’unica vera arma dei proletari, lo sciopero (la vertenza è durata 5 mesi, le ore complessive di sciopero furono 1.548, cioè meno di un’ora in media per i 1.700 operai), si diede via libera all’intesa.
Marzo 2002: non passa in fabbrica l’accordo fra Electrolux-Zanussi e i sindacati metalmeccanici Cgil-Cisl-Uil; dopo il no dello stabilimento di Rovigo anche i lavoratori di Mel (Belluno) hanno bocciato l’accordo con 318 voti contrari e 312 favorevoli. L’accordo prevede di aumentare di 24-30 ore il lavoro mensile da aprile ad agosto, quando si concentra la produzione di compressori per frigoriferi; in cambio dell’aumento di sfruttamento, che secondo l’azienda è su base volontaria, vengono riconosciuti per 24 ore 300 euro lorde, oltre ad un piano di investimenti per 38 milioni di euro per la realizzazione nell’impianto bellunese di nuovi prodotti ad alto contenuto di innovazione tecnica (Fonte Sole 24 Ore). Parte così una lettera dalla multinazionale svedese all’amministrazione provinciale nella quale si intima che senza un chiaro patto per lo sviluppo si troveranno costretti ad un progressivo esaurimento della propria presenza a Mel ed anche a Rovigo.
Quindi eccoci nuovamente al ricatto. Nello stabilimento di Mel la percentuale di iscritti ai sindacati è veramente basso, il 22% rispetto alla media del 54% del resto del gruppo, e possiamo capirne le ragioni, visto la delusione verso coloro che tradiscono gli interessi operai.
Un vero sindacato di classe combatterebbe le pressioni padronali,
chiederebbe
più salario e migliori condizioni di vita per tutti e non l’elemosina
di 300 euro per maggiore sfruttamento, il che ottiene la massima
estorsione
di plusvalore durante i picchi di richiesta del mercato e divide
ulteriormente
la classe.
Da sempre le imprese del settore pubblico hanno avuto la funzione di servire gli interessi di classe della borghesia. E da sempre si è cercato di trasformarle in private appena è stato possibile, salvo poi ricorrere ad aiuti statali quando le aziende privatizzate fallivano o si trovavano in difficoltà.
Benché il servizio postale britannico sia ad oggi rimasto la più grande impresa statale “non riformata”, la strategia del governo Blair è consistita nel creare un “Cane da guardia” (Postcomm), emanazione dello Stato, per bloccare ogni aumento dei costi nel recapito della corrispondenza. Il ruolo dichiarato di questa struttura sarebbe quello di proteggere gli interessi del “consumatore”, ma la sua funzione reale è quella di far pressione sulla Royal Mail affinché intensifichi gli attacchi su tutti i suoi dipendenti, incurante del caos che si viene a produrre all’interno del servizio postale.
I lavoratori hanno risposto con gli scioperi, praticamente tutti unofficial (cioè fuori dal controllo sindacale e non rispettosi delle regole ammazzasciopero a suo tempo concordate dai bonzi con il padronato), arrivando nel 2001 al totale di 62.000 giornate lavorative, una parte significativa del totale nazionale di giornate di scioperi nello stesso periodo. Le poste sono infatti una grande azienda che occupa circa 200.000 lavoratori.
Già da molte parti erano giunti avvertimenti che con lo sviluppo delle forme di comunicazione elettronica la necessità di un sistema postale si sarebbe molto ridimensionata e che quindi i lavoratori dovevano ridurre le loro pretese o le macchine li avrebbero rimpiazzati. Un altro pericolo è la concorrenza dei servizi postali di altri paesi, come quelli americani o olandesi, che si offrono a prezzi competitivi della distribuzione della “junk mail” (quella posta “spazzatura”, ormai predominante nelle nostre cassette).
Riorganizzazione della Royal Mail
Finché faceva profitti (buona parte dei quali se la prendeva il governo) non c’erano problemi. Ma con la politica di mantenere i prezzi postali bassi, l’unica scelta rimasta agli amministratori del servizio postale è stata l’abbassamento dei costi. Il che automaticamente significa farne gravare il peso sui lavoratori. Le direttrici dell’attacco sono state le seguenti.
Il numero degli uffici postali, dove si vendono i francobolli, si pagano le tasse e le bollette, si riscuotono le pensioni, e in Gran Bretagna si rinnovano anche patenti varie e passaporti, ha subito una costante diminuzione negli anni. Si è anche proposto l’abolizione degli uffici postali di campagna, un’istituzione legata a tradizione secolare, ma ci si è trovati di fronte all’estesa opposizione popolare perché in molti posti l’ufficio postale è ancora l’unico contatto con il mondo esterno.
La cernita della corrispondenza è ormai concentrata in strutture molto grandi, quasi una per contea. In passato il personale era tutto fisso, con qualche stagionale per dare una mano in periodi particolari come quello natalizio e le vacanze estive. Ora invece i lavoratori temporanei sono una istituzione permanente negli uffici di cernita. La forza lavoro è sempre più costituita da un piccolo numero di personale fisso, personale con contratti a breve termine (di solito tre mesi), e personale realmente temporaneo (anche assunto giorno per giorno). La direzione cerca di aggirare i “problemi” che possono sorgere spostando la posta da cernire da una zona all’altra. La reazione istintiva dei lavoratori è il boicottaggio, cioè il rifiuto di toccare questa posta trasferita. Ma i lavoratori che dovrebbero lavorare questa posta “maledetta”, e che rifiutano di farlo, vengono minacciati, poi sospesi; il che innesca scioperi per difendere i sospesi. La reazione dei lavoratori è non ufficiale, istintiva e immediata. Nonostante si tratti di una vertenza locale e particolare, spesso i suoi effetti si allargano oltre i confini dell’ufficio interessato. Lo spostamento della posta per evitare agitazioni porta invece ad una diffusione dello sciopero.
La posta viene anche spostata da un centro di cernita all’altro, per sfruttare le “capacità residue”. Non è assolutamente fuori dal comune che posta da lavorare venga spedita dall’Inghilterra del Sud Est a Edimburgo, per essere cernita e rispedita - un viaggio che doveva essere di poche miglia si trasforma in una escursione di ottocento miglia, andata e ritorno, con ovvio aumento dei costi.
In giugno l’organo di controllo del servizio postale, Postcomm, in un rapporto raccomandava di “aprire” il servizio postale verso altre attività dotate di reti di distribuzione: lo scopo era di rinunciare al sistema di trasporto proprio delle poste, utilizzando altre sistemi di distribuzione, come quelli dei supermercati.
La consegna della posta è sempre stata un’operazione che richiede molto lavoro manuale. Le possibilità di privatizzare, o sostituire, il servizio di consegna sono apparse poco praticabili al governo, e quindi sono stati previsti altri modi di intensificare lo sfruttamento dei portalettere. Tradizionalmente, ogni giorno i portalettere all’ufficio postale si prendono una borsa con una quantità quotidiana di posta, e organizzano autonomamente la consegna. Tutto questo è stato trasformato in modo che la posta sia deposta in punti particolari, in contenitori chiusi, in modo che gli addetti possano tornare a prelevarne appena finita la quantità iniziale, senza tempi morti. Tutto ciò naturalmente non può che significare una riduzione del numero di postini
I progetti per la liquidazione della Parcelforce, recapito di pacchi, una branca della Royal Mail, sono molto avanzati. La consegna dei pacchi è stata per anni un punto debole da un punto di vista finanziario, e quindi il progetto prevede il suo affidamento a ditte private nel prossimo futuro; in questa trasformazione si prevede saranno coinvolti ben 12.000 lavoratori.
Uno sciopero non ufficiale
I fatti avvenuti alla fine del maggio dello scorso anno sono abbastanza eloquenti su come funziona il tutto. I primi guai sorsero all’ufficio cernita di Watford, il 18 maggio, quando furono imposti dei cambiamenti nei turni degli addetti alla cernita, soprattutto per l’istituzione dei turni di notte. Questo determinò una fermata del lavoro immediata dei postali, e come conseguenza una ampia zona di Londra ne fu immediatamente colpita.
La posta che non era stata cernita fu inviata all’ufficio cernita principale di Liverpool, che si occupa di cernita e consegna della posta in una parte del South Lancashire. La direzione sperava in questo modo di isolare il “problema” di Watford, ma la mossa ebbe solo l’effetto di provocare uno sciopero non ufficiale immediato, con gli addetti alla cernita in sciopero prima ancora che la vertenza potesse finire nelle mani del sindacato, la Communication Workers Union (CWU). La posta non lavorata, che adesso proveniva sia da Watford sia da Liverpool, fu quindi spostata a Chester (che serve il Cheshire e il Galles del Nord) e a Preston (che serve zone del North Lancashire). Ma anche in queste due destinazioni scioperi spontanei boicottarono questo nuovo lavoro. A diffondere ulteriormente il movimento ci pensò la reazione dura della Direzione.
Nel frattempo la vertenza originaria di Watford era stata composta, e i lavoratori erano tornati al lavoro. Ma questi ben presto seppero che prima a Liverpool, poi a Chester e Preston, i loro compagni avevano scioperato per aiutarli, e in men che non si dica scesero nuovamente in sciopero dando un bell’esempio di solidarietà. Questa lotta, che a questo punto minacciava di estendersi a scala nazionale, avveniva proprio mentre ci si avvicinava alle elezioni politiche. Così la stampa si mise a strepitare che la stessa democrazia era in pericolo: la consegna delle scemenze tipiche della propaganda elettorale, come pure dei certificati e poi delle stesse schede rischiava di saltare per colpa dello sciopero. Già le elezioni erano state rinviate per colpa dell’afta epizootica nelle campagne, e non si poteva rimandare ulteriormente! Ma i lavoratori delle poste non erano affatto disposti a cedere alle richieste dello Stato e dei suoi paladini.
Le conseguenze per le poste
In autunno le pressioni sulla Royal Mail aumentarono affinché ponesse fine ai suoi problemi, pena la fine del monopolio statale sulla consegna della corrispondenza. In ottobre fu firmato un accordo con l’CWU per una sospensione di qualsiasi lotta sindacale. A novembre fu annunciato che la seconda consegna giornaliera sarebbe stata abolita, salvo per chi fosse disposto a pagare un extra, altrimenti avrebbe dovuto andarsela a prendere all’ufficio postale. L’CWU si dichiarò pronta a discutere su tutto quello che poteva migliorare i servizi, se però si riconosceva la salvaguardia dei posti di lavoro.
Vi fu poi notizia di una minaccia di sciopero dei postali dello Hampshire, i quali per protesta si presentavano in servizio con la divisa in disordine, con la camicia non infilata nei pantaloni, cosa esplicitamente proibita dal contratto di lavoro. La CWU non esitò a darsi da fare affinché la lettera del contratto fosse cambiata in modo che si leggesse che le camicie “possono” essere messe nei pantaloni, invece che “devono”. Bel sindacato questo CWU, pronto a battersi per il diritto a tenere le camicie fuori dei pantaloni mentre non muove un dito per difendere i lavoratori dalle vere prepotenze e arroganza dell’amministrazione.
Il 26 novembre un editoriale del Times gracidò l’opinione che era tempo che le Poste fossero privatizzate. Solo la “libertà” conquistata dal controllo statale avrebbe reso possibile di realizzare i cambiamenti necessari. A questo articolo, e a dati disastrosi sul bilancio dell’amministrazione postale, seguì una campagna mediatica contro la direzione delle poste. Questa fu pronta nell’affermare che andavano prese misure immediate per rimediare: la seconda consegna quotidiana doveva saltare, insieme a 20.000 dipendenti, il dieci per cento circa della forza lavoro totale.
Per ora la cancellazione della seconda consegna giornaliera è
stata esclusa e il programma di licenziamenti rimandato e demandato a
trattative
con la CWU. Per il momento le richieste di privatizzazione si sono
diradate
e i progetti per il licenziamento dei dipendenti delle poste a decine
di
migliaia sono sospesi, anche se costituiscono una costante reale
minaccia
per i lavoratori postali britannici.
Si privatizza anche la Tube,
il merito al compagno Blair
A Londra pare sia imminente la privatizzazione della metropolitana. Non stiamo qui a raccontare le false polemiche tra i paladini della privatizzazione, con in testa il Ministro dei Trasporti Stephen Myers, e i convinti teorici dell’economia statalista capitanati dal sindaco londinese Ken Livingstone. Ci limitiamo a descrivere cosa si nasconde sotto l’operazione cosiddetta di “privatizzazione”: aumento tariffario minimo del 15% (già oggi le spese di trasporto assorbono mediamente il 10% del reddito dei lavoratori britannici); eliminazione delle corse non redditizie come quelli all’alba o nella tarda serata frequentate perlopiù da categorie di lavoratori già particolarmente disagiate: addetti alle pulizie, ai trasporti, ospedalieri, dipendenti di alberghi e ristoranti, ecc; peggioramento delle condizioni contrattuali e lavorative degli addetti al “tube”, già in passato protagonisti di numerosi scioperi che raccolsero la solidarietà della quasi totalità dei londinesi.
A questa “privatizzazione” il governo dell’amerikano Blair non ci rinuncia nonostante l’infelice esperienza di Railtrack, la società che gestiva il traffico su strada ferrata, la disastrosa, per utenti e lavoratori, vicenda della privatizzazione della British Rail. È un momento in cui le condizioni della classe operaia sono in continuo peggioramento, dai tagli alla previdenza, alla sanità, al numero spropositato di ore “straordinarie” cui i lavoratori sono costretti causa salari bassi e costo della vita elevato. A questo si aggiunge il rifiuto del governo alla richiesta di aumentare la minum wage, il salario minimo.
Grazie ad una particolare clausola il 47% delle aziende ignorano il limite vigente nell’Unione Europea di non far oltrepassare le 48 ore settimanali, percentuale che sale al 70% tra le aziende grandi. Le conseguenze, anche secondo le Trade Unions sono pesanti: «Il lungo orario di lavoro è causa di malattie, stress e problemi familiari, ma la cosa peggiore è veder come viene governato il lavoro in questo paese. Metà del Regno Unito è prigioniero di un circolo vizioso: salari bassi, scarsa produttività, orario lunghissimo».
Lo stesso capo sindacale promette di “lavorare” con il governo e con le imprese per invertire la tendenza. Noi invece sosteniamo che solo una forte unità tra lavoratori, disoccupati, sotto-occupati, sfruttati e la loro lotta decisa può cambiare la tendenza e spezzare l’offensiva del Capitale, in Gran Bretagna come nel resto del mondo.