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"Il Partito Comunista" - n° 294 - ottobre-novembre 2002 - [ Pdf]



PAGINA 1O COMUNISMO RIVOLUZIONARIO O TERRORISMO INTER-IMPERIALISTA.
                   – Fiat - Affonda la galera aziendale.
                   – Lo Stato, la Legge, i Terremoti.
PAGINA 2-3TESI E VALUTAZIONI CLASSICHE DEL PARTITO
                         DI FRONTE ALLE GUERRE IMPERIALISTE (da “il Partito Comunista”, n.181/1990).
PAGINA 4 – Torino - Riunione di lavoro del 28 e 29 settembre  [RG84]:
                    Corso della crisi economica capitalistica - La dottrina borghese dello Stato -
                    Lo scontro fra imperialismi e le minacce di guerra - Monopolio o “terziarizzazione”?
PAGINA 5ALGERIA, IERI E OGGI: 8. Bilanci e prospettive marxiste dell’insurrezione algerina
                      b) Il proletariato di fronte al movimento nazional-rivoluzionario - Riassumendo.
 
 
 
 
 
 
 
 




PAGINA 1

O COMUNISMO RIVOLUZIONARIO
O TERRORISMO INTER-IMPERIALISTA

Due guerre mondiali hanno scandito con il loro tragico seguito di morte e distruzioni il secolo appena concluso. Possono essere considerate due spartiacque storici.

La Prima Guerra mondiale, subito denunciata come guerra imperialista dal socialismo rivoluzionario e internazionalista di sinistra, fu la causa scatenante della rivoluzione in Russia, portò il Partito bolscevico alla presa del potere e alla formazione del primo Stato a dittatura proletaria. Il partito e lo Stato proletario fu, dopo non molti anni, soffocato dalla controrivoluzione staliniana, ma quella breve vittoria contro tutto un mondo nemico rappresentò allora e rappresenta oggi la prova storica che è possibile capovolgere la guerra fra gli Stati in guerra fra le classi, spezzare la dittatura borghese, instaurare un regime rivoluzionario, socialista e internazionalista che abolisca la divisione in classi, il lavoro salariato, la produzione di merci, il denaro.

La Seconda Guerra mondiale, che fu altrettanto imperialista della prima e vide un secondo sterminio “industriale” di milioni di proletari sui fronti di guerra e nelle retrovie, fu vinta del blocco degli imperialismi occidentali alleati allo Stato ex-comunista di Russia. La democrazia, come prevedemmo allora e confermiamo oggi, che si disse aver vinto sul piano militare, in realtà ha assunto tutte le caratteristiche, se non di forma, di sostanza dei metodi di governo totalitari di tipo fascista e nazista. Il fascismo è oggi adottato da tutti gli Stati, mentre i media, i partiti, i parlamenti e le libere elezioni sono tenuti in piedi, tirannicamente ben in pugno alla classe borghese, solo come puro spettacolo per ingannare e corrompere il proletariato.

L’ordine mondiale stabilito alla fine della guerra dai vincitori democratici, che non a caso fu inaugurato dalle due bombe atomiche democraticamente fatte esplodere nel cielo di Hiroshima e di Nagasaki, per cinquant’anni ha smarrito i lavoratori nella falsa alternativa USA-URSS, mentre ambedue i blocchi erano ad economia capitalista e a dittatura borghese. L’impero del falso socialismo, in realtà capitalismo di Stato, si è poi sfaldato sotto il peso di una insostenibile crisi economica.

Da allora sono restati gli Stati Uniti nel ruolo di gendarmi dell’ordine mondiale del Capitale, ma altri capitalismi, vecchi e nuovi, nell’Europa e nell’Asia, li incalzano.

I decenni della ricostruzione post bellica hanno dimostrato – smentendo le illusioni diffuse dai falsi partiti stalinisti e democratici – che è impossibile riformare il capitalismo e che le vie elettorali e graduali sono state solo un inganno per la conferma del capitalismo. Hanno dimostrato che nel capitalismo è impossibile migliorare la condizione del proletariato, anche dei paesi più progrediti, confermando quanto Marx aveva affermato più di un secolo fa: la miseria relativa del proletariato e la sua insicurezza non possono che aumentare. Hanno dimostrato l’errore di ogni idea e pratica di pacifica coesistenza fra capitalismi, quando negli ultimi 50 anni la guerra non è mai cessata.

Lo scontro tra i blocchi imperiali si è andato stringendo sempre più alle grandi metropoli dell’Occidente. Quello tra Europa, Russia e Stati Uniti per l’influenza sui Balcani ha portato allo smembramento dello Stato (borghese) iugoslavo e a una serie di guerre mercenarie (anche approvate dai nostri governi “sinistri”) i cui orribili massacri hanno causato centinaia di migliaia di morti ed eretto muri di odio tra proletari, fomentando o suscitando sentimenti tribali col pretesto religioso o etnico e riaprendo la piaga del razzismo e del colonialismo, nella più genuina tradizione delle illuminate, democratiche e moderne borghesie europee.

Le ciniche manovre delle diplomazie imperialiste per il controllo della strategica regione del Medio Oriente continuano da decenni, incuranti delle enormi sofferenze provocate, anche allo scopo di dividere il proletariato dei paesi arabi da quello d’occidente e di Israele. Negli anni Ottanta la guerra tra le due potenze regionali, quella laica di Saddam in Iraq e quella religiosa di Khomeini in Iran, provocò più di un milione di morti. Nel decennio successivo la guerra all’Iraq avrebbe dovuto punite Saddam di aver invaso il Kuwait, ma ancora una volta a pagarne il prezzo sono stati i proletari iracheni, massacrati dalle superbombe dell’Alleanza occidentale, mentre Saddam Hussein ha continuato a tenere nel pugno di ferro il Paese. Oggi gli Stati Uniti si preparano a sferrare un nuovo attacco contro l’Irak per impadronirsi del petrolio e porre altre basi militari nell’area; le potenze europee, Russia, ed asiatiche sono “in trattative” sulle quote di petrolio che verranno loro pagate in cambio dell’assenso alla guerra.

Nell’Asia centrale, di secolare scontro tra Russia, Cina, India e colonialismi occidentali, gli Stati Uniti sono riusciti a guadagnare importanti posizioni strategiche a costo di un’altra guerra che sta colpendo la popolazione afgana, mentre Mosca per difendere i confini del suo impero e gli oleodotti sta procedendo ad un vero genocidio contro la popolazione della Cecenia.

Oggi il nostro nemico storico precipita sempre più nella crisi economica. La contraddizione che stringe alla gola l’infernale sistema fondato sul lavoro salariato è che ad una produzione che diventa sempre più larga, abbondante e sociale si contrappone una appropriazione privata e sempre più ristretta; nonostante i bisogni crescenti delle classi inferiori di tutti i continenti i mercati si bloccano; nonostante le enormi capacità produttive del lavoro moderno la caduta del saggio del profitto sul capitale costringe ad una catastrofica crisi recessiva.

Da qui scaturisce la necessità della guerra, tanto per gli Stati Uniti quanto per tutti gli altri capitalismi mondiali: una guerra inevitabile per distruggere merci, mezzi di produzione, proletari, per poi ricominciare un nuovo ciclo di accumulazione. Una guerra per la sopravvivenza del Capitale, che costerebbe immensamente al proletariato e all’umanità intera.

In questi mesi gli Stati Uniti attraversano una fase di crisi particolarmente profonda: questo spiega le dichiarazioni del più potente, ma anche più fragile capitalismo sul suo diritto a scatenare una guerra preventiva contro il terrorismo. Ma, in una certa misura, la guerra è già cominciata: gli interventi in Afghanistan, l’occupazione di basi in Asia centrale, l’attacco all’Iraq che si prepara sono manovre di attestamento delle forze in vista di uno scontro futuro. Sono queste manifestazioni di terrorismo in grande. Ma fa parte della preparazione alla guerra imperialista anche l’uso sotterraneo del terrorismo in piccolo: i talebani non sono stati forse inventati e addestrati dagli occidentali? Chi c’era dietro al santone Bin Laden se non i grandi petrolieri. Chi combatte in Cecenia il macellaio imperialismo russo se non incredibili guerriglieri perfettamente armati e riforniti? Chi ha finanziato la costituzione di partiti fondamentalisti islamici nel Nordafrica e in Medioriente se non le cancellerie dei massimi capitalismi?

Terrorismo e Guerra al Terrorismo rappresentano quindi una forma di avvicinamento allo scontro generale, che sarà, come i due precedenti, non fra paesi ricchi e poveri, non fra Nord e Sud, ma necessariamente fra i massimi blocchi imperiali, una Terza Guerra mondiale che dovrà combattersi dove il capitalismo è più sviluppato e dove maggiore, e potenzialmente esplosiva, è la concentrazione di proletari. Il terrorismo è infatti, prima di tutto volto a confondere e ad intimorire la ripresa di coscienza e di forza del movimento operaio.

Perché il dilemma storico è GUERRA o RIVOLUZIONE; non esistono strade più brevi, meno aspre e difficili per uscire dal pantano del nostro tempo. Far pendere la gigantesca bilancia dalla parte della classe operaia e della rivoluzione e non dalla parte della borghesia e della guerra è il compito delle giovani generazioni proletarie. È un compito arduo, cui non basta la volontà di singoli, di piccoli gruppi, di vaghe associazioni senza principi, ma vi occorre UN PARTITO che disponga di un PROGRAMMA che travalica gli individui e le generazioni, che abbia conserva la DOTTRINA e la tradizione del COMUNISMO rivoluzionario anche nei decenni della controrivoluzione.

Rafforzare il partito comunista rivoluzionario, questo è il compito di oggi, fuori da ogni illusione elettoralistica, movimentista, gradualista.

Nonostante che la borghesia abbia dato più volte per morto il COMUNISMO esso diventa ogni giorno di più una necessità oggettiva e matura, che chiede solo di essere liberata.
 
 
 
 
 




Fiat - Affonda la galera aziendale

Continua la vicenda FIAT, ricca di colpi di scena ma priva di alcuna prospettiva per gli operai: salgono e scendono i titoli del gruppo, cambiano le strategie nelle dichiarazioni della proprietà e della dirigenza, le organizzazioni sindacali un giorno paiono unite, il giorno dopo divise. Si annunciano imminenti cessioni sia del settore auto sia di altri, per finanziare quello, e l’immediata successiva smentita.

Martedì 29 in tutte le principali sedi dell’auto vi sono stati presidi sindacali, sia della Triplice sia, in misura minore, delle altre organizzazioni. Nell’area torinese i compagni riferiscono essere mancata la combattività operaia: molti lavoratori forse sperano nel prepensionamento a spese dello Stato, o nella cassa integrazione per poter svolgere qualche altro lavoretto di ripiego.

Giovedì 30 l’annuncio ufficiale dello stato di crisi. Partono le procedure per la cassa integrazione e si annuncia l’utilizzo di 2,5 miliardi di Euro destinati ad investimenti nel settore auto, denaro proveniente da altre società del gruppo in buona salute e forse il non intervento finanziario della G.M. Il piano di crisi prevede Cig per un anno, dal 2 dicembre, per 5.551 lavoratori, divisi tra Fiat Auto, COMAU e Marelli, e di altri 2.057 dal 30 giugno 2003. Con questo insieme di belle notizie il titolo FIAT reagisce con un +5%.

Assai diversa la reazione operaia. Secondo la FIOM a Mirafiori l’80% degli operai ha spontaneamente interrotto il lavoro, mentre ad Arese circa in 1.500 hanno bloccato l’Autostrada dei Laghi, seguendo il solito rituale.

Il ministro Maroni ha convocato per martedì 5 i sindacati della Triplice più l’ex sindacato giallo SIDA-FISMIC. Questi accusano l’azienda della totale assenza di un piano industriale e accusano il ministro di voler discutere soltanto di tagli ed ammortizzatori sociali. Cobas e C.U.B., non invitati alla trattativa, nelle recriminazioni, rivendicazioni e proposte non riescono a differenziarsi quasi per nulla.

Al solito pagliaccesche le reazioni della classe politica. Il Governatore del Lazio Storace dichiara: “Non è esclusa la possibilità di forme estreme come lo scioglimento dei Consigli Regionali qualora non venisse data risposta soddisfacente all’ipotesi di chiusura degli stabilimenti”. Quello del Piemonte Ghigo, per evitare litigi fra Regioni su quali stabilimenti chiudere, esce con la sparata: “la FIAT o si salva tutta o non si salva”.

Rifondazione, come da precedenti dichiarazioni, vorrebbe l’intervento pubblico, proposta che sembra affascinare anche nella FIOM, fra i Cobas, e nella CUB. Andrea Fumagalli sul Manifesto del 1° novembre cita l’esperienza francese e tedesca: “La costituzione di una public company, non di proprietà al 100% dello Stato ma a partecipazione mista, sul modello europeo adottato per la Renault e la Volkswagen, può essere anche l’occasione, la scommessa per ridefinire gli assetti di potere economico in Italia, partendo dal suo simbolo più alto, la madre di tutte le imprese italiane”.

La questione, per esser compresa ed affrontata dal punto di vista proletario, va radicalmente capovolta. O ci portiamo nell’orizzonte della fabbrica o in quello della classe. O difendiamo i posti di lavoro o difendiamo le condizioni di vita operaie: non sono la stessa cosa, oggi specialmente!

La crisi non è la crisi della FIAT, ma un aspetto della generale ampia crisi economica del capitalismo che colpisce tutte le fabbriche, in Italia come nel resto d’Europa e in gran parte del globo, dall’Italia all’Argentina, dalla Polonia al Giappone, dalla Russia agli stessi Stati Uniti... E le proposte di uno Stato padrone-imprenditore come vuole Rifondazione è un’illusione fondata sull’isolamento del caso FIAT, diffusa al fine di intrappolare in quella gabbia gli operai e tenerli isolati dal grosso e dalla solidarietà della classe lavoratrice. Gli operai salariati sono per natura liberi, non come gli schiavi antichi incatenati alla galera e condannati con essa ad affondare! Se muore la FIAT non per questo muore la lotta autonoma della classe operaia! Forse il contrario!

Questo è grave che la C.U.B. non denunci e anzi ci si accodi, assecondando certo le incertezze di lavoratori in una condizione oggi particolarmente difficile ed educati da decenni di sindacalismo, confederale ed autonomo, aziendale. Sarebbe funzione specifica di un Sindacato di Classe invece portare fuori dal guado i lavoratori FIAT, esprimendo la possibilità reale di una organizzazione e una solidarietà, se non di classe, almeno di categoria metalmeccanica. Sappiamo che non c’è oggi la forza di far gran cose, ma non per questo la prospettiva può essere invertita. Le rivendicazioni, intanto, devono essere incentrate sulla difesa di tutta la classe, col salario ai disoccupati, per esempio, e si cercheranno solidarietà non nella “Collettività”, cui farebbe parte lo “Stato”!, con i “comitati cittadini” e le “forze sociali sul territorio”. Non è certo in questa direzione, quella della classe o delle istituzioni nemiche, che i lavoratori troveranno appoggio alcuno. Nemmeno quelli della Fiat.
 
 
 
 
 
 




Lo Stato, la Legge, i Terremoti

Il crollo della Scuola elementare di San Giuliano ha un solo e preciso responsabile: il Profitto. Si farà un’inchiesta, promettono, che tra qualche anno porterà, forse, a qualche condanna, della bassa manovalanza, però, non del mandante, appunto il Signor Profitto.

Le lacrime coccodrillesche dei media e delle istituzioni, che stavolta si sono gettati sul caso con particolare zelo patriottico, non è riuscita nascondere che la scuola era stata recentemente ristrutturata aggiungendo un secondo piano. Gli ingegneri ormai non applicano le leggi della resistenza dei materiali, della statica e della dinamica, ma, come il caporale piemontese dell’aneddoto, le Leggi dello Stato, ipertrofico e onnisciente, ritenuto al di sopra di tutto, anche, e specialmente, della fisica materia. Poiché, come si è saputo, le mappe sismiche da allegare alle Norme sono rimaste chiuse nei cassetti, ogni cittadino, cittadino capitalista, è libero di costruire come vuole. Ogni tanto però la fisica materia, senza bisogno di carte bollate, ricorda rudemente il suo prevalere sulle sovrastrutture borghesi, ed emette, come a San Giuliano, la sua non opponibile sentenza sulla stabilità degli edifici, in lege o contra lege che siano.

La giustizia borghese (ammesso che funzioni secondo i suoi proclamati principi) si limita a ben poco, cerca se qualcuno è stato corrotto, se qualcun altro ha rubato sul ferro o sul cemento, se qualche altro ancora ha omesso i doverosi controlli. Si occupa, insomma di soggettive responsabilità individuali quando la responsabilità è oggettiva, diremmo, cioè sociale e collettiva, di classe, e riguarda la natura profonda del regime del Capitale che si muove, si può muovere, solo in ragione del profitto. Questa irresponsabilità degli stessi individui borghesi lo dimostra il fatto che la scuola la frequentavano anche i figli degli amministratori.

Il geologo, l’ingegnere, l’amministratore pubblico, persino il prete, non possono fare un passo fuori da questa legge infame, pena l’esclusione e la sospensione immediata ed automatica dalle loro funzioni. Ogni loro azione deve in primo luogo rispondere a questa domanda: quanto rende? Unica norma morale di questa società è il tasso del profitto. Se rende si seguono le norme antisismiche, altrimenti la pressione del Capitale è tale da far saltare, con le buone o con le cattive, qualsiasi controllore. I mezzi sono tanti, dalla bustarella alla pistolettata. Se rende si strepita che occorre rispettare la legge, altrimenti si trova il cavillo per cui la legge lì non è da rispettare.

Sono quindi tragedie queste inevitabili, segno della estrema miseria nella quale vive l’umanità capitalistica pur nel traboccare della sua troppa ricchezza. Occorre liberare l’uomo e il suo sapere dalla morsa del Capitale perché si ricostruisca un mondo intero a misura del suo sentire e dei suoi veri bisogni. Primo necessario passo: distruzione dello Stato borghese.
 
 
 
 
 
 
 




PAGINA 2-3

TESI E VALUTAZIONI CLASSICHE DEL PARTITO DI FRONTE ALLE GUERRE IMPERIALISTE
da “il Partito Comunista”, n.181/1990 -

[ Sono qui ]
 
 
 
 
 
 


PAGINA 4

Torino - Riunione di lavoro
28 e 29 settembre 2002  [RG84]


  • Corso della crisi economica capitalistica -
  • La dottrina borghese dello Stato -
  • Classe e Partito di fronte all’imperialismo e alla guerra - [Resoconto esteso: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 ]
  • Monopolio o “terziarizzazione”? - [Resoconto esteso]

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    I locali della nostra sede di Torino hanno ospitato la riunione generale del partito negli scorsi sabato 28 e domenica 29 settembre.

    Secondo lo sperimentato metodo comunista, i nostri frequenti e regolari convegni nulla hanno a che spartire con i congressi della tradizione borghese e democratica, nei quali i delegati, presunti rappresentanti della base, difendono tesi opposte, divisi in maggioranze e minoranze. Sono le nostre riunioni non micro-parlamenti, non elettorali dei dirigenti né di dibattito, non tribune per oratori e né spazio di reclutamento in correnti e frazioni, ma, diciamo semplicemente, riunioni di lavoro cui sono chiamati a partecipare tutti i militanti e nelle quali si ascoltano relazioni di lavori commissionati dal partito a specifici compagni e gruppi di compagni. Non vi si confrontano opinioni di singoli ma collettivamente si scava nell’esperienza dei trascorsi assalti della rivoluzione proletaria e nella scienza politica marxista al fine di ben decifrare il turbine degli avvenimenti storici che si svolgono sotto i nostri occhi, di prevederne il corso e di indicare domani alla classe in lotta le condizioni per la vittoria e denunciare in anticipo le trappole e false scorciatoie che il nemico borghese pone sulla sua strada.

    È questa nostra comune e solidale dedizione alla milizia ovvia, naturale e spontanea, attuazione del primordiale sentimento comunista ricercato dal nostro movimento fin dalle origini, un suo risultato e traguardo che si può praticare nel partito di oggi per la raggiunto grado di definizione del programma e della dottrina. Sono le incontrovertibili lezioni delle passate sconfitte che si impongono, ormai senza possibilità di obiezioni, a chiunque metta le proprie forze a disposizione dell’emancipazione rivoluzionaria del proletariato. Non per boria di partito né per estetica di setta, ma è questo che ci porta a ripetere che, per la forza delle cose, chi non è con noi è contro di noi.
     

    Corso della crisi economica capitalistica

    Il rapporto, risultato del lavoro di tre compagni, ha dapprima aggiornato il quadro della crisi in corso a scala planetaria. In particolare veniva messa in evidenza la gravità del tutto eccezionale della recessione negli Stati Uniti, sicuramente la peggiore da quella del 1929-1933. E ad oggi non vi sono segni di ripresa. I nostri accurati grafici delle produzioni confermavano patentemente come la crisi americana abbia preceduto di almeno cinque mesi il fatidico 11 Settembre.

    Perdura la depressione ormai più che decennale in Giappone mentre accusano anche flessioni le potenze europee, sebbene, per adesso, di entità meno grave di quella americana. Le determinazioni sulla politica estera dei due “blocchi” sono evidenti a tutti: più crisi = più guerra.

    Sollevandosi dalla contingenza, si esponeva un quadro numerico che confermava la caduta tendenziale del saggio del profitto su più lunghi periodi, comprendente l’ultimo anche i “magici anni Novanta” negli Stati Uniti.

    Ugualmente riguardo all’andamento delle Borse si è data una misura delle clamorose svalutazioni in corso, si sono esposti dei grafici relativi alle principali piazze mondiali e se ne è potuto concludere che anche per le quotazioni dei titoli la contrazione è la peggiore che si è registrata fin dai crolli dell’interguerra.

    Si esponevano quindi i risultati dell’ulteriore indagine, di cui già avevamo riferito alla riunione di gennaio, sull’andamento dei consumi di elettricità nei diversi paesi ed aree mondiali, svolta allo scopo di accertarne il confronto di potenza e le diverse velocità di crescita.

    Gli anni stavolta presi a termine del confronto erano il 1965, il 1991 e il 2000. Il massimo consumatore mondiale restano di gran lunga gli Stati Uniti, però con una contrazione notevole, dal 35% al 27%, nel primo periodo (1965-1991), più lenta nel secondo, segnando 26% nel 2000. Gli incrementi medi annui crollano però dal 3,6% nel primo periodo al 2,6% (non disprezzabile ma certo destinato a ridimensionarsi) nel secondo.

    Erano seguiti, gli Stati Uniti, nel 1965 dalla Urss, che saliva al loro 44% e al 15% del consumo mondiale. Dopo la sua disintegrazione politica ed economica la somma delle quote delle numerose e diversissime economie che la costituivano scendono al 14% nel 1991 e precipitano all’8% nel 2000. Infatti dal 1991 al 2000 nel totale degli ex-Urss si è avuta una tragica contrazione dei consumi assoluti di energia: dai 1.475 ai 1.116 miliardi di Kwh annui.

    Accade così che i consumi del capitalismo cinese vengono nel 2000, col 9% dei mondiali, a superare quelli del totale dell’ex-Urss. Per di più i ritmi di crescita medi annui cinesi, sebbene, com’è inevitabile, calanti, sono fra i maggiori del pianeta, nei due periodi 9,4% e 8,1%, superati solo dal 10,5% della Corea del Sud.

    Si calcolava che, mantenendo gli attuali ritmi di aumento dei consumi e negli Stati Uniti e in Cina (ipotesi questa certo troppo ottimistica per gli Usa) la Cina diverrebbe il primo consumatore mondiale nel 2021. Questo capovolgimento nella supremazia economica globale, anche se non immediatamente politica e militare, la super-potenza americana se lo aspetta nei prossimi tre lustri, il che spiega il suo attivismo guerriero, da interpretare quindi in senso difensivo. Un difensiva che è, prima che infra-imperialista, infra-classista: lotta a morte contro il comunismo che grandeggia dietro le brume e i miasmi della crisi capitalistica, che è oggi economica e sociale, domani politica e istituzionale.

    Si osservava infine come, oltre alla Corea del Sud e alla Cina, ritmi robusti li segnino molti altri nuovi industrialismi, dove è ancor verde e mostruoso s’ingrossa l’albero del capitale, sgretolando con le sue pestifere radici la dura roccia di antiche stratificazioni umane: India 6,7%, Messico 5,7%, Brasile 4,5%. Inutile dire che lavora per noi.
     

    La dottrina borghese dello Stato

    Il rapporto prendeva in considerazione due aspetti distinti dell’azione per la autoconservazione degli Stati borghesi: il penale ed il dottrinario.

    Con Marx affermiamo che «quando vigeranno rapporti umani, la pena non sarà (...) realmente altro che il giudizio di chi sbaglia su sé stesso (...) Egli troverà invece negli altri uomini i naturali redentori della pena che egli ha inflitto a sé stesso, cioè il rapporto addirittura si rovescerà». Viceversa in ogni società divisa in classi è lo Stato che cerca di contenere con la repressione il fenomeno della devianza sociale, cioè di quei comportamenti, individuali o collettivi, lesivi dei principi fondamentali delle varie società, che convergono nella difesa del privilegio di classe.

    Alcuni regimi di classe, fra questi quello moderno borghese, si sono mantenuti imponendo l’osservanza ad un corpo di leggi. L’osservanza, di massima, delle leggi, che dovrebbe regolare il vivere sociale, è stato ed è ottenuto utilizzando differenti strumenti e sistemi di controllo tra i quali il principale è quello delle sanzioni penali individuali.

    Nel suo periodo rivoluzionario la borghesia aveva denunciato l’impalcatura giuridica e penale dell’Ancien Régime e col pensiero illuminista aveva accusato il diritto penale assolutista di arbitrio e crudeltà, proponendo un’immagine nuova dell’uomo-cittadino: libero, razionale, “uguale”, capace di controllare ogni sua azione. In tale contesto ideologico anche le norme della legge penale avrebbero dovuto essere “razionali” e uguali per tutti. «Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi» (Cesare Beccaria).

    Preso il potere però la borghesia si trovò nella necessità di applicare, e difendere dall’insofferenza proletaria, i suoi principi di eguaglianza e si trovò subito costretta ad utilizzare l’apparato dello Stato in funzione non della sua astratta giustizia, ma essenzialmente della controrivoluzione.

    L’analisi dell’evoluzione della dottrina penale borghese, dai codici dell’Italia liberale del 1859, dimostra come, nelle sue caratteristiche peculiari, non vi fosse soluzione di continuità e come i vari codici si caratterizzassero per la loro funzione antiproletaria. Tutto ciò sia nella decantata Italia liberale, tanto democratica e liberale da essersi fatta violentare dal fascismo senza opporre resistenza, sia nel Codice fascista del 1931 che accentuò il carattere repressivo della Procedura, ma è bene ricordare che esso, lungi dal creare nuovi istituti, poté adagiarsi sulle strutture precedenti.

    Si poneva poi la questione dell’auto-referenza delle leggi se cioè lo Stato le possa imporre anche a sé stesso, oltre che al cittadino-individuo. Si ricordava in merito uno dei tanti episodi di cosiddetta deviazione dei servizi segreti. Si può parlare di deviazioni riguardo esclusivamente le diverse frazioni della borghesia, in perenne guerra le une contro le altre per il controllo delle leve del potere, mentre per la repressione del proletariato non occorre «deviazione» alcuna: di deviazione si potrebbe parlare solo qualora i Servizi segreti, nati a difesa dello Stato capitalista, si mettessero dalla parte della rivoluzione! Non potendo questo verificarsi, non devieranno mai.

    Il fatto che possano superare i limiti della legalità democratica non significa che siano antidemocratici perché lo Stato non è né democratico né antidemocratico: lo Stato è semplicemente e sempre una Dittatura, come il marxismo insegna. La Democrazia e le Leggi sono solo suoi strumenti, così come suo strumento sono i Servizi segreti.

    Infatti � coerentemente e inevitabilmente, ci vien da dire � la dottrina dello Stato, anche attraverso i suoi più eminenti e liberali teorici, non solo giustifica il superamento delle regole democratiche, ma lo dichiara necessario nel caso in cui vi sia sospetto di minaccia alla sua integrità: «La necessità non ha legge, ma essa stessa fa la legge». Sussiste, cioè, una norma-principio, che precede l’ordinamento e ne è il presupposto, in virtù della quale lo Stato dispone legittimamente di potere e mezzi qualificati dal fine di conservarsi. Non ha alcuna rilevanza il fatto che tale norma acquisti o non il consueto aspetto sotto il profilo formale previsto comunemente per le leggi: la sua esistenza e la sua rilevanza sono giustificate per il fatto stesso che lo Stato esiste e, con la sua esistenza, è capace di imporre la sua volontà, a tutela dei suoi interessi fondamentali. La teoria afferma quindi che lo Stato può disporre del proprio potere indipendentemente dalle regole dell’ordinamento giuridico al quale lui, Stato, non si sottomette, ma sottomette.

    Tutto ciò significa semplicemente, ed i marxisti lo hanno ben chiaro, che, per il raggiungimento del socialismo, che intende distruggere il potere borghese, è puerile e sterile richiedere allo Stato il rispetto delle sue leggi e delle garanzie di libertà che essa proclama, quando sua sola legge è la difesa con ogni mezzo e a qualsiasi prezzo dell’esercizio della dittatura di classe.
     

    Lo scontro fra imperialismi e le minacce di guerra

    L’indomani, domenica, abbiamo dedicato la prima parte della mattina a due rapporti sullo scontro interimperialistico in atto, dei quali qui insieme riferiamo.

    Nella nostra versione l’imperialismo non è che la fase suprema del capitalismo, giusta la definizione di Lenin. Oggi il generico nome di globalizzazione pretende d’aver cancellato l’imperialismo, come se il processo di allargamento dei mercati, l’interazione delle economie di quasi tutti i paesi del mondo non fosse che una grande gara senza le stridenti contraddizioni che determinano la guerra.

    Ad un tratto si ha l’impressione che qualcuno voglia turbare la “pacifica competizione” per ragioni “religiose” o ideologiche. Come se il mondo arabo, i produttori di petrolio fossero nati solo ieri, e la tensione tra “rendita petrolifera” e profitto capitalistico non avessero già più volte determinato tiri alla fune e reciproche minacce.

    Da tempo più di un incidente avrebbe potuto innescare la guerra interimperialista, rimandata in più d’una occasione, ma mai definitivamente esorcizzata. Ci voleva il “pazzo” Bin Laden, la sua organizzazione “terroristica”, per dare finalmente l’occasione ai “grandi” di mettere le carte in tavola e lanciare la classica ingiunzione: ognuno dica chiaro con chi sta: chi non è con noi è contro di noi.

    La nuova aggressività bellica degli U.S.A. non è dovuta né all’11 Settembre né alle scelte arbitrarie dell’amministrazione repubblicana né alla minaccia di pretesi pericolosi "Stati canaglia". La causa della necessità impellente degli U.S.A. a far guerra è innanzitutto la crisi economica mondiale, che ora particolarmente danneggia il colosso d’oltreoceano.

    Una dannazione per il Capitale americano è il fatto che per frenare la caduta verticale della crisi lo Stato si è a tal punto indebitato da avere, in fatto di debito, il primato nel mondo.

    Dopo aver descritto la crisi degli U.S.A. anche nel settore del commercio internazionale e l’impaludamento degli investimenti produttivi, si dava un confronto fra l’economia statunitense e quella europea (tedesca e francese in particolare) e quella della regione del Pacifico (Giappone, Cina, Corea del Sud, Taiwan, ecc.). Si mostrava che a livello mondiale gli U.S.A. stanno perdendo sempre più la supremazia economica (ad esempio le esportazioni degli U.S.A. sono già minori di quelle dell’U.E. a 11) e se il primato resiste nella produzione industriale, anche questo è minacciato per ora da U.E. e Giappone, domani probabilmente anche dalla Cina.

    Mentre tutti si riempiono la bocca con frasi sull’impossibilità di qualsiasi altro capitalismo di confrontarsi con l’insuperabile Impero Americano, si dimostrava che gli U.S.A. non solo si dirigono verso il futuro scontro tra colossi imperialistici, un domani confrontabili anche sul piano militare, ma vanno irreversibilmente verso il declino della propria egemonia. Dopo l’Inghilterra fino alle due guerre mondiali, dopo gli Stati Uniti, si imporrebbe un nuovo centro mondiale, se non sarà il proletariato a prendere finalmente l’iniziativa sostituendo all’egemonia americana non un’altra potenza imperialistica ma la sua dittatura internazionale.

    Si ricordava che tali “staffette storiche” non avvengono per via graduale e pacica, ma per le catastrofiche esplosioni della violenza, o fra blocchi borghesi o fra borghesia e proletariato.

    Ma, se gli U.S.A. sono in difficoltà, dal punto di vista politico e militare non hanno per ora pari rivali al mondo, cosicché il raffrenarsi della loro economia non si riflette, a breve termine, sull’utilizzo della potenza militare.

    In preparazione del futuro terzo macello mondiale gli U.S.A. quindi si posizionano nei punti nevralgici dell’Eurasia, circondando la Cina, la Russia, l’Europa. Anche il controllo delle riserve energetiche del pianeta è altro strumento della volontà statunitense di sottomettere i potenziali e crescenti nemici economici.

    I motivi quindi della guerra in Afghanistan e della futura seconda guerra in Irak sono quelli motivi economici della crisi, geostrategici ed energetici, ma anche di controllo poliziesco del proletariato arabo, che potrebbe domani divenire di difficile contenimento.

    Sulla prospettiva della guerra in Irak si misurerà la tenuta del più pericoloso concorrente degli U.S.A., l’Unione Europea, nel senso della sua unità politica. Comunque vada, con l’Europa unita o con l’Europa suddivisa dai blocchi, nel futuro del capitalismo c’è la guerra.

    Tutte storie che sappiamo non da ora. La storia, non solo moderna, è costellata di simili aut-aut e la nostra Frazione mette in guardia, anzi, fa la sua parte per svegliare il proletariato perché si riorganizzi, e sia in grado di far sentire le sue ragioni, che sono quelle del salario, ai minimi storici tra i vasi di ferro delle rendita e del profitto. La guerra, che sembrava relegata ai margini dalla coesistenza pacifica, ora è vista come un dovere patriottico; una necessità per conservare la democrazia ed... il petrolio a buon prezzo.

    Certo, i problemi sono politici e diplomatici, ma la ragione l’abbiamo detta: l’imperialismo senza guerra non va avanti.
     

    Monopolio o “terziarizzazione”?

    Lo scenario economico degli ultimi decenni si presenta come un accavallarsi di eventi complessi e cambiamenti imprevisti; da un lato il tanto sbandierato processo di globalizzazione, che altro non è che il normale processo di centralizzazione che il Capitale da sempre attua su scala sempre più vasta, dall’altro lato si trova un fenomeno alquanto controverso ed al primo certo collegato, definito “terziarizzazione”. È un fenomeno questo che porta a diversi risultati scatenando polemiche e difficoltà di analisi: se infatti la tendenza dell’economia moderna è al monopolio come mai ora pare che in molti campi si inverta la marcia? È questa una domanda a cui non può seguire una risposta semplice ed univoca, ma una spiegazione che tenga conto di svariate variabili in un orizzonte che comprenda il complesso e per molti versi spietato processo di adattamento e di riequilibrio che l’economia capitalistica mondiale sta attraversando.

    Vi è innanzitutto da distinguere due diverse spinte: la prima è quella di abbattimento del costo del lavoro, pulsione questa che si esaspera in periodi di forte rallentamento economico dovuto alla sovrapproduzione mondiale, ed è costituita dalla ricerca continua di manovalanza a basso costo e di “elasticizzazione” delle condizioni “contrattuali” imposte ai costosi lavoratori occidentali, estorsione favorita dalla crescente concorrenza che il Capitale innesca immettendo nel ciclo di accumulazione personale di paesi di più giovane industrializzazione.

    L’altra nasce, invece, dalla ristrutturazione delle strutture e sovrastrutture capitalistiche imposta per adattarsi alle condizioni ambientali da esse stesse sviluppate. È proprio questa spinta a provocare i principali cambiamenti che predispongono sempre più la trama sociale ad esprimere, dopo i dovuti capovolgimenti politici, la futura società comunista. Questa positiva evoluzione oggi, in pieno capitalismo arcimaturo, si impone con mezzi tutt’altro che pacifici e che generano ben poco benessere reale e molto malessere.

    Alcune considerazioni si possono trarre da uno sguardo ai processi in atto. Il Capitale ha da tempo raggiunto lo stadio della sovrapproduzione, diciamo qui di valori d’uso, ossia di soddisfazione dei bisogni sociali grazie al fatto che la tecnica di produzione industriale consente ad ogni uomo di produrre una quantità di beni di gran lunga superiore alle proprie necessità. Ma, nella contabilità capitalistica, questo fenomeno si traduce in disgrazia, nella caduta del saggio del profitto, nella sovrapproduzione di capitale. La valvola di sfogo della guerra è una delle strategie del Capitale per resistere a questo suo progressivo isterilirsi, ripieghi che lo portano, tra le altre cose, a dover ridisegnare quel gigantismo così come si manifestò nella sua fase di prima imponente industrializzazione. Come sempre queste trasformazioni non si attuano secondo un piano ma sotto la sferza del bellum omnium contra omnes, generano forti contrasti e sofferenze crescenti.

    La soluzione semplice e razionale, ma attuabile solo dopo la difficile e contraddittoria distruzione del potere borghese e della produzione di merci, farebbe in modo che tutti gli esseri umani siano inseriti nei cicli della produzione. Per sottrarli alla fame, alle incertezze, all’emarginazione, alla guerra basterebbe togliere il carico di lavoro sociale dalle spalle dei sempre minor quota oggi di proletari alla produzione materiale e distribuirlo omogeneamente su tutti gli abili, «secondo le capacità». Ma questa riforma è del tutto impossibile al capitalismo, in quanto inaridirebbe la fonte del profitto.
     
     
     
     
     
     


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    ALGERIA, IERI E OGGI

    8. BILANCI E PROSPETTIVE MARXISTE
        DELL’INSURREZIONE ALGERINA
    (continua dal n. 293)

    b) Il proletariato di fronte al movimento nazional-rivoluzionario
    Riassumendo 


    (Continua)