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PAGINA 1 – Un vitale proletariato
nei paesi arabi intimorisce le borghesie sue e imperiali.
– Distribuito allo sciopero
del 18 ottobre:
CONTRO IL REGIME DEL CAPITALE e il suo mondo di sfruttamento e di guerra.
– Lezioni dalla crisi Fiat.
PAGINA 2 – Il Casus Belli - Antefatti significativi.
In Gran Bretagna il governo di "sinistra"
insegna ai Berlusca di tutto il mondo
come affamare e mandare in guerra i proletari.
PAGINA 3 –
ALGERIA, IERI
E OGGI: 8. Bilanci e prospettive marxiste dell’insurrezione algerina
- 1) La determinante questione agraria
- a) Il proletariato di fronte alla borghesia imperialista.
PAGINA 4 – Situazione sindacale: Una sfida alla classe operaia.
– Nostro volantino distribuito all’Ilva di Taranto:
Sono i siderurgici a far le spese della guerra commerciale fra Usa ed Unione
Europea.
– Danni e beffe per i lavoratori dell’Ente
Irrigazione di Puglia e Basilicata.
– Massacro di minatori in Cina.
Un vitale proletariato nei paesi arabi
intimorisce le borghesie sue e imperiali
Un fiume di vomitevole propaganda si diffonde dagli alti scranni del potere: guerra al “terrorismo”, alle armi “di distruzione di massa”, a coloro che attentano alla pace occidentale, guerra per la libertà, la democrazia, ecc., un armamentario retorico che serve a tenere sottomesso il proletariato agli interessi dell’economia borghese. È necessario alla borghesia camuffare i motivi delle sue guerre: confessare che loro causa sono motivi di rapina economica, sarebbe ammettere che, dal 1914 ad oggi, la sua parabola storica di classe non ha prodotto altro che guerra, fame, distruzione e sfruttamento, sarebbe portare il proletariato a riconoscere quanto la classe borghese sia ormai solo distruttiva e parassitaria.
Come hanno “lavato la testa” dei proletari durante il Secondo Macello Mondiale, facendolo passare per la Liberazione dal Male assoluto degli Hitler e dei Mussolini (con le malefatte dei quali i “liberatori” avevano collaborato ben prima e durante la guerra), oggi tali cantilene si ripetono con i Bin Laden o i Saddam Hussein, tiranno questo che è tale esclusivamente per l’appoggio occidentale!
Riguardo le società arabe i media nel modo più ipocrita nascondono la realtà di classi diverse ed opposte ignorando quel proletariato cui la diplomazia imperialista ha fatto in modo di assicurare da una parte la repressione permanente di governi di polizia, dall’altra l’oppio e la corruzione di movimenti “islamici” ben foraggiati dall’esterno. Una tecnica “post-coloniale” di controllo di territori ricchi di proletari, oltre che di petrolio, in zone strategiche importantissime per i lupi dell’Occidente.
I proletari arabi e i loro sindacati non solo subiscono durissime repressioni in Palestina e in Irak, ma anche in quegli Stati dei quali meno si tende a parlare: la Turchia, l’Egitto, l’Arabia Saudita, l’Iran, ecc.
Si occultano i bisogni e le manifestazioni del proletariato e la continua repressione cui è sottoposto ostentando invece gli atteggiamenti tipici di una classe intellettuale impotente e vile e di una piccola borghesia corrotta, sempre in bilico fra il miraggio del “benessere” e dei “valori” moderni dell’occidente e la reazione xenofoba, su base “culturale” o religiosa, alle batoste e alle porte in faccia che da quello immancabilmente riceve.
Invece la scelta per il proletariato, anche dei paesi arabi, non sta fra Democrazia o Tirannide, fra Nord o Sud, fra Modernità o Tradizione, fra Stato Laico o Teocratico. E, nel mondo del Capitale, nemmeno fra Pace o Guerra. La scelta per il proletariato di tutto il Mondo sta fra l’aperta lotta di classe contro la borghesia, i suoi Stati e il suo prepararsi alla guerra, oppure la sua sottomissione ai piani di morte capitalistici.
* * *
Il proletariato arabo del Golfo è tutt’altro che privo di tradizioni di classe e non è, come si vuol far credere, irreversibilmente drogato fra il fondamentalismo dei preti e il nazionalismo fanatico dei Saddam Hussein. Qualche manifestazione di questo proletariato arabo negli ultimi decenni può anzi essere esempio al proletariato occidentale, che stenta a ritrovare la sua tradizione di coraggiosa lotta di classe.
A causa del borghese bombardamento di menzogne nessuno oggi ricorda che il proletariato del Golfo fu una minaccia per l’ordine borghese fra la metà degli anni ’70 e la fine degli ’80.
Nel 1979 avemmo la rivoluzione in Iran. Prevalsero i preti islamici, ma per anni il proletariato vi aveva strenuamente combattuto: i proletari, in tutto il paese, rimasero armati e mobilitati a lungo, formarono consigli territoriali che nel nostro gergo chiameremmo soviet, posero questioni sociali e politiche. Mancò il partito ma si rifacevano ad una ventina di organizzazioni e partiti che si definivano “marxisti”. Vinsero i preti del carnefice Khomeini perché il proletariato occidentale non appoggiò quello iraniano, perché il Partito Comunista Mondiale non esisteva, con una forte e temprata sezione in Iran.
Anche l’Irak, a quel tempo, era minacciato dalle turbolenze di un giovane e numeroso proletariato. Intervenne allora la Santa Alleanza di Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Germania. Manovrando da dietro la scena, armarono l’Irak e l’Iran con ogni tipo di armi “di distruzione di massa” e fecero loro combattere una ignobile e del tutto “inutile” guerra di posizione per ben otto anni, dal 1980 al 1988, con il preciso scopo di dissanguare il proletariato dei due paesi e di deviarne gli istinti di classe verso il patriottismo e la reazione. C’era sì la necessità imperialista di tenere sotto controllo le borghesie dei due paesi da qualsiasi pretesa di egemonia nell’area, ma il primo scopo della guerra era risolvere il problema demografico dei due grandi popolosi e fertili paesi: la guerra fruttò la morte di un milione e mezzo di giovani, spinti a forza sui campi minati.
Numerosissimi furono poi da entrambi le parti i casi di diserzione e di rifiuto di sparare sui fratelli di classe “nemici”. Per tutta la durata della guerra migliaia di proletari furono fucilati come disertori, e forse rivoluzionari, da un lato dagli sbirri intabarrati di Khomeini, dall’altro gasati, col pieno appoggio di americani ed europei, da Saddam Hussein.
Anche nella più celebre Guerra del 1991 fra gli USA (allora con numerosa masnada di alleati europei: ricordiamo il “nostro” eroico Cocciolone?) e Irak i proletari tornarono ad essere protagonisti. Gli USA all’inizio del conflitto avevano affermato di essere seriamente intenzionati a portare la guerra “fino in fondo”, occupando il territorio iracheno con l’invasione terrestre; però nella marcia su Bassora e su Bagdad si fermarono deliberatamente: centri iracheni erano nuovamente in piena rivolta. A Bassora in particolare i proletari (e non solo i proletari) erano insorti, come anche i curdi al nord. Per gli USA entrare in Irak avrebbe voluto dire doversi “sporcare le mani” nella repressione; inoltre non avevano la certezza che il proprio esercito sarebbe riuscito a controllare la situazione esplosiva. Saddam per reprimere i sui proletari e sotto-proletari era troppo più collaudato!
Affermano (ora!) che in poco più di un mese i morti della repressione di Saddam Hussein furono 50.000. Si era ripetuto lo stesso copione della Comune di Varsavia del 1944: l’esercito russo di Stalin aveva rinviato l’occupazione della città per lasciare all’esercito tedesco la repressione di quei proletari.
Quanto però a carneficine gli USA e i loro alleati europei, durante quella breve guerra del 1991, non furono da meno: si calcola che sull’Irak siano piovute in quel conflitto grandi quantità di materiale radioattivo... pari a 6 volte Hiroshima! Decine di migliaia di soldati iracheni in fuga furono sistematicamente sterminati dall’aviazione alleata con il solo scopo di proteggere Saddam dal minaccioso ritorno a Bagdad di masse smobilitate di giovani reduci, potenzialmente ribelli e che certamente gli avrebbero rudemente chiesto ragione dell’inutile avventura in Kuwait.
Questi dunque i metodi dei Liberatori e della civiltà democratica: massacri su obiettivi di tutti i tipi, da quelli effettivamente militari (quasi non ci fossero in essi costretti dei proletari!) a quelli che permettono la sopravvivenza dei proletari, come acquedotti, centrali elettriche, campi coltivati, abitazioni, ecc. Tutto è stato sistematicamente distrutto. Tranne i palazzi di Saddam!
* * *
La democratica e libera civiltà occidentale affama e distrugge nei 3/4 del pianeta, ma non per questo salva dai suoi "benefici" effetti il restante quarto “ricco”. Solo cerca disperatamente di fare in modo che la campana di vetro in cui, per ora, è tenuto, a soffocare, il proletariato occidentale regga il più possibile. La crisi del Capitale, nel marxismo ineluttabile, già mostra la sua capacità distruttiva anche nell’opulento Occidente. Essa chiede sempre più guerra, ma aprirà anche le porte, nuovamente dopo decenni, alla prospettiva della Rivoluzione.
La borghesia non può risolvere la propria crisi che con la guerra. Al proletariato del Nord come del Sud non resterà che scegliere se lasciar fare al Capitale, e dunque sottomettersi alle sue mire distruttrici e assassine, oppure giocare l’unica non utopistica alternativa: CONTRAPPORRE ALLA GUERRA FRA GLI STATI LA GUERRA TRA LE CLASSI.
Si fughino i dubbi su una lotta per la pace nel capitalismo: la pace in esso è illusoria e quando esiste spesso non è granché meglio della guerra, come in gran parte dei paesi del mondo si può ben vedere. Combattere contro la guerra deve voler dire rafforzamento del proletariato in vista della guerra di classe contro la borghesia.
Torni il proletariato mondiale a riscoprire la sua sana parola d’ordine:
IL NEMICO E’ NEL NOSTRO PAESE!Distribuito allo sciopero del 18 ottobre
Contro il regime del Capitale
e il suo mondo di sfruttamento
e di guerra
La crisi economica che attanaglia i centri mondiali del Capitale, con la chiusura delle fabbriche e il crollo delle Borse, dimostra che il capitalismo sopravvive a sé stesso, a prezzo della sempre maggiore oppressione dell’umanità lavoratrice di tutti i continenti, del Sud come del Nord del Mondo. Continui peggioramenti sono imposti alla classe operaia in tutti i paesi al solo scopo di mantenere in piedi questo mostruoso sistema economico e sociale.
Mentre i capitalisti per resistere alla crisi licenziano decine di migliaia di operai (come nel caso della FIAT) ed aumentano gli orari e i carichi di lavoro, tutti i governi tagliano gli stanziamenti per le pensioni, la sanità, la scuola. Intanto aumenta l’impegno militare: la borghesia italiana si appresta a spendere decine di milioni di Euro per spedire un nuovo contingente militare in Afghanistan.
L’inflazione riduce i salari. In nome della “flessibilità” (voluta a suo tempo in particolare dalla CGIL), sia per i giovani proletari sia per gli immigrati, mantenuti in condizione di inferiorità sociale e trattati come schiavi, c’è solo il ricatto del lavoro precario e sottopagato, in uno stato di insicurezza senza via di uscita.
In questa situazione di irreversibile crisi tutte le borghesie maturano i progetti di una nuova guerra GLOBALE, che ancora una volta significherebbe lo smisurato massacro di proletari di tutti i paesi.
È in vista della guerra che gli Stati capitalisti ambiscono al controllo delle riserve petrolifere mediorientiali ed a posizionare i propri avamposti militari nello strategico cuore dell’Asia. Ne fanno le spese già direttamente i proletari di Palestina ed iracheni.
I blocchi imperialisti di Stati Uniti, Europa, Russia, Giappone, Cina che vanno delineandosi non rappresentano un fronte contrapposto fra borghesie, militariste ed aggressive ed altre disarmate e “pacifiche”. Tutti si preparano alla guerra anche se non hanno ancora deciso su quale fronte gli converrà schierare i propri proletari.
In questo scontro fra borghesie, tutte sanguinarie e tutte militariste, il proletariato internazionale non ha un fronte da scegliere, ma da rompere ogni “solidarietà nazionale e patriottica” ed opporsi ovunque, nel Nord come nel Sud del mondo, ai piani di guerra gridando ai padroni, come già fece di fronte alla Prima Guerra Mondiale: contro la guerra tra gli Stati, guerra tra le Classi!
Da allora la classe operaia è stata invece costretta alla sottomissione, morale e materiale, alla classe borghese, alle sue illusioni di “democrazia”, di “progresso” di “convivenza pacifica” e di nauseante “consumismo”.
La “concertazione”, parola d’ordine dei sindacati confederali, fu inventata dall’opportunismo socialdemocratico, ripresa dal corporativismo fascista, ed usata infine, in questo secondo dopoguerra, da stalinisti e da liberali per corrompere e controllare i lavoratori.
Coerentemente, tutti i partiti parlamentari, di destra o di falsa sinistra, hanno concordato prima sui “sacrifici” da imporre ai lavoratori, poi sulla “necessità” di leggi per limitare gli scioperi e la loro estensione a più categorie ed ostacolano oggi la riorganizzazione sindacale dei lavoratori.
In Italia, complici di questo vero tradimento della classe operaia, insieme ai partiti della cosiddetta sinistra parlamentare, sono da decenni i sindacati “concertativi”, CGIL compresa, divenuti ormai docili strumenti della gestione borghese della “forza-lavoro”.
La CGIL con lo sciopero di oggi cerca di dirottare il malcontento operaio contro il “governo di destra”, quando invece tutti i governi borghesi, di destra o di sinistra, hanno sempre difeso il regime del capitale e cercato di scaricare le conseguenze della crisi sui lavoratori.
Per ulteriormente confondere il movimento operaio, sono oggi ben propagandati “no-global” e “girotondi” e le loro rivendicazioni prive di significato reale, fondate su bugiardi principi borghesi quali la “libertà”, la “giustizia”, la “democrazia”, che possono illudere la piccola borghesia ma che non hanno niente a che fare con le vere e necessarie richieste dei lavoratori e con la ripresa della lotta di classe.
Urge quindi ricostituire combattive e intransigenti organizzazioni sindacali per la difesa del livello di vita delle masse lavoratrici, associazioni che rifiutino per principio ogni comunanza di interessi fra le classi e si pongano al di fuori delle istituzioni borghesi e delle loro regole. Solo questi nuovi sindacati potranno consentire che si esprima la forza della nostra classe, col metodo dell’azione diretta e della mobilitazione fino allo sciopero generale e senza limiti di tempo.
Obiettivi della lotta operaia non possono essere i vaghi “diritti” della
CGIL, ma quelli che sono oggi portati avanti dal sindacalismo di base e
autorganizzato:
1. rifiuto della guerra dei padroni,
2. aumenti salariali che recuperino realmente l’aumento del costo
della vita,
3. salario ai disoccupati,
4. difesa del salario differito contro la legge finanziaria che
smantella le pensioni, la sanità e la scuola,
5. totale parità di trattamento, civile e sociale, per i
fratelli di classe immigrati, con o senza “permesso”.
Le forze migliori della classe operaia occorre che riscoprano il bisogno della milizia nel partito comunista internazionale, l’unico che ha mantenuto il programma del comunismo di sempre: l’abbattimento del regime capitalista e salariale e la liberazione della società mondiale del lavoro, senza denaro e senza Stato.
OGGI COME IERI, GUERRA ALLA GUERRA!
IL NEMICO È NEL NOSTRO PAESE!
PROLETARI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI!
Della crisi Fiat tutti gli attori, Proprietà, Dirigenza, Sindacati di regime, Partiti di governo e Opposizioni, fanno elegantemente a gara nel tirarsi la croce addosso. L’Amministratore Delegato Dr.Boschetti accusa i responsabili della rete commerciale di essersi occupati poco “professionalmente” della clientela; qualche “esperto” di “relazioni industriali” dà la colpa ai Sindacati poco “partecipativi”; i Sindacati accusano l’azienda della mancanza di un piano industriale e di prodotti “competitivi”...
In realtà, e più semplicemente, di automobili (come la quasi totalità delle merci prodotte nella attuale fase senile del capitalismo) non se ne vendono più abbastanza, il mercato ha raggiunto una grottesca iper-saturazione e il capitale investito nel ramo è ormai incapace di creare utili. La Fiat per questo motivo aveva scommesso già tempo addietro in mercati “vergini” come l’Est Europa, il Sudamerica o la Turchia, dove i costi di produzione sono minori e il plusvalore più elevato; purtroppo per la Fiat anche queste aree sono state colpite da profondi disastri economici.
Al Capitale, per indietreggiare di fronte alla crisi è necessario un drastico disinvestimento, una cura dimagrante, anche in vista di una acquisizione da parte di General Motors. Ciò comporta tagli di personale per circa 8.000 unità divisi tra Mirafiori, Arese e Termini Imerese. A Mirafiori ci saranno due fasi di cassa integrazione per 1.350 e successivamente per altri 2.000 lavoratori, i quali dovrebbero rientrare col lancio di nuovi modelli (quali?, quando?). A Termini Imerese è prevista la Cig a zero ore per tutti i 1.800 lavoratori di Fiat, Comau e Magneti Marelli. Ad Arese, storica fabbrica dell’Alfa Romeo, sarà chiusa l’ultima linea di montaggio di “auto ecologiche”, che sarà trasferita a Mirafiori: l’area è stata acquistata da una compagnia immobiliare la quale intende impiantarvi un “polo logistico” assorbendo parte (?) dei lavoratori ex Alfa, mentre per i rimanenti si parla di prepensionamento e, nel caso non abbiano l’età richiesta, un processo di “riqualificazione” (?).
Poco sfiorati dai tagli le unità produttive di Cassino e di Pomigliano d’Arco. Indenne dalla ristrutturazione lo stabilimento di Melfi, struttura produttiva del gruppo che crea ancora profitti grazie a concessioni sindacali e governative del passato: i salari sono moltissimo più bassi e l’azienda gode di maggiori sgravi contributivi.
Le poche disponibilità a intervenire da parte del governo sono motivate dalla generalità della crisi e dalle difficoltà delle finanze pubbliche. Dichiara il Ministro del Welfare (vorrebbe dire “benessere”) Roberto Maroni: «Mi è stata fatta dalla Fiat una richiesta per accedere agli ammortizzatori sociali dello Stato, ma il Governo va in direzione opposta, cioè quella di incentivare i lavoratori ad allontanare il momento della pensione». Solo per demagogia sociale, specie al Sud (a Termini Imerese Forza Italia ha ottenuto un risultato quasi plebiscitario), un esponente “sociale” della maggioranza, Tabacci, consiglia che «l’azienda deve vendere settori non strategici per concentrarsi sull’auto». Al contrario in passato la Fiat ha diversificato i suoi rami di attività, proprio per cercare maggiore redditività rispetto all’automobile, in settori come le assicurazioni, il turismo, la grande distribuzione.
Non arrischiano di più le “opposizioni”: il DS Fassino sostiene che «l’intesa con G.M. porterà a uno sviluppo e a un rilancio del Gruppo», ben intonato con l’intenzione aziendale di “alleggerire” il settore auto per poi rivenderlo con il miglior realizzo agli americani.
Infine Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione Comunista, intona la vecchia solfa delle “nazionalizzazioni”, stavolta dell’industria automobilistica, cercando di illudere i lavoratori dell’ex Alfa Romeo che sia ancora sperabile un “salvataggio” a spese dello Stato. È ormai un film già visto, in tempi di opposta congiuntura economica. La crisi ormai è generale ed è vano aspettarsi dallo Stato quel che i privati non possono dare. Ai proletari resta solo la lotta di classe contro il Capitale, sia esso Capitale privato sia il non meno nemico Capitale di Stato.
I Sindacati della Triplice si rendono conto di non essere in grado di gestire la situazione. La CGIL aveva già indetto su altri obiettivi lo sciopero generale per il 18 ottobre ben prima che si palesasse del tutto la vicenda Fiat. Le tre sigle non si vergognano di proclamare lo sciopero di sole 4 ore per venerdì 11, quando in tutti gli stabilimenti erano già stati fatti numerosi scioperi spontanei. Gli operai tuttavia mancano di una visione reale delle cose e di classe, come dimostra il caso di Termini Imerese, dove in piazza scendono i sindaci del comprensorio, il vescovo, presidi e direttori didattici; o ad Arese, all’ex Alfa, dove qualcuno sogna il ritorno sotto lo Stato padrone.
È proprio in frangenti come quello nel quale si vengono a trovare i dipendenti di grandi aziende in crisi che si rende evidente la necessità di un Sindacato generale della classe operaia, che difenda le condizioni di tutti i lavoratori e li opponga non al singolo padrone ma alla classe e allo Stato dei padroni, incurante delle necessità dell’economia borghese, dei suoi profitti camuffati da “interessi nazionali”! È nella situazione come l’attuale che tutto il proletariato dovrebbe mobilitarsi per obiettivi comuni a tutta la sua classe, come la richiesta del salario ai disoccupati, in radicale contrasto con la politica e le mire del padronato, con cui non ha nulla da spartire.
Questa mobilitazione non è certo da attendersi da un sindacato come la CGIL, che ancora al suo Congresso del dicembre 2000 richiedeva «la ricostruzione di una politica industriale che sappia mantenere un ruolo al nostro paese nei settori tecnologicamente avanzati» oppure quando, proprio riguardo alla crisi Fiat, dichiarava che «la Fiat deve investire in innovazione e qualità». I Sindacati quali la CGIL non sono più dei sindacati operai e di classe in quanto condizionano la vita dei proletari al benessere dell’industria nazionale, cioè della borghesia. Per questo non indicano la vera e decisa lotta di classe ai proletari, ma la concertazione Sindacato-Industria-Stato, nella quale pretendono di difendere non i proletari ma tutte le classi.
Noi comunisti denunciamo che abbiamo davanti non la crisi “della Fiat”, ma che questa è totalmente organica alla crisi globale del Capitale, arrivato, specie nel mondo occidentale “alla frutta”, dopo aver divorato tutto ciò che c’era da divorare.
Denunciamo, come sempre abbiamo fatto, che la politica delle nazionalizzazioni tende solo a ritardare la fine del capitalismo e del suo carico di parassiti borghesi. Sosteniamo la rinascita del Sindacato di Classe in tutte le categorie ed aziende, che in tutte è lo stesso sfruttamento borghese del proletariato.
Il proletariato abbisogna del Sindacato di classe, che oggi tenderebbe
alla solidarietà tra i lavoratori dei vari stabilimenti Fiat (a
Termini Imerese si sono sentite anche frasi del tipo “perché non
chiudono Torino?”) e tra i lavoratori di aziende appaltatrici e dell’indotto,
ancor meno tutelati; un Sindacato che non si farebbe carico della difesa
né dell’economia nazionale né delle finanze dello Stato borghese
e nemmeno proporrebbe soluzioni alternative alla loro crisi.
Il Casus Belli - Antefatti significativi
Come sempre, di fronte alle guerre, si tratta di capire fino a che punto un determinato “casus belli” è stato il detonatore dell’incendio, e in che modo gli eventi che lo procedono lo hanno preparato. G.Alvi su “Corriere Economia”, dopo aver analizzato fino a che punto, nel passaggio di leadership tra Regno Unito e Stati Uniti, la situazione di oggi possa assomigliare ad esempi passati, afferma: «A Greenspan (il capo della FED) che darebbe volentieri al terrorismo la colpa dei suo guai, si dedica troppa indulgenza. Tutto conferma che lo stato dell’economia era già pregiudicato ben prima dell’11 Settembre». Ci permettiamo di dire che da tempo noi lo andavamo scrivendo; ma detto da chi scrive su un giornale della grande borghesia italiana, legata a filo doppio con quelle di tutti i paesi occidentali, assume un altro significato.
Ma riprendiamo le parole dell’autore. «Quella in atto è la più classica delle svolte cicliche, la cui origine è un eccesso di investimenti assistito da potenti afflussi di capitali dall’estero e da una politica monetaria colpevolmente espansiva». Ci troviamo ancora una volta nell’esigenza di “tradurre”: la politica imperialistica attuale degli USA, intesi come capofila dell’imperialismo mondiale, è “colpevolmente espansiva”. Quel “colpevolmente” è quasi a dire che l’imperialismo potrebbe “limitare” la sua prepotenza. Per noi è inevitabile che la politica imperialistica sia “espansiva”. Comunque possiamo metterci d’accordo per dire che l’attuale crisi è “crisi di sovrapproduzione”, tale da spingere verso la necessità di “distruggere” in modo “creativo”, attraverso la guerra. Ecco: questa è la ragione vera delle guerre imperialistiche, senza eccezione.
Ma, al di là dell’abilità o meno del capo della FED, rimane il fatto che la guerra non nasce da un “atto terroristico”: non c’è neanche bisogno di ricordare quante volte si è fatto ricorso alla menzogna per inventare un pretesto, dalle inondazioni d’acqua nel vercellese, invocate dal Cavour nel 1859 per avere il destro di attaccare l’Austria, alla manipolazione di lettere diplomatiche nel caso di Bismarck nel 1867. Non è passato che qualche mese dall’accanito dibattito storiografico che ha riconosciuto come il Presidente Roosevelt fosse al corrente del probabile attacco di Pearl Harbour, l’unico colpo che avrebbe spinto gli isolazionisti americani ad accettare di essere quello che ormai erano: una potenza imperialistica alla quale i tempi chiedevano di assumere la propria responsabilità di gendarme del Capitale mondiale.
Chissà che un giorno, ma lontano da questi, non si venga a scoprire legami strani tra l’esterno e l’interno, tra “terroristi” e “collaborazionisti”. Ma lasciamo questo alla storia futura. Per ora basta che qualche voce dissonante abbia avuto almeno il coraggio di un’analisi critica non mossa dal puro e semplice opportunismo e dall’emotività.
L’America allora aveva un’economia pregiudicata ben prima dell’11 Settembre. Chi osservasse con un minimo di obiettività i nostri decennali “grafici” lo potrebbe “vedere” senza tanto distinguo. «Il trend stranamente favorevole, che sembrava non dovesse interrompersi (...) conferma che l’eccezione in quegli anni (1900-2000) ha assecondato una bolla speculativa. Gli USA pativano già prima dell’11 Settembre eccesso di investimenti indotti dalla speculazione». Abbiamo sicuramente idee abbastanza diverse dall’autore sulla natura della “speculazione”, che è connaturale al capitalismo, specie nella fase imperialistica. Ciò non toglie che l’analisi non è lontana dalla realtà. Ma facciamo parlare ancora l’economista. «Che i consumi si stessero, già prima del disastro delle due torri, ridimensionando, era assai meno preoccupante del fatto che i margini di profitto stavano calando ai livelli più bassi di quarant’anni».
Ma i problemi non sono mai soltanto economici; sono politici nel senso più completo che noi intendiamo. Si tratta di rendersi conto che negli ultimi 10 anni la “potenza imperiale” non ha potuto fare a meno di inimicarsi non solo certi tradizionali nemici, ma anche certi “ambigui amici”. «Questa guerra non è la guerra con Saddam. Non solo perché essa ridicolizzò i russi e iniziò quella “pax” imperiale, senza di cui non vi sarebbe stata l’economia degli anni novanta. La differenza con la guerra del Golfo è che essa fu pagata dagli alleati arabi e giapponesi. Il costo di questa guerra, che gli americani dicono lunga. toccherà invece a loro stessi».
Nella fase imperialistica – e questo ci interessa da sempre – lo scenario, le alleanze, il loro rispetto e forme nell’onorarle, possono cambiare, come appunto cambiano, ma non si può parlare di “nuova fase”. L’imperialismo, come “fase suprema” del capitalismo, non conosce ulteriori fasi di passaggio che non siano la presa del potere da parte del proletariato. Certo, un passaggio più facile a dirsi che a farsi, ma non per questo da modificare.
Tutti i segnali di cui abbiamo fatto cenno, con parole ed argomentazioni non nostre, sta lì a significare che l’11 Settembre, o un 11 Settembre, doveva arrivare. Ed è arrivato. Bisognava insomma avere il pretesto per “dichiarare” una guerra lunga di anni, per mettere in fila malumori e false alleanze, per stringere alle corde, prima ancora che i “nemici” (dichiarati infatti “invisibili”), gli amici, anche troppo visibili, ma doppi e tripli come avviene ogni volta che un sistema imperiale entra in crisi. Quali erano e quanti erano i “nemici” dello Impero Romano? Erano, come oggi i “barbari”... con la loro foia di potere e di massacro. La probabile “lunga guerra” avrà il merito di guardare in faccia prima ancora che i nemici, gli alleati, che già “distinguono”, e domani potrebbero anche fare il voltafaccia.
Nel frattempo, e senza indugi, urgono per il Capitale che fa perno su Wall Street, decisioni rapide, perché «la globalizzazione centrata su New York surroga i difetti della sua bilancia dei pagamenti, in coerenza che gli interessi americani. Annientare il terrorismo diviene vitale per evitare il disastro che sarebbe anche solo il rallentarsi dei movimenti di capitale verso New York».
Come sempre, davanti ad una guerra necessaria per la propria “salute”, gli scenari sono due. O “guerra lampo”, vincere al più presto «per evitare di fare la fine degli inglesi dopo la I guerra mondiale», oppure “guerra lunga” che rischierebbe di far incancrenire le cose «una guerra lunga, attentati a ripetizione, rischiano di accelerare il declino della bilancia dei pagamenti americani, proprio come la I guerra mondiale rovinò quella inglese e screditò la City». Ma si sa, la guerra, mentre è una necessità, è anche un alea (il classico alea iacta est) che non assicura in anticipo nulla a nessuno, nemmeno alla più potente compagine statale od alleanza dello imperialismo di oggi.
Ci si trova a dover ammettere che «il pendolo liberismo-mercantilismo (leggi intervento massiccio dello Stato) plasma da sempre le due opposte fasi dell’economia mondiale». Dunque non è, come si è cercato di sostenere negli ultimi tempi: il liberismo ci salva, il protezionismo ci affossa. Le due facce della stessa medaglia che abbiamo sempre descritto, e che per noi non sono che il pendolo, appunto, della economia e della politica borghese, l’una né successiva né progressiva rispetto all’altra e da preferire. Il dilemma, per loro, è quanto e se il Capitale può utilizzare le casse dello Stato del Capitale, che è parte di sé. L’attuale è “liberismo da casse vuote”, aspetto di un imperialismo avvinto nelle sue più pesanti contraddizioni.
er quanto riguarda il proletariato siamo costretti a usare il titolo
in prima pagina di un giornaletto labronico noto per la sua sguaiataggine:
“Guerra, santa o laica, a pigliarlo nel culo sono sempre i disgraziati!”,
senza troppo distinguere, senza aver né la voglia né la capacità
di capire qualcosa di più. Il fatto è che “i disgraziati”
sono stati allenati a lasciare agli addetti ai lavori, scelti col voto
ogni cinque anni, lo stabilire cosa fare, in pace e in guerra. Compito
del Partito della classe operaia è quello di saper leggere la storia,
indipendentemente dagli alti e bassi delle intemperie e delle diverse atmosfere.
In specie come la lotta di classe moderna si svolga, in certe condizioni,
in grado di opporsi alla guerra tra imperialismi, in altre nella impossibilità
di influenzare e dirigere il proletariato verso i suoi fini storici. A
proposito della guerra imperialistica, non si è limitato a definirla
macello della classe, ma a saper distinguere quando e come rovesciare la
sua tendenza, fino al punto di trasformarla in “guerra rivoluzionaria”.
Secondo un rapporto degli stessi sindacati inglesi, i lavoratori dell’isola sarebbero molto più scontenti oggi di dieci anni fa, quando la classe operaia era appena uscita dalle sconfitte thatcheriane. Come potrebbe essere altrimenti? I salari sono rimasti sostanzialmente invariati ma non i costi per esempio delle abitazioni, che in alcune zone metropolitane quadruplicati, o le tariffe dei trasporti pubblici raddoppiate. È poi in aumento costante lo stress causato da super lavoro, in diversi casi lavorare è una lotta quotidiana contro il tempo, le nevrosi e i soprusi aziendali.
Inoltre le condizioni in cui si trovano la classe lavoratrice e il proletariato britannico si aggravano di continuo, specialmente negli ultimi anni di governo del “New Labour”. Blair e i suoi ministri si vantano di aver debellato la piaga della disoccupazione; tuttavia i senza lavoro sono sempre numerosi in diverse zone del Galles e del nord dell’Inghilterra e la maggiorana degli impieghi offerti sono “atipici”, a termine, a tempo parziale, di poche ore settimanali o impieghi senza alcuna garanzia.
Mentre si allarga la forbice tra redditi alti e bassi, il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di povertà ha raggiunto la cifra di quattro milioni; ma anche quegli adulti un tempo considerati privilegiati grazie al “posto fisso” non se la passano bene. I dipendenti pubblici statali, comunali e delle contee, postelegrafonici, ferrovieri, conducenti di autobus, insegnanti guadagnano meno dei loro colleghi di altri paesi europei e, considerato l’alto costo della vita del Regno Unito specie nell’area di Londra, e assai facile scendere sotto la soglia di povertà. Sono queste le categorie di lavoratori protagoniste nell’estate scorsa di numerosi scioperi che hanno anche paralizzato la nazione, lotte delle quali i giornali non britannici hanno dato scarso rilievo.
In questo contesto si è svolta a Blackpool l’assemblea nazionale delle Trade-Unions. Tra i temi trattati: le pensioni, le privatizzazioni, l’entrata in guerra contro l’Iraq a fianco dei cugini Yankee d’oltre oceano.
Mentre l’attuale inquilino di Downing Street continua imperterrito e convinto nella politica antioperaia, perfino le forze sindacali, un tempo vicine al Labour Party, sono costrette a mostrare segni di insofferenza. Il Congresso delle Trade Unions – sullo stile, diremmo, dell’italica CGIL – ha approvato il rapporto denominato Modern rights for modern workplaces, insistendo cioè sul tema nebuloso dei “diritti” piuttosto che delle rivendicazioni materiali. Sono trentatré richieste al Governo tra le quali il divieto per le imprese di licenziare chi sciopera, l’abolizione dei privilegi fiscali di cui godono le piccole aziende, che anche in Gran Bretagna occupano 4,5 milioni di persone, infine il riconoscimento di organizzazioni sindacali e diritti da parte delle imprese private che acquisiscono forza-lavoro dal settore pubblico.
La proposta sindacale vorrebbe inoltre contributi obbligatori per tutti i datori di lavoro. Infatti oltre manica, come del resto in altri paesi anglosassoni, i lavoratori statali e delle grandi aziende hanno maggiore copertura pensionistica, specie se residenti a Londra e nel ricco Sud-Est, mentre per quelli di piccole imprese, e in particolar modo se residenti in aree povere come il Galles o lo Yorkshire, la copertura è quasi nulla proprio per l’assenza di obbligo contributivo. Solo i lavoratori collocati in alte qualifiche e a stipendi elevati possono disporre di una pensione integrativa a differenza di quelli con paghe basse (ben 5 milioni, in parte appartenenti a minoranze extraeuropee), costretti ad acrobazie per coprire le spese tra uno stipendio e l’altro.
A Blackpool è stata denunciata la scarsa attrazione che i sindacati esercitano sui giovani lavoratori, sui non specializzati e su gran parte della forza lavoro delle piccole e medie imprese, tutte categorie invece che maggiormente avrebbero bisogno di un sindacato forte. Esempio tipico quello del settore turistico alberghiero che impiega ai vari livelli un numero impressionante di persone, in buona parte temporanee o stagionali; a Londra, dove è probabilmente una delle più numerose occupazioni, arriva ad un tasso di sindacalizzatone appena del 4%.
Vi è poi stata la rituale critica alle privatizzazioni e all’unanimità è stata chiesta la ri-nazionalizzazione della British Rail, le ferrovie (cosa non impossibile), e più in generale si è espressa nostalgia per lo Stato imprenditore, come se, in tempo di crisi come l’attuale, per i lavoratori fosse diverso! Infine sempre all’unanimità è stata approvata una tiepida e incerta mozione contro l’intervento in Iraq al quale la borghesia inglese proprio non sembra voler rinunciare, nonostante la maggioranza dei lavoratori del Regno non ne voglia sapere (sondaggi in questione parlano di una percentuale di contrari tra il 60 e l’80%).
La conferenza di Blackpool insomma non fa che confermare il carattere totalmente asservito del sindacato britannico che, nonostante abbia tagliato il cordone ombelicale con il partito laburista, continua la sua tradizione di “sindacato operaio borghese”. Le parole grosse e massimaliste sparate al congresso dalla sua “sinistra interna” esprimono solo le beghe tra le varie anime del partito laburista e un inganno per i lavoratori e non un reale interesse per le condizioni della “working class”.
Ma, contro tutto questo, in Gran Bretagna si sono avuti degli episodi di conflitto sociale. Il 17 giugno hanno scioperato i dipendenti delle aziende municipali di tutta la nazione, categorie di lavoratori come giardinieri, operatori di nettezza urbana, assistenti sociali, bibliotecari, insegnanti per ritardati. Tra loro moltissimi part-time e contratti a termine, in maggioranza donne, chiedono un forte aumento delle retribuzioni, tra le più basse del Regno.
Il giorno successivo c’è stato lo sciopero pressoché totale dei dipendenti della “Tube”, la metropolitana di Londra, sostenuto come in altre occasioni da quasi tutti i londinesi. È stato indetto dalla Rail Maritime and Transport contro il progetto che prevede l’ingresso dei privati nella gestione della principale società del trasporto britannico, che avrebbe come conseguenza, fra l’altro, un notevole calo di sicurezza per lavoratori e passeggeri.
Questi sono solo due casi di malcontento della classe lavoratrice, gran parte della quale si è certo pentita di aver confidato nel New Labour per un miglioramento della propria condizione dopo gli anni di “massacri e batoste” dei governi conservatori.
Nel paese dal capitalismo in fase maggiormente senile e forse più
vicino al suo capovolgimento nel comunismo, dove solo il 18% della forza
lavoro è impiegato in attività manifatturiere ed edili ed
è in costante discesa, stenta a decollare, come negli altri paesi
dell’Occidente, una continuità e una risolutezza nelle lotte di
classe. Queste saranno assicurate solo da un vero e forte Sindacato di
Classe che superi ogni particolarismo.
8. BILANCI E PROSPETTIVE MARXISTE
DELL’INSURREZIONE ALGERINA
(continua dal n. 291)
1) La determinante questione agraria
a) Il proletariato di fronte alla borghesia imperialista
Situazione sindacale
Una sfida alla classe operaia
Infine la Fiat annuncia che intende licenziare 8.100 lavoratori, un quarto dei suoi dipendenti, e si calcola che questo significhi, considerando l’indotto, la disoccupazione di circa 45.000 operai. Lo Stato ammette che non ha più i mezzi per qualsiasi “ammortizzatore”, abbandona i licenziati al loro destino mentre, da parte sua, nel Pubblico Impiego taglia decine di migliaia di posti, dalla scuola in giù. La Finanziaria prevede risorse consistenti solo per la Polizia (aumentate grazie ad un emendamento delle “sinistre”) e per l’Esercito (dei quali evidentemente pensano di aver bisogno), taglia pensioni, sanità e scuola e non dà nulla per gli stipendi falcidiati dall’inflazione.
Con questi provvedimenti il regime, fatto di padronato pubblico e privato, dichiara guerra alla classe operaia. Il movimento difensivo dei lavoratori, per altro, è oggi ancora lontano dal costituire una forza autonoma, unita e compatta, che si muova per rivendicazioni sue proprie, con gli strumenti di organizzazione e con i mezzi di lotta necessari. Lo sciopero del 18 ottobre si colloca in questo difficile frangente.
Di fronte alla tempesta di licenziamenti e peggioramenti che si sta rovesciando sui lavoratori la CGIL pretende di rifarsi la faccia a buon prezzo col rito di uno sciopero ogni sei mesi, il 18 ottobre, annunciato sui media come fosse una rivoluzione. All’operazione di remake hanno collaborato sia le aperture di credito delle “sinistre”, interne ed esterne, sia CISL e UIL con il loro aperto schierarsi con la politica padronale, sia gli atteggiamenti volutamente provocatori dei governanti.
Le opposizioni sindacali hanno, molto opportunamente, deciso di indire, di nuovo insieme, la mobilitazione per lo stesso giorno. L’offerta formale, da parte dei Cobas-Scuola, alla CGIL di organizzare cortei e comizi unitari, non ha ottenuto risposta. Come per il precedente sciopero del 16 aprile la CGIL farà propri cortei e proprie manifestazioni mentre i sindacati “di base” hanno deciso, pur con approcci non coincidenti, di organizzare le manifestazioni nei capoluoghi regionali in piazze e strade adiacenti, per rendere evidente che non ritengono né utile né possibile la confluenza organizzativa nella CGIL e che, anzi, si pongono fin da ora, nonostante la debolezza relativa delle loro forze, sul terreno di una nuova autonoma organizzazione sindacale.
Sottolineano la incompatibilità delle loro parole d’ordine con quelle della CGIL: questa scende infatti in sciopero “per l’Italia”, “per i diritti e lo sviluppo”, insomma contro un supposto “tradimento” della “concertazione” e per la ripresa della collaborazione col padronato al fine del rilancio “dell’azienda Italia”. Di fronte alla portata dell’offensiva padronale la battaglia in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che ha poco più che un valore simbolico, si è rivelata per quello che è, un obbiettivo per cercare di recuperare consenso tra una parte dei lavoratori e allo stesso tempo sviarne le lotte sul falso obbiettivo “politico”, tinto di “antifascismo”, della caduta del governo Berlusconi. La CGIL, insomma, non ha denunciato il suo pluridecennale ruolo di gestione e controllo della forza lavoro secondo la classica concezione socialdemocratica, ma anche socialfascista.
Questo governo “di destra” ha solo tentato di imporre una blanda cura dimagrante a quel pletorico carrozzone di funzionari, ma al fine, speriamo utopico, di confermarlo in quel ruolo. Fra l’altro è anche una questione di soldi, tanti soldi, ammesso che riescano a “sbloccare” ammortizzatori sociali, pensioni e Tfr.
Nonostante la sua proclamata “diversità” all’interno del sindacalismo confederale, in questi mesi la CGIL ha continuato, assieme a CISL e UIL, a firmare contratti basati sulla diminuzione del salario, la flessibilità, la meritocrazia, vedi il contratto dei chimici, degli edili, dei tessili, del settore gas-acqua, dei bancari, la chiusura della vertenza Alitalia, il vergognoso accordo del febbraio scorso sul Pubblico Impiego e sulla Scuola, ecc.
Lo schieramento dei sindacati di base, pur con tutte le sue divisioni e debolezze, chiama allo sciopero su posizioni opposte: dichiara la lotta senza equivoci contro la guerra dei padroni, proclama la sua opposizione di principio al metodo della concertazione, richiede reali aumenti salariali uguali per tutti e in paga base, l’estensione dell’art. 18 a tutti i lavoratori, l’uguale trattamento tra lavoratori autoctoni e immigrati, si oppone alla precarietà dell’impiego e alle differenziazioni di salario a parità di lavoro, si oppone alle leggi sempre più restrittive che limitano la libertà di sciopero e di organizzazione sindacale.
La divisione nelle concezioni sulla natura e sui fini del sindacato operaio non potrebbe essere dunque più profonda e inconciliabile. Condividiamo però la direttiva delle opposizioni sindacali di scioperare contemporaneamente alla CGIL. È un dato di fatto che l’estensione e la “tradizione” dei sindacati “di base” è ancora modesta e limitata solo ad alcune categorie mentre il grosso della classe, industriale e no, è o non organizzato, o imprigionato nella struttura di CGIL-CISL-UIL. Che questa struttura sia, se non “di Stato” come qualcuno semplifica, certamente finanziata, sostenuta e controllata dallo Stato dei capitalisti, non toglie che ancora riesce ad irretire, ingannare e trattenere il moto dell’esercito del lavoro, come ben si diceva un tempo. E obiettivo irrinunciabile è liberare appunto l’esercito del lavoro da quella morsa. Ed è nell’occasione della lotta comune e nel riconoscersi negli stessi obiettivi che si può ritrovare, più che nei dibattiti e nei confronti di idee e di programmi, quell’unità tra lavoratori delle diverse categorie, privati e pubblici, che oggi sembra lontana ma che rappresenta l’unica condizione per resistere ad un attacco padronale della portata di quello attuale.
Tutti i lavoratori possono arrivare a riconoscersi nelle stesse rivendicazioni immediate e nella stessa organizzazione difensiva. Per questo è importante che gli organismi “autorganizzati” difendano la loro natura “sindacale” e “di classe”, senza ricercare alleanze innaturali con movimenti più che ambigui, come invece pare voler procedere qualcuno, abbagliato dalle adunate dei no-global e girotondiche, nelle quali si dimostra che il numero non sempre fa la forza...
La classe operaia non ha bisogno di confondere il suo movimento con
obiettivi, reazionari o utopici, propri della borghesia. Ha bisogno di
trovare la sua forza, che si può esprimere solo puntando alla formazione
di una organizzazione sindacale di classe, che organizzi e difenda senza
condizioni solo i lavoratori salariati e si proponga di lottare per la
loro emancipazione con i metodi dell’azione diretta e senza compromessi.
Compagni! Lavoratori!
L’attuale vertenza Ilva non può essere considerata un semplice fatto locale, ma va inquadrata in un contesto internazionale dove Usa, imperialismi europei ed asiatici si muovono una guerra solo per il momento commerciale. Nella siderurgia è noto che da marzo gli Usa hanno posto forti dazi sulle importazioni a favore della loro produzione causando perturbazioni di mercato e contromisure da parte dei loro concorrenti.
Al caso-Taranto si vuol dare un aspetto ecologico, dopo 40 anni di siderurgia e scempio ambientale era inevitabile, ma è in questa fase storica di spietata concorrenza tra capitalisti che va inserito, di crisi di sovrapproduzione delle merci e caduta del tasso di profitto. Infatti, di fronte alla difficoltà di smerciare i prodotti siderurgici e contenere i costi di produzione, la direzione dell’Ilva, piuttosto che rendere più sicuro lavoro ed ambiente, minaccia di chiudere le inquinanti cokerie: un fatto che porta al ridimensionamento di produzione, esuberante rispetto all’attuale domanda, col mercato americano chiuso, e chiaramente alla forza lavoro impiegata per la quale è stato già annunciato il blocco delle assunzioni.
Nella morsa della crisi, il gruppo Riva potrebbe decidere di usare la carta dei licenziamenti per ricattare il governo e ottenere agevolazioni o addirittura di spostare la produzione in Stati dove legislazione sociale e costo del lavoro siano più favorevoli al capitale. L’acciaio “di qualità” sfornato a Taranto poteva essere competitivo anche grazie alla non eccessiva spesa su sicurezza e ambiente. Sul fronte dell’occupazione, si scopre ora che circa 6.000 posti di lavoro sono precari in quanto a tempo determinato o di formazione lavoro: condizione accettata sciaguratamente dai sindacati confederali i quali hanno gettato la nuova leva operaia in uno stato di cronica semidisoccupazione, a favore del padronato che può assumere con risparmio di spesa contributiva e in termini di minore conflittualità.
Le ristrutturazioni succedutesi lo sono state anche a carattere politico e sociale, producendo tra l’altro disoccupazione di massa e forme contrattuali precarie.
I sindacati confederali, CGIL compresa, oramai organismi assoggettati allo Stato, hanno accompagnato il proletariato a questo arretramento. D’altro canto la ricostruzione post-bellica e il raggiungimento del pieno-impiego – che aveva portato a stagioni di lotte e all’ottenimento di aumenti salariali, qualche protezione e servizi sociali – si è conclusa con la crisi del 1975.
La fase attuale del ciclo economico può intendersi come l’inizio di un nuovo lungo periodo pre-bellico: l’eccesso di merci a scala internazionale richiede una nuova guerra di distruzione per ridare slancio al marcio sistema capitalistico. Le avvisaglie militari ci sono tutte, come le recenti guerre locali nel Golfo Persico, in Europa nei Balcani e in Afghanistan evidenziano.
I sindacati confederali – che classisti non sono – tentano di tutelare
l’economia nazionale accettando il peggioramento delle condizioni di vita
del proletariato e la resa precaria del posto di lavoro.
Compagni! Lavoratori!
Intanto oggi, per una resistenza a tutela delle condizioni di vita, e quindi aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro, sicurezza, occorre dare vita ad un vero Sindacato di Classe, rompere con i sindacati collaborazionisti sostenitori della politica dei sacrifici, della concertazione e social-imperialisti.
Un lavoro equamente ripartito fra gli uomini e non dannoso per la loro salute si avrà solo col superamento rivoluzionario del capitalismo, che finché vivo darà solo pena, sfruttamento, disoccupazione, fame e guerra.
Il marxismo ha studiato il sistema di funzionamento del capitalismo
ed i fatti non lo hanno smentito. Per la fuoriuscita da questo barbaro
sistema di sfruttamento le avanguardie della classe ritrovino il vero Partito
Comunista, nella invariante linea del marxismo, la loro dottrina rivoluzionaria
di classe.
I lavoratori dell’Ente Irrigazione di Puglia e Basilicata nel mese di agosto hanno tentato di organizzarsi per una lotta che sbloccasse la loro situazione retributiva: da 15 mesi infatti non ricevono il pagamento degli stipendi, salvo alcuni acconti. Essendo dipendenti di un ente che amministra le sette dighe che alimentano i sistemi idrici civili, agricoli e industriali di Puglia e Basilicata, hanno visto che al danno delle mensilità non corrisposte si è aggiunta la beffa del sostanziale divieto di scioperare: l’ordinamento borghese ritiene lo sciopero in queste circostanze come abbandono di un servizio di pubblica utilità e come tale lo sanziona.
Ma la resistenza di questi lavoratori non ha retto oltre il quindicesimo mese di attesa: questi, dopo le solite promesse mancate dai burocrati e politici di turno, hanno tentato di organizzarsi meglio andando oltre agli sterili presidi presso la diga di Monte Cutugno, a Senise, nel potentino. Là, nell’invaso sul Sinni, hanno provato una lotta “legale” bloccando l’erogazione oltre i 4.000 litri di acqua al secondo, intervenendo da terzi incomodi nella vertenza “siccità” che gli agrari pugliesi, con la loro lobby, avevano aperto per i loro interessi di categoria in quel periodo particolarmente arido. Anche alla diga di Conza, nell’Irpinia, che fornisce l’acqua alla Capitanata attraverso l’invaso di Capacciotti, stesso tipo di protesta.
La loro poca consistenza di 190 lavoratori dipendenti di un Ente periferico, per di più fiaccata dai rapporti di forza avversi a tutta la classe operaia, ha potuto però minacciare gli interessi degli agrari, che evidentemente nei confronti del ministero dell’agricoltura hanno ben altri argomenti. La “fortuna” della siccità e l’effettivo pericolo che la mobilitazione implicava sui raccolti ha portato ministro e commissario dell’Ente ad interessarsi del caso con la promessa di nuovi acconti subito e il saldo degli arretrati nel brevissimo periodo.
Quei lavoratori hanno ottenuto soddisfazione alle loro richieste, ma l’intera vicenda è istruttiva per il proletariato almeno per due ordini di motivi.
Il primo è che i dipendenti “pubblici” non sono affatto meglio difesi, né tantomeno intoccabili, rispetto ai privati; anche loro si sostentano col vendere la propria forza lavoro, cosa che li rende ugualmente precari nel mondo del capitale e vulnerabili di fronte a “riforme”, ristrutturazioni e illiquidità degli enti.
L’altro è sul rigetto, di principio e generale, di ogni tipo di limitazione delle modalità di sciopero, sempre giustificata con la pretesa della “pubblica utilità”. Nella presente società borghese la “pubblica utilità” non è nient’altro che il massimo sfruttamento della classe operaia e, in tal senso, qualunque sciopero di qualunque categoria, di fatto, viene a ledere la “pubblica utilità”. Sul piano “giuridico” si potrebbe obiettare, nell’esempio dell’irrigazione pugliese, che la “responsabilità” dei danni all’agricoltura è dell’Ente, che da 15 mesi non paga i salari.
Ma la questione è di forza e non di diritto, cioè il diritto discende, e in ritardo, dalla forza: oggi i rapporti di classe sono a 4.000 litri di acqua al secondo (o analoghi “servizi minimi” in altre categorie); quando domani quei rapporti di forza fra le classi siano più a favore di quella lavoratrice la portata “indispensabile” passerebbe ad 8.000, o, all’inverso, a zero.
Oggi la classe operaia non ha la forza di oltrepassare “quota 4.000”, cioè di affrontare i pochissimi e isolati scioperanti i rigori delle multe e della legge penale. Quando la mobilitazione operaia si rafforzi ed estenda possono darsi due casi: o le leggi antisciopero saranno “elasticizzate”, per salvare la forma di tale rete di contenimento, o saranno semplicemente ignorate e travolte. I rischi per gli scioperanti non saranno però diversi: la storia patria dimostra che la repressione borghese non ha atteso la “illegalità” per colpire, anche col piombo, i cortei di operai e di braccianti.
Ai lavoratori non rimane che la via della riorganizzazione politica
e sindacale perché la tendenza dell’economia capitalistica prepara
per tutti mazzate come i quindici di mesi senza stipendio!
Si registra un continuo stillicidio di incidenti mortali di minatori cinesi. Nelle miniere d’oro e di carbone (che soddisfa il 70% del fabbisogno energetico della Cina), spesso di piccole dimensioni e a conduzione privata, non esistono misure di sicurezza: pochissime hanno sistemi di ventilazione adeguati per estrarre i gas esplosivi che si sprigionano nei tunnel ed allora basta una scintilla per provocare un disastro.
E’ un vero massacro: circa 5.300 morti lo scorso anno, più di 1.000 nei soli primi tre mesi del 2002!
A questi numeri si aggiungono quelli dei deceduti per danni polmonari dovuti alle polveri inalate in assenza di adeguati impianti di aspirazione. Si valuta alfine che il numero totale di morti a causa del lavoro in miniera raggiunga la quota di 10.000 all’anno.