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Dopo mesi di guerra economica e commerciale e aspre esibizioni
diplomatiche tra le grandi e medie potenze imperialiste mondiali, infine
la guerra è scoppiata. Il solco tra i contrapposti blocchi imperialisti
è divenuto in questi mesi sempre più profondo e testimonia
che la guerra all’Iraq è solo il primo episodio di uno scontro che
si estenderà fino a divenire aperto e generale.
Il proletariato iracheno, martoriato dalle bombe che colpiscono
città e villaggi, massacrato nelle trincee, costretto a combattere
con le mitraglie puntate alla schiena, è solo il primo reparto della
classe lavoratrice ad essere colpito. Non sarà l’ultimo.
Si prepara una Terza Guerra mondiale. Il Capitale, stretto dalla
globale crisi di sovrapproduzione, ha bisogno della guerra per distruggere
merci e uomini e iniziare un nuovo ciclo di accumulazione sulla sconfitta
e sul sangue delle classi lavoratrici.
IL CAPITALE MONDIALE È ASSETATO DI GUERRA.
Solo la classe operaia internazionale può avere
la forza di opporsi ai suoi piani.
I movimenti pacifisti sono oggi accarezzati ed anche propagandati
dagli Stati europei e benedetti dal Vaticano. Il pacifismo "umanitario",
legalitario e interclassista sarà infatti uno degli strumenti attraverso
cui la Borghesia cercherà di ottenere l’adesione del proletariato
alla guerra. Si cercherà domani di mandarlo al fronte in difesa
della "Pace", come nella Prima Guerra fu per la "Patria" e nella Seconda
per la "Libertà", tutti falsi miti dietro cui si nasconde la realtà
degli egoismi e degli interessi imperiali capitalistici, dello sfruttamento
e dell’oppressione sul proletariato mondiale.
Solo il proletariato, classe di SENZA PATRIA – che non ha nulla
da guadagnare né dal prevalere economico né dalla
vittoria
in
guerra del proprio paese – ha una sua prospettiva di emancipazione storica
e la forza per imporla, contro le guerre del Capitale e contro le sue altrettanto
mostruose paci. Non si può lottare contro la guerra senza lottare
per l’abbattimento del regime del Capitale; la guerra si combatte solo
ponendosi contro la società divisa in classi, il lavoro salariato,
la produzione di merci, il denaro.
Per poter essere esplicata la forza operaia deve essere organizzata
e diretta: devono rafforzarsi le organizzazioni sindacali di classe,
capaci di mobilitare la grande maggioranza dei lavoratori, a scala nazionale
ed internazionale (mentre in Italia la Cgil, dopo tante parole, si rifiuta
di indire lo sciopero generale), deve diffondersi la rete del Partito
Comunista Internazionale, strumento indispensabile per condurre la
classe lavoratrice sul fronte dell’opposizione rivoluzionaria alla guerra
imperialista.
- Per l’emancipazione dei lavoratori.
- Per la solidarietà con
nostri i fratelli di classe iracheni, curdi, sciiti, palestinesi, di tutto
il Medio Oriente e con i proletari in divisa sotto tutte le bandiere.
- Contro la guerra tra gli Stati,
per la guerra di Classe.
PAGINA 1
La vile guerra
irachena dell’Euro e del Dollaro
La crisi dei colossi
Alla critica marxista non occorreva aspettare che i tanks americani entrassero in Bagdad, ed assistere al turpe spettacolo offerto dai “liberatori” che si spartiscono le spoglie del disgraziato proletariato iracheno, per dare alla guerra il suo inquadramento storico e materialista.
Al di là di quello che dice l’ufficialità prezzolata, in Iraq non sono in palio la democrazia e la libertà, ma la sopravvivenza stessa del gigantesco apparato produttivo degli Stati Uniti. Nonostante lo spregiudicato sfruttamento di una macchina da guerra spettacolare, ancorché mastodontica e burocratizzata, e di ordigni di morte di tutti i tipi, si tratta da parte americana di una vera e propria guerra di difesa, condotta non certo contro la miserabile tirannia di Saddam Hussein, ma contro le democrazie sorelle d’Europa le cui merci e i cui capitali insidiano sempre più da presso i prodotti a stelle e strisce e il biglietto verde.
Perché stavolta gli USA hanno deciso per la guerra nonostante l’opposizione delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza?
Dopo lo sfaldarsi dell’URSS e la caduta degli accordi di Yalta che avevano regolato per più di mezzo secolo i rapporti di forza nel mondo, gli Stati Uniti sono assurti al rango di prima potenza militare mondiale con un armata di potenza di poco inferiore a quella di tutti gli altri eserciti del mondo assommati.
Ma a questa sproporzione di forza militare non ne corrisponde più una analoga nelle produzioni. La congiuntura economica degli Stati Uniti è in recessione da molti mesi, e, più importante, la quota relativa della produzione statunitense e dei traffici sui mercati mondiali è in inesorabile calo storico, come il lavoro di partito ha ampiamente documentato.
Alcuni meno spettacolari dati della sottostruttura economica si leggono in questi giorni sui giornali. «Nel lungo boom degli anni ’90 gli Stati Uniti attirarono capitali da tutto il mondo perché riuscirono a infondere una straordinaria fiducia nelle possibilità della loro economia (...) Questa fiducia indusse a “comprare America” a prezzi crescenti, con un dollaro sempre più forte e con valutazioni dei titoli azionari mai visti nella storia (...) Con la realizzazione pratica in Iraq della nuova dottrina delle guerre preventive i termini del contratto sono cambiati (...) L’America parla ora ai mercati finanziari non di economia, ma di politica. E da superpotenza militare, non economica. Con questo nuovo linguaggio, da un lato incute apprensione e semina incertezza e, dall’altro, chiede ancora più soldi» (Il Sole 24 Ore, 6 aprile). «Il dollaro ha già perso contro l’euro circa il 30% dai massimi del 2000, complice il rallentamento economico negli Stati Uniti», e questo ha fatto sì che «gli acquisti netti di strumenti finanziari americani dall’estero sono stati in gennaio di 536,82 miliardi di dollari, un nuovo record. Ma anche gli americani più ottimisti ammettono, a denti stretti, che questo enorme flusso di denaro verso gli Stati Uniti non potrà continuare all’infinito (...) Il perdurante rallentamento americano ha spinto molti investitori a scegliere la diversificazione. La Banca centrale russa ha ammesso di aver acquistato valuta europea negli ultimni mesi, portando nel 2002 la quota delle riserve ufficiali in euro dal 10 al 20% e quella in dollari dal 90 al 75%. È probabile che lo stesso abbiano fatto altre banche centrali. Fonti di mercato sostengono che la quota globale delle riserve valutarie in euro potrebbe salire entro la fine del 2003 al 20% dal 10 o poco più di un anno fa (...) Una parte del mondo arabo avrebbe deciso, secondo fonti di stampa, di rivedere le proprie strategie di investimento (...) I petrodollari sarebbero stati quindi in parte sostituiti dai petroeuro. Si calcola che gli investimenti negli Stati Uniti provenienti dall’Arabia Saudita abbiano un valore di circa 800 miliardi di dollari (...) Per scelta di diversificazione, sarebbero più frequenti i contratti internazionali in euro e non più in dollari, anche nel settore del petrolio». Tra l’altro «proprio l’Iraq ha iniziato da qualche tempo a prezzare in euro il petrolio. Una mossa la cui imitazione va stroncata sul nascere per garantire il ruolo imperiale degli Usa» (Rivista Guerra e Pace, aprile 2003).
Non è un mistero che la globalizzazione è in realtà una centralizzazione dei capitali negli Stati Uniti. «Le rendite petrolifere vengono aspirate sul mercato finanziario mondiale lungo il percorso Londra-Wall Street (per dirne una: l’Arabia Saudita è stata, con il Giappone, da qualche decennio uno dei più grandi finanziatori del debito pubblico Usa), e vengono spese (prevalentemente per armamenti) di nuovo verso la stessa destinazione. Il petrolio (...) è parte essenziale del meccanismo che fa del dollaro la moneta mondiale, e che sostiene l’egemonia Usa (...) L’enorme disavanzo commerciale statunitense è “sostenibile” nella misura in cui quel paese include nel proprio circuito finanziario i capitali di tutto il mondo».
Mantenere il primato del dollaro è quindi per l’imperialismo americano questione di vita o di morte, anche a costo di aggravare i contrasti con l’Europa in primo luogo e poi con tutte le aree economiche a cui, attraverso il Fondo monetario, viene imposta la “dollarizzazione” forzata. La guerra irachena è il tentativo disperato degli Usa di non far scappare i buoi dalla stalla.
Il dollaro è insidiato pericolosamente dall’euro mentre il debito estero cresce in misura abnorme. Il lavoro economico del partito ha confermato che, anche escludendo una recessione in occidente, gli Stati Uniti, ormai secondi all’Europa per massa di merci prodotta, saranno tra pochi lustri superati in questo settore dalla colossale e ben più vitale Cina capitalista.
In questa situazione il capitale statunitense, arroccato in particolare nel complesso militare-industriale, ha deciso di dar presto battaglia e utilizzare la sua potenza militare per cercare di compensare le debolezze dell’economia e conquistare alcune aree strategiche. Con questo intende rallentare la sua decadenza industriale, commerciale e bancaria, o, piuttosto, trattenere o condizionare la crescita dei concorrenti capitalismi, armate e riarmi statali e centri finanziari.
Di fronte a questo pericolo Francia, Germania, Russia e Cina non potevano
che condannare, almeno sul piano diplomatico, la guerra unilaterale degli
anglosassoni contro l’Iraq. E intanto si fanno sempre più pressanti
tra i dirigenti politici e i capi militari le richieste per la costituzione
di un esercito comune europeo, in grado di contrastare l’egemonia statunitense.
La prima guerra del Golfo
Il regime iracheno, già alleato di Washington contro l’Iran sciita, ormai lo ammettono tutti, fu attirato in una trappola. Gli Stati Uniti volevano allargare la loro presenza militare nella regione medio-orientale e il satrapo di Bagdad fu usato per crare il casus belli necessario per giustificare l’intervento armato americano. Fu fatto credere al regime baatista che avrebbe potuto ottenere l’incorporazione del Kuwait quale giusto premio per aver tenuto a bada con una guerra lunga e sanguinosissima la minaccia della potenza emergente dell’Iran sciita nell’area e il turbolento problema curdo a nord, non esitando ad usare le famose “armi di distruzione di massa”, i gas asfissianti forniti proprio dagli Stati Uniti (seguendo l’esempio della Gran Bretagna, che nel 1920 usò il “gas mostarda” proprio contro i curdi e nella stessa regione).
Gli Stati Uniti diedero dunque il via libera all’invasione per poi farsi carico e vanto della liberazione dell’Emirato. Già in quella guerra il regime dimostrò la sua intrinsecha debolezza. Decine di migliaia di soldati iracheni, gettati i fucili nella sabbia, fuggirono verso casa, lungo l’autostrada che porta a Bagdad. Le truppe statunitensi si gettarono all’inseguimento dei fuggitivi, che furono massacrati senza pietà dall’aviazione americana, ma si fermarono alla periferia di Bagdad, quando giunsero notizie che la popolazione di Bassora, anche per precedenti incitamenti di Washington, si era ribellata contro il regime di Saddam.
In un articolo apparso allora su questo giornale, dal titolo significativo “Tregua fra eserciti borghesi contro i proletari in rivolta”, scrivevamo: «Nell’Iraq dresdizzato dalle più sofisticate tecnologie di distruzione al servizio della barbarie capitalistica, risorge lo spettro della questione sociale: i proletari, i contadini impoveriti, le masse sfruttate si sollevano contro chi li ha condotti alla guerra e alla fame; contro di essi si sono immediatamente coalizzate le borghesie fino a ieri divise dalla guerra; gli eserciti alleati lasciano che le divisioni corazzate della Guardia Repubblicana si muovano liberamente nel paese per accorrere a riconquistare i centri caduti nelle mani dei rivoltosi (...) Purtroppo è molto improbabile che la rivolta di questo dopoguerra si estenda e tronfi; la mancanza di una precisa direttiva di classe la condanna all’insuccesso e, anche se questa si manifestasse, la particolare situazione strategica del paese, occupato da centinaia di migliaia di soldati degli Stati occidentali, è la garanzia per la borghesia irachena che se non sarà la sua Guardia Nazionale a spezzarla nel sangue ci penseranno i liberatori del Kuwait, i difensori del diritto internazionale».
I liberatori non potevano intervenire direttamente per reprimere
la rivolta e fu necessario ricorrere ancora una volta al macellaio di
Bagdad. Questo è il motivo per cui Saddam fu lasciato al suo
posto.
Chi “pagherà” la guerra?
Un fascicoletto del Politecnico di Milano riporta alcuni calcoli economici relativi alla guerra contro l’Iraq nel ’91.
Il costo della guerra fu di 40 miliardi di dollari, coperti al 25% dagli Usa e il 75% dai paesi arabi, in particolare da Kuwait e Arabia Saudita. Il denaro si ricavò dall’aumento del prezzo del greggio che prima della guerra era di 15 dollari al barile ed lievitò fino a 42 dollari generando una rendita extra stimata in ben 60 miliardi di dollari. Questa fu distribuita, secondo la legge del fifty-fifty in vigore nei paesi arabi, per il 50% ai paesi arabi e per il 50% alle multinazionali che controllavano i giacimenti; quindi 30 miliardi ai Paesi arabi e 30 miliardi alle compagnie del petrolio che nel Medio Oriente è totalmente in mano alle sette sorelle (Shell, Tamoil, Esso..) tutte americane e di cui 5 di proprietà statale americana. I 30 miliardi di dollari delle compagnie sono stati così suddivisi: 21 miliardi al governo americano e 9 miliardi ai privati americani.
Riassumendo. Per i Paesi Arabi le spese di guerra furono 30 miliardi di dollari, i ricavi dal petrolio 30 miliardi, e quindi il bilancio fu in pari. Per gli Usa le spese di guerra furono di 10 miliardi, il ricavato dal rincaro del petrolio fu di 21 miliardi, con un guadagno finale di 11 miliardi. I privati americani ebbero spese di guerra pari a 0 e un ricavo dal rincaro pari a 9 miliardi, con un utile netto, senza fare niente, di 11 miliardi. Ne deriva che complessivamente gli Usa ottennero un guadagno netto di 20 miliardi.
Ma allora, chi ha pagato alla fine i costi della guerra? Tutti i consumatori, in vario, modo del petrolio. Ma i 40 miliardi di dollari di spese di guerra sono stati incassati quasi totalmente dall’industria bellica, che è prevalentemente statunitense, generando un guadagno diretto di 11 miliardi, più 49 miliardi dall’indotto.
La guerra del ’91 contro l’Iraq, quindi, oltre a rappresentare sicuramente un primo passo per cambiare i rapporti di forza nella regione ed a livello mondiale, si risolse in un ottimo affare per gli Stati Uniti, un po’ meno per i loro alleati, soprattutto europei.
Gli enormi costi di questa guerra 2003 sono stati anticipati da Washington, che spera però di rifarsi rapidamente. Il regime iracheno, benché “spietato”, inspiegabilmente non ha minato un ponte, incendiato un pozzo di petrolio, fatto saltare una diga; le infrastrutture necessarie allo sfruttamento petrolifero sono tutte al loro posto e la produzione potrà presto riprendere. Con una sola differenza: il padrone. C’è l’artiglio della spennacchiata aquila americana sul rubinetto del petrolio ormai e certamente chi vorrà partecipare al banchetto iracheno dovrà ben ricompensarla.
Francia Germania e Russia, in fibrillazione per l’esito dei contratti miliardari a suo tempo stilati col “perfido” Saddam, cercano una strategia comune per rientrare nel gioco, ma il Pentagono non perde tempo e già intima a Siria ed Iran di abbandonare i loro programmi di fabbricazione di armi “di distruzione di massa” se non vogliono fare la fine dell’Iraq.
Il regime del Capitale, spinto dalla più grave crisi economica dalla fine della seconda guerra mondiale, marcia a grandi passi verso un terzo macello mondiale.
Come si legge su un nostro testo “vecchio” di oltre 50 anni (Corea è il mondo), «l’imperialismo è la traduzione in forma spettacolare e violenta della crisi permanente di una società in putrefazione: la sua terribilità, la gigantesca spietatezza della sua marcia non velano (...) dietro le cortine di fumo della stampa o dei cannoni, la realtà che l’imperialismo, come porta alla sua massima esasperazione e tensione le manifestazioni di violenza, di arroganza, di oppressione del modo di produzione borghese, così porta e porterà sempre più al vertice i suoi contrasti interni, le ragioni obiettive del suo disfacimento».
Se la guerra trova la sua base di partenza nella sconfitta del proletariato occidentale negli anni Venti del Novecento, a quest’ultimo spetta tuttavia oggi, a distanza di quasi un secolo, la tremenda responsabilità storica e soggettiva di affrontare i più grandi sacrifici e privazioni per trasformarsi da vittima predestinata del terzo macello insieme ai fratelli di classe di tutti i paesi, in becchino del presente odioso sistema di vita.
La potenza anonima del Comunismo gonfia inesorabilmente il ventre dell’economia
capitalista. Di questa guerra sociale i contrasti tra i briganti
imperialisti, fra aggrediti e aggressori, non rappresentano
che uno degli aspetti. E questa guerra anti-capitalista non potrà
che uscire vincitrice.
Si doveva resistere?
Sull’atteggiamento verso la guerra attuale colpisce la posizione espressa da Ingrao sul Manifesto, ma comune a molti nostalgici della “sinistra” e “estrema sinistra”, dai democratici agli stalinisti: la speranza che gli USA si trovassero di fronte ad una accanita resistenza sia delle formazioni regolari irachene sia di volontari arabi, che riuscisse, se non a sconfiggerli, almeno a dar loro una lezione. Questo non è ciò che si auspicano i comunisti.
La guerra contro l’Iraq, nonostante la disparità delle forze, non può essere considerata una guerra di tipo coloniale ma è a tutti gli effetti una guerra imperialista su ambedue i fronti, anche se si combatte contro uno Stato minore e meno progredito, tuttavia borghese ed espressione di una società capitalista.
Se avessimo potuto noi comunisti avremmo incitato i soldati iracheni
alla diserzione, a rivolgere le armi contro i propri ufficiali e non alla
resistenza. Ugualmente sarebbe da fare, sull’altro fronte, nei confronti
dei mercenari americani.
Recentemente il movimento sindacale operaio si è trovato di nuovo
davanti al problema della guerra e di come affrontarlo.
Nei fatti la guerra, nonostante le mobilitazioni del movimento pacifista,
è infine scoppiata, condotta sul campo “senza se e senza ma” e risolutamente
vinta da chi l’ha voluta. Né i lunghissimi cortei del “movimento
per la pace” hanno quindi ottenuto il loro scopo, né le innumeri
bandiere iridate sui balconi, né le invocazioni del “Santo Padre”.
Quest’ultimo, dopo aver inutilmente implorato Bush e Saddam, ha volto le
invocazioni alla Madonna, che di no non lo dice mai però, come si
vede, poco ha potuto nel trattenere carriarmati e B52. È vero che,
in altri tempi, gli Dei hanno aperto e richiuso mari o prolungato il giorno
per decidere il corso delle battaglie. Ma quelli, appunto, erano altri
tempi.
Da sempre, nel cosiddetto “movimento per la pace” vengono a confluire correnti diverse facenti capo a tutte le classi della società. Ma la presunta comune ovvia unanime e corale condanna della guerra si fonda su di un irreparabile equivoco poiché quella aspirazione ha origine e significato diverso, se non opposto, per le opposte classi.
Il “Partito europeo”, rappresentante il grande capitale e la grande finanza attestati di qua dell’Atlantico, oggi sempre più concorrenti e rivali a quelli americani, è contro questa guerra. Non che i magnati del denaro scendano personalmente nelle strade a sventolar bandiere ma tengono saldo in mano il timone dei potenti apparati dei media, dei partiti e dei fedeli sindacati del regime per volgere la fragile Pubblica Opinione a destra o a manca. Per il Capitale infatti, anche se le guerre sono spesso “ingiuste”, talvolta sono “necessarie”. Distinguerle è facilissimo: sono “necessarie” se ci guadagna, sono “ingiuste” se ci guadagnano gli altri. Esempio: per i capitalisti europei, che si accingevano a orribilmente spartirsi la Iugoslavia, i bombardamenti su Belgrado (assai peggiori di quelli odierni sull’Iraq) erano “necessari”; quelli su Bagdad invece, dove stanno per vedersi soffiar via ricchi contratti petroliferi che la nuova “amministrazione democratica” imposta dai “liberatori” si affretterà a cancellare, sono “ingiusti”. Tutto il resto è schiamazzo da talk-show.
Anche la Chiesa di Roma, con le sue banche e i suoi giganteschi apparati e materiali traffici terreni, sembra stavolta intruppata nella banda “pacifista”.
Oggi, insomma, il Capitale europeo, pur con tutte le sue diatribe interne, parla di pace e di avversione a questa guerra perché e in funzione di prepararsi, e di preparare, ad un’altra, la sua. Si sa, le guerre si fanno sempre per la pace, ed un “cattivissimo” “nemico della pace” contro cui farla è necessario presentarlo ai disgraziati che ci si devono intruppare, con le buone, se possibile. I capitalisti americani hanno mostrato ai loro proletari, sempre più impoveriti e per niente convinti, un cattivissimo e “terroristico” Saddam, gli europei hanno dato la colpa al “militarista” Bush, contro cui si è gridato nei cortei di tutto il mondo, come nella Prima Guerra “militarista” fu il Kaiser, nella Seconda Hitler...
In realtà militaristi sono tutti i capitalismi, il militarismo è una componente propria della loro economia ed è inimmaginabile un capitalismo senza militarismo. Il militarismo non è un fatto degenerativo del capitalismo, imposto ad opera di una cinica e vile banda di criminali giunti al potere: quella banda di criminali cinici e vili è giunta al potere perché è la migliore, la più perfetta rappresentante della natura e degli interessi fondamentali e vitali del Capitale.
La loro democrazia borghese e il loro sistema elettorale-parlamentare non sono che una forma retorica e una veste liturgica nei quale i governi degli Stati si presentano al popolo.
Da un lato, quel che possono desiderare i cittadini, anche nella loro stragrande maggioranza, in nulla determina, come si vede, la politica degli Stati, che è decisa ad altissimo livello, in conventicole, pubbliche e segrete, di nemmeno dieci caporioni. Questi democraticissimi “amministratori delegati” del Capitale Mondiale decidono fra loro della vita e della morte dei milioni di loro elettori, ai quali, terrorizzati, è solo dato di attendere dalla televisione l’inappellabile verdetto.
Dall’altro lato, proprio la forma democratica della dittatura borghese, senza impedire affatto l’ipertrofia dell’apparato industrial-militare, che davvero decide e comanda, è quella che meglio consente l’avvelenamento militarista degli animi, appunto perché può giocare sia sulla finzione della volontà popolare e del consenso nazionale e patriottico, sia sullo smarrimento provocato, a tempo opportuno, dal voltafaccia “interventista” dei “pacifisti del re” (vedi ancora la precedente Tempesta nel Deserto e la recente Tempesta iugoslava, quando, in Italia, restarono solissimi i Sindacati anti-concertativi a condannarla e a scendere per le strade).
In tutti i paesi d’Europa, quindi, la campagna di opinione contro la seconda guerra in Iraq è stata condotta col benevolo aiuto dei governi e dei mezzi di informazione. Al movimento si è data ampia copertura su giornali e telegiornali, anche quando si sono trovati in quindici davanti ad una caserma americana; la Chiesa quotidianamente benediceva e si è scomodata anche la consorte del nostrano Cavaliere-Premier per “aprire” ai pacifisti...
Investita dalla tempesta – reale e mediatica – la rumorosa miriade dei movimenti della piccola borghesia ha annusato il vento, che sente ben diverso da quello del ‘91 e del ‘98, e, significativo, invitata ed organizzata dai sindacati operai, sebbene “di regime”, è scesa nelle strade. Giustamente identifica nella guerra il segno della fine del suo bengodi consumistico “di pace” e, altrettanto giustamente (tutti hanno sempre ragione), il culmine della prepotente tirannide del grande capitale globalizzato che infrange le sue illusioni e miseri concettini di conservazione dello stato di cose presente, mal nascosti sotto il peplo della Libertà, la Giustizia, l’Individuo, l’Autonomia, l’Uguaglianza, ecc. Vedono bene i piccolo-borghesi il disco verde acceso dal Grande Fratello ed ancora una volta i meschini si illudono che Stati, Chiese, Sindacati ufficiali, fino agli anchor men televisivi si siano finalmente ravveduti alla saggezza e che basti appoggiarli moralmente perché operino diritti al “bene dell’umanità”.
La lettura marxista del fatto guerra, formulata dalla secolare tradizione del comunismo di sinistra, nega e denuncia questa tragico inganno e auto-inganno. Il programmatico impianto della classe operaia capovolge le rivendicazioni del movimento pacifista: il proletariato non attende un utopico ritorno alla pace nel capitalismo ma la negazione rivoluzionaria sia della guerra sia della pace borghese, che sono momento e sistema unico e inscindibile.
Già la classe operaia come si esprime nel suo contingente movimento difensivo sindacale, rispetto al fatto guerra ha un suo atteggiamento diametralmente opposto a quelli dominanti. È nemica e in lotta col capitale fin da prima della guerra, in quanto oppressa e avversa ai borghesi durante la loro pace. Per il proletariato la guerra non viene a “rompere l’incanto della pace”, non è quel che viene a “turbare” la pace, non è la “negazione” della pace, ma la sua continuità. Ad esso la guerra appare, com’è realmente e principalmente, un ulteriore attacco borghese contro le sue condizioni e come tale la combatte in una continuità di esperienze e di strumenti, sindacati e scioperi, che già si è forgiato e a cui si è allenato in tempo di pace.
Classica è quindi la parola, contro la guerra, dello Sciopero Generale.
Questa percezione della classe lavoratrice della guerra imperialista, che scaturisce dalle sue comprovate condizioni di vita e di lavoro, non si fonda su principi ideali quali possono essere quelli borghesissimi e falsi dell’Uguaglianza delle Nazioni, del Diritto Internazionale, della Libertà dei Commerci, della Solidarietà Internazionale, della Non-violenza, ecc, ma sul dato storico primordiale, anche se solo intuito, che la guerra imperialista è la “guerra dei padroni”, che in ultima istanza è soltanto guerra di classe, con la quale il Capitale Mondiale resiste ed attacca la classe operaia.
Il partito marxista meglio spiegherà poi che questo è vero alla scala storica e generale e come il mondo è in bilico non fra Guerra o Pace, ma fra Proletariato o Borghesia, Rivoluzione o Controrivoluzione.
In queste settimane e nelle prossime, in Italia e in Spagna almeno,
le confederazioni sindacali “di base”, assai minoritarie ovunque, hanno
indetto degli scioperi per “fermare la guerra”, sia unendosi alle pochissime
ore di sciopero e alle manifestazioni indette dai Sindacati di regime,
sia da soli. In Italia gli uffici ministeriali preposti alla “concessione”
del “diritto” a scioperare nel pubblico impiego, all’ultimo momento hanno
dato il loro benestare per il 2 aprile. In Spagna per il 10.
Nelle piazze quindi le opposizioni sindacali si sono trovate ripetutamente
al fianco dei movimenti più eterogenei e per matrice di classe e
per dottrina politica. Chi non è oggi “contro gli americani”?
Come si poteva prevedere le varie concezioni politiche che attualmente sono alla direzione dei sindacati anti-concertativi, anarchiche e democratiche d’ogni sfumatura, anche quando ammettono alcune delle più vistose contraddizioni del pacifismo, restano nei programmi e nella pratica al più granitico interclassismo. Per tutti costoro, riflesso simmetrico della pretesa borghese che di fronte alla Patria in guerra non esistano più classi e lotta di classe ma solo sentimenti di solidarietà nazionale cui tutto dovrebbe sacrificarsi, ugualmente, di fronte al “male assoluto”, della perdita del “bene supremo della Pace”, tutte le classi potrebbero e dovrebbero abbracciarsi e insieme lottare per quell’unico e “comune” obbiettivo.
Seguendo questa erronea impostazione, che è opposta a quella necessaria e tradizionale proletaria, lotta contro la borghesia e la sua guerra, i sindacati “di base” hanno convocato lo sciopero del 2 aprile e si sono presentati non come tali, difensori esclusivi della classe operaia, ma con le frasi del pacifismo “umanitario”, tutte talmente ovvie che in pratica possono dire tutto e il suo contrario, riducendosi a semplici portavoce della “opinione media operaia”.
La troppo vecchia e imbrogliata questione dell’organizzazione sindacale-politica torna fuori ad ogni svolta importante del movimento. Come sappiamo da sempre, noi leniniani, quando un sindacato pretende di fare politica, non può ricadere, nonostante ogni buona intenzione, che in quella borghese. E, per altrettanto inveterato errore, si intende che il famoso passo dal sindacale al politico per la classe operaia consista, rifiutanto la politica comunista, nello allearsi a movimenti e a partiti della piccola-borghesia, nel blocco con altre classi. Un passo che, evidentemente, è all’indietro e discende perfino sotto al gradino sindacale.
Ma, si dice, l’opposizione alla guerra è questione generale, che non riguarda esclusivamente la classe operaia, ed è incontestabile che una parte della piccola borghesia è, o può essere, sinceramente disposta a rifiutare le bestiali imposizioni guerresche del grande capitale. La risposta è che solo il proletariato porta in sé l’unica soluzione storica e reale alla dinamica sociale ed economica che determina il fatto guerra. Il movimento pacifista borghese invece si muove in contraddizioni tali che ne determinano la fatale impotenza seppure nascosta dietro appariscneti pose estetiche. È quindi solo possibile che, domani, un robusto movimento proletario costruito sulle sue basi, di sindacati e di partito, possa trascinarsi dietro alcuni settori della minuta borghesia in senso anticapitalista.
Il contrario è invece quello che si sta verificando oggi, con un movimento operaio che quasi si vergogna delle sue sacrosante e necessarie rivendicazioni e le sottace in nome dell’unità. C’è la guerra? non si parli più di salari, di orari, di pensioni, di precariato. Perfino di quella miseria di referendum per l’articolo 18 ci siamo scordati.
Siamo deboli? Lo saremo sempre di più presentandoci per quello che non siamo. Come può ben riuscire uno sciopero indetto per dei principi astratti e cui si faccia la violenza di distogliere le rivendicazioni immediate proletarie che sono, e giustamente dalla massa vengono sentite, accomunate e un tutt’uno con il rifiuto della guerra.
Il risultato di questo allontanarsi dalla dura realtà martellante e quotidiana dell’oppressione padronale è portare nell’ambiente dei lavoratori il senso di irrealtà moralista delle frasi ad effetto del pacifismo in astratto, che progressivamente non possono che rivelarsi per quello che sono, aria fritta, di fronte al fatto terribilmente reale della guerra che brutale e apparentemente onnipotente si impone. La risposta alla spettacolarizzazione mediatica che della guerra viene fatta sta non nell’opporre pie intenzioni a pie intenzioni, moralismo a moralismo, confusione a confusione, ma solo riportando i piedi in terra, sul duro terreno della materiale, per niente virtuale, elementare lotta difensiva di classe.
Mollati gli ormeggi di classe, tutto si sposta sull’ondeggiante mare del diritto, sulla infinita diatriba se sia “giusto” invadere l’Iraq per “portarci la democrazia”, con un gioco di prestigio che sostituisce la politica interna con la politica estera, la guerra fra le classi – in Italia, in Iraq, in Palestina, in America e ovunque – con la guerra fra gli Stati, dei quali, di conseguenza, alcuni sarebbero “meno nemici” di altri, con una classe operaia costretta per sempre e in ogni circostanza a rassegnarsi al “meno peggio”, al padrone “migliore”, atteggiamento tipico della piccola borghesia.
È grave che siano stati distribuiti dei manifestini agli scioperi che incriminano Bush e Berlusconi ma nei quali il “nostro” padronato europeo non è neppure nominato.
La classe operaia ha un suo fronte da mantenere ben guarnito,
un fronte internazionale contro cui si allineano solidali tutti gli apparenti
e guerreschi “nemici”: il “democratico” Bush e il “tirannico” Saddam, gli
Chirac e i Berlusconi, il “destro” Aznar e il “sinistro” Blair. Su questo
fronte la solidarietà internazionale di classe sarà messa
alla prova dalla guerra imperialista. Se questa passa il pacifismo borghese
ha irrimediabilmente perduto. Il proletariato no, se approfitterà
della guerra non per chiedere il ritorno della pace, ma la distruzione
del capitalismo.
Il 18 marzo i ferrovieri di Francia, Spagna, Inghilterra, Svezia ed Italia hanno scioperato. Lo hanno fatto contro i veti e le politiche dei sindacati di regime, che si sono rifiutati di trasformare il 14 marzo, Giornata europea della sicurezza ferroviaria, in un momento di lotta. Finalmente si è tornati a pensare e a praticare lo sciopero come strumento di difesa di una classe internazionale contro le politiche di oppressione che accomunano tutte le borghesie nazionali. È certo un piccolo passo, relegato ad una sola categoria, ma importantissimo precedente verso più estese mobilitazioni.
Stavolta il risultato è stato il contemporaneo blocco della circolazione in gran parte d’Europa. Obbiettivo della mobilitazione era riproporre con forza, e non nel solito modo rituale, i problemi della sicurezza del trasporto su ferro, oramai scardinata dalle selvagge ristrutturazioni in tutti i paesi, nonché l’opposizione netta alle drastiche riduzioni d’organico, all’aumento dei carichi di lavoro, alla progressiva svalutazione dei salari reali.
In Francia, dove tutte le sigle sindacali aderivano all’iniziativa con scioperi di diversa durata, i lavoratori hanno aderito in gran maggioranza allo sciopero di 24 ore indetto dalla federazione Sud Rail, realizzando così la paralisi quasi totale del traffico ferroviario.
In Spagna il traffico merci è stato totalmente bloccato, mentre sono circolati soltanto i più importanti treni viaggiatori a lunga percorrenza.
In Svezia il Governo aveva tentato di bloccare lo sciopero con un’interpellanza sulla sua legittimità, poi, vista la decisione dei sindacati, l’organismo competente ha dovuto subire lo sciopero, venendo a costituire così un importante precedente per quel paese, dove fino ad ora azioni di questo tipo erano considerate illegali. L’adesione è stata superiore anche alle aspettative della SAC, l’associazione sindacale che rappresenta una minoranza dei ferrovieri svedesi e che aveva indetto lo sciopero, creando forte interesse sulla stampa e tra gli altri lavoratori.
In Inghilterra, nonostante la gran frantumazione del fronte di base e l’influenza delle Trade Unions, lo sciopero ha avuto risultati interessanti. Il settore ferroviario, in quel paese, è stato disintegrato dalla ristrutturazione thatcheriana, facendo retrocedere di almeno cinquanta anni le condizioni di vita e di lavoro del personale ferroviario, ora diviso in centinaia di Società con condizioni di lavoro diverse, sempre in competizione fra loro.
In Italia la giornata di lotta indetta da OrSA Ferrovie, FLT-CUB ed UCS, ha registrato un’adesione media dell’80%. Queste organizzazioni hanno oramai alle loro spalle più di un decennio di lavoro tra i ferrovieri, in particolar modo tra il personale di macchina, con scioperi sempre incisivi e partecipati.
Insomma questa giornata, risultato di una tendenza istintiva dei lavoratori a solidarizzare contro i comuni nemici e risultato di un non indifferente sforzo organizzativo, ha dimostrato che è attuabile un’unità dal basso, di tutti quei sindacati che operano alternativamente alle confederazioni di regime, organizzazioni che oramai sono una realtà in tutti i settori del lavoro, pur rappresentando ancora una piccolissima parte del mondo sindacale organizzato.
Dal successo di questo sciopero esce rafforzata la prospettiva di sempre: proseguire sul percorso che dovrà portare alla ricostruzione della generale organizzazione sindacale di classe, con la riconquista dello sciopero come arma dei lavoratori, liberato da qualsiasi laccio legalitario imposto dalla borghesia, uno dei quali è costituito dai confini, e da pregiudizi, nazionali. Diverrà sempre più evidente come le divisioni nazionali costituiscono ormai solo delle gabbie nelle quali la borghesia divide il movimento convergente e tendenzialmente unico di tutti i lavoratori del mondo.
È notevole che questo primo sciopero e solidarietà europea fra lavoratori venga a cadere proprio quando le borghesie d’Europa si stanno accapigliando per contendersi, con tutti i mezzi, guerra compresa, i pozzi di petrolio di Saddam. Sicuro è poca, pochissima cosa, ancora. Ma a sapere, e voler vedere si può riconosce il profilo di un altro esercito, che non è né americano né europeo, l’esercito del lavoro che valica, trasversale, i continenti.
Ricostruire l’organizzazione sindacale, fuori e contro gli attuali sindacati
di regime, è oggi una diffusa necessità contingente per la
classe operaia. Questo è un punto d’arrivo che il Partito Comunista
indica come indispensabile per la difesa proletaria odierna e futura, ma
anche base necessaria per pensare e realizzare l’assalto al cielo della
Società socialista. Oggi ci si batte per le condizioni minime, per
il lavoro, il salario, l’orario. Ma questi sono i presupposti per una sempre
più larga partecipazione dei proletari alla lotta, per riportare
nei loro cuori la certezza della loro forza e della loro estraneità
alle sorti dell’economia nazionale. Sappiamo che oggi la stragrande maggioranza
dei lavoratori è costretta dai rapporti di forza a sottostare alla
legalità che incatena le lotte. Ma per riconquistare la propria
autonomia la classe lavoratrice, percorrendo un necessario cammino, sarà
costretta a rifiutare ogni compromesso, denunciare le troppe false promesse,
resistere a tutte le intimidazioni, ritrovare il suo Partito Mondiale.
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Pacifismo e
Patriottismo da bottegai
Tra le varie azioni che predicano i pacifisti in Europa c’è quella di boicottare le merci di provenienza statunitense, inglese ed israeliana. Basta visitare alcuni loro siti internet per trovare slogan del tipo “Fuori la guerra dalla tua spesa”. La demenza piccolo-borghese trascende, ammettiamolo, la nostra forza di fantasia. Forse stupirà qualcuno di questi signorini (speriamo giovanissimi!) che analoghe “direttive” vengono impartite dal sito ufficiale dei fascisti di Forza Nuova (autentici no-global, precursori e doc). La storia insegna che i movimenti “pacifisti” presto si dissolvono in caso di Patria in guerra, o abbracciano le false giustificazioni della propria borghesia: impugnare le armi e combattere il “nemico”... per difendere e ripristinare la Pace.
La medesima eroica mentalità da “consumatori”, che pretende di fare la “guerra alla guerra” coraggiosamente fra gli scaffali dei supermercati, solo consumando birra invece di Coca-cola (o viceversa), la troviamo sull’altro lato del “fronte”. Sul “Manifesto” del 30 marzo leggiamo che in America un gruppo di deputati repubblicani hanno trovato intollerabile l’impiego di una vernice speciale tedesca nei lavori di ricostruzione del Pentagono. Finora sono stati usati 27.000 litri di vernice della ditta bavarese Keimfrabe ma per completare il lavoro ne occorrerebbero altri 135.000. Il deputato Steve La Tourette vuole far stornare la commessa motivando: «Stiamo parlando del centro di comando militare della nostra nazione, un simbolo della libertà. E in tempi difficili, come quelli che stiamo vivendo, bisogna garantire che i soldi dei contribuenti vengano spesi per prodotti americani».
Lo dicono loro…..
«Anche la vecchia Europa adesso ha il suo caso Enron. Il rischio
che una grande azienda rincorra facili guadagni di borsa falsificando e
gonfiando spregiudicatamente i suoi bilanci non è più un
appannaggio esclusivo del capitalismo anglosassone». Così
inizia l’articolo apparso sull’inserto di Repubblica Affari e Finanza
del
3 marzo, che ha come soggetto la società olandese Ahold operante
nel settore della distribuzione alimentare, terza potenza mondiale nel
settore dopo Wal-Mart e Carrefour. Come già scrivevamo per il caso
Enron la nostra critica è verso sistema capitalistico “puro” e “onesto”,
sapendo però che la sua natura effettiva è ben peggiore.
Qui ci limitiamo a ribadire che le truffe e gli “aggiustamenti” di bilancio,
per far quadrare i conti delle aziende schiacciate dalla crisi economica,
non sono tipiche solo del capitalismo americano, come da parte europea
vuol far credere, ma sono insite in questo putrido e universale sistema.
Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economy Trends di Washington con il suo ultimo libro Economia all’Idrogeno si è guadagnato come economista di moda una schiera di seguaci, che vanno dai no- o new-global ad ambientalisti di tutte le specializzazioni ai catto-comunisti e quant’altro.
Nel libro sostiene con diversi dati che l’epoca dei combustibili fossili avrebbe fatto il suo tempo, che al picco della produzione di petrolio si arriverebbe al massimo in qualche decennio e che la prossima grande rivoluzione sarebbe appunto l’uso generalizzato del miracoloso idrogeno: il carburante perpetuo. Secondo il Rifkin, «ogni essere umano diventerà produttore dell’energia che consuma, quindi realmente indipendente. Quando milioni di utenti finali connetteranno le loro celle a combustibile in reti energetiche locali, regionali, e nazionali (...) si affermerà un nuovo uso dell’energia, paritario e decentralizzato. L’idrogeno può essere quindi un formidabile strumento non solo per porre fine alla dipendenza del petrolio, con tutte le conseguenze geopolitiche che questo comporta, ma per istituire il primo regime veramente democratico nella storia dell’umanità».
Si accederebbe, insomma, ad un’umanità fatta di individui autarchici non solo sul piano economico, ognuno col suo bancomat in tasca (che ora le Poste Italiane invitano a dare anche ai bambini, così per educarli), e sul piano politico-elettorale, ma un far da sé anche su quello biologico-energetico. Insomma una “democratizzazione” dell’autismo sociale capitalistico qui esteso fin nella vita individuale, che si vuole “energicamente indipendente”. Ridateci il petrolio! vien da gridare, con tutti i suoi chimici veleni nell’aria e i veleni di tutte le sue “conseguenze geopolitiche”!
Inoltre l’idrogeno risolverebbe il “problema ambientale”. Leggiamo: «La legna, fonte primaria di energia per la maggior parte della storia dell’uomo, ha il rapporto carbonio-idrogeno più alto, con dieci atomi di carbonio per ogni atomo di idrogeno. Fra i combustibili fossili, il carbone ha il rapporto carbonio-idrogeno più elevato; il petrolio ha 1 atomo di carbonio per 2 di idrogeno [circa, doveva dire lo specialista], mentre il gas [metano] ne ha solo uno su quattro. Questo significa che ogni nuova fonte d’energia emette meno anidride carbonica della precedente (...) L’idrogeno rappresenterebbe il compimento del percorso di decarbonizzazione, dato che non contiene alcun atomo di carbonio».
Domenica 9 marzo sul Manifesto ci incuriosisce un articolo dal titolo: L’idrogeno “rivoluzione” sulla Carta firmato nientemeno che da un gruppo di ricercatori aderenti al comitato “Scienziate e scienziati contro la guerra”. Si capisce, intanto, che, oltre ad essere pacifisti, ammettono nel Comitato vuoi scienziati di sesso femminile vuoi di sesso maschile, in questo volendosi giustamente distinguere, si presume, da analoghi Comitati forse ugualmente scientifici e pacifici ma che accettano solo uomini di sesso femminile ovvero maschile; i potenziali vantaggi di un Comitato scientifico ambosessi dovrebbero essere evidenti a tutti, almeno a coloro che hanno un po’ di esperienza in queste cose e qui non ci dilunghiamo. Insomma questi, e queste, esprimono un netto dissenso rispetto alla campagna mediatica che viene sostenuta per propagandare l’idrogeno come combustibile pulito. Citiamo: «L’idrogeno è un gas infiammabile che non esiste sulla superficie terreste [allo stato molecolare H2 e non legato al carbonio, diciamo noi altrimenti non ci capiamo], e produrlo [liberarlo] artificialmente richiede di per sé un notevole dispendio di energia. [Anche qui, meglio che “notevole”, che è indefinito e soggettivo, diremmo che per ricavarlo dalla scissione delle molecole d’acqua richiede, in teoria, esattamente la stessa quantità di energia termica che restituirà per tornare acqua nelle caldaie o nei motori]. Di conseguenza esso non può essere di per sé etichettato come energia, ma soltanto come vettore, cioè come mezzo per immagazzinare l’energia prodotta da altre fonti (...) Oggi quasi tutto l’idrogeno prodotto industrialmente viene ottenuto a partire da fonti di energia fossili, più precisamente dal metano o da derivati del petrolio, attraverso processi detti di reforming. L’idrogeno prodotto in questi processi contiene circa il 75% dell’energia fornita in ingresso, mentre il restante 25% viene perso sotto forma di calore. Il nostro vettore di energia è quindi in realtà assimilabile a un secchiello bucherellato». Giusto.
Il dibattito certo continuerà, ma per noi è più che sufficiente ad esprimere la nostra posizione in merito. Già nel 1978, prima “crisi petrolifera”, sul nostro organo di battaglia scrivevamo: «Valutare anche approssimativamente quanto tempo ancora potrà continuare l’utilizzo del petrolio come fonte principale di energia per l’economia mondiale è per il capitalismo più difficile che stimare la distanza di una galassia ad occhio (...) Le previsioni ufficiali delle riserve potenziali di petrolio quindi sono prive di qualsiasi attendibilità ed oscillano tra molti ordini di grandezza a secondo se emananti dagli uffici propaganda delle compagnie petrolifere o, per esempio, dai fabbricanti di automobili». Passati 25 anni nulla è mutato, le stime sulle riserve dell’oro nero sono innumeri e spesso contrastanti. Quello che conta è averlo oggi a buon prezzo: tra le varie ragioni dell’imminente spartizione imperialistica dell’Irak è che in quella regione si può far man bassa di petrolio a basso costo di estrazione.
Da un punto di vista termodinamico gli scienziati/e hanno ragione: nulla viene gratis, nemmeno nella natura. E i vivi il pane se lo devono guadagnare col sudore della fronte. Ma, come più volte ribadito, la questione non è soltanto o principalmente tecnica. La scienza oggi è asservita alle esigenze dell’epoca in cui viviamo: il capitalismo, il quale con le sue leggi basate sul profitto determina se una qualsiasi cosa è “scientificamente accettabile” o no. Un farmaco si studia al fine di trarne vantaggi economici e gli eventuali benefici all’umanità ne sono solo un “effetto collaterale”. È col criterio del Profitto che si deciderà se il progetto idrogeno portarlo avanti oppure lasciarlo a ingiallire sugli scaffali di qualche biblioteca universitaria.
Il secondo aspetto che ci importa ribadire, è che sul piano sociale nulla cambierebbe con energie diverse, lo scontro Capitale-Salario non cambierebbe affatto e i padroni continuerebbero ad estorcere plusvalore e a rendere la vita ugualmente un inferno al proletariato. Questo non si deve far ingannare dalle smelensaggini ambientaliste ma dedicare le sue speranze ed energie alla sua opposizione in quanto classe alla classe nemica.
Il capitalismo decadente con il suo modo di produzione e di consumo spreca enormi quantità di energia. Materie prime partono da un paese dove il costo di estrazione è più basso, per esser lavorate dove sono più bassi i costi della manifattura, per viaggiare infine verso paesi dove trovano un mercato capace di pagarli. In merito scrivevamo già nel ‘78: «La futura società comunistica comporterà prezzi alti, altissimi dell’energia, se vogliamo usare la borghese categoria monetaria, nel senso che si solleverà dall’enorme, sistematico spreco vigente nell’ordinamento capitalistico. Nei trasporti relegando a mezzi di emergenza le flotte aeree di tutte le compagnie oggi impiegate dai borghesi per rincorrere il capitale in fregola per il mondo, come ridimensionando l’uso esasperato e imposto dagli irrazionali mezzi di trasporto individuali senza nulla rinunciare delle possibilità di spostamento degli uomini con mezzi di trasporto collettivi...».
I Rifkin è gli “scienziati” queste evidenti “semplicità”
rivoluzionarie non le possono “vedere” per implacabile determinazione di
classe.
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ALGERIA,
IERI E OGGI
(continua dal n. 296)
9. LO STALINISMO ALL’ALGERINA OVVERO
LA DITTATURA ANTIPROLETARIA
(1962-’78)
A. ‘62-65: IL REGNO DI BOUMEDIENE-BEN BELLA
La riforma agraria - L’industrializzazione - Governo a partito unico
- Socialismo “alla Castro” - La caduta di Ben Bella
Sono passati 5 anni dall’entrata in vigore in Italia della legge che autorizza la costituzione e l’esercizio di agenzie abilitate all’affitto al padronato di lavoratori temporanei. I Ministri del Lavoro, presenti e passati, di "destra" e di "sinistra", ne hanno esaltato le lodi e cantato i vantaggi, al pari della Confindustria e dei Sindacati della Triplice. Per i lavoratori la situazione è, ovviamente, assai meno rosea.
Nei primi 3 anni c’è stato un boom di profitti e fatturato con una crescita annua del 100% delle agenzie, aperte sia in diversi quartieri delle grandi città sia in numerosi piccoli centri di provincia. Nell’ultimo anno invece, nonostante il numero di lavoratori in affitto sia aumentato del 40%, le principali società interinali hanno perso oltre 30 milioni di euro, con il quale passivo hanno chiuso il 2001.
Il passivo è dovuto a una guerra dei prezzi tra le varie società pur di conquistarsi uno spicchio di mercato, offrendo al padronato lavoratori sottocosto. I signori industriali, che hanno come unico scopo l’abbattimento dei costi per l’aumento del profitto, si rivolgono a quell’agenzia che offre manodopera a prezzi più "concorrenziali". Alla condizione, infatti, di merce è ridotto l’uomo lavoratore, al pari della frutta, il latte, la verdura... Le conseguenze per il proletario sono bassi salari, super-lavoro super-flessibile e mancato rispetto dei contributi.
Si noti che a denunciare la vicenda non sono le organizzazioni sindacali di regime, ma alcune grosse e note società interinali che lamentano la "concorrenza sleale" cui sono vittime. Questo quando a far le spese di tutto è il proletariato, nel caso i lavoratori interinali, sempre più numerosi nell’oceano dei lavoratori "atipici", sottoposti ad ogni tipo di ricatto e costretti a cambiare luogo di lavoro, nel quali vengono inviati come pacchi.
Questo oceano del lavoro atipico sembra ancora calmo e stagnante, ma presto la moltitudine di pesci e pesciolini costretti a nuotarvi verranno a galla e, superate le difficoltà e le divisioni in cui sono stati cacciati, si uniranno per la rinascita di un vero sindacato di classe, attento non solo ai bisogni dei, cosiddetti, "garantiti", ma anche al sempre più folto esercito di lavoratori interinali, co.co.co., a tempo determinato, precari, lavoratori di cooperative, veri rappresentanti tutti della condizione per proletario puro, in questa società capitalistica senza riserve e senza garanzia alcuna.
Da evitare è di farsi abbagliare dalle sirene opportuniste e
dalle loro illusioni referendarie.
Anche le calme acque del Mediterraneo non sempre sono tali. E quando diventano burrascose o si prevede che lo divengano per il regime capitalistico sarebbe "irrazionale" che i trasporti venissero rimandati e le navi trattenute nei porti. Gli armatori impongono ai comandanti il rispetto dei tempi di consegna delle merci senza alcun rispetto delle condizioni degli scafi, spesso indeboliti dalla mancanza di manutenzione, e di quelle meteomarine.
Le cronache italiane anche delle settimane scorse hanno raccontato di numerosi naufragi.
A fine gennaio il "Nicole", di bandiera Belize, carico di manganesio e diretto a Porto Tolle, sul delta del Po, affonda nelle acque antistanti il Monte Conero. I tredici membri ucraini del "Nicole" si riuscirono a salvare ma in compenso furono tratti in arresto dalla guardia costiera perché lo sversamento in mare del gasolio per i motori e del carico di manganese violava le leggi di protezione ambientale.
Nella notte del 17 febbraio il Canale di Sicilia in tempesta - mare forza 8 - ingoia l’equipaggio della "Tor I", battente bandiera di Tonga, che aveva abbandonato la nave carica di tronchi di albero oramai affondante. Il mercantile era partito dal porto turco di Mersin diretto a quello tunisino di Sfax. Pare che il mare abbia fatto spostare il carico, evidentemente male stivato. Il "Tor I" si è inabissato tra la Sicilia e Malta, a 160 miglia da Capo Passero. Otto marinai di nazionalità libanese e siriana tentavano di salvarsi con la scialuppa ma le navi che avevano captato l’SOS giunte in soccorso ritroveranno il battellino vuoto. Non è certo un caso che la nave gemella "Tor II", appartenente allo stesso armatore, era contemporaneamente sotto sequestro a Livorno per irregolarità sulla sicurezza.
Il giorno dopo un mare forza 7 da nord-est al largo della Sicilia apre una falla nello scafo della "Karin Kat", cargo danese di 77 metri, costruito nel 1986 ed evidentemente non in condizioni di navigare: l’equipaggio, scrive "La Sicilia", che ha fatto appena in tempo a calare la scialuppa ed abbandonare la nave prima di affondare, è stato recuperato da una nave malese che aveva raccolto il segnale di soccorso.
Dopo altri dieci giorni, il 28, il cargo "New Lill", algerino con equipaggio composto da 18 egiziani, con le stive piene di laminati metallici, a 60 miglia ad ovest di Trapani ha subito uno spostamento del carico che ha inclinato la nave di 25 gradi su un fianco. I marittimi, si sono rifiutati di salire sugli elicotteri di soccorso per cercare di salvare nave e carico.
A febbraio l’ammiraglia della flotta peschereccia di Molfetta, il "Cunegonda", vanto della marineria pugliese, cola a picco non lontano le coste del Montenegro. I pescatori vennero tratti in salvo in una notte da incubo dal traghetto di linea Ancona-Durazzo "Palladio" quando ormai erano allo stremo delle loro forze, aggrappati agli zatterini. Pare che lo stesso ferry-boat, che certo non stazza quanto un peschereccio, abbia avuto difficoltà nella navigazione e nell’ingresso in porto.
Il naufragio della petroliera "Prestige" nel Golfo di Biscaglia, a dicembre, con lo sversamento in mare del suo maleodorante carico di petrolio ha molto colpito l’opinione pubblica borghese, più attenta alle sorti dell’ecosistema che alla incolumità dei naviganti.
Gli Stati si stanno attrezzando con norme più severe per la navigazione, tipo l’obbligo del doppio scafo per tutte le motocisterne. Quelle che invece non trovano tutela sono le condizioni di vita e di lavoro dei marittimi, schiavi salariati costretti dall’avidità degli armatori e dall’ottusità del sistema capitalistico a mettere in gioco la loro vita contro il mare a forza 8. E può anche capitar loro di finire nelle galere di un democratico ed avanzato Stato Occidentale per la colpa di navigare su delle caccavelle armate in economia, in dispregio della salute di chi a bordo vi opera, e per giunta colate a picco.
Questi comportamenti obbediscono ad un modo economico superato dalla
storia, foriero solo di sfruttamento e morte. Senza tutele sindacali e
privi della solidarietà internazionale di classe, i marittimi sono
un reparto super-sfruttato del proletariato.
Lunga sarà la lotta che porterà al Comunismo, ma
siamo sicuri che allora sarà proibito di navigare col mare in procella,
non per imposizione tirannica di qualche capo, ma per il chiaro ed accettato
naturalmente da tutti intento di non rischiare vite umane.