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PAGINA 1
PRIMO
MAGGIO 2003
CONTRO LA COLLABORAZIONE FRA LE CLASSI
PER UNA SOCIETÀ SENZA CLASSI
Se la fine del secolo appena trascorso ha visto il
crollo di uno dei pilastri dell’Imperialismo mondiale che era l’URSS,
il
nuovo secolo marcia con l’annuncio del declino irreversibile dell’altro
è più imponente pilastro imperialista, gli USA.
Al "Nuovo Ordine Mondiale" in pochi anni è
subentrato il "Disordine Mondiale". Il tanto decantato "migliore dei
mondi
possibili" in quest’ultimo decennio ci ha già regalato ben quattro
guerre: del Golfo n°1, dei Balcani, in Afganistan e ultima ancora in
corso, del Golfo n°2.
Ma non è solo sul piano militare che si manifesta
l’irreversibile instabilità del sistema capitalistico: è
più che emblematica la crisi che ha investito l’America Latina
(Argentina,
Brasile, Venezuela) che va ad aggiungersi alle gravi crisi economiche
del
Sud Est Asiatico (Corea, Singapore, Taiwan e soprattutto Giappone). Le
crisi economiche tendono ad assumere carattere cronico, investendo
oramai
l’intero pianeta, comprese le rocche forti del sistema capitalistico:
Europa
Occidentale e soprattutto Stati Uniti. Oggi l’economia americana conta
poco più di un quinto del prodotto mondiale, il Dollaro ha già
perso contro l’Euro circa il 30%, per non parlare dell’enorme debito
pubblico.
Tutto ciò sarà foriero di due effetti:
da un lato lo scontro interimperialistico diverrà sempre più
acuto, con le sue "guerre umanitarie" o "guerre preventive" sempre più
frequenti al fine di impedire l’emergere di una potenza antagonista in
Asia e in Europa. Dall’altro lato masse sempre più vaste di proletari
saranno spinti a lottare per difendere la propria sopravvivenza fisica.
Ma ancora la risposta del proletariato a questi
durissimi attacchi è totalmente inconsistente, immerso in un torpore
prodotto dall’oppio dalla controrivoluzione. In una paralisi indotta da
una serie di "garanzie" ha buon gioco il ruolo nefasto
dell’opportunismo
politico e sindacale con la sua retorica democratica, il pacifismo
guerrafondaio,
l’antifascismo, la difesa degli interessi generali, spingendo il
proletariato
in un abbraccio contro natura col suo nemico storico, la borghesia.
A maggior ragione dunque, mentre la parola sta per
tornare alle armi per ristabilire un "ordine" adeguato ai mutati
rapporti
di forza, è urgente sottrarsi a questo abbraccio mortale ribadendo
alcune necessità di classe di fronte alla guerra borghese:
1) Rifiuto di ogni solidarietà alla classe dominante mondiale,
e dunque e in primo luogo alla propria borghesia in tutte le sue
manifestazioni;
2) Rifiuto di schierarsi a favore di uno qualunque dei fronti in guerra
o di appoggiare il pacifismo interclassista di questo o quel paese;
3) Lotta e riorganizzazione della classe, sul piano politico del suo
partito comunista e sul piano della sua difesa sindacala immediata.
La potenza oggettiva e impersonale del Comunismo,
nuova forma di produzione che è matura e preme nel ventre dell’economia
capitalista, torna a presentarsi come drammatico aut-aut storico: o
guerra
o rivoluzione. L’alternativa che il secolo passato pose nel 1914 al
proletariato
mondiale, va riproponendosi di nuovo oggi.
Far pendere la gigantesca bilancia dalla parte della
classe operaia e della rivoluzione è il compito delle giovani
generazioni
proletarie. È compito arduo, cui non basta la volontà di
singoli o di piccoli gruppi, ma chiede che il proletariato ritorni alle
sue tradizioni di classe, esterna ed opposta alla società borghese.
Richiede il suo organo partitico, in grado di guidare i sindacati e
indirizzare
la lotta operaia, facendola uscire dai vicoli ciechi puramente
rivendicativi,
collegandola oltre i limiti fisici della fabbrica, della categoria
della
nazione. Allora solo, su questa strada il dilemma storico sarà sciolto
positivamente, dando vita alla futura società senza classi, al
comunismo,
unico sistema sociale finalmente di specie.
Rafforzare il partito comunista rivoluzionario,
questo è il compito di oggi, fuori da ogni illusione elettoralistica,
movimentista, gradualista.
OGGI COME IERI, GUERRA ALLA GUERRA!
IL NEMICO È NEL NOSTRO PAESE!
PROLETARI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI!
Il 30 aprile scorso è stato ufficialmente
consegnato al primo ministro israeliano Ariel Sharon dall’ambasciatore
degli Stati Uniti a Tell Aviv un nuovo piano di pace, elaborato
stavolta
da Stati Uniti, ONU, Russia e Unione Europea (strana alleanza di questi
tempi!), mentre l’inviato dell’ONU Terije Larsen lo consegnava al nuovo
primo Ministro palestinese Mahmud Abbas.
Quest’ultimo, gradito agli occidentali, sarebbe nei loro confronti
“più cedevole” di Arafat, affermazione questa davvero difficile
a comprendere, dopo che il vecchio satrapo, benché “terrorista”,
aveva ceduto già tutto quello che poteva cedere della “causa
palestinese”
pur di mantenere sé stesso e la sua camarilla ben seduti sulla cassa
dei
denari. Non a caso la “mappa stradale” è precisa solo per quanto
riguarda i soldi, con la confluenza di tutte le “donazioni” in un Single
Treasury Account presso un nuovo Ministero palestinese delle
Finanza
con funzionari... da nominare.
Il piano viene presentato come un meditato, equo
e saggio compromesso tra le parti, ma in effetti è vuoto di
qualsivoglia
contenuto. Nella sua stesura confusa prospetta solo un modesto
allentamento
della morsa dell’occupazione militare, che certo comincia a farsi
necessaria
anche per motivi interni allo Stato e alla società israeliana, specie
se compensata con un ridimensionamento, che evidentemente si vuole
temporaneo,
del “terrorismo”.
Scorriamolo, sconnesso com’è.
Nella Fase I la “comunità internazionale”
auspica un rafforzato controllo della polizia palestinese sui
palestinesi.
Solo «con il consolidamento della riorganizzazione completa dei servizi
di sicurezza [palestinesi], le Forze di difesa israeliane si
ritireranno
progressivamente dalle aree occupate dopo il 28 settembre del 2000».
Quanto “progressivamente” e quanto “consolidato” l’autorevole documento
non lo dice.
«Il Governo di Israele riaprirà la
Camera di Commercio palestinese e altre istituzioni palestinesi da
tempo
chiuse nella parte Est di Gerusalemme a seguito dell’impegno di queste
istituzioni di attenersi strettamente ad accordi precedenti firmati fra
le parti». Ma non è scritto a quali “istruzioni” quelle istituzioni
palestinesi si dovranno “attenere strettamente”.
Si prevede che «Israele prenderà misure per (...) migliorare
le condizioni umanitarie, togliendo il coprifuoco e facilitando il
movimento
di persone e beni», ma senza precisare cosa s’intenda per “migliorare”.
Unica affermazione che sembra categorica è
che «il Governo israeliano smantellerà immediatamente gli
insediamenti successivi al marzo 2001 (...) il Governo israeliano
congelerà
tutte le attività di insediamento, compresa la crescita naturale
degli insediamenti». Anche perché su quelle sassaie c’è
ormai poco più da insediare.
Nella Fase II, detta di “Transizione”, «gli
sforzi saranno focalizzati sulle opzioni per la creazione di uno Stato
palestinese indipendente con confini provvisori». A rigor di termini
uno Stato con “confini provvisori” non è uno Stato; per di più
considerando “quei confini” di quello “Stato”. Purtuttavia «il
passaggio
alla Fase II sarà basata sul giudizio concorde del Quartetto circa
la realizzazione delle condizioni adeguate per passare alla fase
successiva»,
come dire che dipenderà dall’umore e dagli appetiti egoistici della
diplomazia imperialista.
Su drammatici contenziosi, centrali e mai risolti,
si ha il cinismo di scrivere queste sole parole: «Si ripristineranno
gli impegni multilaterali su questioni quali le risorse idriche della
regione,
l’ambiente, lo sviluppo economico, i rifugiati, e il controllo delle
armi».
Infine sulla questione delle questioni, la terra,
ci si limita ad auspicare: «attuazione degli accordi precedenti per
migliorare la contiguità territoriale comprese ulteriori azioni
sugli insediamenti, in connessione con l’istituzione di uno Stato
palestinese
con frontiere provvisorie». Come vorranno “migliorare” la continuità
territoriale di una Stato “a macchia di leopardo” non si dilungano.
Però
se ne parlerà in una «Conferenza internazionale». È
quindi ovvio che uno Stato palestinese, vero, in realtà, non ci
sarà mai.
Nella Fase III, detta “Accordo per uno Stato permanente
e fine del conflitto Israelo-palestinese, 2004-2005”, è prevista
una Seconda Conferenza internazionale, convocata dal Quartetto (si
auto-definiscono
così) «che porti a una risoluzione finale e permanente nel
2005, che comprenda i confini, lo status di Gerusalemme, i profughi,
gli
insediamenti e per sostenere i progressi verso un accordo complessivo
per
il Medio oriente fra Israele e Libano e tra Israele e Siria da
raggiungere
quanto prima possibile». Si parla di «porre fine all’occupazione
iniziata nel 1967» e di «una soluzione concordata, giusta,
equa e realistica per il problema dei profughi e una risoluzione
negoziata
dello status della città di Gerusalemme che tenga conto degli interessi
politici e religiosi di entrambe le parti, e protegga gli interessi
religiosi
di ebrei, cristiani e musulmani a livello mondiale». Si tace sulla
liberazione delle migliaia di prigionieri politici.
Tutto qui.
Nel frattempo continuano le incursioni indiscriminate
di mezzi corazzati israeliani e gli attentati suicidi. Questi, che
evidentemente
non sono azioni individuali, a seguito, e sembra ad accettazione, della
Road
Map, da contro i civili sono stati dirottati verso i soldati.
Il numero dei morti palestinesi, in questa seconda
intifada, sale a 2.290, quello degli israeliani a 763; tremila
proletari
morti per il cinico lavoro dell’imperialismo. Nei dieci anni tra il
1993
e il 2002 la popolazione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania
è raddoppiata, passando da 100.000 a 198.999 unità; gli insediamenti
coprono ormai il 42% della superficie della Cisgiordania.
Intanto Israele si dibatte in questo momento in
una crisi gravissima. La sua crescita, del +6% nel 2000, attualmente è
negativa: -0,9% nel 2001 e -1% nel 2002. Ha perduto quasi la metà
degli investimenti diretti esteri: 11 miliardi di dollari nel 2000, 6
miliardi
nel 2002. Il suo debito estero è passato dal 35% del prodotto interno
lordo nel 2000 al 40% attuale. Il debito pubblico, è aumentato dal
93% del Pil a fine 2000 al 105% a fine 2002. Il tasso di disoccupazione
supera l’11%, riparte l’inflazione (zero nel 2000, 7% nel 2002), con
oltre
il 20% degli israeliani e il 30% dei bambini che vivono al di sotto
della
soglia di povertà. Percentuali “arabe”?
Insomma è chiaro come gli imperialismi, rinfocolati
nelle rivalità in questo “dopo-Iraq”, sono in condizioni di ricattare
tutti nella regione e intendano allungare le mani, ben più forti
delle borghesie e dei vari Staterelli-servi, i cui popoli hanno fatto
dissanguare
per decenni nella piccola gabbietta di Palestina.
La Road Map non è quindi uno sforzo
per la soluzione del conflitto ma un cinico arnese per farlo
continuare.
Quel focolaio di guerra permanente conviene a tutti gli imperialismi,
crocevia di troppi traffici, di banchieri, di mercanti e di eserciti.
Il
“terrorismo” è strumento di governo perfetto, non ci si sporca le
mani e con esso si volge a piacimento qualsiasi “opinione pubblica”.
Come
già molti si stanno accorgendo, nei piani dell’imperialismo è
di fare della Palestina il Mondo. Starà al proletariato dei grandi
paesi dell’Ovest e dell’Est, del Nord e del Sud non farsi ridurre ad
“israeliani”
e “palestinesi”, ma internazionale classe operaia schierata contro
tutti
i governi del Capitale.
Anche quest’anno i sindacati del regime borghese
hanno festeggiato il Primo Maggio, cosiddetta “Festa dei Lavoratori”,
ma
con rituali, e contenuti, che non hanno nulla a che fare con i bisogni,
i sentimenti e le speranze di chi davvero lavora. Il solito ben
propagandato
“mega-concerto” in piazza San Giovanni a Roma, organizzato dalla
Triplice,
è ormai l’unico strumento che i confederali hanno per attirare i
“giovani”. Ma non i giovani lavoratori, visto che, quando tali li
lasciano
in completa balia del padronato. Quando i giovani faticosamente
riescono
a trovare un’occupazione si trovano isolati dai compagni più anziani
e costretti a subire ogni sopruso e ricatto legalizzato.
Non sono forse stati i confederali a rivendicare
la “flessibilità”, a proporre, propagandare e accettare, come se
fossero state delle “conquiste”, i contratti a termine, i contratti
Co.Co.Co,
ecc.?
Questa la situazione dei lavoratori sotto i 35 anni
(un tempo età sinonimo di raggiunta stabilità economica e
previdenziale): l’80 per cento dei giovani proletari guadagna meno di
1.000
euro mensili lavorando settimanalmente più di 40 ore; le ore aggiuntive
sono retribuite fuori busta, ma di solito nemmeno contate né pagate.
E questi sono i “ragazzi” fortunati in quanto ormai la quasi totalità
dei nuovi avviamenti al lavoro sono contratti a tempo parziale o a
tempo
determinato.
Chi entra per la prima volta in fabbrica, specie
se l’azienda è di piccole dimensioni, non viene informato sulle
misure e precauzioni e, benché inesperto di tutto, viene avviato
alle lavorazioni più pericolose: il risultato è che i giovani,
mandati al macello come in guerra, sono vittime di un terzo del circa 1
milione di infortuni annui sul lavoro.
Inoltre i giovani, inseriti nelle qualifiche più
basse, sono i più indifesi nei confronti delle persecuzioni padronali,
specie quando partecipano agli scioperi. Essendo lavoratori
prevalentemente
“atipici” il rischio di licenziamento è inevitabile e inappellabile
in quanto si presenta come mancato rinnovo del contratto o mancata
regolarizzazione.
Per essi la modifica, mitologica e su cui si fa gran frastuono,
dell’articolo
18 non apporterebbe nessun vantaggio.
La classe operaia sta pagando ben duramente la divisione
di trattamento, imposta dai sindacati di regime, fra i giovani ed gli
anziani
“garantiti”. Si sono costrette le vecchie generazioni operaie, accecate
dal mito del “Progresso” borghese diffuso dai partiti dei destra e di
sinistra
e dai sindacati, ad abbandonare e tradire i giovani, consegnati
indifesi
al supersfruttamento padronale. Ed è facile oggi per i borghesi
opporre e mettere in concorrenza le basse paghe dei giovani e il loro
gravi
carichi di lavoro con le condizioni dei vecchi, che saranno presto
anch’essi
rovinati e con pensioni da fame.
I giovani proletari hanno solo da perdere le loro
catene, ritrovando la strada della lotta che altri hanno abbandonato e
smarrito. Le loro catene le potranno perdere però solo quando si
saranno ridati un vero sindacato di classe, quello del quale i più
anziani sono stati privati, un sindacato territoriale, organizzato
fuori
dai posti di lavoro, che li tragga dall’isolamento nel quale sono stati
precipitati, che tutti li affratelli contro l’insieme dei padroni
grandi
e piccoli, contro la classe dei padroni.
Queste risorte energie proletarie, votate ad un
duro impegno e alla dura lotta di classe, saluteranno con sonora
pernacchia
i variopinti e ipocriti pifferai assoldati della Triplice e dallo Stato
dei padroni per far scordar un giorno la miseria ai proletari e
sopportarla
tutti gli altri.
«L’economia mondiale sta viaggiando sul filo
del rasoio. Basta un niente per farla precipitare nella parte buia. E
questo,
secondo alcuni sarebbe già avvenuto o potrebbe avvenire nel giro
di pochissimo tempo». A scrivere queste parole non è un marxista,
ma un tal Giuseppe Turani su “Affari e Finanza”.
Il Turani osserva fra gli economisti una specie
di corsa planetaria a tagliare le stime di crescita dell’economia
mondiale
e che si fa strada una tesi: una volta concluso il conflitto iracheno
si
troveranno a dover fare i conti con un’economia che arranca e dei
profitti
che ristagnano.
La nostra scuola insegna che il capitalismo per
la
sua forsennata accumulazione non può fare altro che entrare in crisi
di sovrapproduzione e che il suo corso naturale porta alla necessità
della guerra per la distruzione delle merci e del capitale variabile
eccedente
per poter ripartire con un nuovo ciclo. La guerra di cui noi parliamo
non
è certo la guerra all’Iraq, ma una terza mondiale dove si scontreranno
gli Stati con le economie più avanzate.
Il Turani riferendosi al precipitare dell’economia
conclude: «Allacciate le cinture di sicurezza. E se ci credete, pregate
un po’». Agli economisti borghesi altro non rimane che pregare e
sperare, visto che ormai non hanno più alcuna ricetta per far quadrare
i conti. Noi al contrario con la "fede" del materialismo storico
concludiamo:
proletari di tutto il mondo unitevi per la rivoluzione comunista. Nel
modo
di produzione comunistico non ci sarà accumulazione di capitale
e non ci saranno più merci, cause di crisi e di guerre.
Lavori alla riunione del partito
Genova, 23-24 maggio 2003 [RG86]
La riunione generale del partito si è tenuta
a Genova gli scorsi 23 e 24 maggio con l’affluenza di ampia
rappresentanza
di quasi tutti i nostri gruppi. Abbiamo proseguito il nostro poco
risonante
metodico lavoro di ricerca marxista e di presentazione alla classe
operaia
dei suoi risultati e delle sue prospettive, ben consapevoli della
difficoltà
e della lunghezza del cammino, per abbreviare il quale non confidiamo
in
nessun particolare espediente di volontà o di propaganda. Il partito
è una condizione della rivoluzione, non un grimaldello
per anticiparla.
I numerosi rapporti, dei quali qui diamo breve sintesi
e che saranno pubblicati per intero nei prossimi numeri di “Comunismo”,
hanno la modestia di solo darsi all’arduo e difficile compito di
coerentemente
ripetere e ribadire, proseguendo il confronto fra il passato della
nostra
classe e del nostro partito e una quotidianità, in tutto prevista
dal marxismo, tormentata e che ancora pone solo le condizioni materiali
di una futuro tornare a dispiegarsi della lotta di classe sulle sue
vere
basi.
Il rapporto di aggiornamento statistico si è
avvalso, come e più del solito, di grandi grafici facilmente
apprezzabili
da tutti i presenti. Sono stati mostrati, nell’ordine dell’esposizione,
le seguenti tavole.
Serie storiche della Produzione industriale, con
inizio dalla prima guerra mondiale, della Produzione industriale di
Gran
Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia, Giappone, Italia. Da questi
si
è messo in evidenza, al di sotto della tendenza generale al
rallentamento
della crescita relativa del capitalismo, un alternarsi di grandi cicli.
Evidentissimi sono gli intervalli decennali del ciclo industriale, già
ben individuato e descritto da Marx nell’economia inglese dell’800. Al
di sopra di questi si evidenzia l’insorgere di contemporanee generali
“depressioni”,
serie di anni che, nella loro media, marcano un rallentamento più
accentuato della curva: notevoli quella del primo interguerra e quello
segnato dalle ripetute recessioni dal 1970 al 1982.
Sempre per le serie storiche si erano predisposti dei nuovi diagrammi
relativi a paesi di recente industrializzazione ma che già vengono
ad imporsi sul teatro mondiale: queste prime serie, relative a solo
questo
secondo dopoguerra, ovviamente, riguardavano l’India, la Corea del Sud
e il Brasile. Qui gli indici della crescita sono molto più sostenuti
e a volte altissimi, all’esordio della locale rivoluzione industriale.
Per l’India la curve “media” è già ben sincronizzata con
quelle dei vecchi capitalismi; Brasile e Corea mostrano ancora
“irrequietezze”
giovanili.
Quindi si sono illustrati gli “ingrandimenti” delle
stesse serie di dati mensili degli ultimi due anni, descriventi la
debolezza
della recente contingenza nei medesimi paesi.
Infine il rapporto si è focalizzato sulla
crisi del capitale in corso negli Stati Uniti. Si è mostrato: andamento
della Disoccupazione (dal 1970), attualmente nelle misure d’ufficio al
6%, non altissima per quel ricco, quindi poverissimo, paese;
Inflazione/Deflazione
dei prezzi (dal 1914), con andamento medio difforme: deflazione negli
anni
’20, inflazione negli anni ’70, tendenza, forse, alla deflazione
recente;
Debito estero, curva davvero impressionante che, partendo da zero nel
1970,
s’impenna in particolare dal 1995, tocca i 1300 miliardi di dollari
(correnti)
nel 1998 e 1999, cala a 1000 nel 2001, risale a 1200 oggi.
L’IMPERIALISMO NELLA REGIONE MEDIORIENTALE
La guerra appena finita contro l’Iraq, conclusasi
con l’occupazione militare del paese da parte della coalizione
angloamericana,
non è che l’ultimo episodio in ordine di tempo dell’ormai secolare
scontro tra le potenze imperialiste per il controllo di una regione
importante
sia per la posizione geografica sia per le risorse naturali.
La maledizione dell’oro nero ha pesato sul destino
di quelle popolazioni, nel secolo trascorso, come quella dell’oro
giallo
pesò nel XVI secolo sulle civiltà indigene dell’america latina.
Ma la lotta per il petrolio, nonostante il tanto
parlare che si fa sulle fonti energetiche “alternative”, ha aperto
anche
questo secolo, su cui grava la minaccia di un nuovo scontro generale
interimperialistico.
Il nostro lavoro ha ricostruito la storia del Medio Oriente risalendo
alla prima guerra mondiale, ossia al primo scontro generale tra blocchi
di Stati per il controllo del pianeta.
All’inizio del secolo, dalla divisione delle spoglie
del “grande malato”, l’Impero turco, fra le influenze dei grandi Stati
Europei, hanno avuto origine gli attuali Stati della Turchia, del
Libano,
della Siria, della Giordania, della Palestina, dell’Iraq, dell’Arabia
Saudita,
tutti Stati creati “a tavolino” sulla base di trattative diplomatiche
tra
imperialisti che non tennero in alcun conto la distribuzione delle
diverse
popolazioni su quei territori, ponendo le basi, come nei Balcani, per
gli
scontri e le guerre future.
Il secondo scontro mondiale interimperialista diede origine ad un nuovo
cambiamento radicale dei rapporti di forza nell’area che, nel giro di
pochi
anni, passò dal controllo sostanziale degli anglo-francesi a quello
degli Stati Uniti e vide, alla fine della guerra, la nascita dello
Stato
d’Israele.
La seconda metà del secolo ha visto la ripresa
e la ingloriosa fine del movimento nazionalista arabo, che già durante
la prima guerra mondiale aveva dato qualche filo da torcere ai piani
degli
imperialisti.
Gli ultimi decenni infine sono segnati dall’interminabile
conflitto israelo-palestinese, una ferita sanguinante, tenuta aperta
per
imporre ai proletari uno stato di guerra permanente.
Altro fronte è stato quello della guerra
tra Iraq e Iran che negli anni Ottanta dissanguò il giovane
proletariato
dei due paesi in un massacro interminabile favorito dagli Stati
imperialisti,
tutti d’accordo a fiaccare le due emergenti potenze regionali.
L’incancrenita questione nazionale curda è
un’altra arma usata dal capitale per impedire il sorgere della
solidarietà
di classe tra il proletariato turco e il numeroso proletariato curdo
spinto
nel cul di sacco della rivendicazione di un proprio Stato.
Allo stesso scopo sono fomentate le divisioni religiose,
con grosso impiego di quattrini sonanti, per dividere i proletari, per
sviarne la rabbia contro condizioni di vita inaccettabili, per
giustificarne
lo sfruttamento bestiale, per mobilitarli in guerre feroci al servizio
dell’uno o dell’altro schieramento imperialista.
“Né con Bush né con Saddam” hanno
gridato i proletari iracheni in faccia ai soldati americani che la
propaganda
occidentale voleva presentare come “liberatori”. Qualcuno ha compreso
dunque
lo sporco gioco di Washington e dei suoi alleati, convergente in quello
dei Saddam e dei suoi protettori. L’islamismo “terrorista” o “moderato”
è da tutti tenuto sù per ritardare il naturale ed inevitabile
futuro schierarsi di classe del proletariato mediorientale.
ANTIMILITARISMO E MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA
Il rapporto sull’antimilitarismo, proseguendo la
trattazione svolta nel corso della precedente riunione generale, ha
coperto
il periodo che va dalle prime guerre coloniali italiane all’impresa
libica,
preludio della prima carneficina internazionale.
Il Partito Socialista fin dal suo sorgere aveva
dovuto prendere posizione nei confronti del problema militarista, ma la
sua opposizione non sempre era caratterizzata da posizioni di classe.
Il
più delle volte, da parte dei dirigenti socialisti, si vedeva il
militarismo come un residuo della vecchia società feudale, una macchina
repressiva che gravava sulle spalle delle classi lavoratrici, ma anche
un peso economico per la stessa borghesia, che ne ostacolava lo
sviluppo
industriale. Da tali premesse veniva prospettata l’alleanza delle
organizzazioni
operaie con i settori più illuminati della borghesia nella battaglia
contro gli eserciti permanenti e la guerra. Non mancavano però,
nel partito, posizioni di classe, allora rappresentate da Filippo
Turati
che dichiarava che la propaganda per il disarmo portata avanti dai
socialisti
non avrebbe potuto e dovuto avere nulla di comune con quella dei
movimenti
democratici borghesi. Però quale che fosse il prevalere fra le due
posizioni, un problema che il partito socialista mai si pose fu quello
della penetrazione all’interno della struttura dell’esercito attraverso
l’organizzazione dei proletari in divisa; ciò impedì che
esempi gloriosi e spontanei di rivolte proletarie potessero avere una
guida
politica e determinassero un rafforzamento dell’organizzazione del
partito
e della coscienza di classe.
Dopo la disfatta di Adua del 1896, ad esempio, la
rivolta popolare scoppiata da un capo all’altro d’Italia sfiorò
l’insurrezione vera e propria, ma il partito socialista ne restò
del tutto estraneo, incapace di dare al proletariato una qualsiasi
guida
od un semplice indirizzo alle manifestazioni istintive. Le masse
popolari
scendevano nelle strade e confluivano nelle piazze al grido di “Viva
Menelik”
ed “Abbasso Crispi”, mentre il presidente del consiglio veniva bruciato
in effigie scontri con la polizia si susseguivano ovunque ed i prefetti
non trovavano niente di meglio da fare che barricarsi all’interno dei
loro
palazzi presi d’assalto dalla folla. Una descrizione della tensione
sociale
ed allo stesso tempo della incapacità del partito socialista di
prendere la direzione delle masse ci è data da Turati che su Critica
Sociale scriveva: «Non è chi non abbia sentito, per una buona
settimana, un vento schietto di rivoluzione soffiare sul paese:
Basterebbero
gli ammutinamenti nelle caserme non osati punire in quei giorni, e le
diserzioni
a drappelli dei nuovi chiamati, e le proteste nei municipi e le grandi
manifestazioni del popolo fraternizzante coi militi e questi con lui;
basterebbero
questi fatti a dire sulla polarizzazione degli animi (...) non manca se
non chi sappia imprimergli direzione rapida e precisa per vedere
instaurato
un governo provvisorio e repubblicano».
Agli inizi del nuovo secolo, grazie soprattutto
ai sindacalisti rivoluzionari, si diffuse in Italia quella dottrina
antimilitarista
ed antipatriottarda che in Francia veniva predicata da Gustave Hervé.
A seguito di ciò si formarono vari gruppi antimilitaristi con
ispirazione
classista che si adoperavano affinché la caserma divenisse luogo
di proselitismo socialista. Il rivoluzionario non sarebbe più stato
colui che si rifiutava di indossare i panni del soldato, ma colui che
entrava
nella caserma con la ferma risoluzione di comportarsi da soldato del
socialismo.
Ma anche gli antimilitaristi di tendenza rivoluzionaria non erano
esenti
da deviazioni dovute ad aspettative troppo ottimistiche quale quella
che,
dalla premessa che gli eserciti avessero una funzione essenzialmente
antiproletaria
e repressiva, arrivava a sostenere che le guerra fra nazioni
capitalistiche
fosse solo un pretesto per giustificare la corsa al riarmo, perché
l’internazionalizzazione del Capitale (la globalizzazione, diremmo
oggi)
aveva di fatto reso impossibile la guerra fra Stati capitalistici.
Di passaggio è stato fatto cenno anche alle
organizzazioni pacifiste borghesi ed al loro capo carismatico, Ernesto
Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace nel 1907, che nel 1911/12
aderì
con tutto il suo trasporto alla guerra di Libia e, nel 1914/15, con
pari
ardore alla Prima Guerra mondiale.
D’altro canto non da meno furono i dirigenti del
sindacalismo rivoluzionario che, in occasione della guerra italo-turca,
passarono, pressoché al completo, da un millantato antimilitarismo
rivoluzionario ad un altro non meno millantato militarismo
rivoluzionario
fornendo alla borghesia quella giustificazione teorica che essa non ne
avrebbe saputo dare. Nazionalisti e sindacalisti rivoluzionari
scoprirono
di avere sempre avuto unità di intenti. A quell’epoca Mussolini
si trovava saldamente sul terreno rivoluzionario di classe, ma quando
passò
dall’altra parte della barricata la piattaforma teorica del fascismo
gli
era stata già preparata.
Ad un così sbracato tradimento non arrivarono
mai i rappresentanti del vecchio riformismo socialista, tuttavia, forse
in maniera più subdola, tramite la Direzione del PSI, il gruppo
parlamentare e la CGL circoscrissero il movimento di rivolta proletario
in modo tale da renderlo completamente impotente tanto che il
presidente
del consiglio Giolitti poteva informare il re che da parte dei partiti
tradizionalmente avversi alla dinastia ed all’ordinamento sociale
costituito,
il repubblicano ed il socialista, nessuna azione di disturbo sarebbe
stata
arrecata, mentre tutte le loro iniziative sarebbero state volte a
contenere
ed attenuare il malcontento proletario e popolare.
Il rapporto, in polemica con teorici contemporanei
del diritto ed “esperti” del cosidetto “diritto sovietico”, recuperava
alcune testimonianze della normativa emanata dal governo rivoluzionario
comunista in Russia, raffrontata con legislazione del successivo
periodo
staliniano. In questa degenerata fase, che dalla nostra comunista
retrocedeva
politicamente a rivoluzione borghese, venne a formarsi e ad imporsi,
oltre
che un corposo sistema di leggi e di codici, una peculiare “filosofia
del
diritto”, che è propria dello stalinismo non in quanto post-capitalista
ma per gli stessi motivi e determinanti storiche che anche
nell’occidente
hanno prodotto diverse concezioni del diritto, dal quello di impianto
romano
a quello anglosassone, per esembio, benché tutti pienamente e
pacificamente
borghesi.
Ciò non toglie che lo Stato comunista rivoluzionario,
per quanto effimero e destinato ad “estinguersi”, non possa non
bardarsi,
fra l’altro, di un apparato di norme dittatoriali. Queste non
prenderanno,
nè presero nella Russia comunista, una sistemazione perenne, organica
e completa, ma, finché ce ne sarà bisogno a rintuzzare i
controrivoluzionari, assumeranno l’aspetto di provvedimenti dispotici,
di decreti rivoluzionari, che trovano la loro ragione non nella pretesa
di modellare il mondo degli uomini secondo un progetto da imporre loro
con codici e tribunali, ma come provvedimenti di emergenza finalizzati
solo alla difesa della Rivoluizione.
Rispose splendidamente un bolscevico alle rimostranze
di un attonito borghese: nostro scopo non è la Giustizia, il problema
è un altro.
Il rapporto si è articolato nelle seguenti
parti.
1- Breve richiamo storico ove si descrive la spinta
del capitale mercantile del 15° secolo alla ricerca di rotte
commerciali
verso l’0riente, vuoi circumnavigando l’Africa, vuoi per l’Ovest.
2- Gli accordi per la spartizione delle Americhe
tra Spagna e Portogallo, con l’interessata mediazione del papato.
3- Basi economiche: il Brasile per secoli fu una
potenza agroalimentare e di prima trasformazione, basata sul lavoro
degli
schiavi e il grande latifondo. Si formano vaste aree a monocoltura
contando
sulla grande estensione di terre vergini e fertili.
4- Sviluppo demografico: tratta degli schiavi fino
al 1850 e successiva immigrazione europea con la formazione di 3 gruppi
razziali. Descrizione delle attuali cinque macroregioni economiche, con
redditi molto diversi, espressi con tabelle numeriche.
5- La questione agraria, che evidenzia la forbice
tra enormi latifondi, spesso incolti o abbandonati, e i piccolissimi
appezzamenti
individuali, è stata esposta mediante tabelle numeriche. Nascita
del Movimento dei Senza Terra e lotte per le occupazioni-espropriazioni
delle terre incolte.
6- Il piano Proalcol, ripreso dopo un clamoroso
fallimento; ora, dopo gli accordi di Kyoto sul “commercio delle
emissioni”,
il Brasile si lancia in un gigantesco piano di produzione di
combustibile
per autovetture derivato dalla canna da zucchero mediante i
finanziamenti
della Germania che vuole penetrare il mercato indiano e cinese di
questo
tipo di autovetture.
Il lavoro proseguirà con la descrizione del rapido processo
di industrializzazione che ha fatto del Brasile l’ottava potenza
industriale;
la formazione delle organizzazioni di classe e lo scontro fra capitale
e lavoro.
L’INTERMINABILE AGONIA DEL CAPITALE
Abbiamo ritenuto interessante ed utile osservare,
non certo in modo neutrale, l’interminabile agonia del modo di
produzione
capitalistico, che abbiamo preconizzato come inevitabile per quanto
lungo
sia il tempo necessario. Dalla visuale dell’Italiuzza, il paese dalle
mille
risorse, dai mille travestimenti, anello debole d’una catena che
continua
a tenere, ma sempre più slabbrata, stanca, destinata a sgranarsi.
Perché la scelta dell’Italia, visto che è
non certo lo Stato per eccellenza, né la potenza da proporre come
determinante? Innanzi tutto perché non è senza ragione che
in questo paese si è salvata la tradizione della “Sinistra Comunista”,
ed in questo paese si è ristabilito nel 1945 il Partito Comunista
Internazionale, per la prima volta secondo un modulo che definiamo
“organico”,
senza congressi e confronto di frazioni, dittando esclusivamente il
programma
storico. L’altra ragione perché, se è vero che la moderna
rivoluzione industriale ha avuto la sua culla nelle isole britanniche,
è vero che moderne forme di capitalismo nascono in italia dai Comuni
del Medioevo, e culminano nel Rinascimento italiano, allorché teoria
politica dello Stato e mercatura segnarono la svolta che porta alla
modernità,
per ammissione unanime.
Se infatti dovessimo dire a quando data la forma
di produzione capitalistica, come abbiamo fatto, dovremmo distinguere
una
fase “formale” da una “materiale”. Quella che stiamo vivendo e che
consideriamo
ultra matura, o anche putrescente, per il groviglio di contraddizioni
che
la contraddistingue a livello generale, con degradamento non solo della
vita degli uomini, ma dello stesso ambiente naturale, spremuto, ridotto
a sopportare non più tanto una forma di civilizzazione, ma di
manomissione.
Nel corso del lavoro intendiamo individuare le fasi e i tempi che
segnano
l’agonia del capitale, studiato da un angolo visuale di particolare
interesse
conoscitivo.
ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA
Il rapporto è giunto ad illustrare i primi
anni della FIOM, la federazione dei metallurgici, fondata nel 1901. Nei
suoi primi anni ebbe scarso seguito fra gli operai e si dette una
direzione
nettamente riformista, secondo la formula “Il mercato del lavoro al
sindacato,
la gestione della fabbrica all’imprenditore”, tradeunionista ma non
ancora
cogestionaria.
Ma presto, dalla rivendicazione del monopolio della
forza lavoro si passò a rivendicare quello della sua “formazione”
e, infine, alla “responsabilità” del buon andamento della fabbrica.
Il concetto era del sindacato come fornitore collettivo del lavoro, e,
quindi, anche garante di ogni lavoratore e vigilante sul comportamento
di ogni singolo operaio. In questa visione, che potremmo dire
corporativa,
il sindacato si arroga la funzione del collocamento, tutelando prezzo e
qualità del lavoro. Coerente con il rivendicato monopolio del lavoro
sono gli atteggiamenti coercitivi o di discriminazione nei confronti
dei
non organizzati.
Un ulteriore passo è quello da garante del
lavoro a interessato alla disciplina industriale.
L’arrivo della Prima Guerra, mentre il proletariato
veniva mandato al macello nelle trincee, vedeva il sindacato già
attivo nella macchina amministrativa di supervisione della produzione
di
guerra. Buozzi, nuovo segretario della Fiom, nel 1917, segnando un
ulteriore
scivolare nel tradimento, si pronunciava per «un più sano
industrialismo» che «corregga la scarsa coscienza industriale
italiana». La Fiom, ancora contraria ad ogni forma di partecipazione
operaia agli utili, si schierava per la partecipazione a tutte le
commissioni
consultive di Stato e per la cogestione dell’innovazione industriale.
Affermava ancora Buozzi: «Scioperi e serrate
non possono impedire la piena e cordiale collaborazione nel campo
tecnico»
ed auspica «organismi atti a dirimere le inevitabili controversie».
Il cosiddetto “industrialismo operaio” è
all’origine essenzialmente produttivismo puro, che non prefigura alcun
“modello operaio” alternativo di gestione della fabbrica. «Nondimeno
– scrive giustamente il Berta, uno storico del sindacato – sarebbe
arbitrario
negare i nessi di parentela tra il produttivismo sindacale e il
produttivismo
della successiva tradizione ordinovista e gramsciana: l’enfasi sulla
funzione
titanica delle forze produttive nella trasformazione della società,
il richiamo alle inefficienze e ai ritardi dell’imprenditorialità
italiana».
I GIOVANI MARX ED ENGELS, GLI OPERAI, LE LOTTE, I SINDACATI
Infine veniva esposta una sintesi di un più
corposo studio sul primo appoggio dei nostri due grandi maestri,
personalmente
di provenienza intellettuale e borghese, alla condizione degli operai,
allo studio delle loro lotte e delle organizzazioni difensive di cui si
stavano attrezzando. Nella “evoluta”, ma anche incarognita e corrotta,
situazione di oggi, val la pena di rinfrescarsi la memoria sui
fondamenti
della nostra dottrina sulla questione sindacale, come prima scaturì,
e definitiva. La storia “biografica” di Carlo Marx e Federico Engels,
così
intrecciata e spesso coincidente con la storia del nostro partito,
comprova
come essi abbiano sempre considerato il fatto, essenziale e motore
della
storia, della effettiva lotta fra le classi da scientificamente
studiare
come un fenomeno naturale con la sua oggettività, forza, regolarità
e necessità, e come subito abbiano ben impostato la basi della
strategia
comunista nei sindacati, ribadita poi in testi e tesi di congressi, che
disegna il dialettico rapportarsi del moto spontaneo difensivo della
classe
con la coscienza completa ed offensiva del partito comunista.
Nella prima parte del rapporto abbiamo dato un breve
riassunto del lavoro giovanile di Marx dai tempi della sua redazione
alla
Rheinische Zeitung all’esilio a Parigi, solo ricordando il suo sviluppo
intellettuale di transizione dall’hegelismo radicale al materialismo
comunista.
Fin da quei primi studi restano identificati alcuni
principi che rimangono pietre miliari per l’atteggiamento del Partito
nell’avvicinarsi
alle organizzazioni dei lavoratori:
1. Il minimo possibile livello dei salari è
quello necessario alla sopravvivenza del lavoratore come tale ed al più
sufficiente a sostenere la sua famiglia ed impedire che la razza dei
lavoratori
perisca.
2. Offerta e domanda di lavoro, cioè la concorrenza
fra i capitalisti alla ricerca di operai e fra gli operai alla ricerca
di un capitalista, causano delle fluttuazioni intorno a questo livello
medio.
3. L’illusione sindacalista di un forte aumento
nelle paghe si potrebbe socialmente mantenere solo con l’esercizio
permanente
della forza operaia.
4. L’aumento dei salari si risolverebbe solo in
un compenso migliore per degli schiavi, non significherebbe una diversa
né migliore dipendenza del lavoratore dal capitale. L’eguaglianza
delle paghe, rivendicata da Proudhon, solo trasformerebbe l’attuale
rapportarsi
dell’operaio con il suo lavoro nel rapporto di tutti gli uomini con il
lavoro. La società sarebbe concepita come un capitalista in astratto.
Alle indagini di Marx si aggiungerà il grande
contributo di Federico Engels, che si dedicherà anch’esso alla
formulazione
della materiale dialettica del sindacalismo operaio. Ancora nel 1892,
in
una nuova Introduzione al suo studio giovanile “Le Condizioni della
classe
operaia in Inghilterra”, il nostro modestissimo Federico dirà di
considerare il libro «una delle fasi dello sviluppo embrionale del
marxismo», ma, nel precisare la sua visione dei sindacati dopo
l’esperienza
di mezzo secolo, è costretto a tirar fuori quello che aveva scritto
nel 1844: che la lotta sindacale, isolata dalla battaglia contro il
capitalismo,
è condannata al fallimento. Questo punto di vista chiave, ribadito
così insistentemente nel suo vecchio libro, da allora ci serve a
irrevocabile smentita di tutte le sempre rinnovate teorie che cercano
di
mantenere e giustificare la separazione della classe operaia,
organizzata
in sindacati, dal suo partito politico di classe.
Abbiamo riassunto così i più importanti
punti conclusivi nel testo:
1. Senza la pressione concentrata e collettiva dei
lavoratori organizzati in sindacati i capitalisti, per effetto della
concorrenza
fra loro, schiaccerebbero i salari ad un livello minimo;
2. I sindacati hanno un potere effettivo riguardo
ad ambiti temporanei e delimitati e in condizioni ad essi favorevoli
del
mercato del lavoro;
3. I sindacati sono impotenti contro le grandi forze
economiche che influiscono sull’offerta e sulla domanda di lavoro;
4. I sindacati hanno la tendenza a rimanere isolati
all’interno dei rispettivi settori; riescono a concentrarsi solo in
tempi
di generale eccitazione operaia;
5. I sindacati sono la scuola di guerra degli operai
nei quali, senza esserne coscienti, si inquadrano e si preparano per la
grande battaglia che li attende e nella quale verranno a negarsi in
quanto
classe del lavoro salariato;
6. I sindacati saranno ingranaggi indispensabili
nella lotta più generale della classe volta alla conquista dei sui
massimi fini politici, ma ciò comporterà un’accresciuta coscienza
politica che sarà apportata, dal suo esterno, dal partito politico
comunista.
PAGINA 3
ALGERIA,
IERI E OGGI
(continua dal n. 297)
9. LO STALINISMO ALL’ALGERINA OVVERO
LA DITTATURA ANTIPROLETARIA
(1962-’78)
B. 1965-1978: L’ERA BOUMEDIENE
Industrializzazione pesante
- Agricolutra sacrificata - Nazionalizzazioni
La dittatura militare
Capitalismo di Stato ed economia fondata
sulla rendita petrolifera
10. CAPITALISMO A VISO SCOPERTO
Degrado economico e sociale (1978-1988)
PAGINA 4
I sindacati
impongono il contratto ai ferrovieri:
lavorare di più e meno paga ai nuovi assunti
Ad aprile i Confederali, gli autonomi dello SMA e
dell’UGL hanno firmato il contratto del settore ferroviario e quello
“di
confluenza” per gli attuali ferrovieri. Il contratto, estremamente
negativo,
è tristemente simile ad altri precedentemente siglati nelle
telecomunicazioni,
nell’energia e tra i bancari. È anch’esso costruito su un’intelaiatura
che favorisce le imprese esterne, introducendo il doppio regime per gli
attuali occupati, che saranno divisi tra vecchi e nuovi, con salari
base
diversi.
Va pur detto che questo accordo si discosta enormemente
da quello accettato dai sindacati di regime e mai approvato dai
ferrovieri
nel 1999. Quel patto prevedeva, infatti, la polverizzazione delle
ferrovie
italiane sul modello britannico, con l’eliminazione pratica di
qualsiasi
tutela per i lavoratori, vincolati interamente agli interessi ed agli
obiettivi
societari. Questo, invece, è sì un contratto molto penalizzante,
ma che mantiene alcuni picchetti assai importanti; starà alla lotta
futura moltiplicarli e renderli operativi.
L’OrSA, che non ha firmato questo contratto e vi
si oppone fermamente, è uno dei componenti di questo risultato,
assieme naturalmente alle lotte dei ferrovieri negli ultimi anni.
Ciò premesso, enumeriamo, in estrema sintesi,
i punti maggiormente peggiorativi: 1) mancanza di una clausola sociale
che obblighi tutte le ditte che lavoreranno in ferrovia ad
assoggettarsi
allo stesso contratto; 2) differenza notevole che si creerà nel
medio periodo con i nuovi occupati, condizione per un ricatto anche dei
vecchi; 3) aumento salariale sotto la media dei rinnovi contrattuali,
con
un recupero esiguo per il passato: il contratto è scaduto dal 1999
e le competenze accessorie non subivano maggiorazioni dal 1992; 4)
aumento
generalizzato dei carichi di lavoro con particolare riferimento ai
settori
macchina e viaggiante che passano a dieci ore giornaliere di lavoro, 11
ore di riposo tra un servizio e l’altro, sino a 42 ore settimanali per
almeno 14 settimane l’anno; 5) eliminazione dei vincoli chilometrici e
massimi dell’impegno mensile; 6) estrema elasticizzazione a favore
della
società, che potrà stabilire d’autorità turni e periodizzazioni;
7) inasprimento della disciplina; 8) eliminazione della maggiorazione
per
personale di macchina e per il personale di bordo delle ore notturne ed
ad agente unico; 9) obbligo di effettuare almeno due ore di
straordinario,
in caso di necessità, ai treni, arrivando a dodici ore d’impegno.
Come si può notare l’attacco è particolarmente
rivolto alle categorie che gestiscono il treno e la sua circolazione,
proprio
quelle che sono state da sempre in prima fila nella lotta alla
ristrutturazione.
Certamente questo è coerente con la lotta condotta dal padronato,
che cerca la sconfitta di quelle minoranze che da sedici anni tengono
in
scacco tutto il sistema. Ma questa condizione d’attacco aperto impone
anche
una radicalizzazione delle lotte dei ferrovieri, che oggi non possono
più
sperare nei se e nei ma sollevati in questi anni dai confederali. I
macchinisti
ed i capo treno hanno oramai ben compreso che la lotta dovrà farsi
sempre più dura se vorranno non essere completamente schiavizzati
e forse addirittura espulsi dalla produzione.
Infatti questa è una condizione che il contratto
prevede per le eccedenze, ovvero per tutto quel sovraorganico che si
verrà
a determinare alla sua applicazione; eccedenze che non potendo
usufruire
delle condizioni di favore delle leggi sulla mobilità, saranno tutte
a carico della cassa integrazione. Molti ferrovieri non credono a
questa
possibilità, ma nemmeno credevano di dover lavorare giornalmente
dieci ore e senza riscuotere il “sacro” straordinario, per poi
ripartire
dopo solo undici ore, condizione che può prevedere anche tre notti
pesanti ribattute.
L’OrSA, pur con una parte contraria al suo interno,
tra cui noi comunisti, si è limitata a chiedere un referendum fra
i ferrovieri che possa invalidare l’operato dei confederali. Questi
però,
assieme all’azienda, hanno già fatto sapere di non essere per niente
d’accordo a che un sindacato “non firmatario” metta il naso nelle “loro
cose”. Che la scelta poi cada invece su l’astensionismo poco cambia:
resta
il fatto che ancora è mancata la proclamazione di uno sciopero e
di un calendario di lotte. Noi sappiamo benissimo l’uso e l’abuso che
si
è fatto dei referendum solo “abrogativi” d’accordi in passato, che
smorzano la rabbia operaia, per demoralizzarla dinanzi ad un risultato
negativo, frutto della massiccia propaganda, degli inciuci sotterranei,
dei brogli e pure del desiderio di una parte dei lavoratori, consultati
uno per uno, di abbandonare il tempo dell’impegno per intascare un po’
di denaro, sia pur poco ed avvelenato.
Noi comunisti restiamo decisamente contrari a tale
linea di condotta “in negativo”, una china pericolosa per l’OrSA che la
porterebbe a compromessi di vertice e ad una sua crisi interna.
Tuttavia,
ad oggi, l’OrSA si dichiara ancora nettamente contraria al contratto e
disponibile ad una lotta anche di lungo periodo. È ovvio che reazioni
di lotta di fronte a cambiamenti significativi o a disapplicazioni
degli
accordi stessi (come accaduto nel contratto precedente) potrebbero
rimettere
in discussione tutto.
Intanto la Commissione di Garanzia ha già
comunicato che non accetterà nessuna proclamazione di sciopero che
riguardi un contratto già firmato dai sindacati “maggiormente
rappresentativi”.
Prende così ancor più corpo oggi la necessità di riappropriarsi
dello strumento della lotta, lo sciopero, senza dover soggiacere ai
vincoli
imposti dalla controparte. Una condizione al momento di difficile
realizzazione:
ancora oggi sono preponderanti le forme di lotta per loro debolezza
costrette
nelle maglie della legislazione anti-sciopero, dei ricorsi ai giudici
del
lavoro, agli articoli 28, dalle rinunce all’uso dello sciopero in caso
di condanna (anche solo morale) della Commissione.
Di fronte alla prepotenza e l’arroganza dell’attacco
padronale e al tradimento aperto dei sindacati di regime lo sciopero
invece,
senza limiti, dovrà tornare ad essere l’arma fondamentale della
lotta di classe.
In Gran Bretagna la prevista perdita di posti di
lavoro nei servizi postali sta per divenire realtà: si annunciano
più di 30.000 tagli nel prossimo futuro. L’attacco tende a spezzare
una grande concentrazione di lavoratori, così come è avvenuto
nel caso dei portuali e dei telefonici. Ma anche si punta anche a i
tagli
nei servizi sanitari, secondo una logica che prevede l’accesso di
imprese
e di capitali privati.
Se l’introduzione delle regole di “libero mercato”
da un lato può attrarre l’interesse dei capitali, dall’altro il
rischio è di scardinare il servizio. E in effetti sulla questione
delle ristrutturazioni dei servizi postali negli Stati europei è
intervenuta una speciale Commissione comunitaria la quale ha stabilito
il principio che il monopolio statale può essere sussidiato, sebbene
non in quei settori nei quali è possibile la concorrenza di altri
soggetti privati, come ad esempio nel servizio di consegna dei pacchi,
in cui da tempo operano ditte private.
Nel Regno Unito si parla di mantenere a gestione
statale gli uffici principali e lasciare ai privati gli uffici locali,
ma anche di eliminare una buona parte di questi tramite l’uso di carte
magnetiche per i pagamenti e i ritiri da effettuarsi presso le banche.
L’operazione si prospetta su larga scala: 13.000 esuberi vengono
annunciati
nel servizio di consegna pacchi e 17.000 nel servizio postale stesso.
Per aprire la strada vengono inviati funzionari
nelle singole agenzie a spiegare ai lavoratori quanto il sistema
postale
sia in perdita e quanto la ristrutturazione sia necessaria per
riequilibrare
i bilanci. E, non potendo il servizio soffrire troppo dei tagli
previsti,
il peso della ristrutturazione dovrà essere sostenuto dai lavoratori
che resteranno, in termine di orari e in generale di aumento dello
sfruttamento.
Ma essenziale è la concertazione con il sindacato.
Di fronte a queste operazioni l’atteggiamento iniziale del sindacato
dei
lavoratori delle poste (CWU) è stato quello di minacciare la rottura
con il Labour Party, considerato corresponsabile di questi piani. Ma
tale
minaccia è subito rientrata con la dichiarazione che il segretario
generale Billy Hayes si è subito premurato di fare, affermando:
«Non esiste una alternativa pratica al Labour Party».
Il sindacato ha quindi preteso la pubblicazione
dei bilanci 2001/2, laddove si manifesta una perdita di 1,1 Miliardi di
Sterline sotto la voce “Spese per esuberi”, creata a bella posta per
andare
a giustificare il taglio di un terzo della forza lavoro. E di fronte a
ciò, accettando implicitamente una ristrutturazione svolta sulla
pelle dei lavoratori, ha dichiarato: «Pretendiamo che la Compagnia
ci dimostri che la ristrutturazione funzionerà» (ma per chi?).
Il CWU si è detto subito disponibile ad accettare
il blocco delle assunzioni e a “consultare “ i lavoratori alla ricerca
di volontari per le dimissioni incentivate. Tuttavia la lentezza con
cui
si svolgeva questo processo ha spinto la direzione ad un’azione più
incisiva travalicando e mettendo con le spalle al muro i rappresentanti
sindacali che, ben lungi da rispondere mobilitando i lavoratori, si
predispongono
con più solerzia a coadiuvare le mosse della direzione.
Risulta certamente chiaro che questo processo, tuttora
in corso, avrà un epilogo disastroso per i lavoratori se essi non
riusciranno a svincolarsi da questi pseudo-sindacati compromessi col
regime
ed iniziare il percorso di riorganizzazione per la lotta in difesa
delle
proprie condizioni.
La diffusione di malattie infettive tra gli animali
allevati in modo industriale ha resuscitato ancora, tra l’altro, la
nostalgia
per una mitica pastorizia “naturale”, per gli allevamenti al pascolo,
che
garantirebbero al “consumatore” la salubrità dei prodotti trasformati,
latticini e carni. Anche le associazioni dei capitalisti agrari
motivano
con la salvaguardia dei consumatori la richiesta agli Stati che vengano
a difendere la “tipicità” dei prodotti delle varie campagne d’Europa.
Ma l’ideologia piccolo borghese ambientalista non
riesce a nascondere che anche la pastorizia è ormai ovunque organizzata
secondo i criteri del modo di produzione capitalistico, mira al
profitto
ed è condizionata dal mercato. Le ripartizioni delle “quote di
produzione”
decise a livello europeo altro non è che un riflesso della crisi
di sovrapproduzione di merci e nel loro dato quantitativo esprimono il
rapporto di forza fra le varie lobby agricole nazionali.
Al contrario delle speranze degli “ambientalisti”,
in un mercato minato dalla crisi di sovrapproduzione, per gli
allevatori
diventa una fonte di profitto addirittura la malattia dei loro animali,
e specialmente per i più “piccoli”, privi di organizzazione aziendale
efficace capace di ridurre i costi e di accesso alla grande
distribuzione
organizzata. Allora brucellosi, lingua blu, leucosi bovina, afta
epizootica,
influenza aviare, persino la Bse diventano fortunate risorse e non
sciagura.
Infatti i capitalisti della zootecnica sono riusciti
a far approvare direttive comunitarie, leggi nazionali o decreti
ministeriali
che indennizzano i proprietari di capi malati da abbattere. Il decreto
del 1° marzo 2001, ad esempio, prevedeva il rimborso di 662.000 Lire
per capo abbattuto infetto da brucellosi o leucosi bovina e addirittura
l’indennità raddoppia se la carcassa deve essere interamente distrutta.
Di fronte a queste provvidenze, la malattia degli animali diventa un
vero
affare e questo spiega il motivo perché spesso si viene a scoprire
che in certi allevamenti capi infetti vengano tenuti in promiscuità
con i capi sani, senza troppi timori di contagio dell’epidemia.
È fin troppo chiaro che, dopo che il capitale
ha violentato la supposta originaria – e ampiamente mitica e sogno di
poeti
– innocenza del pascolo, la via d’uscita è in avanti e non
all’indietro,
verso impossibili atavismi. La modernità degli allevamenti in stalle
tecnicamente attrezzate a livello industriale, giunge nel capitalismo
ad
alimentare gli erbivori contro natura, ad imbottire i polli di
antibiotici
per farli sopravvivere stretti in batteria. È questo che diffonde
epidemie come la BSE e la SARS. Ma nel piccolo capitalismo questi
difetti
non sono minori e forse è lì che sono da cercare i peggiori
untori. E il ricorso al controllo e all’intervento degli Stati,
evidentemente,
in regime capitalistico, fa peggio che meglio.