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Berlusconeide
Ogni giorno si fa più accesa e violenta la guerra di parole tra il premier e i partiti di centro sinistra e magistratura. I media amplificano questo scontro a tal misura da dare al popolo elettore l’impressione di trovarsi di fronte a svolte storiche di carattere vitale: il pericolo di una aggressione comunista alle istituzioni orchestrata da magistratura e partiti di sinistra, o l’imminenza di un colpo di Stato fascista che l’attuale Esecutivo si appresterebbe a compiere. L’apparenza dello scontro è di dimensioni così ampie che in molti si sono preoccupati a cosa questa attitudine, questo modo di far politica possa condurre, e addirittura hanno prospettato lo sfascio generale delle istituzioni, se non verrà imposto un freno.
Angelo Panebianco, ad esempio, quasi un anno fa, il 30 gennaio, scriveva sul Corriere della Sera: «’Stato di diritto’ e ‘Democrazia rappresentativa’ sono formule che evocano due miti entrambi necessari alla convivenza politica. Dico miti, perché in senso proprio, lo ‘Stato di diritto’, se mai è esistito, è in disarmo da tempo, e la ‘Democrazia rappresentativa’, a voler essere realisti, è poco più di un sistema di oligarchie in competizione. Ma sono miti comunque necessari, ed è imperativo, per la stabilità di un sistema occidentale, che non si determini una delegittimazione radicale, incrociata, dei sacerdoti addetti alla custodia dei due miti».
Panebianco parla chiaro affermando che ‘Stato di diritto’ e ‘Democrazia rappresentativa’ sono soltanto dei miti, mentre il sistema democratico rappresenta semplicemente un sistema di oligarchie in competizione tra loro. Solo non dice, per non svelare l’imbroglio, che al riparo di questa mitologia torreggia lo Stato, che non è altro che il comitato di affari del Capitale, tutto e solo. Al contrario lancia un allarme al regime per metterlo in guardia del pericolo che correrebbe qualora l’inganno venisse scoperto: nessuno Stato può reggersi se non poggia sul consenso di vaste aree sociali e per ottenere ciò ha bisogno di crearsi una religione laica, con i suoi santi ed i suoi sacerdoti che inoculino il loro oppio al popolo e soprattutto al proletariato.
Il problema che il nostro ‘politologo’ pone è semplicemente quello che il proletariato continui a credere a quei miti, in nome dei quali da più di mezzo secolo è in stato di ebbrezza: se crollano i miti può risvegliarsi il gigante. Questo è il grido di allarme. E quindi ammonisce: «Se i paladini dello ‘Stato di diritto’ (i magistrati) ed i paladini della ‘Democrazia rappresentativa’ (i politici che governano in virtù di un voto di maggioranza) ingaggiano tra loro un conflitto mortale, il rischio è che alla fine niente si salvi, che si sgretolino tutte le regole su cui si fonda tutta la convivenza nei sistemi detti di democrazia liberale. Tenuto conto del pericolo mortale che corriamo è lecito chiedere a Berlusconi e ai suoi oppositori di mantenere almeno la calma e di moderare in po’ i toni?».
Sfortunatamente il pericolo prospettato dal politologo non esiste affatto. Quella che a prima vista può sembrare una guerra senza regole e senza quartiere ha sortito sì l’effetto di infondere nuovamente nella popolazione delusa un interesse politico, malato ed effimero. Ma, a seconda degli schieramenti – tutti borghesi – in cui l’elettorato è diviso, si opta per l’una o per l’altra delle alternative prospettate dai grandi sacerdoti dello Stato: il mito non è morto, è vivo più che mai.
Gli scontri (verbali) che si ripetono ogni giorno tra il capo del governo italiano ed i suoi avversari e lo strepito che sollevano, senza esclusione di colpi “mediatici”, tutt’al più possono evidenziare la concorrenza alla pastura del sottogoverno tra le coalizioni di partiti, ma niente di più. Quando si consideri la politica in generale, che è solo lotta tra le classi, possiamo affermare che le “libere” esternazioni di Berlusconi servono solo a dare ossigeno e a salvare dall’asfissia i partiti dell’opposizione che, al grido “ha bestemmiato!”, mettono il proletariato di fronte a questa alternativa: o governo della malavita, con tanto di pericolo di ricaduta in un regime di tipo fascista, oppure fedeltà cieca, pronta, totale alle istituzioni democratiche. Chi non si schiera, senza condizioni, dalla parte della Giustizia borghese e della sua Magistratura, chi non sta dalla parte della Democrazia borghese ed i suoi Istituti e, di conseguenza, chi rifiuta le regole dell’assoggettamento al mito della collaborazione di classe è un berlusconiano, un fascista camuffato.
Chi di più si fa promotore ed eroe della crociata per la salvezza dei sacri miti democratici? Sono i pidiessini, sono i cossuttiani, sono i bertinottiani. Sono quelli che Berlusconi definisce “comunisti”: la peggiore specie di imbroglioni, politicamente parlando, dai quali il neofita di Arcore non ha che da imparare. Sono quelli, ex stalinisti, pentiti o non, che arrivano all’assurdo che il proletariato dovrebbe difendere in prima persona le istituzioni del potere capitalista, minacciate dal... capitalismo.
Il fatto è che i partiti di centro-sinistra non rappresentano una opposizione
sociale al governo in carica, nemmeno della piccola borghesia, ma semplicemente
un personale governativo attualmente in attesa di chiamata. Non attaccano
il governo per il suo programma e per la sua politica “antipopolare”,
la loro opposizione si limita alle manifestazioni di sdegno nei confronti
delle dichiarazioni del Cavaliere. Così le risse montecitorie, le inchieste,
i processi con tutto il polverone scatenato, ed amplificato a dismisura
dai mezzi di disinformazione, ad altro non servono se non a coprire gli
attacchi che il capitalismo (che non è proprietà di Berlusconi) sferra
giorno dopo giorno ai danni di un proletariato impotente e confuso.
Democrazia violata?
Da parte nostra è del tutto naturale che ci teniamo fuori da questa giostra corsa dai paladini dell’ordine democratico in difesa dei sacri miti borghesi. Anzi, se venissero abbattuti e distrutti, non piangeremmo per la loro sorte, non ci attiveremmo per il loro ripristino, ma apprenderemmo con favore l’evento, anche se si fosse verificato ad opera dei nostri nemici.
In questo senso, cioè nel demolire uno dei maggiori articoli di fede democratici, è il recente intervento dell’on. Scalfaro, alla Festa dell’Unità, e di cui, pertanto, noi siamo grati all’ex Capo dello Stato. Lo Scalfaro, alla presenza di un Fassino visibilmente contrariato per l’impostazione di sinistra data all’intervento, quasi a conclusione del suo discorso, lucido ed argomentato, se ne è uscito con la seguente affermazione: «Anche Mussolini andò al potere in modo corretto (...) Sul piano costituzionale la marcia su Roma non è esistita: Mussolini andò al potere nel rispetto dello Statuto Albertino». Continuando, ha poi ricordato come la fiducia a Mussolini venne tolta, ancora una volta, in modo democratico, dal più alto organo del fascismo: il Gran Consiglio.
Le grida scandalizzate della “destra” per il paragone tra Berlusconi e Mussolini e le prese di posizione della “sinistra” a favore dell’ex Presidente della Repubblica non significano che coloro che maggiormente hanno subito il colpo non siano stati proprio i partiti che tradizionalmente si rifanno alla mitologia resistenzial-democratica. Chi ha visto la faccia di Fassino lo può capire. Scalfaro il baciapile, che nel corso della sua vita è stato magistrato, partigiano, membro della Costituente, Ministro agli Interni, Presidente della Repubblica, durante un intervento alla Festa dell’Unità se ne esce con l’affermazione, a dir poco... bordighista, che il fascismo è andato al potere legalmente, democraticamente, “in modo corretto”.
La Democrazia non venne violentata dal Fascismo, gli si concesse voluttuosa. Di fronte al pericolo di una minaccia rivoluzionaria passò pacificamente e legalmente le consegne a Mussolini perché rimettesse ordine all’interno della vita sociale, perché, con le buone o con le cattive, restaurasse la pacifica convivenza di classe turbata dal proletariato e dalla sua organizzazione politica rivoluzionaria, il PCd’I sezione della Terza Internazionale, nato a Livorno l’anno precedente.
Allo stesso modo il fascismo, di fronte alla disfatta militare, prontamente abdicò a favore della democrazia nel tentativo di salvare il salvabile. Possiamo riconoscere che l’espediente diede i suoi buoni risultati, in particolare a seguito del cambiamento di fronte, che il fascismo non avrebbe potuto operare, che significò il salvataggio della classe borghese e delle gerarchie economiche e politiche responsabili e complici della dittatura fascista. Ed il cambiamento, indolore per il capitale nazionale, avvenne senza curarsi minimamente che tale salvataggio di classe avrebbe duplicato il calvario del popolo lavoratore italiano, sia che si trovasse sui fronti di guerra sia alla produzione. Ma ciò non importò e non importa alla borghesia ed alla democrazia, tant’è vero che il Presidente Ciampi, commemorando oggi l’8 settembre 1943, può tranquillamente affermare che «l’8 settembre non fu la morte della patria, perché allora la patria si rigenerò».
Ben detto, Presidente, punto di riferimento dei partiti di “sinistra”
e di quanti aspirano alla difesa dell’ordinamento democratico costituzionale.
Ma ciò, per chi sa leggere i fatti storici, significa che fra fascismo
e democrazia non vi fu antitesi storica e politica e «gli antifascisti
di oggi, sotto la maschera della sterile ed impotente negazione, sono del
fascismo i continuatori e gli eredi e prendono atto passivamente di quanto
il periodo fascista ha determinato e mutato nell’ambiente sociale italiano»
(“Prometeo”, 2 agosto 1946).
Guerre “democratiche”
Di infamie nazionali come l’italico “8 settembre” le cronache di questo dopoguerra ne riportano parecchie, con conseguente giravolta verso la “liberatrice” e “fraterna” potenza imperiale, venuta da Est o da Ovest (anche se è difficile uguagliare in bestialità e vile cinismo la borghesia nostrana).
L’ultima è la guerra “liberatoria” all’Iraq, manco a dirlo combattuta per la Democrazia.
Questa sta dando i primi risultati per gli Stati Uniti. Il numero dei soldati morti ammazzati da quando è stata pomposamente proclamata la “fine della guerra” supera ormai di gran lunga, secondo alcune fonti (CNN), quello dei morti durante gli scontri per l’occupazione del paese; i costi di mantenimento dell’armata di circa 150.000 uomini e quelli previsti per la ricostruzione e soprattutto per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi, fanno tremare i tesorieri di Washington e salire alle stelle il debito estero statunitense (si parla di 480 miliardi di dollari). Sull’altro piatto della bilancia, quello che interessa al Capitale e ai suoi fantaccini in doppiopetto, crescono i profitti per le società coinvolte nell’enorme affare. Miliardi di dollari affluiscono nei forzieri del complesso militare-industriale statunitense, facendo segnare quella “ripresina” su cui sbavano i capitalisti.
«La torta da spartire cresce con la devastazione, un assurdo che dà la misura della tragedia in corso», commenta sconsolato il “Manifesto” del 29 agosto. Ma non si tratta di un “assurdo”, il capitalismo, nella sua fase imperialista di crisi e ripiegamento, si alimenta solo dalle distruzioni della guerra e le trasforma in profitto.
Con l’occupazione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq gli Stati Uniti hanno guadagnato posizioni strategiche importanti nel confronto economico, e in futuro militare, con gli avversari dei prossimi decenni, l’Europa, la Russia, la Cina. La guerra, il confronto armato tra Paesi imperialisti torna ad imporsi come problema fondamentale per il proletariato a scala mondiale. L’attacco alle condizioni di vita della classe operaia si va inasprendo in tutti i paesi, tutti gli Stati più industrializzati, indipendentemente dal colore dei loro governi, smantellano il cosiddetto “stato sociale” e aumentano le spese militari, spesso camuffandole sotto altre voci di bilancio.
Questo ritorno alla “centralità della guerra” non annuncia, come temono Ingrao e compagni, «la fine della fase democratica del capitalismo, iniziata nel ‘45», una “fase” di cui i veri comunisti rivoluzionari non si sono mai accorti, al contrario conferma la natura dittatoriale del regime capitalistico, quella sì uscita vittoriosa dai massacri della Seconda Guerra, come dimostra la storia mondiale dell’ultimo mezzo secolo.
Oggi questi nodi tornano al pettine mentre l’opportunismo socialdemocratico continua ad associare i concetti di Democrazia e di Pace.
Il comunismo di sinistra aveva già compreso allo scoppio della Prima Guerra mondiale, quasi un secolo fa, che lo scontro era imperialista e non fra un fronte progressista e democratico ed uno autocratico e militarista. La Prima Guerra fu infatti fermata, prima di quanto era stato previsto dai piani dei militaristi di entrambi gli schieramenti, non dai “democratici”, tutti e ovunque interventisti, ma dalla vittoria bolscevica in Russia dell’ottobre del 1917 e dai fermenti rivoluzionari comunisti, anti-democratici e anti-socialdemocratici, che seguirono in Italia e in Germania.
La vittoria nei primi anni venti della reazione borghese in Italia e in Germania, col conseguente isolamento del debole potere proletario in Russia, pose le basi per il prevalere della controrivoluzione stalinista. La crisi economica internazionale del 1929 e la conseguente spinta verso la guerra da parte dei maggiori Stati industrializzati, trovò così ancora una volta il proletariato privo di una rete di partito a livello internazionale, di nuovo vittima della falsa opposizione borghese al fascismo e al nazismo.
Il 10 ottobre del ‘38, “Dopo la pace imperialista di Monaco”,
alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra imperialista, imposta al
proletariato peggio della Prima, Leone Trotski, recuperando la sua statura
di comunista rivoluzionario, lanciò il suo monito ai pochi ancora in grado
di ascoltarlo: «Solo gli idioti possono pensare che gli antagonismi
imperialisti mondiali siano determinati da una contrapposizione inconciliabile
tra democrazia e fascismo. Di fatto, le cricche dirigenti di tutti i paesi
considerano la democrazia, la dittatura militare, il fascismo ecc. come
strumenti e metodi diversi per subordinare i loro popoli ai fini imperialistici».
E l’indomani dell’invasione della Polonia, il 2 settembre 1939, ancora
scrive: «Le macchinazioni dei diplomatici che fanno i giocolieri con
la formula della democrazia contro il fascismo, come i sofismi sulla responsabilità
non possono far dimenticare che la lotta contrappone schiavisti imperialisti
dei vari campi per una nuova divisione del mondo. Per i fini e per i metodi
la guerra attuale è un diretto prolungamento della Grande Guerra con un
deterioramento assai più profondo dell’economia capitalista e con metodi
di distruzione e di sterminio ben più terribili».
Nel corso del 2002 in Botswana, e precisamente nella Central Kalahari Game Reserve, si sono verificati numerosi “sfratti forzati” ad opera degli ufficiali governativi i quali hanno anche distrutto pozzi d’acqua, proibito la caccia e la raccolta e svuotato le scorte d’acqua dei Boscimani, gli abitanti più antichi dell’Africa meridionale in cui vivono da almeno 20.000 anni. La loro dimora è la vasta distesa del deserto del Kalahari: grazie alla loro grande abilità sono riusciti a sopravviverci per millenni. Circa 1500 anni fa le terre dei Boscimani vennero invase dalle tribù dei pastori Bantu a cui si sono aggiunti, nei secoli scorsi, i colonizzatori bianchi. Questi hanno ridotto gradualmente i Boscimani da milioni che erano a soli circa 100.000, e forse anche molto meno, secondo altre fonti, vista la difficoltà di censimento.
Quella dei Boscimani è un’organizzazione sociale di tipo primitivo, su base tribale, che si fonda su bande di 50/100 componenti, indipendenti ed autonome l’una dall’altra. Traggono il sostentamento dalla caccia e dalla raccolta, senza praticare né agricoltura né allevamento e sono necessariamente nomadi. Ogni banda rispetta i confini del proprio territorio di caccia. I Boscimani si trovano in quello che Engels chiamava stadio selvaggio superiore, che comincia quando, con l’invenzione dell’arco e della freccia, la selvaggina diviene alimento regolare.
Il sistema di produzione attuale, “selvaggio” certo ma ben lontano dalla citata definizione del compagno Engels, non ha certo “tempo” di occuparsi di questa “razza” vinta, e di altre sparse per il mondo, se non in casi in cui sono di intralcio alla possibilità di profitti per le borghesie nazionali e internazionali.
Vediamo perché i Boscimani sono tornati alla ribalta. Da una parte per le campagne delle associazioni cosiddette “non governative”, che, per nascondere le loro reali funzioni “governative” cripto-consolari di corruzione, spionaggio e intromissione, usano gridare alla violazione dei “diritti umani”. Dall’altra per il fatto che alcuni dei restanti Boscimani hanno la sfortuna di vivere nelle località di Xade e Gope dove sono stati rinvenuti importanti giacimenti di diamanti. La cosa interessa alla compagnia chiamata Debswana (De Beers + Botswana), una società, di proprietà del governo per un 50% e della De Beers per il restante 50%, che da sola produce circa il 30% del PIL nazionale.
Ai vampiri borghesi in vista di futuri profitti poco interessa se in quelle zone ci vive qualcuno da migliaia di anni: «se solo questo è il problema gli daremo una nuova dimora, daremo loro una possibilità di sviluppo alla loro arretratezza, di godere delle ricchezze del paese». Queste parole sono sempre le stesse quando si tratta di questioni del genere, come si è visto per gli indios quando si trovò il petrolio nelle loro terre.
Sono problemi oggettivi di storia e di sviluppo delicatissimi ed estremamente complessi, di fronte a gruppi umani riproducentesi in forme di grande equilibrio al loro interno e nell’ambiente proprio, ma di irreparabile instabilità e fragilità, materiale e morale, quando posti in contatto con l’esterno. Il Capitale, che riduce ogni complessità e sensibilità ad un solo numero, il Saggio del Profitto, unico “segno” con cui “giudica e manda” l’umanità intera, non può che intervenire con la terra bruciata.
Le “razze” vinte, cioè quelle che non hanno pienamente espresso le classi moderne e non sono riuscite a darsi una nazione con la necessaria comparsa dello Stato politico borghese, territoriale e militare, vivono nella duplice minaccia per la loro esistenza: da una parte la loro incapacità di dominare appieno la natura, dall’altra il capitalismo sterminatore.
Alle varie associazioni che si battono per la difesa della “cultura” delle varie “etnie” rispondiamo che per il marxismo la “cultura” altro non è che la struttura economica di una determinata società. Quella dei Boscimani è irrimediabilmente superata dalla storia. Solo una società “razionale” basata sulla soddisfazione delle reali esigenze della specie umana (fra le quali quella di diamanti andrebbe molto indietro!) riuscirebbe ad integrare con diminuiti traumi queste residue tribù e nel contempo a non perderne e ad assimilarne la “memoria”.
Insomma, paradossalmente, solo alla De Beers, alla lotta dei lavoratori
delle aziende di estrazione dei diamanti, uniti nella lotta ai salariati
del Botswana ed ai proletari di tutto il mondo sono appese le speranze
delle “razze in estinzione”, come è quella dei Boscimani e... quella
di tutti, perché tutta la razza umana, come dolorosa la conosciamo oggi,
è “in estinzione”.
PAGINA 2
Lettera dagli U.S.A.
FALSA SICUREZZA
Il 4 di Luglio i “sinistri” sono scesi nelle strade di Filadelfia per protestare contro l’occupazione dell’Iraq e per lamentare la violazione alla sacra Costituzione degli Stati Uniti da parte del governo. O piuttosto, da parte degli interessi di classe che pure a quella Costituzione dettero vita.
La moderna tendenza al fascismo e all’imperialismo non è che la conclusione del processo che, dalle prime rivoluzioni borghesi, è stato inesorabilmente imposto dall’economia capitalista, una economia che ha sempre richiesto che lo Stato borghese intervenisse con la forza della coercizione, mentre il profitto cresce ed i punti di crisi e di lotta di classe si moltiplicano. In realtà proprio la Costituzione degli Stati Uniti, tanto celebrata per un suo mitologico contenuto egualitario, fu redatta anche allo scopo di centralizzare l’esercito del capitale per schiacciare le ribellioni contro il suo dominio, del tipo della “Rivolta di Shay” del 1786-1787, ben nota ma di cui poco si parla. Ora che la corpulenta oscena mole del capitale lascia cadere le sue ultime vesti democratiche, noi marxisti dobbiamo solo dire che gli imbrogli della banda di Bush (come sarebbero quelli di qualsiasi altra amministrazione, perché non è certo consegnato a pochi uomini il reale comando a Washington) sono del tutto conformi allo spirito, se non alla lettera, del Documento stilato dai “Padri Fondatori”.
Mentre l’economia affonda nella crisi, si insiste nella moderna soluzione:
aumento dell’intervento statale. Se la colpa di tutti i guai è caduta
sulla testa di una manciata di disinvolti dirigenti di corporations,
se gli scandali della Enron e della WorldCom sono additati a nuove vette
di criminalità finanziaria (fra la quale l’eroico Bush è ben compromesso),
ciò serve a metter in ombra il ciclo generale dei grandi profitti cui
seguono le crisi devastanti, che portano alla guerra e ad ulteriori profitti
e ad ulteriori crisi, un ciclo del quale il capitale è prigioniero, indipendentemente
dalla gretta “etica” di suoi singoli funzionari.
L’Iraq e il dopo-Iraq
Oggi gli eserciti del regime borghese devono correre il mondo se il capitalismo ha da sopravvivere. L’Iraq era il candidato naturale a secondo obbiettivo nella cosiddetta Guerra al Terrorismo, l’ultima figurazione dell’espansionismo imperialista che è tanto ipocrita quanto indefinita.
Con la guerra torna fuori un’altra parola: Liberazione! Un liberazione dalla canna dei fucili, lunga tradizione del moderno cinismo borghese. Perfino i filantropi di professione, risvegliati dagli strepiti dei convegni alle Nazione Unite, chinano il capo di fronte a tanto nobile fine. Per quanto ridicola sia la retorica del fantoccio Bush e del suo sotto-fantoccio Blair, la macchina della propaganda è tanto ben oliata e forzata al massimo da spingere, sembra, la maggioranza del reparto americano della classe operaia ad appoggiare gli intenti della Coalizione.
Cionondimeno monta una crescente insofferenza a che soldati della Coalizione, per lo più americani, siano uccisi ogni giorno da quando le “maggiori operazioni di combattimento” sono state dichiarate chiuse dal regime statunitense.
Benché non vi sia la coscrizione obbligatoria, il servizio militare non è così del tutto volontario come si vanta. Il reclutamento nell’esercito degli Stati Uniti si fa con metodi che lo fanno chiamare “la Leva dei poveri”, la gioventù proletaria è spinta nell’esercito con la promessa del pagamento degli studi o almeno di una paga un po’ migliore di qualsiasi altro impiego per loro accessibile. Per molti è la sola possibilità di lavoro. Una delle maggiori aree di reclutamento è il territorio di Porto Rico, dove il reddito pro capite è meno della metà di quello del Mississippi, lo Stato più povero dell’Unione. Inoltre le campagne di reclutamento militare sono prevalentemente orientate verso le comunità composte di classe operaia di colore. Alcuni sapientoni esibiti dai media hanno rilevato la slealtà della cosa, pontificando che la leva dovrebbe essere organizzata per reclutare da tutte le classi della società!
Esistono delle iniziative, come “GI Rights Hotline”, il “telefono grigioverde”, tradurremmo, per “i diritti del soldato”, il cui scopo è aiutare le reclute che vogliono venirsene via. Si segnalano sporadiche azioni di resistenza di singoli soldati, ma ad oggi non vi è alcuna azione collettiva. Lo scontento però cresce nei reparti, specialmente dopo l’annuncio dell’esercito che i soldati saranno trattenuti più a lungo in Iraq a seguito degli aumentati attacchi cui sono oggetto.
Alla vigilia della guerra in Iraq, la parola d’ordine comune del sinistrume americano era “Ispezioni, Non Guerra!”, confermando l’alleanza di fatto del fronte anti-guerra con l’imperialismo. Gli opportunisti, se si oppongono all’imperialismo americano, mantengono una opposizione leale nei confronti dell’insieme del capitale globale, questa volta mettendosi con i governi di Francia, Germania, Russia ed altri, e soprattutto con l’ONU, quello spregevole intrigo di Stati imperialisti, dove quei mostri vanno a coprirsi con una maschera umana. La “sinistra” americana, con la benedizione di celebrità di Hollywood e popstar, si è affannata a proclamare che anch’essa è patriottica, che sta facendo solo quello che crede il meglio per la sua grande nazione! Essa rappresenta gli interessi di una minoranza della borghesia e della piccola borghesia americana, che assiste con apprensione alla progressiva dissoluzione della vecchia alleanza del “mondo libero” nella guerra fredda.
A guerra ora finita (o così dicono), non resta loro molto da fare se non accusare Bush e far gran scandalo delle false informazioni di intelligence con le quali la guerra è stata ufficialmente giustificata. “Se solo avessimo un presidente più responsabile!” Così questi presunti dissidenti, sempre pronti a sfoggiare i loro “eroici” atteggiamenti contro la tirannia statale, sono pienamente integrati all’interno del sistema e il prossimo anno aiuteranno a riempire le urne elettorali.
Nel frattempo il governo Usa si è nuovamente impegnato nel cosiddetto processo di pace in Palestina. Ma questo impegno potrebbe divenire del tutto nominale se Israele cessasse di essere il bastione centrale degli USA in Medio oriente.
Forse più significativi sono i tentativi recenti in Africa. Bush ha corso il continente con un riscoperto, e conveniente, umanitarismo. A parte i cattivi presentimenti sull’Iraq, quale rispettabile campione dei “diritti umani” e della “libertà”, dai teneri ideali da benefattore liberal, potrebbe negare che un intervento armato in Liberia sia una giusta causa? Come con le precedenti lacrime di coccodrillo su Auschwitz, Bush ha condannato il peccato della schiavitù commesso dai suoi predecessori, come un assassino che va a confessarsi, non per chiedere l’assoluzione da un passato omicidio, ma per ottenere il permesso a commetterne un altro.
È ovvio, per chi ha anche un minimo di familiarità con la recente storia americana, perché il regime USA ha messo i suoi occhi sull’Africa, quando precedentemente aveva ignorato i conflitti che hanno devastato i paesi del continente per anni. Un chiaro motivo è la necessità di petrolio, del quale alcuni paesi africani sono ricchi: di fatto gli USA già traggono il 18% del petrolio dalla Nigeria, l’Angola e il Gabon, con grandi investimenti riversati nella Guinea Equatoriale al fine di espandere la sua abbondante produzione di petrolio nel prossimo futuro.
Più in generale, però, il capitale americano ha bisogno di nuovi mercati di fronte ad una Unione Europea che si va consolidando e che minaccia di diventare un maggiore rivale imperialista degli USA e dei suoi alleati. Le maledizioni di Bush contro la UE in maggio per la sua chiusura alle biotecnologie e la richiesta del governo americano alla WTO di intervenire sono emblematici di una crescente animosità fra le potenze. Così, come gli esponenti della UE invocano i potenzialmente dannosi effetti del biotec a ragione della loro opposizione, così Bush solleva le carestie africane per invocare la necessità di coltivazioni geneticamente modificate. Alla fine entrambe queste ragioni sono motivi di propaganda per la battaglia commerciale che si profila.
Presto l’esercito USA attuerà il suo intervento in Liberia, con il pretesto di metter fine alle violenze ed imporre un altro piano di liberazione. La Liberia potrebbe servire come utile testa di ponte per l’influenza imperialista americana, mentre promette di servirsi di ulteriori nobili cause, le carestie o la crisi dell’AIDS, come mezzi per estendere i suoi tentacoli nel continente.
Se facciamo queste osservazioni, sia chiaro che noi comunisti non siamo certo indifferenti ai conflitti e ai disastri che periodicamente flagellano il mondo. Né manchiamo di solidarietà nei confronti delle vittime di questi eventi. Però, le imponenti forze armate oggi schierate da parte dei grandi Stati borghesi del mondo sono esclusivamente per la protezione e per l’espansione del capitale. Il capitalismo, nel dar corso ai suoi piani, interviene con la polizia dei suoi Stati in quelle lande devastate, proclamando il suo umanitarismo. Se allevia temporaneamente alcuni problemi, prima di tutto è il capitale stesso, con le sue inevitabili crisi e conflitti, che alimenta questi orrori, che continueranno finché il proletariato rivoluzionario non scaglierà il colpo a morte su questo sistema mostruoso.
Oggi noi possiamo solo osservare la tragica ironia del regime USA, lo stesso che mette su regimi apertamente assassini in tutto il mondo (come quello della Guinea Equatoriale, giusto nel continente africano), che ha aggravato la crisi dell’AIDS in Africa col proibire la produzione di medicine generiche contro l’AIDS, e che pretende di essere umanitario solo quando c’è un profitto da tirarci fuori.
Noi, naturalmente, non ci aspettiamo, né chiediamo che si comporti
diversamente. Solo con la violenta eliminazione dello Stato borghese possiamo
mettere fine alle atrocità inseparabili dalla sua esistenza.
Lotte operaie
Nell’ottobre 2002 il regime rispose alla vertenza degli scaricatori della costa occidentale con la Legge Taft-Hartley, chiamata da alcuni Legge per la Schiavitù del Lavoro, la quale, fra l’altro, proibisce gli scioperi generali, gli scioperi bianchi e il “boicottaggio secondario” (quando un sindacato impone all’azienda di non mantenere rapporti commerciali con un’altra, in solidarietà con la lotta dei dipendenti di questa), lascia i padroni senza alcun obbligo di trattare con i sindacati e consente al presidente di intervenire nelle contese di lavoro giudicate minacce all’interesse nazionale. L’invocazione di questa legge è sia un segno della crisi economica sia un ricordo a tutti i lavoratori americani quali interessi serve lo Stato della borghesia, fino al punto della forza dittatoriale se necessario.
I portuali alla fine hanno ottenuto un nuovo contratto ma i motivi per una decisa azione di sciopero rimangono.
Gli attacchi contro i lavoratori continuano nelle compagnie aeree in difficoltà, che minacciano licenziamenti per bancarotta se i loro sindacati operai non accettano enormi riduzioni ai salari. Ma il risultato è stato che, benché i sindacati abbiano “cooperato”, i licenziamenti sono venuti lo stesso. La US Airways ha usato la guerra in Iraq, proprio come aveva usato gli attacchi dell’11 Settembre, come una scusa per imporre peggioramenti di paga ai suoi lavoratori e più di 3.000 licenziamenti. La American Airlines ha imposto ai sindacati degli assistenti di volo e dei piloti un accordo simile che consente 3.000 licenziamenti e sostanziali tagli salariali, mentre allo stesso tempo i dirigenti della compagnia ricevevano degli aumenti. Dopo mesi di trattative i sindacati hanno ceduto e all’inizio di luglio sono cominciati i licenziamenti.
I burocrati del sindacato IAM, (Associazione Internazionale dei Meccanici), che organizza i tecnici e gli addetti alla movimentazione dei bagagli della US Airways e della United Airlines, sono scaduti nella fiducia degli operai per stare dalla parte dei padroni. In un caso la IAM ha firmato un accordo con la United Airlines di Indianapolis per consentire la chiusura del suo centro di manutenzione locale, nonostante un contratto sindacale lo escludesse. Come risultato i tecnici in giugno hanno votato per interrompere, dopo 58 anni, la loro adesione allo IAM per aderire allo AMFA (Associazione Fraterna dei Tecnici Aeronautici), un relativamente piccolo sindacato esterno alla AFL-CIO con una reputazione di maggiore combattività. I vantaggi dello AMFA sono la pubblicità delle trattative, il controllo esercitato dalla base sui funzionari e il fatto di aver già ottenuto per i tecnici della Northwest Airlines il miglior contratto di quella categoria d’industria.
Ma più che altro i lavoratori dell’industria aeronautica stanno rendendosi conto che la crisi economica e la rovina delle aziende sono conseguenze del presente sistema sociale e rifiutano il ragionamento dei padroni secondo il quale causa della miseria operaia sarebbe proprio il loro resistere allo sfruttamento.
Un notevole movimento sindacale indipendente che è sorto in anni recenti è la “Coalizione dei Lavoratori di Immokalee”. Il CIW unisce lavoratori agricoli nello Stato della Florida, che sono in gran parte haitiani, latinoamericani, indigeni immigrati dal centro-america, che ricevono misere paghe per un lavoro estenuante. Il CIW si è fatto conoscere recentemente per la sua campagna contro la catena di fast-food Taco Bell che si rifornisce di pomodori da una società di Immokalee, in Florida. Questa paga i suoi lavoratori 40 centesimi per ogni secchio di 32 libbre (14,5 Kg) che riempiono. Con questa tariffa dovrebbero raccogliere due tonnellate di pomodori al giorno per guadagnare 50 dollari! La scusa della Taco Bell: la responsabilità è del fornitore, non nostra! e continua a rifornirsi da aziende che trattano i lavoratori come bestie. Il CIW ha lanciato allora una campagna per l’aumento della paga ai raccoglitori di pomodori di un centesimo a libbra, ricorrendo sia a fermate del lavoro sia ad un boicottaggio nazionale. Benché la vittoria definitiva del CIW sia ancora da venire, si sono avute dimostrazioni di appoggio ai raccoglitori di pomodori della Florida in tutto il paese e in sei università gli studenti hanno imposto la chiusura dei ristoranti della Taco Bell. Ma più importante è che si sia suscitata una estesa conoscenza della vicenda e che molti lavoratori agricoli abbiano iniziato ad esprimere solidarietà alla lotta del CIW.
In generale i proletari sono di fronte ad una spietata offensiva borghese in tutte le categorie, con violazioni, favorite dal governo, sui trattamenti sanitari e sulle pensioni e con un generale aumento dell’orario lavorativo settimanale. Nel frattempo dieci milioni di lavoratori sono disoccupati e la cifra sta salendo.
La direzione della AFL-CIO, la confederazione-ombrello che copre la grande maggioranza dei sindacati americani, si limita ad incolpare Bush per la crisi economica e ad appoggiare i democratici, piuttosto che incoraggiare un movimento sindacale deciso in grado di ottenere dei risultati per il proletariato. Però la AFL-CIO, sempre covo dei sindacati del regime, non accetta alcuni sindacati in formazione, come il Sindacato dei Dipendenti di Alberghi e Ristoranti (HERE), che energicamente sta organizzando migliaia di lavoratori e capeggiando la crescente tendenza di molti sindacati ad organizzarsi al di fuori del Consiglio Nazionale delle Relazioni di Lavoro (NLRB). Questo impone una moratoria temporale di legge per le trattative prima che si possano tenere le elezioni per lo sciopero, il che dà agli imprenditori tutto il tempo per intimidire o liberarsi di quei lavoratori che sono favorevoli al sindacato e di ammannire sui lavoratori la propaganda anti-sindacale. La crescente insofferenza nei confronti del NLRB e il volgersi a metodi di lotta extralegali è un passo positivo sulla strada verso il movimento sindacale rosso. Il problema è che organizzarsi con successo al di fuori del NLRB richiede che i lavoratori abbiano altre risorse con le quali lottare, come un forte appoggio dai lavoratori delle categorie affini e dalla locale comunità operaia.
I pochi esempi qui riportati di lotte sindacali sono certo inadeguati
e non esaustivi, ed intendono solo dare un’idea degli sviluppi in quello
che è il più massiccio bastione che il capitale mondiale abbia mai avuto.
Il corrente periodo di recessione vede un intenso attacco anche alla classe
operaia in America, al quale sta tentando di reagire ed opporsi. Le illusioni
di sicurezza e benessere, che per lungo tempo hanno tenuto buoni i lavoratori
degli Stati Uniti, si sono già per la maggioranza di loro infrante, quando
la crisi capitalistica rivela la ineliminabile precarietà della condizione
proletaria, così come la sua unica via di uscita: la rivoluzione comunista.
Leggiamo di una curiosa intervista rilasciata dal leader di Rifondazione Comunista, “compagno” Fausto Bertinotti, a Paul Bompard, corrispondente di “The Times Higer Education Supplement”. Al falso “incredulo” giornalista, finita l’intervista, il nostro sembrava un ragionevole socialdemocratico, ed anche un po’ confuso.
Chi ha letto qualche riga della nostra stampa conoscerà la nostra posizione sul PCI, trasformatosi in PDS, poi DS, e sulla nascita di Rifondazione Comunista, tutti partiti traditori e nemici nonché rinnegatori della causa comunista.
Leggiamo alcuni istruttivi stralci dell’intervista: «Alcuni miei amici inglesi di sinistra considerano il “New Labour” di Blair un cinico tradimento della tradizione socialista britannica. Dunque mi chiedono spesso di Rifondazione Comunista e di Bertinotti. Pensano che chi ha abbandonato il Pci-Pds-Ds debba essere un marxista “duro e puro” e sono molto colpiti dalle immagini televisive di grandi cortei pieni di bandiere rosse, con falce e martello e ritratti di Che Guevara [Cosa c’entra quest’ultimo con il comunismo? domandiamo noi] Insomma, dato che il vecchio Labour Party (quello che nazionalizzava e “toglieva ai ricchi per dare ai poveri”) non c’è più e che il British Communist Party è da anni ridotto a gruppetti di anziani nostalgici che si incontrano per una tazza di tè, sono invidiosissimi dell’Italia, che ha un “vero” partito comunista. Un partito con seggi in parlamento e con il peso per fare, o disfare, coalizioni di governo».
Dopo questa premessa parte la prima domanda al Fausto: «Rifondazione Comunista si definisce marxista e comunista, due termini con precise connotazioni politiche, economiche, storiche e sociali. Ora, per capire qual’è l’anima di Rifondazione le chiedo: se alle elezioni il suo partito ottenesse il 70 per cento dei seggi di Camera e Senato e formasse un proprio governo, che farebbe? Abolirebbe la proprietà privata? Nazionalizzerebbe Fiat, Pirelli, Mediaset, Telecom e Autostrade? Oppure solo Telecom e Autostrade? Insomma, cosa farebbe Rifondazione al governo?».
«Un programma, tutto sommato, moderatamente socialdemocratico – commenta la volpe inglese – fa pensare all’Iri voluto da Mussolini, o ai costosissimi salvataggi industriali degli anni settanta. Un programma economico da democristiani o da democratici americani, ma meno “di sinistra” di quello dell’”old labour” inglese... Sono rimasto un po’ perplesso. Ma come: è questo il Bertinotti definito dai suoi oppositori un “veterocomunista”, un pericoloso estremista...»
Ogni marxista, degno di essere chiamato tale, sa che il passaggio alla società comunista avverrà solamente dopo l’abbattimento violento del dominio borghese e la successiva dittatura proletaria. Questa la condizione politica che permetterà le successive riforme economiche che accompagneranno all’estinzione delle classi, del salario (anche quello degli operai della Fiat!), delle pensioni, dei redditi, della merce. L’istituto della proprietà privata dei mezzi di produzione non cambierà titolare, dalle società per azioni allo Stato, secondo il modello socialdemocratico-fascista-stalinista, ma, abolita subito per decreto, perderà ogni significato nella misura in cui si andrà consolidando il piano unico produttivo mondiale, negatore di ogni confine nazionale e aziendale.
Un lungo cammino ci separa da quella meta. Ma il primo passo verso di
essa la compirà la rinascita della lotta di classe quando sbarazzerà
la via della rivoluzione dai troppi Bertinotti, puntelli della controrivoluzione.
10. CAPITALISMO A VISO SCOPERTO
Le vittorie elettorali del FIS e dell’islamismo
PAGINA 4
La “Riforma
del Lavoro”
Legale
Con la “riforma Biagi” il padronato italiano sferra un nuovo colpo al gigante operaio in letargo. Ogni contratto modificato o di nuova nascita è un beneficio alle esigenze organizzative e di flessibilità delle aziende. Ai lavoratori questi mutamenti vengono presentati come opportunità per chi deve entrare o rientrare nel cosiddetto mondo del lavoro, quando altro non sono che passi avanti verso una totale precarietà.
Da settembre i “collaboratori coordinati e continuativi” saranno sostituiti dal “lavoro a progetto”. Riportiamo una tabella presa dal Sole 24 Ore che ci permette di capire quanti erano e come erano divisi i Co.Co.Co iscritti alla gestione Inps nel 2002.
Come possiamo notare la borghesia italiana nell’arco di un decennio ha portato questo tipo di contratto a ben 2,5 milioni di unità, circa l’11% del totale degli occupati.Età, anni Totale Femmine meno di 20 11.059 52% 20-24 146.483 62% 25-29 368.819 59% 30-39 781.809 52% 40-49 508.784 44% 50-59 371.244 35% oltre 60 249.228 24% Totale 2.437.426 46%
Il nuovo contratto di Apprendistato potrà essere: a) istruttivo
e informativo in cui il giovane deve avere tra 15 e i 18 anni, durata
del contratto 3 anni; b) professionale età compresa tra i 18 e
i 29 anni durata da un minimo di 2 ad un massimo di 6 anni; c) specializzazione
durante i quali i giovani tra i 18 e i 29 anni potranno ottenere un diploma
o seguire percorsi di alta formazione. Si può ricorrere a questo tipo
di contratto per lavoratori dai 18 ai 29 (32 se disoccupati di lunga durata),
oppure sopra i 50 senza lavoro da 2 anni, infine i portatori di handicap
gravi. Per le donne non vi saranno limiti quando il tasso di occupazione
femminile è inferiore al 20% di quello maschile o quando il tasso di disoccupazione
supera del 10% quello maschile.
O illegale
In tempo di “difesa dei diritti”, è importante dimostrare come i “diritti”, anche più elementari e già difesi dalla legge, vengono calpestati dal padronato. Si tratta sempre e soltanto di rapporti di forza.
Riproduciamo qui da un Rapporto dell’Ispettorato del lavoro, del 14 gennaio 03.
«Più della metà delle aziende italiane, precisamente il 55 per cento, utilizza il lavoro nero e altre forme di lavoro irregolare, minorile compreso. A rivelarlo è il Rapporto 2002 sulle attività dei carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro. Su 21.431 imprese controllate (industriali, commerciali e agricole), in ben 11.859 si sono registrate irregolarità. “L’estensione del lavoro non dichiarato - ha detto Giovanni Scialdone, comandante dei carabinieri dell’Ispettorato – soprattutto nelle piccole e medie imprese, appare pervasivo, dilagante, radicato in tutto il paese. Tanto che le forme di impiego irregolari possono essere assimilate a un elemento strutturale dell’economia italiana”. Il lavoro nero, spiega il Rapporto, è presente sia al nord sia al sud. Nel settentrione si manifesta “in maniera polimorfa, assumendo facciate solo apparentemente regolari” o forme di lavoro subordinato ‘contrabbandato’ per autonomo; a volte si tratta di doppio lavoro, lavori saltuari, fuori busta occultati da lavoratori regolari, fittizi contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Nel mezzogiorno, invece, il fenomeno assume modalità di lavoro a carattere continuativo; si va quindi dai lavoratori mai registrati e magari occupati in aziende fantasma coinvolgendo lavoratori giovani e adulti (...)
I militari hanno anche scoperto 1.457 minori occupati illecitamente, per la maggior parte nel commercio e nell’artigianato, in lavori non consentiti o avviati al lavoro senza le visite mediche preventive e periodiche, o impiegati in orario notturno, senza riposo settimanale o pausa pasto ed altro. Sono stati denunciati per questo 874 datori di lavoro, a volte i genitori.
Importante anche lo sfruttamento dei lavoratori extracomunitari:
su 12.350 trovati al lavoro, il 26,5% (3.726) è risultato irregolare,
il 19,4% (2.396) clandestino (...) Alta anche la percentuale riguardo i
collaboratori familiari: su 706 lavoratori trovati nel corso di 715 ispezioni,
439 (il 62,7%) è risultato in nero; di questi, 212 erano clandestini e
124 irregolari (...) I carabinieri hanno inoltre scoperto il nuovo fenomeno
del ‘lavoro interinale irregolare’, ossia quello delle cooperative
fittizie che in realtà svolgono funzioni di mediazione lavorativa, ma
senza averne né l’autorizzazione né le garanzie. I carabinieri nel
rapporto le chiamano ‘cooperative in nero’; offrono manodopera a prezzi
‘stracciati’, e sono difficili da controllare per l’alta volatilità
delle loro strutture: nascono, sfruttano e muoiono “in pochi mesi, tanto
da rappresentare – si legge – un rudimentale quanto formidabile strumento
di ‘flessibilità’”».
Nella calura pre ferragostana, in una Piazza Affari quasi deserta con gli operatori forse pensierosi a spiagge, aperitivi in barca e serate al “pianobar”, spiccava l’aumento nel listino dei titoli FIAT dell’1,96%, assai significativo visto il periodo. Non risulta infatti che i nuovi modelli, la rinnovata Lancia Y e la nuova Panda, abbiano distrutto la concorrenza e provocato la fila fuori dagli autosaloni del gruppo.
Assai più semplicemente, i signori di Piazza Affari nutrono grandi speranze nel quasi certo arrivo di Martin Leach alla guida di FIAT AUTO, al posto di Giancarlo Boschetti, attuale amministratore delegato. Al momento si tratta solo di possibili voci ma il 46enne inglese, dimissionario di FORD EUROPE, non potrà fare miracoli a Torino come non li ha fatti a Colonia, sede europea della FORD, dove invece ha lasciato 774 milioni di dollari di passivo nel primo semestre dell’anno corrente contro i 286 milioni del primo semestre 2002. È assai curiosa, quindi, l’euforia di borsa.
Intanto i lavoratori passano le ferie con scarsa serenità: il piano Morchio, assai preciso nei tagli, lo è assai meno nel progettare una strategia. Per i lavoratori cambia poco se il padronato si chiamerà FIAT o GM.
L’auto è un settore industriale stramaturo, come del resto, sosteniamo
da tempo, tutto il capitalismo. È una crisi irreversibile che “pacificamente”
non si risolverà di certo. Anche per i lavoratori di quel settore non
si apre altra prospettiva che tendere alla loro totale solidarietà nella
lotta di classe, senza divisioni tra operai di società e fabbriche diverse,
come invece spinge la mancanza di organizzazione e la politica borghese
del sindacalismo di regime. Solo la lotta incondizionata di tutta la classe
lavoratrice contro il padronato e le sue istituzioni la salverà dall’affondare
insieme alla marcia galera del Capitale.
Esistono ovviamente temi prioritari nella lotta per causa comunista ed altri nettamente secondari, che fanno da contorno. Tuttavia, potendo, avremmo da dire la nostra su ogni argomento, anche il più frivolo e mondanamente “sovrastrutturale”. Dedichiamo dunque qualche preziosa riga del nostro organo mensile allo “scandalo estivo” che, purtroppo, appassiona milioni di proletari italiani: il campionato di calcio.
L’attività fisica è necessaria per ogni organismo vivente. Lo stesso può dirsi dei giochi, calcio compreso, per stimolare l’attività, ugualmente fisica, della mente. Anche nella futura società comunista ci si dedicherà ai giochi, e muscolari e mentali. L’umanità, liberata dal bisogno, costruirà la sua vita, sanamente intesa, come un gioco. Ma qui dobbiamo lasciare agli uomini che nasceranno decidere come, dove, quando e con chi e qui, ahimé, veniamo all’attualità.
In tutto il Mondo il calcio è utilizzato dalla borghesia, da un lato, come ottimo diversivo alla lotta di classe, un Circo, materiale o tele-virtuale, in cui rinchiudere rincoglioniti milioni di salariati. Dall’altro come fonte di profitto. Diritti televisivi, pubblicitari, bisca dello Stato, merci di qualsiasi sorta, abbonamenti e biglietti delle partite sono un settore “industriale” di tutto rispetto. Le sole 18 squadre di serie A nel 2002, secondo dati riportati dal Sole 24 Ore, hanno chiuso i conti con un fatturato globale di 10063,4 milioni di euro. Il capitalismo, con le sue leggi, tende a mercificare qualsiasi cosa, e lo sport, ed in Italia soprattutto il calcio, non possono sfuggirgli. Ne consegue che chi comanda è, come sempre, il dio Denaro e le decisioni vengono prese in quell’unica direzione. I fatti di questi giorni, false fidejussioni, decreti, sentenze, minacce di fallimento ecc. ne sono la dimostrazione alla quale anche gli irriducibili puristi dello sport si dovranno arrendere. La crisi economica comanda, e dietro alla squadre incombono, e tremano, le grandi banche. Lo Stato, alla fine, per salvare il circo, dovrà “rilevare il fallimento”, assumersi gli ammanchi e cercare di scaricarli in qualche modo su quei disgraziati di proletari. Calcio di Stato.
Ecco che in questo gran polverone si confonderanno questioni ben più
importanti, come la “riforma” delle pensioni. Proletari, è su questi
vostri temi che si “gioca” la prossima partita!
Stati Uniti - Black-out
50 milioni di cittadini americani sono stati tenuti 29 ore senza luce,
con danno economico inimmaginabile, a causa delle condizioni “da Terzo
Mondo” della rete di trasporto dell’elettricità. È proprio vero –
altro che “terrorismo internazionale”! – anche per la borghesia “il
nemico è nel proprio paese”.
Spagna - CCOO contro i lavoratori
Da istituzione statale quale è, il sindacato di regime spagnolo CCOO non ha esitato a chiamare i poliziotti antisommossa per far cacciare lavoratori dai suoi locali. È successo a Madrid nello scorso mese di febbraio quando i lavoratori dell’impresa Sintel si erano riuniti in assemblea nella sede madrilena delle CCOO per dibattere sulla non attuazione degli accordi dell’agosto 2001, e per proporre finalmente delle vaste mobilitazioni al fine di difendere il loro sostentamento. Cautela nel condannare la guerra imperialista, fermezza nell’ordinare la repressione degi operai, così funzionano i moderni sindacati verticali della democrazia.
Che gli operai della Sintel non abbiano dimenticato questa carognata
lo dimostra la loro rumorosa presenza nella manifestazione del Primo Maggio
a Madrid, dove il segretario delle CCOO, Fidalgo, fu prima fischiato per
poi ricevere sulla testa il palo di uno striscione, a ricordo dei fatti
di febbraio. La solidarietà al gran bonzo sindacale di tutto l’apparato
statale, parlamento, stampa, ecc, fu unanime, tanto da obbligare il lavoratore
della Sintel che aveva messo in atto tale azione sanitaria a chiedere pubblicamente
perdono. Non sia mai che serva da esempio.
Israele - Guerra infinita
Quasi tutti i giorni l’esercito di Israele offre al mondo le prodezze della sua originale battaglia “contro i terroristi”, che invece è contro la popolazione palestinese, il che è tutt’altra cosa. Nello scorso mese di marzo, oltre al quasi rituale assassinio di lavoratori palestinesi, un’escavatore dell’esercito di Israele ha schiacciato intenzionalmente la pacifista americana di 23 anni Rachel Corey. La ragazza si era messa davanti alla macchina per impedire la demolizione di un appartamento palestinese. A nulla è servito il suo coraggioso gesto, né l’essere cittadina dello Stato padrone di Israele, né, presumibilmente, la sua razza ebraica e la sua religione. Il che è istruttivo della natura di classe, e non nazionale o di “tribù”, anche di quel conflitto.
Nemmeno oggi, dopo la fine della guerra in Iraq, i lavoratori palestinesi
vedranno risolta la loro miserabile condizione, essendo solo una moneta
di scambio nelle transazioni inter-imperialiste. Il loro sfruttamento economico
e la infinita repressione cui sono oggetto, tanto da parte di Israele quanto
della propria “Autorità”, continueranno finché il loro alleato naturale,
il proletariato internazionale non assesterà il colpo definitivo al mostro
capitalista.
Iugoslavia - “L’amico dell’Europa”
Che la U.E. abbia appoggiato la nomina di Djindjic a primo ministro
serbo è una chiara dimostrazione della debolezza attuale della politica
estera di questo blocco imperialista. Oscillando fra il nazionalismo espansionista
di Milosevic e il democratismo di corte occidentale, Djindjic e il settore
della borghesia serba che rappresenta sembrano aver scelto la strada della
integrazione nella U.E. Il suo assassinio conferma che questo cammino non
sarà facile dato che non è gradito alla Russia, e soprattutto agli Stati
Uniti, interessati a mantenere un focolaio di permanente instabilità nei
Balcani, nel cuore della vecchia Europa.
Brasile - Labile demagogia
Che il “fenomeno Lula” non fosse altro che populismo e demagogia
socialdemocratica già si sapeva: mancavano solo i fatti per convincere
i lavoratori che l’hanno votato. Questi non hanno tardato ad arrivare
quando Lula ha eletto a suo vicepresidente José Alencar, capitalista del
settore tessile. Da lì l’appoggio che quel governo ha ricevuto dal padronato,
dalla chiesa cattolica e da quelle protestanti. Non può dirsi lo stesso
dei lavoratori che, disillusi dalle promesse non soddisfatte, hanno cominciato
con gli scioperi, come alla fine del mese di marzo nel settore metallurgico
di San Paolo. Proprio la culla del “compagno” sindacalista-operaista
Lula.
Bolivia - La rivolta
Con i salari fra i più bassi di tutto il continente sudamericano e
le pretese sempre più impellenti del FMI, la polveriera boliviana è esplosa
nello scorso mese di febbraio. Le ripercussioni della crisi economica sono
tali che perfino i corpi della repressione borghese si sono ammutinati
per mancanza delle paghe. Con un 90% della popolazione nella miseria più
assoluta non tarderà a ripetersi questo tipo di rivolta, che dovrà trasformarsi,
prima o poi, in lotta contro il sistema capitalista e le sue istituzioni.
Portogallo - “Casi isolati”
Questo è uno degli argomenti favoriti degli apologeti del capitalismo ogni volta il suo modus operandi non dimostra che siamo davanti al “migliore” dei mondi possibili. Stavolta il materiale critico ci viene fornito da quel filone inesauribile che è il settore alimentare. Risulta che in Portogallo (ma succede lo stesso altrove) ci si sia fatti prendere la mano nel somministrare nitrofurani negli allevamenti avicoli. Queste sostanze, altamente cancerogene, si utilizzano per accelerare l’ingrassamento degli animali. Della dimensione del fatto fanno fede le dichiarazioni del ministro portoghese Sevinate Pinto: «La crisi è molto peggiore di quanto chiunque possa immaginare». Ma il carattere niente affatto “isolato” del fatto lo dimostra le analisi fatte fare in Belgio da parte di una associazione di consumatori portoghese. I risultati dimostrano che la gran parte (16 su 20) dei campioni analizzati conteneva questi nitrofurani, che inoltre si utilizzano nella fabbricazione di mangimi comositi per ogni tipo di animali, pesci compresi.