|
|||||
|
|
Gli attuali movimenti No-Global e pacifisti sono una involuzione reazionaria delle sette utopistiche. Sono espressione delle angosce di una parte della borghesia che vorrebbe portar rimedio ai mali della società per assicurarle l’esistenza, con artifici che tendono a mettere in ombra la lotta di classe. Non sono portatori di alcun elemento del contenuto degli antichi utopisti, il che è tanto più grave in un momento storico nel quale lo sviluppo industriale ha da tempo portato a termine il suo ascendente sviluppo, quella socialità del lavoro, che al tempo degli utopisti era solo in embrione.
Il socialismo e il comunismo critico-utopistico, i sistemi di Saint-Simon, di Fourier, di Owen appaiono nella prima e poco sviluppata età della lotta fra proletariato e borghesia, non scorgono dalla parte del proletariato nessuna funzione storica autonoma, nessun movimento politico che gli sia proprio. Siccome gli antagonismi di classe si sviluppano di pari passo con lo sviluppo dell’industria, gli autori di questi sistemi non individuano neppure le condizioni materiali che rendono possibile e matura l’emancipazione del proletariato e vanno in cerca, per surrogarle, di una nuova morale sociale e auspicano delle leggi razionali. Al posto del graduale reale organizzarsi del proletariato come classe, fantasticano di un’organizzazione della società escogitata di sana pianta. Essi respingono quindi ogni azione politica, e specialmente ogni azione rivoluzionaria, pretendono di raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici, con il metodo dimostrativo sperimentale.
Ma questo primo utopismo, a differenza del tardo e degenere attuale, è portatore anche di elementi critici. Essi attaccano tutte le basi della società esistente. Benché le loro affermazioni positive sopra la società futura � per esempio l’abolizione del contrasto fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, del lavoro salariato, l’annuncio dell’armonia sociale, la trasformazione dello Stato in una semplice amministrazione della produzione, che essi conoscono appena nella sua prima indeterminatezza rudimentale � abbiano ancora un senso puramente utopistico.
È inevitabile quindi che, anche se gli autori di questi sistemi
erano per molti aspetti rivoluzionari, i loro scolari siano scaduti sempre
in misere sette reazionarie: essi tengono fermo ai vecchi errori dei maestri,
in opposizione al progressivo sviluppo storico del proletariato, materiale
ed ideale. Si riducono conseguentemente alla funzione di smussare la lotta
di classe e di conciliare i contrasti.
OLTRE LA LIBERA CONCORRENZA
Sintomatico della incapacità dei No-global a decifrare il mondo è il loro confuso giudizio del liberismo. Da oltre un secolo la libera concorrenza ha lasciato il posto ai monopoli che si sono contesi i mercati e le fonti di materie prime con due guerre mondiali ed infinite guerre locali.
Nessuno di costoro, pacifisti ecc., prende in considerazione che l’attività umana, in questo rapporto storico e sociale, in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato e senza un limite, scatena inevitabilmente violenza e guerre. E l’attualità conferma che l’imperialismo porta le guerre come le nubi portano la tempesta.
Il capitale italiano quando si faceva reggere dal partito unico fascista, si espresse sinceramente nei riguardi della Società delle Nazioni, allora con sede a Ginevra, con le parole di Mussolini: «Con Ginevra, Senza Ginevra, Contro Ginevra». Gli Stati Uniti oggi, con la tanta decantata democrazia, si muovono, per determinazione storica, sulle orme del fascismo: «Con l’ONU, Senza l’ONU, Contro l’ONU». Noi comunisti chiamammo società a delinquere quella di Ginevra, come poi abbiamo chiamato l’ONU, e ci guardiamo bene dal confidare nelle sue “Ispezioni”.
Di tutto il petrolio consumato nel mondo, gli Stati Uniti ne consumano un quarto. È capitale costante, che va a denominatore, grava sopra e fa cadere il tasso di profitto. I concorrenti degli USA, Germania, Francia e Russia, si erano inseriti in Iraq con forti prestiti. Con l’occupazione della regione la Francia vede volatizzarsi la bella cifra di 8 miliardi di dollari, la Russia 8,5, oltre a tutte le ulteriori conseguenze economiche per la perdita di quel mercato. Saddam Hussein è solo una maschera per coprire la lotta interimperialista.
La guerra all’Irak è l’inizio della terza guerra mondiale per la ridivisione dei mercati e il possesso della materie prime. Francia e Germania prospettano già un esercito europeo per contrastare l’onnipotente army americana. Solo una terza guerra mondiale, con massime distruzioni, può ridare ossigeno al sistema del profitto, al sistema capitalistico. È questa la più importante vittoria di tutti i contendenti.
Il socialismo proletario nel suo programma supera la nazione, non la organizza in forme nuove; prende atto che la stessa forma capitalista sviluppata tende a superarla. Per tutto il campo europeo il marxismo chiude la fase delle rivoluzioni borghesi al 1870. È lo stadio di sviluppo sociale che a noi marxisti interessa. Perciò alla data 1914 le guerre sono imperialiste e reazionarie, quando anche il piccolo partito socialista serbo si levò contro la guerra. Dal 1871 al 1917 vantiamo una sola vittoria, in Russia. La III Internazionale proclama la lotta di classe nelle metropoli e insurrezioni nazionalpopolari nelle colonie con la Russia rivoluzionaria al centro, in una unica strategia mondiale che si fermi solo al rovesciamento ovunque del potere capitalistico.
Ma il rosso presidio del Kremlino osò autosciogliersi. Il piano strategico proletario fu messo in soffitta. Restò ovunque un solo piano, quello capitalistico. L’Oriente feudale, solo, doveva ancora percorrere lo sviluppo borghese, al quale il proletariato d’Occidente non può rifiutare il proprio temporaneo appoggio contro la comune forza nemica.
Ma la tattica della Internazionale comunista era di smascherare l’ipocrisia
della democrazia borghese. Questa ipocrisia che copre la realtà
della oppressione sociale nel mondo borghese tra padrone ed operaio e la
realtà della oppressione di grandi e pochi Stati imperiali sulle
colonie e semicolonie, e por fine alle illusioni nazionali della piccola
borghesia sotto il regime capitalistico. Perciò stipulava un’alleanza
non coi movimenti democratici borghesi ma coi movimenti nazionalisti rivoluzionari.
È oggi l’ipocrisia democratica borghese che serve alla propaganda
dei “liberatori” in Iraq.
PETROLIO E MONOPOLIO
Il monopolio delle ricchezze della terra, fra cui il petrolio, è monopolio di classe. Questo non viene intaccato dall’esito delle guerre e dal regime di proprietà: soprattutto il Medio Oriente mai potrebbe sottrarsi con la nazionalizzazione del petrolio alla interdipendenza dei rapporti di classe alla scala mondiale. Fin da Marx sappiamo che il regime borghese non è affatto incompatibile con la nazionalizzazione del suolo, delle acque, del sottosuolo e che la statizzazione delle imprese non comporta la fine del capitalismo.
Nemmeno la guerra con l’Iraq, e domani forse all’Iran, nulla muterà al vincolo al profitto e all’extraprofitto capitalista dell’industria petrolifera, né apporterà alcun miglioramento per i lavoratori del petrolio o per i poveri contadini. L’altissima disoccupazione nel ricco Iran lo dimostra. Le condizioni delle masse povere si migliorano solo con la lotta internazionale contro i centri di potere delle metropoli imperiali, cui si possono strappare le concessioni solo distruggendo quel monopolio sul suolo che si mantiene in Iran e in Iraq perché è ben saldo nelle contee inglesi e nelle pianure americane, il cui complesso forma il potere politico capitalistico. Non già bloccando in compartimenti stagni l’intreccio grandeggiante della organizzazione mondiale del lavoro, all’opposto dei No-Global, della babele pacifista e dell’ipocrisia democratica borghese.
Una lotta internazionale, della quale solo la teoria marxista ci addita
lo svolgimento, come fu per la III Internazionale, fino al superamento
della nazione, che per il capitalismo è solo ormai strumento di
conquiste, oppressione, stermini e sfruttamento.
Il referendum sull’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si è concluso, come era previsto, con una sconfitta per l’esiguità della percentuale di votanti.
Sono andati a votare, e cioè si sono espressi per il “Si”, soprattutto i lavoratori dipendenti, privati e pubblici, delle grandi e delle piccole aziende che hanno un contratto collettivo di lavoro e che condividono il richiamo cigiellino e dei sindacati di base per “l’estensione dei diritti”, che siano “uguali per tutti”. Questi sentono ogni giorno di più che i loro “diritti maturati” stanno sciogliendosi come neve al sole, che le “garanzie” conquistate negli anni e nei decenni passati garantiscono ogni giorno di meno. Sono gli stessi lavoratori che, ormai un anno fa, riempirono le piazze al richiamo della CGIL e del suo “grande leader” Cofferati. Di quelle piazze adesso non resta nemmeno il ricordo; del “leader”, poi, pare sia a fare campagna elettorale per diventare sindaco di Bologna, “la grassa”!
Ma se si contano i voti, dieci milioni circa, si vede che non solo non hanno votato, e giustamente, i borghesi grandi e piccoli (bottegai, ecc.), ma anche tra i lavoratori solo uno su due è andato a votare. E gli altri? Non crediamo siano stati convinti dai “ragionamenti” del Berlusca, di Rutelli o di Fassino. Il punto è che i giovani lavoratori, quelli assunti con i nuovi contratti a termine, i famosi co.co.co, quelli che lavorano al nero, che costituiscono una parte rilevante della forza lavoro (forse il 30%), non sono andati a votare perché non sanno nemmeno cosa siano le “garanzie” e i “diritti”. Per loro esiste solo una cosa: la necessità di vendere la loro forza lavoro per campare e i patti, oggi, li stabilisce solo il padrone.
Oggi esiste una frattura profonda all’interno del movimento operaio, una frattura che è anche fra generazioni. Da una parte i “vecchi”, che hanno contratti a tempo indeterminato, guadagnano mediamente di più, possono ancora sperare di andare in pensione, ecc. Dall’altra parte i “giovani” che hanno quasi sempre contratti a termine, salari più bassi, ben poche garanzie.
È questa la sfida che attende la classe operaia in tutti i paesi dell’ex-Primo Mondo: ricomporre tutte le sue componenti in una vera organizzazione sindacale di classe.
Per decenni la borghesia ha scelto la strada della “concertazione”, cioè della collaborazione di classe di cui i sindacati confederali erano cofautori e garanti; in cambio la classe lavoratrice godeva di certi diritti e garanzie, “privilegi” rispetto a lavoratori di altri paesi. Quella fase è finita. Il Terzo Mondo è divenuto il Primo Mondo ed è il capitalismo “ottocentesco”, quello vero, originario, “puro”, che inevitabile ci attende. Le illusioni del riformismo secondinternazionalista, dell’ottimismo volontarista del fascismo e dello stalinismo, del progressismo democratico-partecipativo e post-coloniale del secondo novecento sono ormai ridotte in cenere. La crisi economica costringe i borghesi alla folle corsa alla riduzione dei costi, ogni pur minima garanzia e diritto è solo un costo in più e va ridotto, tagliato, annullato. I nuovi assunti, che premono numerosi e del tutto abbandonati dai sindacati di regime, ripartono da zero: nessun diritto, nessuna garanzia. È insomma finita la fase della collaborazione, si apre quella dello scontro di classe.
Ma allora, se le cose stanno così, è stata una vera carognata illudere i lavoratori che si potesse risolvere una questione come quella dell’estensione dell’articolo 18 alle piccole industrie con un semplice e indolore referendum, senza un’ora di sciopero, senza una seria e vasta mobilitazione.
Quando venne inopinatamente fuori questa storia del referendum non fummo solo noi comunisti a denunciare che si affidasse la soluzione di una questione che riguardava i soli lavoratori al giudizio di tutti gli elettori, che in buona parte non sono proletari e, in gran parte, neppure lavoratori, né fummo solo noi comunisti a metter in rilievo che i rapporti tra le classi non sono regolati dal “diritto” ma da rapporti di forza e che dunque i “diritti” dei lavoratori non si difendono con le consultazioni elettorali ma lavorando per mobilitarne ed organizzarne le forze di classe.
Queste considerazioni risultarono minoritarie anche all’interno delle organizzazioni sindacali “di base”, i cui dirigenti decisero di partecipare alla campagna per il “Si”, non perché convinti di poter vincere (ma questo hanno fatto credere) ma per non restare tagliati fuori dal “movimento”, per “non confondersi” con Cisl, Uil e Confindustria, per non rompere con Rifondazione, forse anche per timore di essere fagocitati dalla CGIL che, in contrasto con l’ala cofferatiana, si sapeva che avrebbe appoggiato il referendum. Coprendosi con questi, ben miseri, argomenti, il sindacalismo di base stavolta ha del tutto mancato alla sua funzione specifica, di presentarsi come un nucleo di sindacalismo di classe opposto al sindacalismo di regime, con i suoi metodi oltre che con i suoi obbiettivi.
La classe operaia insomma ha prestato il fianco alla manovra, si è fatta trascinare, senza esserne costretta, sul terreno del nemico e il risultato, purtroppo, è stato una sconfitta, simbolica sì (ma che è ben importante), con effetto di ulteriore demoralizzazione. I borghesi incassano e si vedono “moralmente” aperta la strada ad ulteriori attacchi, sopra e sotto i “15 dipendenti”. Ben sapevano questo i rifondaroli che hanno scientemente ordito questa pianificata sconfitta. Sanno bene, loro, che, per evidente dinamica di classe, se uno sciopero si fa per tutti, ognuno a votare ci va per sé, principio questo fondamentale della società borghese che i sindacati operai sono nati apposta per combattere.
Ci siamo scordati che la funzione prima e costitutiva di ogni sindacato è proteggere la Classe operaia dalla Democrazia borghese?
Il guaio è quindi che, per la presenza di cotali carogneschi
partiti infiltrati nel movimento operaio, invece di dover, per forza di
cose, ripartire da zero, siamo costretti, per via di questi che remano
contro, a ripartire da sotto zero.
La questione della “legalità”, che ha interessato anche i padri fondatori del marxismo, negli ultimi anni è stata ripresa da alcuni studiosi borghesi dell’argomento, allo scopo di imbrogliare le nostre carte, di dottrina e di lettura dei fatti, su questo importante versante. La manovra ha richiesto, parallelamente alla negazione della previsione dell’estinzione dello Stato enunciata da Engels, la rivalutazione di marxisti di dubbia ortodossia di epoca successiva, soprattutto russi, i quali difendessero la sopravvivenza della “legalità” anche nel socialismo, e meglio se il più possibile rassomigliante alla legalità borghese.
Ci si è appellati, per questo all’evoluzione del pensiero giuridico in Russia, dai tempi del comunismo di guerra, attraverso la NEP, fino alle varie fasi del periodo staliniano.
Un posto particolare tra gli alleati di questi “scienziati” borghesi
del diritto è ricoperto da Gramsci, le cui teorizzazioni sullo Stato,
sulla cultura, sul rapporto tra teoria e prassi, sul ruolo degli intellettuali
sono, oggi come allora, facilmente utilizzabili da chi intende eternare
il ruolo delle classi abbienti nella società e scongiurare l’opera
vivificatrice ed eversiva della rivoluzione proletaria e della dittatura
del proletariato.
Acrobazie accademiche
l marxismo sin dal suo apparire si è interessato delle strutture giuridiche della società di classe borghese, sottoponendole alla sua critica vigorosa. Il sistema legale difende, generalizza e giustifica i rapporti materiali della società con lo sfruttamento e la repressione delle classi più basse, in questo caso il proletariato. Basti ricordare che Marx studiò giurisprudenza all’università e che Lenin si laureò in legge praticando poi la professione.
La società borghese non tardò a ravvisare nel marxismo la sua potenziale nemesi, e presto iniziò campagne di denigrazione che, sotto varie forme, sono continuate sino al giorno d’oggi. L’isterismo borghese raggiunse livelli particolarmente alti in occasione di eventi quali la nascita della Prima Internazionale, la Comune di Parigi, la Rivoluzione dell’Ottobre Russo. Ma quando la controrivoluzione iniziò ad assestarsi a partire dalla seconda metà degli anni ‘20, e con il passaggio nei libri paga borghesi di sempre più numerosi falsi marxisti, i capitalisti poterono tirare il fiato. Iniziò così la fase successiva, che consisteva nel “rendere innocuo” il marxismo; una versione di marxismo universitario, sterilizzato grazie alle cure di una schiera di accademici intenti a “specializzarsi”, e a ritagliarsi una carriera, in questa emergente branca della scienza.
Così l’attacco critico del marxismo alla legalità borghese, che spiega e sottomette, venne a corrispondere agli immani sforzi da parte degli “scienziati” per incorporare, al contrario, il marxismo all’interno di un quadro e di una concezione giuridica, il che è possibile come incorporare la materia nell’anti-materia. Nacque in tal modo la cosiddetta “Giurisprudenza Marxista”, una contraddizione in termini, il che non le ha impedito di diventare materia d’insegnamento nei corsi di Legge universitari.
L’idea stessa di Giurisprudenza Marxista crea difficoltà ovvie ed evidenti che gli accademici non possono evitare. Come recita un fondamentale libro di testo: «In un certo senso la teoria marxista si inserisce con difficoltà nel corpus giuridico perché l’idea stessa di teoria legale è in buona misura estranea al pensiero marxista». Intravisto il problema, l’incompatibilità tra marxismo e giurisprudenza, lo ammettono “in buona misura”. Superato così l’aspetto “filosofico”, si passa disinvoltamente a dimostrare che il marxismo, più che sbagliato, è “poco pratico”, che, insomma, non può “funzionare”. Conclusione scontata in un ambito che alla presa del potere da parte del proletariato comunista nemmeno vuol pensare.
L’argomento è affrontato elencando citazioni mal accostate di Marx e di Engels, per arrivare alla famosa enunciazione della “estinzione” dello Stato. Siccome la esperienza pratica del socialismo reale avrebbe dimostrato il contrario, gli attacchi si concentrano sul nostro Federico. Sia a seguito della Rivoluzione Russa (per la quale ci si riferisce alle opere di Pashukanis), sia di quella Cinese, in entrambi i casi si fa notare, con un po’ di sarcasmo, lo Stato non si è per niente ridotto, tantomeno estinto.
“Marxisti” recenti, come Karl Renner, affermano che può esistere
una stabilità di forme legali nonostante l’esistenza di contraddizioni
in economia. Per il marxismo non accademico, al contrario, una stabilità
di forme legali è indispensabile a mantenere un’economia di contraddizioni.
Strutture e Sovrastrutture
Marx nel 1859 accennò ai suoi studi di legge, e alla critica che di questa fece, nella sua prefazione a Per la critica dell’economia politica, e noi consigliamo il lettore di leggersi per intero le cinque pagine di questo fondamentale testo di partito.
Nella stessa prefazione Marx ricorda i suoi studi di diritto, come parte di un corso di laurea basato su filosofia e storia. Nel 1844, apparve (in parte) il suo lavoro sulla Critica della filosofia del diritto di Hegel, nel quale concludeva che i rapporti legali e le forme politiche possono essere compresi solo se si esaminano le condizioni materiali di vita, che si possono ricercare soltanto nella economia politica. Afferma quindi che l’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, le sue vere fondamenta, dalla quale scaturisce una sovrastruttura legale e politica (che in parole povere è lo Stato e gli organi politici della classe dominante), alla quale corrispondono forme ben definite di coscienza sociale. Nel marxismo non è possibile separare la base economica dalla sovrastruttura, proprio la manovra che i “marxisti” accademici cercano di compiere. E a meglio comprendere e spiegare queste reali fondamenta, la struttura economica della società, Marx dedicherà la gran parte della sua vita di studioso e rivoluzionario. La critica del diritto borghese che ne scaturisce si estende e si approfondisce fino a costituire un attacco frontale contro la società borghese nel suo insieme.
La presentazione corrente della questione si basa su tre principali
capisaldi:
a) La previsione di Engels sulla estinzione dello
Stato è contrapposta a quella della sua abolizione, tipica
degli anarchici, pietra questa angolare del marxismo.
b) Si rileggono gli scritti di E. B. Pashukanis,
inteso oggi come fondatore del “diritto marxista-leninita”. Eugeni Bronislavovic
Pashukanis fu vicecommissario per la Giustizia nel periodo della NEP e
dei primi due Piani Quinquennali. In buona lingua marxista, considerava
il diritto fenomeno borghese esprimente la dominazione di classe, e solo
strumento temporaneo nella transizione dal vecchio al nuovo ordine. Fu
implacabile oppositore del “diritto proletario”. Siccome nella Russia arretrata
l’economia poteva essere solo borghese e basata su rapporti di scambio
di merci, come non si raggiunse la scomparsa del mercato ugualmente non
ci si poté disfare in tutte le loro manifestazioni delle forme giuridiche.
c) A. Ia. Vyshinsky e la legalità socialista.
Dopo l’eliminazione di Pashukanis nel 1937, come “sabotatore”, Vyshinsky,
l’organizzatore dei processi di Mosca, Procuratore Generale del sistema
legale dello Stato Russo, fu il principale giurista dei tempi di Stalin.
Negò il concetto per cui non esisterebbe il diritto socialista,
e propagandò invece il principio per cui solo sotto il socialismo
il diritto può trovare il suo estremo e massimo sviluppo. E fu sotto
tale diritto “socialista” che ebbero luogo le purghe finali e si riempirono
i gulag di lavoro schiavistico a basso costo. Il periodo di Vyshinsky è
salutato dagli esperti di diritto come quello che vede l’introduzione di
un sistema legale maturo. Il che nasconde (non poi tanto) il compiacimento
nel constatare che ci sarà, anche nella futura società “socialista”,
sempre posto per il diritto (e per gli avvocati).
“Ovviamente” la Rivoluzione Russa per gli “scienziati” comprende anche
il periodo staliniano. Questa, in particolare nel campo del diritto, avrebbe
teso ad un suo “quadro giuridico” completo e rafforzato. Ma si travisa
il significato delle varie fasi della vera dittatura del proletariato in
Russia, dal periodo caratterizzato da P. I. Stucka come Commissario alla
Giustizia, al periodo di “Comunismo di Guerra”, dal 1918 al 1921, all’assestamento
nel campo economico rappresentato dalla NEP.
Abolizione o Estinzione dello Stato?
Il marxismo ha sempre sostenuto, contro gli anarchici e altri, che la Stato non può essere abolito, ma piuttosto si estingue. Vi è la necessità storica della Dittatura del Proletariato, che fu resa evidente dall’esperienza della Comune di Parigi del 1871.
Ma la Dittatura del Proletariato è uno Stato, nel senso che comunemente si dà a questa parola? Lo Stato è definito dal marxismo come una forza che incombe sopra la società, a protezione degli interessi di una o più classi per mantenere al loro posto le classi economicamente sottomesse.
Lo Stato proletario è il risultato della costituzione del proletariato in classe dominante la società per cancellare e incorporare tutte le altre classi, e quindi abolire tutte le classi. Questa opera è compiuta attraverso l’abolizione del Capitale e trasformando la produzione da attività che è determinata dalle richieste del mercato e per un profitto nel mero soddisfacimento dei bisogni dell’umanità. Così l’economia viene trasformata e lo Stato progressivamente riduce la sua funzione politica a quella soltanto organizzativa economica.
Quindi, invece di mantenere la società in un ordine stabilito, con la forza, il potere statale proletario ha come obbiettivo l’abolizione delle classi e la liberazione di una società senza classi: il comunismo. Ne consegue che una delle funzioni dello stesso potere statale è di rendere sé stesso superfluo, sovrabbondante, e la nozione di estinzione dello Stato, come enunciata da Engels, è adeguata. Non tutte le funzioni dello Stato scompariranno, alcune, quelle legate alla semplice gestione centralizzata delle attività umane, resteranno. Il bisogno della costrizione sarà scomparso, via via che le attività dell’uomo saranno sempre più collettive e unite nel grande disegno della produzione razionale dei mezzi di sussistenza e di altri prodotti necessari a soddisfare i bisogni umani. Quindi le attività ancora in mano della macchina statale saranno quelle che richiedono un coordinamento generale centrale per il funzionamento della società (distribuzione dell’energia, coordinamento dei trasporti, prevenzione e cura delle malattie, grandi emergenze, ecc.).
Ma il potere politico statale proletario (e non abbiamo alcuna remora ad usare apertamente questi termini), finché rimane tale, cioè finché è minacciato dai suoi avversari borghesi, ha le funzioni delle altre forme statali che nella storia l’hanno preceduto, corpi di uomini armati, costrizione, leggi (o decreti, come meglio ci si voleva esprimere).
Sarà uno Stato aperto al proletariato, che è la
maggioranza della popolazione, chiuso alle altre classi. La partecipazione
alle sue attività della popolazione proletaria andrà gradualmente
crescendo: si riempirà della società civile, fino
a divenire la società civile, trasformandosi in un’altra cosa
col
ridursi a monoclassista della società. Questa la sua estinzione,
che non ha nulla di incomprensibile o di apocalittico. Difficile capirlo
per chi è immerso nelle società di classe. Nel feudalesimo
la gestione dello Stato era ridotta alla minoranza di nobili e principi;
nel capitalismo la borghesia è molto più numerosa nel suo
accesso alle sue istituzioni, ma nel suo sviluppo di fatto ne esclude in
grande misura i piccoli borghesi.
Vittoria del Comunismo, non del Diritto socialista
Tutto quanto è in linea con la posizione del Commissario alla Giustizia Stucka, e ne abbiamo una breve ma significativa menzione nel suo “Manuale di Diritto”. Nel 1927 Stucka affermava: «Il comunismo non significa la vittoria del Diritto socialista, ma la vittoria del Socialismo su qualsiasi diritto, in quanto con l’abolizione delle classi e dei loro interessi antagonistici il Diritto scomparirà del tutto». E ancora: «Nostro scopo non è la Giustizia: il problema è un altro».
Poco ancora ci è dato sapere, oltre a questa fiera e solida dialettica. Stucka viene citato come il mentore di Pashukanis. La introduzione a una nuova edizione della principale opera di Pashukanis Legge e marxismo: Teoria generale, non lo nomina. Sarà in occasione di un altra pubblicazione, Pashukanis: scritti scelti su marxismo e legge, che si dirà timidamente: «Verso la fine degli anni ‘20, come risultato della sua attività di studioso, Pashukanis era divenuto il decano del diritto marxista sovietico, eclissando persino il suo maestro Piotr Stucka».
Prima di essere “eclissato”, Stucka, bolscevico, fu uno dei primi Commissari sovietici alla Giustizia, oltre che l’autore del “Decreto n. 1 alla Corte Sovietica”. Scrisse sulla natura del diritto come di «un sistema di rapporti che risponde agli interessi della classe dominante e che tutela tale classe con la forza organizzata».
Nei giorni che seguirono alla Rivoluzione d’Ottobre Stucka ebbe una
parte di primo piano nella presa di possesso fisica e politica delle Corti
Supreme in tutta la Russia. I giudici erano fuggiti, e il resto del personale
era confuso e non sapeva cosa fare; egli disse che avrebbero dovuto sedere
sugli scranni dei giudici, mentre gli ex-giudici avrebbero svolto le funzioni
dei funzionari di rango più basso, nelle anticamere. Si tratta,
parafrasando Marx, del mondo che finalmente cammina sui piedi e non sulla
testa. Per l’urgenza di garantire un minimo di ordinata vita sociale si
utilizzarono anche apparati del vecchio ordine, ma fatti funzionare in
modo invertito.
Dalla Giurisprudenza alla Coscienza rivoluzionaria
A un mese di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre la precedente gerarchia dei tribunali era stata abolita. Fu istituito un sistema doppio, di Tribunali Locali “del Popolo” e di Tribunali “Rivoluzionari”. L’intero sistema ne risultò semplificato. Tutte le leggi non necessarie alla transizione dal capitalismo al comunismo furono abolite (Decreto sull’abolizione delle gerarchie e dei ruoli civili, novembre 1917). Fu creato un nuovo tipo di giudice, guidato dalla “coscienza rivoluzionaria” piuttosto che addestrato nel diritto. In questo modo la classe operaia, come classe dominante, impostava e risolveva le questioni legali.
Il periodo 1918-1920 è conosciuto come “Comunismo di Guerra”, caratterizzato dalla Guerra Civile, dalla formazione dell’Armata Rossa e della polizia segreta (Ceka). I bolscevichi furono costretti ad un processo di “rilegalizzazione”, ad un necessario consolidarsi dello Stato, da tutte le parti aggredito e presto abbandonato dalla sconfitta Rivoluzione in occidente. Gli attacchi della borghesia all’interno e all’esterno obbligarono alla formazione di ulteriori strutture di tipo statale che dovevano difendere il potere proletario conquistato. Queste strutture di tipo statale, per molti aspetti analoghe ai corrispondenti organi borghesi e pre-borghesi, avevano lo scopo di difendere la natura stessa del potere statale, ma non erano intese come permanenti: dovevano esistere, a scala storica, solo temporaneamente, finché, con la scomparsa delle classi, ne sarebbe scomparsa la necessità.
Nello svolgersi successivo dello Stato russo da rivoluzionario a controrivoluzionario
e da proletario a borghese il lavoro di Pashukanis, contrapposto a quello
di Stucka, si inserisce nella negazione stessa della Rivoluzione d’Ottobre.
Pashukanis sarà costretto a modificare le sue opere nel 1930, a
tre pubbliche autocritiche, ed infine sarà fucilato.
Stato e Diritto in Gramsci
Sulla questione del “diritto marxista” Gramsci viene ampiamente usato contro Marx e contro Engels.
Con Gramsci entriamo in un contesto caratterizzato da estrema confusione. Già la sua affermazione di apertura è sorprendente: «Se ogni Stato tende a creare e a mantenere un certo tipo di civiltà e di cittadino (...) il diritto sarà lo strumento per questo fine». A parte l’improprio uso della parola “se”, che meglio sarebbe sostituire con un “siccome”, questa frase ha senso solo se riferita alle società esistenti, ma non riferita a una società nella quale il proletariato ha conquistato il potere statale - perché il socialismo non consiste nel mantenere o creare una “civiltà” (che come tutte quelle esistite su base della schiavitù e dello sfruttamento), o nell’eternare la condizione di “cittadino”, categoria moderna costruita nel rispetto religioso della proprietà.
Spostiamoci sulla cultura. La cultura è descritta come l’essenza della vita sociale, ma non se ne specifica la base di classe. Sembra che la cultura sia «organizzazione, disciplina di se stessi (...) il raggiungimento di una superiore coscienza, con l’aiuto della quale è possibile comprendere il proprio valore storico, il proprio scopo nella vita, i propri diritti e doveri». Abbiamo qui l’individuo, solo l’individuo, senza classe né lotta di classe. Niente di marxismo in tutto questo. Sembrerebbe che l’individuo, grazie al mero potere della sua mente, possa trascendere la società di classe e delle classi.
Ecco che appare la prassi, derivata dal greco (“azione”, “pratica”). Gramsci usa la Prassi per unificare teoria e pratica nella sua analisi della cultura. Il rivoluzionario che intende comprendere e cambiare la cultura della società deve vedere la teoria nascere dalla pratica, e da questa essere modificata. Concetto davvero modesto. Da questo si passa a una “teoria del diritto adatta alla società comunista”, che sembra richiedere la partecipazione alla lotta per poter comprendere, ed eventualmente poi cambiare la legge. Ma perché cambiare la legge, potrebbe chiedere il proletario, che delle leggi è la vittima storica, se sarebbe molto più semplice liberarsi del sistema sul quale questa si basa: il capitalismo?
La Prassi quindi deve analizzare il diritto in quanto questo rappresenta la più ampia cultura della società nella quale si sviluppa e fiorisce. Il ruolo della teoria del diritto, delle sue istituzioni e dei suoi rappresentanti, non deve essere ignorato. Il ruolo della legge borghese non è da ignorare, richiede di essere rispettato, anche se deve essere trasformato. In questo Gramsci è il precursore, la punta di lancia teorica del blocco delle classi di Stalin e Mao, nel quale gli interessi della classe operaia sono subordinati a quelli delle altre classi, sue sfruttatrici.
Ma siamo infine arrivati al culmine dei “Quaderni dal carcere”: il ruolo degli intellettuali. Si va dicendo che i Quaderni di Gramsci espongano un’analisi dettagliata della funzione degli intellettuali nello Stato del 20° secolo. Per Gramsci vi sono due tipi di intellettuali: tradizionali e organici. Gli intellettuali tradizionali sono quelli esistenti nella società di classe, come scrittori, filosofi, giuristi, legislatori e avvocati. Gli intellettuali organici sono quelli che emergerebbero dalle lotte delle masse per una società nuova. Il ruolo dei nuovi intellettuali è quello di assorbire gli aspetti positivi della ideologia esistente, in quanto nessun nuovo Stato o struttura del diritto può sorgere dal niente. Quindi Marx ed Engels l’hanno fatta grossa ad abbandonare e combattere l’ideologia borghese!
Tutto questo si riassume nel concetto di egemonia – il predominio di idee nuove nello Stato e nella società. Senza bisogno di una rivoluzione che spazzi via tutta il vecchio ciarpame (che poi è una delle funzioni fondamentali della rivoluzione, quella distruttiva) abbiamo invece la penetrazione della società da parte di nuove idee che rafforzano il modo di affrontare vita, cultura e società secondo “buon senso”. Così il ruolo dell’intellettuale sostituisce quello della rivoluzione nella lotta di classe.
È ovvio come Gramsci sia stato di enorme aiuto per i giuristi
borghesi nel loro tentativo di attaccare il marxismo, soprattutto contro
la difesa che Engels fa della estinzione dello Stato. La posizione politica
di Gramsci non è proletaria, non è per l’emancipazione della
classe operaia, ma è per la continua soggezione e sfruttamento di
quest’ultima nell’interesse della società “nel suo insieme”, il
che, e lo sappiamo bene, significa nell’interesse delle classi sfruttatrici
della società.
Letto su “Internazionale”, che traduce da “Discover”, una rivista di divulgazione scientifica americana.
«Che la paternità biologica può essere condivisa (...) è credenza diffusa da un capo all’altro del Sudamerica; anche in Nuova Guinea e in India ci sono gruppi indigeni che ne sono convinti e questo fa pensare che per lungo tempo la paternità multipla sia stata parte integrante del comportamento umano».
In quelle società, che fino a pochi anni fa vivevano ancora ad uno stadio evolutivo molto primitivo, di caccia e raccolta, prevale l’organizzazione familiare di tipo matriarcale. Questi rapporti sociali determinano la loro scienza e conoscenze di anatomia della riproduzione, oltre che i loro sentimenti ed affetti. Per essi l’embrione si forma originariamente nel grembo materno; quando adeguatamente alimentato dal liquido spermatico, può accrescersi. E tanto più e meglio quanto più la donna incinta, di sua decisione, decide così di maggiormente e variamente nutrirlo. Di un bimbo gracile si dirà: “poverino, ha avuto un solo padre!”, e viceversa. La prova evidente di questo meccanismo alimentare della riproduzione risiederebbe nel fatto che, durante la gravidanza, la femmina aumenta di peso mentre i maschi dimagriscono.
Simile convinzione comporta, ovviamente, che tutti i padri condividono la responsabilità sociale del mantenimento di madre e figlio e dell’educazione di questo.
Voltiamo pagina di detta rivista e riprendiamo. «Presso il popolo dei Na della provincia cinese dello Yunnan la società è incentrata sulle figure femminili e non esistono mariti. Le donne crescono e vivono con le madri, le sorelle e i fratelli: non si sposano né si allontanano mai dallo spazio abitato dalla famiglia. Fratelli e sorelle coltivano e pescano insieme formando un’unità economica al posto delle coppie sposate. In questo sistema gli amanti maschi sono semplici ospiti, non hanno ruolo né potere nell’economia domestica e i bambini vengono allevati dalle madri e dagli zii materni. Anche se un padre viene identificato per la somiglianza evidente con il figlio nemmeno allora ha responsabilità nei confronti del bambino. Ma spesso le donne hanno rapporti sessuali con così tanti uomini che è impossibile stabilire il padre biologico. “Nella lingua Na non ho ancora trovato un termine che corrisponda alla nostra nozione di padre”, scrive l’antropologo cinese Cai Hua nel suo libro “Una società senza padri né mariti”. In questo caso le donne hanno un controllo completo sui bambini, sulla proprietà e sulla sessualità».
Evidentemente opposto il caso delle successive civiltà patriarcali, dalla pastorale-classica fino alla prima borghese, la scienza delle quali ha descritto, fino a tempi relativamente recenti, un meccanismo riproduttivo opposto: il liquido, non a caso detto seminale, apporterebbe il seme dell’uomo, mentre il ruolo della donna e simile a quello della zolla di terra che lo accoglie, lo alimenta e lo fa crescere, per poi, come una incubatrice, restituire il neonato all’uomo.
Trattasi evidentemente di tre diverse età evolutive della specia umana.
Ogni tipo di società ha sempre tranquillamente ritenuto che le
sue
nozioni
di anatomia fossero vere, adeguate e rispondenti alla reale funzionalità
riproduttiva. Chissà come saranno considerate, domani, sia le attuali
(scarse) conoscenze sulla riproduzione sia la corrente forma familiare
borghese, mercantil-salariale e proprietaria, fondata, dice e si sforza
di restare, sulla coppia monogamica.
10. CAPITALISMO A VISO SCOPERTO
Ottobre 1988, le masse si ribellano
“Liberalizzazione” politica ed economica
Si prolunga in Italia la vertenza che gli assistenti di volo devono affrontare per non vedere le loro condizioni ancora peggiorate, così come sta accadendo ormai da anni a tutti indistintamente i lavoratori. L’Alitalia dal 1° giugno vuole ridurre il personale sui voli nazionali da 4 a 3 assistenti e, dal 1° luglio, da 5 a 4 nelle tratte internazionali non superiori alle due ore; questa riduzione degli addetti comporterà, come li chiamano loro, 400 esuberi soprattutto nel personale con contratto a termine, più facilmente licenziabile.
Con uno sciopero bianco improvviso gli assistenti, organizzati in “Raggruppamento A.V. 100x100” (come riporta “Repubblica” del 13 giugno) hanno dichiarato “guerra” all’azienda e ai sindacati confederali, considerati pavidi e fiancheggiatori dell’Alitalia.
La forma di lotta, che ha fatto scandalo sui media e fra i benpensanti, è stata quella di darsi malati in massa. La legge sulla regolamentazione degli scioperi infatti li vieta, pena la precettazione, se non con procedure e tempi tanto lunghi per la loro indizione da renderli inefficaci. I lavoratori, sottoposti alla dichiarazione di guerra di una circolare aziendale che appena qualche giorno prima stabiliva l’entrata in vigore delle riduzioni di personale, hanno deciso questa forma di protesta per fermare il lavoro, mettendo in grave crisi l’economia aziendale per qualche giorno e promettendo nuove forme di protesta. In una lotta senza tregua per far ritirare il provvedimento, i lavoratori sono ricorsi a tutte le residue “garanzie” ancora previste dal contratto, come i congedi parentali e quelli previsti per il primo giorno di mestruazione per le donne. In realtà i lavoratori presto scopriranno che non di “garanzie” si tratta ma solo di illusioni giuridiche se non sostanziate dalla loro organizzazione e mobilitazione.
La Commissione di Garanzia per l’applicazione della legge sugli scioperi ha dichiarato che «pur nell’impossibilità di individuare una organizzazione sindacale promotrice dell’iniziativa, ritiene che si sia verificata un’astensione dal lavoro promossa da un comitato spontaneo di lavoratori ed effettuata in palese e grave violazione della disciplina vigente». La minaccia dei provvedimenti punitivi cercherà di ritardare ancora una volta la risposta dei lavoratori di concerto con l’azione dei sindacati ufficiali al tavolo delle trattative.
I sindacati, nella loro diuturna opera di collaborazione agli interessi dell’azienda, nel patto firmato a palazzo Chigi nel 2001 con l’Alitalia, infatti avevano accettato il taglio di 900 posti di lavoro (con dimissioni incentivate) e i contratti di “solidarietà”, ovvero taglio netto degli stipendi di 80 euro per tredici mensilità. Il contratto prevede inoltre non un numero fisso di assistenti per volo, ma in rapporto ai posti: togliendo solo sei posti si riduce di una unità il personale per aereo.
E questo è sicuramente solo il primo attacco sferrato dall’Alitalia, nell’ambito sia nella gestione del contratto sia nel piano più generale di ristrutturazione dell’azienda, costretta dalla deregulation mondiale ormai spinta fino in fondo a ridurre i costi, dalla sicurezza ai servizi.
La crisi del sistema capitalistico di produzione impone peggioramenti anche ai lavoratori impiegati nelle maggiori compagnie del mondo, come insegna l’affaraccio della Swissair, fallita e rinata come Swiss Air Line, con una perdita secca di novemila lavoratori e una riduzione degli stipendi dal 10 al 25%.
Certamente i lavoratori italiani delle flotte e degli aeroporti sanno tutto questo e stanno cercando di difendersi. Per ora ci sono riusciti facendo rinviare il provvedimento della riduzione del personale.
Una vecchia parola d’ordine recitava che la difesa proletaria è da ottenersi “con tutti i mezzi nessuno escluso”. Vuol dire che la lotta incessante per gli interessi della nostra classe non deve darsi né accettare alcun limite nei principi e nel decalogo di una “morale” che è quella della classe a noi nemica, classe borghese che non ha essa davvero altra morale che quella di sfruttare i lavoratori, sempre, “con tutti i mezzi nessuno escluso”.
Oggi ci troviamo in un periodo nel quale le lotte operaie, di categoria e generali, sono costrette ad esprimersi, e non possono fare diversamente dati i rapporti di forza, nei sempre più stretti limiti della legalità. La crisi che esaspera la concorrenza fra venditori di forza lavoro, unita al consumato tradimento dei grandi sindacati, in tutto fedeli agli interessi padronali, provoca oggi una estrema debolezza oggettiva per le richieste operaie e soggettivi sentimenti di soggezione e di ignoranza della propria forza. Questo impedisce l’allargamento e l’approfondimento delle lotte, mantiene le categorie isolate, gruppi di lavoratori isolati, organizzatori indecisi e scollegati dalla massa.
La solidarietà di classe è oggi più che mai necessaria
per uscire dalle debolezze delle lotte di categoria, all’interno delle
quali difendersi diventa, in tempo di crisi, sempre più difficile.
Questo si sta dimostrando, in Italia, per i macchinisti delle ferrovie.
Torna quindi a profilarsi la necessità di una risposta proletaria
meno occasionale e meno estemporanea di quella degli assistenti di volo,
con il riappropriarsi pienamente dell’arma dello sciopero, intercategoriale,
senza limitazioni e senza preavviso. Assai facilmente una mobilitazione
generale della classe (che ovviamente è un punto di arrivo e risultato
di un ben lungo lavoro) “convincerebbe” i membri della borghese “Commissione”
a... presentare loro il certificato del dottore!
Il 13 giugno scorso nella capitale della Cambogia, Phnom Penh, la polizia è intervenuta contro un corteo di operai che protestavano per ottenere un miglioramento delle condizioni di lavoro; un operaio è stato ucciso e decine sono stati feriti. L’operaio aveva al collo un cartellino di riconoscimento col nome, Yoeum Ry, e quello dell’azienda per cui lavorava, la Terratex Knotting and Garment. È una delle 220 aziende del settore tessile che operano nel Paese, con un export che è cresciuto vertiginosamente negli ultimi anni, dai 25 milioni di dollari scarsi nel 1995 ai 378 nel 1998, ai 6/700 del 1999 fino al miliardo di dollari dello scorso anno, equivalenti a circa il 77% del prodotto interno lordo. Nei giorni successivi, proprio mentre in Italia si svolgeva il referendum per l’estensione dell’art. 18, gli operai cambogiani tornavano in piazza per protestare contro la repressione, scontrandosi nuovamente con la polizia.
La giovane classe operaia cambogiana è sottoposta ad uno sfruttamento brutale da parte e dei piccoli padroni locali e delle grandi multinazionali del settore dell’abbigliamento dei cui la Monarchia cambogiana è docile strumento.
Nel 1997 il governo cambogiano ha introdotto un codice del lavoro che prevede formalmente la libertà di associazione sindacale e di contrattazione e nel 1999 ha ratificato le convenzioni OIL che prevedono gli stessi diritti, ma le aziende continuano a licenziare i sindacalisti e la polizia li maltratta e li fa incarcerare, quando non li ammazza.
Nonostante questo l’azione di classe non si ferma; nel giugno del 2000 tra i 10 mila e i 20 mila lavoratori erano scesi in sciopero contro un grave incidente avvenuto alla Yung Wah: 160 lavoratori addetti alla cucitura avevano perso i sensi dopo essere stati colpiti da scariche elettriche; non c’erano stati morti ma nella calca per mettersi in salvo molti operai si erano feriti. Gli scioperi e le proteste continuarono anche in agosto per ottenere un miglioramento delle condizioni di lavoro e delle paghe ottenendo dei parziali successi. Gli operai tessili cambogiani, quasi tutte donne, lavorano 14 ore al giorno, tutti i giorni, per circa 40 dollari al mese, anche se ufficialmente l’orario è di 48 ore settimanali. Il Libero Sindacato degli Operai del Regno di Cambogia (FTUWKC) chiede la riduzione dell’orario ufficiale a 44 ore, e di quello massimo giornaliero a 10 o al massimo a 12 ore, un giorno settimanale di riposo, oltre ad un aumento del salario almeno a 70 dollari al mese.
Adesso, a tre anni di distanza, gli operai si sono nuovamente mobilitati, rischiando il carcere e anche la vita, per imporre al padronato l’accettazione di condizioni di lavoro e di vita più umane.
I lavoratori cambogiani sono ai primordi della loro storia ma già subiscono lo sfruttamento più moderno da parte del Capitale. Le loro condizioni sono quelle di tutto il proletariato dei Paesi a giovane sviluppo capitalistico, primo fra tutti la gigantesca Cina, ma anche il Viet Nam, l’Indonesia, la Tailandia, la Corea.
La loro condizione non è l’eccezione, ma è quella normale, inevitabile, del proletariato in tutto il mondo, è quella verso cui sta tornando velocemente anche la classe operaia occidentale, dell’Europa e degli Stati Uniti, maciullando quella aristocrazia operaia dei Paesi a vecchio capitalismo che, come dice Lenin, collabora con la propria borghesia in cambio delle briciole dei profitti che derivano dallo sfruttamento del proletariato dei paesi sottosviluppati.
Altro che referendum, altro che articolo 18!
La lotta di classe non è, non è mai stata una questione di “diritti”, ma è una questione di forza, quella forza che la borghesia trova nell’apparato repressivo dello Stato, che il proletariato può trovare solo nelle sue organizzazioni sindacali di classe, nella sua mobilitazione diretta e nel suo Partito.