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"Il Partito Comunista" n° 312 - maggio-giugno 2005 - [.pdf]
PAGINA 1 – Come la classe operaia si oppone in Iraq alla guerra.
SULLA RIPRODUZIONE e su altre cose molto meno serie.
– Marx ed Engels su Cina e Rivoluzione: Dal libero scambio - Alla crisi e alla guerra.
PAGINA 2 La riunione di partito a Torino del 28-29 maggio [RG92]
ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA - STORIA DELL’IRAQ MODERNO - LA BORGHESIA ITALICA NELLO SPECCHIO DEFORMANTE DELLA SUA IDEOLOGIA - ANTIMILITARISMO E MOVIMENTO OPERAIO - LA QUESTIONE EBRAICA.
PAGINA 3 Il mito borghese della «divisione dei poteri» (Continua dal numero scorso) - Piccola appendice su di un caso esemplare.
PAGINA 4 Metalmeccanici: Il futuro della classe operaia è nel rinato sindacato di classe fuori e contro Cgil Cisl e Uil.

 
 
 

PAGINA 1


Come la classe operaia si oppone in Iraq alla guerra

L’Iraq è un paese moderno, composto in gran parte di operai e lavoratori salariati. I lavoratori sono sempre stati protagonisti nella storia politica contemporanea di questo paese con scioperi e insurrezioni, ben inquadrati nelle loro organizzazioni sindacali e politiche di classe.

Dal 1968 hanno sofferto la dittatura borghese aperta del regime bahatista, nel quale in breve tempo emerse la figura nota di Saddam Hussein. Questo regime, come i precedenti, si dimostrò ferocemente antioperaio ed anticomunista, con terribili eccidi e repressioni.

Un regime altrettanto spietato contro i lavoratori ed i comunisti sorgeva nel 1979 nel vicino Iran, ad opera del clero islamico sciita. Questo regime oggi esercita una fortissima influenza nel Sud dell’Iraq, attraverso organizzazioni politiche e militari.

La brutalità antiproletaria del regime bahatista ebbe modo di sfogarsi nel 1991, quando, in seguito alla sconfitta militare, il proletariato del Sud e del Nord dell’Iraq insorse armi alla mano. Ne seguì una feroce carneficina da parte della Guardia Nazionale Irachena, alla quale, notoriamente, gli Usa assistettero impassibili, senza che neppure un aereo si alzasse in volo. Washington lasciò rifluire i corpi d’armata, ritiratisi a Nord in seguito all’offensiva militare americana, di nuovo a Sud, dove in santa pace il tanto demonizzato Saddam poté terminare il massacro. La lezione fu: meglio Saddam del proletariato.

Terminata ufficialmente la seconda guerra contro l’Iraq, il 1° maggio 2003, subito i lavoratori iracheni hanno ricostituito nuove organizzazioni sindacali. Data la disoccupazione massiccia la più attiva e numerosa è stata l’unione dei lavoratori disoccupati (UUI) che ha organizzato la lotta per ottenere l’assegno di disoccupazione. Anche fra i lavoratori occupati è sorto un nuovo sindacato (FWCUI) che ha condotto vari scioperi, molti dei quali con successo. Le due organizzazioni si sono presto unite. Entrambe sono contro non solo l’occupazione americana e la sua amministrazione ma anche la fantomatica resistenza, che invece in Occidente riscuote grande simpatia fra i contrari alla guerra.

Il fatto è ben comprensibile: essa è composta in parte decisamente maggioritaria sia da gruppi islamici, sia dai residui del regime bahatista, del suo esercito e dei suoi servizi segreti.

Data l’esperienza che i lavoratori iracheni hanno avuto del regime bahatista e quella che i vicini lavoratori iraniani hanno ancora del regime islamico, ben nota agli iracheni, non è difficile capire l’odio degli operai più coscienti verso questi gruppi.

Secondo parte della sinistra nostrana, invece, i carnefici del proletariato iracheno oggi sarebbero solo gli Usa. Non lo sarebbero più islamici e bahatisti ed al loro fianco i proletari iracheni dovrebbero combattere. E semmai riuscissero a cacciare l’odiato yankee? Un nuovo regime bahatista od islamico sarebbe migliore per i lavoratori iracheni di un governo servo di Washington?

La realtà è ben diversa. In Iraq il proletariato subisce il fuoco incrociato di due schieramenti che gli sono entrambi nemici. Da un lato ci sono gli imperialismi di Washington, Londra, Roma ed altri minori. Dall’altra quelli che da una vittoria americana in Iraq hanno solo da perdere, ma che essendo troppo deboli rispetto agli Usa non possono ancora esporsi e perciò lavorano dietro le quinte a sostegno delle varie fazioni armate della resistenza. Chi ha da perderci da una vittoria americana in Iraq? Molti: Francia, Germania, Russia, Cina, Iran, Siria.

Già i paesi più ricchi che non parteciparono alla guerra del golfo del 1991 dovettero pagare, come Germania e Giappone, un forte tributo. Attualmente l’America pretende che Germania, Francia e Russia azzerino, o quasi, il forte credito concesso precedentemente all’Iraq. La caserma dei carabinieri a Nassiriya si trova proprio di fronte ai ricchi giacimenti petroliferi dell’area. Quei giacimenti erano in concessione all’Elf, compagnia petrolifera francese. Oggi, forse, se li accaparrerà l’Eni.

La borghesia irachena dal suo canto è divisa fra i due schieramenti, ma una cosa è certa: quando la classe operaia irachena troverà la forza per rialzare la testa si ritroverà contro, unite, tutte le fazioni. Questa è una lezione storica ripetutasi più volte: Parigi 1871, Russia 1919-21, Varsavia 1945, Berlino 1953, Bassora 1991.

La guerra in Iraq non è fra imperialismo Usa occupante ed il popolo che lotta per la sua liberazione. Il popolo iracheno il suo ruolo storico l’ha esaurito liberando l’Iraq dal colonialismo e facendolo divenire un paese capitalista. Da allora il testimone del progresso sociale passa dal popolo ad una sua parte, il proletariato, contro l’altra parte, la borghesia. Da allora è finita l’era delle lotte di liberazione nazionale ed iniziata quella della lotta internazionale del proletariato. Il progresso storico non collima più con nuove sistemazioni territoriali, ma passa solo per la rivoluzione sociale nuda e cruda.

L’Iraq oggi è teatro di uno scontro locale ed indiretto fra gli imperialismi. Il proletariato iracheno di questo conflitto è la prima vittima e non deve parteggiare per nessuna delle due parti ma ritrovare la propria autonomia organizzandosi sindacalmente e ricongiungendosi al partito comunista rivoluzionario, che gli indica quale suo unico alleato, non i suoi carnefici passati e futuri, ma i lavoratori degli altri paesi mediorientali e di tutto il mondo.
 
 
 
 
 


SULLA RIPRODUZIONE
E SU ALTRE COSE MOLTO MENO SERIE

Non paga delle elezioni regionali, con gli strascichi di disfide provinciali e comunali, l’astuta borghesia italica ci ha gratificati di un’altra orgia schedaiola, quella del referendum sulla procreazione assistita. E non si tratta di votazione da poco, visto che gli interventi sull’argomento sono stati ai massimi livelli, e le prese di posizione trasversali, come si suol dire, in linea con la migliore tradizione democratica. Quanto può esserci di più vicino all’essenza stessa della santa fede democratica del fatto che su un dato argomento, messa la mano sul cuore, un Fini possa trovarsi d’accordo con l’acerrimo nemico Bertinotti, o un Berlusconi apponga lo stesso segno di Prodi sul pezzo di carta che, secondo la liturgia post fascista, regolerebbe la vita e le sorti delle genti del mondo occidentale?

A dire il vero esiste una piccola macchia sulla perfezione del rito elettorale, la quale si sublima in un fondamentale corollario, quello della segretezza del voto. Ebbene, il trucchetto sporco di invitare a disertare le urne fa sì che chi non vota in qualche modo esprime il suo voto; e non è cosa da poco, in quanto se è vero che solo Dio, come dicevano i democristiani ai tempi di Don Camillo, può vederti quando voti, è anche vero che qualsiasi Peppone può sapere se ti sei astenuto: con le inevitabili conseguenze di banchetti con i panini alla porchetta regalati in cambio delle schede strappate, come successe nei paesini ai tempi del referendum sulla caccia. Ma si sa, l’importante è vincere.

Fatto è che il parere della maggioranza si muove come una banderuola a seconda di chi l’agita, o della direzione dalla quale spira il vento. Come sempre replichiamo che noi accetteremo la conta delle teste solo quando la si potrà fare includendo nel computo quelli che hanno già vissuto, e quelli che devono ancora nascere. Il singolo, hic et nunc, niente comprende, niente vede, niente ricorda, niente prevede di quanto conta per le sorti dell’umanità (ed anche per le sue stesse di individuo). Questa capacità noi la riconosciamo ai soli organi collettivi che travalicano le generazioni: al partito di classe, sua intelligenza storica, e, con qualche distinguo, allo Stato borghese, limitatamente però alle sorti immediate della classe che rappresenta.

Si accusa il nostro ribadito e storicamente irreversibile astensionismo di fare il gioco della reazione. La risposta sta nella scoperta marxista di precisi meccanismi e leggi di fisica sociale, al cui centro è la demolizione del dogma borghese della sovranità popolare, che per il marxismo è solo mito e superstizione. A causa del monopolio di classe dei potenti mezzi d’informazione avviene che il risultato di qualsiasi consultazione elettorale è sempre quello stabilito per l’innanzi dai suoi organizzatori. Il dosaggio abile della propaganda di regime, che mostra gli uni accanto agli altri, fra il demente e il pietoso, onorevoli, preti e “scienziati”, è ordito a produrre inevitabilmente, sempre, la volontà del Capitale. Se deve essere SI è SI, se deve essere NO è NO.

Il fatto che questa appaia espressa liberamente dalla maggioranza dei cittadini è evidente notevolissimo contributo alla conservazione e alla demoralizzazione e sottomissione della classe lavoratrice. E specialmente se il partito della classe operaia abbia spinto i proletari a partecipare e a credere all’imbroglio.

Siamo sì, noi comunisti rivoluzionari, talvolta, per impugnare contro di esso anche le armi del nemico; ma quella elettorale-parlamentare non è un arma, non ha taglio; è solo una trappola. La classe operaia potrà deciderà qualcosa solo quando avrà il potere, quando avrà distrutto il potere borghese, la sua economia e il suo modo di vivere e di pensare; in questo distruggendo anche se stessa come classe.

Veniamo alla materia in discussione. In Italia lo Stato borghese ha prodotto una legge che dovrebbe adeguare la legislazione ai progressi della scienza, e regolamentare un ambito oltremodo movimentato e delicato.

È difficile muoversi nella confusione creatasi ed affrontare analiticamente l’oggetto del contendere, e quindi rinunciamo ad una disamina completa dell’argomento, che lasciamo ai più volenterosi infermieri della società che ritengono recuperabile. Non ci dedichiamo qui a valutare pregi e difetti della legge, tantomeno ci lasciamo andare a speciosi pareri, indicando, se non chi è nel giusto e chi no, quale sarebbe il male minore, suggerendo, ancorché turandoci il naso, la casella sulla quale apporre la fatidica croce. Mai l’abbiamo fatto da quando il nostro partito è rinato nel secondo dopoguerra, né avremmo voluto farlo prima, in nessuna occasione, anche quando la tentazione è stata troppo forte per alcuni “cugini” degeneri. Tanto è vero che questo articolo apparirà post festum, quando la kermesse avrà perso il suo smalto e gli specialisti dell’imbonimento staranno già pensando al prossimo evento volto a rintontire ancora le menti proletarie con la droga/scheda.

La vicenda intanto conferma che qualunque provvedimento del tardo Stato borghese nell’anarchia della vita economica e civile non fa che creare peggiore anarchia, peggiori e ulteriori distorsioni, più insipienza e più dolore. Questo meccanismo perverso, intervenendo stavolta su questioni così fondamentali, lo dobbiamo commentare dal nostro osservatorio, privilegiato, non coinvolti dalle diatribe spesso false ed interessate; occasione per riaffermare i capisaldi della nostra dottrina, del nostro modo di vedere il mondo, che non deriva certamente da verità rivelate, ma da un attento studio di quanto è ed è stato.

La questione centrale è la procreazione assistita, cioè l’aiuto medico a quelle coppie che, per incapacità biologica di uno dei due, non riescono, con il sistema collaudato nel mondo animale da qualche milione di anni, a produrre un nuovo individuo. Oggi la scienza è in grado di superare le difficoltà che difetti di certi individui hanno nella procreazione; difficoltà di solito congenite, a volte trasmissibili dell’organismo del candidato genitore, altre volte invece dovute a cause accidentali. Tutti sono d’accordo nell’ammettere che queste coppie abbiano il diritto di accedere all’aiuto della tecnica medica; solo si accapigliano sul tipo ed estensione di tale intervento volto ad ottenere dei figli che altrimenti sarebbero loro negati.

Non vale la pena di perderci a commentare gli aspetti tecnico-legali della contesa anche perché sappiamo già che, prima o poi, in barba all’esito di qualsiasi votazione, la fecondazione assistita passerà nella più ampia e liberistica formulazione. Come le elezioni ubbidiscono alle istituzioni del regime, queste, a loro volta, ubbidiscono alle sottostanti forze economiche, della produzione e della riproduzione, che possono essere compresse e trattenute solo fino ad un certo punto.

Si può indagare su come si esplica il desiderio di maternità e di paternità nella società attuale. V’è certo, specie nella donna, una determinante componente fisiologica, ma dire cosa è “naturale” e cosa non lo è nelle società degli uomini, e massimamente in quella borghese, è arduo compito.

Di sicuro la desertificazione riproduttiva, il crollo della natalità che si osserva e lamenta ormai in tutto l’occidente, ma presto ovunque, è il risultato non di sterilità e impotenza fisici ma dell’ambiente sociale capitalistico nel suo ciclo decrepito e sopravvissuto a sé stesso, del quale la mancanza di nati disvela il malefico potenziale di morte; oltre che lo insanabile suo storico fallimento.

Nelle economie del Capitale, avvolte nella crisi di sovrapproduzione, per i giovani non c’è più posto, la società non ha bisogno di loro. Sono un inutile costo. Da qui i provvedimenti volti al contenimento delle nascite, dalla liberalizzazione degli anticoncezionali e dell’aborto e loro prestazione gratuita da parte della sanità pubblica, all’accettazione imposta alla “morale corrente” dell’omosessualità. Queste misure, che sono state presentate come volte alla “libertà”, in realtà lo sono state solo per caso, e vanno nello stesso senso, contro i nuovi nati, delle attuali che limitano la procreazione assistita, evidentemente “repressive”.

Il desiderio, talvolta ossessivo, ad avere un figlio proprio, cioè con il 50% dei propri geni, è in parte determinato dalle condizioni sociali, e quindi culturali, e non solo dalla “natura umana”, che ci impone piuttosto di avere cura dei cuccioli della specie. In ogni specie vivente la spinta essenziale è quella della conservazione e della diffusione della specie stessa; il soggetto non è l’individuo, ma la comunità, anche se in alcune specie potrebbe sembrare che i segnali siano diversi.

Quella umana però è sempre stata, per quanto la scienza ci può dire, una specie sociale; l’aspetto originale di questa socialità era l’assenza, o una debole presenza, dei legami familiari, in favore di quelli di gruppo: questo significava che i bambini erano prima di tutto del clan, della comunità; anche perché spesso la paternità era impossibile da accertare, e nella comunità i legami di sangue erano molto stretti ed intrecciati. I figli erano di tutti, e tutti ne sentivano la responsabilità, e se vogliamo a tutti davano, e da tutti ricevevano, sostegno e affetto.

Il trapasso si è verificato con la nascita della proprietà privata e della famiglia, categorie probabilmente nate insieme, cui è presto seguito lo Stato. La proprietà richiede di essere mantenuta unita, e questo non è possibile in presenza di una comunità informe, adusa a mettere tutto in comune. Quando la proprietà, attribuita ai maschi, si affermò su tutto quello che poteva essere in qualche modo definito e caratterizzato, perché la si applicasse ai figli ci volle il matrimonio e la segregazione sessuale delle femmine, sostenuti da leggi adeguate. La proprietà dei figli, quindi, si affermò con la società di classe, e si mantiene sino ad oggi.

Inoltre le società classiste, nel loro insieme, si presentano tutt’altro che madri benigne, e ben triste è la sorte dei bambini loro affidati; quindi la cura familiare dei piccoli, e l’esistenza della famiglia stessa, nelle società di classe, è inevitabile, addirittura una necessità biologica; una necessità, d’altronde, come il lavoro salariato, le guerre, i disastri innaturali.

Oggi, al compiuto ciclo borghese e delle forme proprietarie, l’ambiente della famiglia cellulare pienamente borghese, nella quale la donna lavora e vive con i ritmi dell’uomo, si dimostra tutt’altro che il migliore ai fini della riproduzione, anzi è il contrario. L’età della massima fertilità nella femmina dell’uomo culmina prima del 20° anno di età e declina drasticamente dopo poco, ben prima che, nella società attuale, rotto ogni rapporto e sentimento di solidarietà esterno alla famiglia nucleare, possa aver raggiunto il miraggio della “autonomia personale”.

Quindi nulla ormai può giustificare la difesa dei rapporti familiari borghesi, quando le condizioni storiche consentono ormai la ricomposizione piena delle relazioni umane, fra i sessi e fra le generazioni.

Il sorgere della società di classe ha altre implicazioni che interessano l’argomento che stiamo affrontando. In particolare l’eugenetica. Infatti, mentre nelle società primitive la tribù si selezionava tramite la sua capacità di procacciarsi il cibo, o di battersi con altri gruppi di uomini, insieme a resistenze organiche a malattie, con le ovvie conseguenze evolutive, con le società di classe un altro tipo di pressione selettiva entra in gioco, quella legata alla ricchezza. Chi è ricco può avere molte mogli, e quindi molti figli, che può proteggere meglio negli anni, in modo da assicurarsi un’ampia discendenza, anche se, come individuo, è debole. Se nelle epoche passate le malattie non avevano quasi rimedi, e i ricchi morivano come i poveri, la qualità dell’alimentazione faceva però la differenza. Altra selezione derivava dalle morti violente: i ricchi guidavano gli eserciti, ma vi morivano soprattutto i poveri; ancor di recente i ricchi trovano sempre modo di sfuggire al servizio militare, addirittura a volte pagando qualcuno per sostituirli. Per altro, vivendo le classi superiori del lavoro delle inferiori, sempre hanno provveduto che si riproducessero nella giusta misura gli schiavi ed oggi i proletari. Quindi una pressione selettiva legata a fattori “non naturali” c’è sempre stata, potendosi senz’altro affermare che l’homo faber, a differenza degli altri animali, seleziona sé stesso.

La condivisa, e giustificata, repulsa moderna per l’eugenetica sta quindi soltanto nel suo manifestarsi storico, nel suo stravolgimento, fino al mostruoso, in ambiente mercantile ed individualistico.

Altro aspetto grottesco della diatriba odierna, nella quale tutti fingono di accalorarsi, come se si trattasse di una svolta della nostra civiltà, è che da un lato ci si appella alla difesa della vita, dall’altro alla santità della ricerca, che potrebbe, a sua volta, salvare vite. Non cercheremo certo di stabilire di quante cellule deve essere costituito un embrione per potersi considerare essere umano; la vita è nata 4 miliardi di anni fa, e non si capisce quando si dovrebbe interrompere e quando riprenderebbe: la vita è un continuum del quale ogni individuo fa parte per un breve periodo. Perché l’embrione sarebbe vivo mentre una qualsiasi cellula dell’organismo di origine no? Come stabilire la data di nascita? E, soprattutto, che senso ha tutto questo di fronte ai problemi, anche di sopravvivenza, che l’umanità dovrebbe affrontare e che invece ignora con perfetto cinismo? Quando la chiesa cattolica afferma di voler difendere la vita che nasce scade nell’individualismo, tipico delle religioni d’oggi, asservite all’ideologia borghese.

Dall’altro lato, ugualmente ipocriti sono i difensori della ricerca che dovrebbe servire a salvare vite, quando l’unica salvezza cui ambisce è quella del Profitto. La borghesia, e in primo luogo quella italiana, fa ricerca solo in prospettiva di un profitto. Mentre in passato si ammetteva che questo si potesse presentare anche a distanza di tempo, in modo indiretto, e quindi si sosteneva anche la ricerca di base, oggi la necessità impellente è che il profitto arrivi subito, perché il capitale si deve riprodurre in tempi sempre più stretti. Quindi la ricerca di base è estremamente penalizzata. Le cellule staminali promettono di dare risultati trasformabili in profitti in tempi brevi, e quindi non ci si deve opporre al progresso della scienza, guai!

La necessità del Capitale, però, in fin dei conti, imporrà il suo corso, fregandosene del risultato di qualunque referendum: dove sono soldi, si va. Se alla prima prova incontrerà degli ostacoli posti dal pretame, troverà la strada per aggirare l’ostacolo, non vi sono dubbi. Per essa la questione non è che business, che sfrutta ogni bisogno ed ogni debolezza umana e fa della procreazione una merce accanto alle altre.

L’uomo, nella crescita continua delle sue capacità di lavoro, come è in condizione di intervenire potentemente sulle proprie forze produttive, e quindi sulla sua storia, può anche influenzare e decidere della propria riproduzione, cui il termine “selezione” non appare più del tutto adeguato. Trovare risposta alla grave questione, che evidentemente richiede il superamento dell’ambiente sociale capitalista, si potrà solo in una società comunista, armoniosa e fraterna, che forse non tarderà molto ad affermarsi, e nella quale la felicità del singolo torni ad essere problema di tutti.

Solo il Comunismo è Vita. Solo allora il volere e il sapere umano potranno esser volti veramente a difesa della vita, nella sua accezione più ampia e generale, la difesa della continuità e divenire di un Mondo Vivente e delle sue infinite e preziose interrelazioni, fra specie, fra generazioni, fra individui.
 
 
 
 
 
 


Marx ed Engels su Cina e Rivoluzione

Dal libero scambio

Marx nello scritto Grande Muraglia e cotonerie inglesi, del 31 gennaio 1850, cita il noto missionario tedesco Gutzlaff tornato dalla Cina. La sovrappopolazione in lento ma regolare progresso aveva già da qualche tempo reso soffocanti i rapporti sociali per la gran maggioranza di quella nazione. Vennero gli inglesi e si aprirono con la forza il libero scambio in cinque porti cinesi.

L’industria cinese, poggiante sul lavoro manuale, soccombette alla concorrenza della macchina e l’incrollabile Impero di Mezzo subì una crisi sociale profonda. Sul paese in sfacelo gravava lo spettro d’una rivoluzione violenta. Dalla plebe in tumulto qualcuno si levò a denunciare la miseria degli uni e la ricchezza degli altri e a chiedere una ridivisione della proprietà, anzi l’abolizione completa della proprietà privata.

«Quando, dopo vent’anni d’assenza, il signor Gutzlaff tornò tra le persone civili europee, e sentì parlare di socialismo, chiese di che cosa si trattasse. Spiegato che gli fu, esclamò sbigottito: “Dunque, non sfuggirò in nessun luogo a questa dottrina malefica? Da qualche anno, esattamente le stesse cose sono predicate da molti della plebaglia in Cina!”

«In otto anni le balle di cotonerie della borghesia britannica hanno portato l’Impero più antico e solido del mondo alla vigilia di un sovvertimento sociale. I prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante, con la quale essa abbatte tutte le muraglie cinesi, risultati che hanno, un’importanza immensa per la Rivoluzione Comunista» (Marx, Rivoluzione in Cina e in Europa, Londra, 20 maggio 1853).

«Scatenata dall’Inghilterra la rivoluzione cinese, il problema è come questa rivoluzione reagirà nel tempo sulla stessa Inghilterra [oggi: su tutto l’occidente] e, attraverso, questa, sul continente europeo. Si può sicuramente prevedere [e a maggior ragione oggi, a distanza di 150 anni] che la rivoluzione in Cina getterà una scintilla nella polveriera sovraccarica del sistema economico vigente e provocherà l’esplosione della crisi generale che da tempo si prepara e che, debordando dall’Inghilterra [leggi l’America] sarà seguita a breve distanza da rivoluzioni politiche in Europa. È diventato uno spettacolo curioso, quello di una Cina che esporta il disordine nel mondo occidentale, con l’arma della concorrenza a loro imposta con la violenza dei cannoni britannici» (Marx, La dominazione britannica in India, Londra, 16 giugno 1853).

«Così in India, per gli effetti del vapore e del libero scambio made in England. L’intervento inglese, avendo collocato il filatore nel Lancashire e il tessitore nel Bengala, o spazzato via tanto il filatore quanto il tessitore indù, ha distrutto queste piccole comunità semi-barbare e semi-civili, facendone saltare in aria la base economica e in tal modo causando la più grandiosa e, a dire il vero, l’unica rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto. Qualunque sia il crimine perpetrato dall’Inghilterra, essa fu, nel provocare una simile rivoluzione, lo strumento inconscio della storia».

Nel 1800, l’Inghilterra, centro del capitalismo occidentale, sfruttava crudelmente la propria classe operaia. Bambini di 6-7 anni portati in spalla dai genitori sul lavoro, affamati, mangiavano la colla da dare alla tela; i letti erano sempre caldi, utilizzati da operai diversi secondo l’avvicendarsi dei turni di lavoro sulle 24 ore; uomini e donne lavoravano nudi per il calore nelle miniere e nelle officine. L’altezza utile per fare il militare fu abbassata, per compensare gli effetti della malnutrizione. Quando Berlusconi, dalla Cina, invita i capitalisti ad investire in Cina, che là il lavoro non costa niente, non fa che ricalcare le orme capitaliste giovanili e selvagge. La classe operaia non ha mai conosciuto il libero scambio.

Alla crisi e alla guerra

Scrive Engels nel suo classico Antidühring, nel capitolo Teoria della violenza: «A fare esplodere il globo, o trattenere l’esplosione, non sarà solo il fattore economico, pur essendo il suo peso determinante. Ad esso si aggiunge la forza, rappresentata dagli eserciti che, come tutti sappiamo a nostre spese, costa una tremenda quantità di denaro. Ma la forza non può far denaro, può, tutto al più, portare via quello che è già stato fatto. Il denaro deve pur essere fornito dalla produzione economica; la forza dunque è a sua volta condizionata dell’ordine economico. Anche l’effetto esercitato da comandanti geniali si limita a adeguare la maniera di combattere alle nuove armi, e ai suoi combattenti, entrambi prodotti da una determinata economia. La rivoluzione francese, al pari dell’americana, non poteva che opporre agli sperimentati eserciti mercenari la guerriglia e l’impiego di masse. Il militarismo domina e divora l’umanità».

Oggi i settori dove maggiormente fluisce il capitale sono: la produzione di armamenti, primo settore economico; segue quello della produzione, raffinazione e trasposto della droga; poi quello dello smaltimento dei rifiuti. Perfetta rappresentazione paradigmatica del Progresso capitalistico.

«Ma il militarismo reca in sé anche il germe della propria rovina. La concorrenza reciproca dei singoli Stati li costringe da una parte ad impiegare ogni anno più denaro e quindi ad affrettare sempre più la rovina finanziaria, per questo il militarismo, come ogni altro fenomeno storico, sarà condotto alla rovina dalle conseguenze del suo proprio sviluppo».

Lo ha confermato la rovina dell’URSS e del patto di Varsavia; lo riconferma oggi il super deficit americano. Il capitale-merce asservisce a sé colui che se ne appropria, oltre e più del lavoratore che lo riproduce.

L’economia domina sul fatto guerra. Lo comprova il fatto che durante tutte le guerre si vendono armi e prodotti al nemico. L’Iraq ne è un esempio recente. Si ripete oggi con la vendita delle armi alla Cina. I capitalisti americani non vogliono che gliene vendano gli europei, perché le vogliono vendere loro! Eppure è già la guerra, se non dichiarata, fra imperialismi.

Il capitalismo, e il militarismo capitalista, hanno infine compiuto il giro del Globo e non esistono più Nuovi Mondi in Occidente e in Oriente in cui sfogare sovrappopolazione e sovrapproduzione: difficile ignorare il potente effetto rivoluzionario di un fatto simile.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2


La riunione di partito a Torino del 28‑29 maggio
[RG92]


Origine dei Sindacati in Italia - [Resoconto esteso]
Storia dell’Iraq moderno  [resoconto esteso]
La borghesia italica nello specchio deformante della sua ideologia - [Resoconto esteso]
Antimilitarismo e Movimento operaio - [Resoconto esteso]
La questione ebraica: (2) Dietro le generalizzazioni [resoconto esteso]

 

Si è tenuta nella migliore atmosfera di sereno impegno la periodica riunione di lavoro del partito, alla scadenza precedentemente stabilita.

Abbiamo ben chiaro il perdurare del lungo, quasi secolare, ciclo di rinculo della lotta di classe, della quale ancora non è possibile prevedere il momento di inversione storica, nel quale solo troveranno rispondenza sociale le lezioni che il nostro movimento ha tratto dalla controrivoluzione staliniana, moderno manifestarsi e travestimento delle forze mondiali della conservazione violenta e della ideologia del Capitale.

Siamo consapevoli che non saranno le doti di abilità manovriera di alcun capo di partito, né alcuna astuzia tattica, a poter anticipare di un secondo la ripresa rivoluzionaria, e che, viceversa, la mancanza del partito rivoluzionario marxista, ben saldo sulle sulle sue basi di dottrina, potrebbe di nuovo far fallire ogni assalto proletario seppure generoso contro i bastioni della classe nemica. Abbiamo il dovere quindi di mantenere, pur con le minime forze che oggi la situazione consente, la continuità di una vivente compagine, allenata a moduli di relazione interna, ad un preciso e immutabile impianto dottrinario e ad un embrionale intervento verso la classe secondo precisi schemi, tipici ed esclusivi del partito comunista della classe operaia.

Nell’indispensabile e permanente ricerca del rapporto con la quotidiana lotta di classe, senza il che non è il partito, intendiamo così mantenere un segno, che sappiamo che oggi non può essere condiviso da significative forze militanti, ma che a noi materialisti basta che sia formulato e dimostrato in vitro.

In questo spirito lavoriamo e teniamo le nostre riunioni.

Abbiamo dapprima ricordato il compagno Livio, che ci ha recentemente lasciato; sentiremo a lungo la mancanza della sua persona e del suo lungimirante consiglio.

Dedicata la mattina del sabato al riepilogo delle nostre prospettive di lavoro e ai necessari accordi, passavamo, al pomeriggio e nella successiva mattinata, all’esposizione delle relazioni, delle quali qui diamo il senso essenziale e che troveranno nei prossimi mesi riproduzione integrale sulla stampa del partito.

Erano stati appesi alle pareti della sala i grafici aggiornati agli ultimissimi dati dell’economia mondiale, e l’andamento depresso che descrivono è stato brevemente illustrato e commentato.
 

ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA

Il rapporto ha continuato la disamina di come fu affrontata la “questione sindacale” in Italia da parte del governo fascista. Il relatore ha analizzato la “Carta del Lavoro”, redatta nel 1926, che, pur non costituendo una novità rispetto a vecchie utopie e ipocrisie sociali, presenta esplicito il requisito del riconoscimento legale e della sottomissione dei sindacati, padronali e operai, al controllo dello Stato. Solo questi sindacati possono stipulare accordi di lavoro, i cui termini divengono obbligati per tutti i lavoratori della categoria, dai quali possono esigere contributi.

Al Punto IV è chiaramente formulato il fondamento che da allora sarà da base a tutto il movimento sindacale “tricolore”, pre e post bellico: «Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione». Gli attuali sindacati, per la verità, sono andati anche oltre la concezione fascista, quando, per essi, gli stessi contratti collettivi sarebbero “superati”, e disconoscendo la ineluttabile opposizione di interessi fra le classi.

Riguardo all’intervento dello Stato nella produzione, seppure solo «quando sia insufficiente l’iniziativa privata», si afferma che «può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta», ritrovandosi anche in questo il fascismo allineato al riformismo pre-fascista e al futuro stalinismo.

Il Consiglio delle Corporazioni, che avrebbe dovuto costituire il centro volitivo del dirigismo economico, di fatto fallisce al suo compito non potendo una particolare forma di governo, sia pure dittatoriale, riuscire a controllare le anarchiche forze economiche capitalistiche.

Ci fu anche chi si spinse a preconizzare un “superamento” fascista della proprietà privata, col passaggio di tutti i mezzi di produzione sotto il controllo di un “corporativismo integrale”, del quale anche gli operai, per la loro parte, e i “tecnici”, sarebbero stati “proprietari”. Tesi che comportava la risoluzione del sindacato nella corporazione, organismo che sarebbe dovuto essere insieme economico e politico. Evidente la discendenza, non dal “bolscevismo”, come si disse, ma dagli anti-marxisti e anti-comunisti sindacalismo rivoluzionario e consiglismo gramsciano. Finì invece che «si ebbero le corporazioni senza corporativismo» (Bottai). Le classi imprenditoriali mai si sottomisero alle istituzioni corporative.

La lotta di classe è un fiume carsico, che può talora sembrare dissolversi nel nulla, ma che necessariamente presto torna in superficie, distruggendo gli argini rappresentati dai sindacati-corporazioni, di verniciatura reazionaria o democratica che siano.
 

STORIA DELL’IRAQ MODERNO

È continuato il lavoro di ricostruzione della storia del movimento delle classi in Iraq, affrontando stavolta il tormentato periodo che, nell’arco di vent’anni, dai primi anni Sessanta ai primi anni Ottanta, ha visto la stabilizzazione del regime iracheno attorno alla rete di potere che faceva capo a Saddam Hussein.

Nel febbraio 1963, con un colpo di Stato, il Partito Baa’th, appoggiato dai militari, depone Passim e si insedia al potere. I mesi successivi sono caratterizzati da una spietata repressione contro gli avversari politici, soprattutto gli stalinisti, che erano addirittura scesi in piazza per difendere il regime di Qassem.

Mentre nei primi anni Sessanta la borghesia irachena cerca faticosamente, anche con scontri sanguinosi tra i vari centri di potere, di darsi un regime stabile, il PC Iracheno, sottomesso alle direttive di Mosca, arriva ad appoggiare il governo riconoscendo nella dirigenza del Baa’th un regime "nazionalista" e "non capitalista", con cui sarebbe possibile collaborare.

Questa linea, oltre che reazionaria, addirittura suicida, viene però respinta dalla base del partito che si rifiuta di appoggiare quelli "le cui mani grondano del sangue del partito e del popolo".

Queste divergenze politiche all’interno del partito porteranno ad una serie di scissioni senza però che riesca a delinearsi un nucleo in grado di ricollegarsi alla classica tradizione marxista rivoluzionaria.

Il PCI ufficiale, denominatosi PCI Comitato Centrale per distinguersi dagli altri gruppi, nei primi anni Settanta cade addirittura nella trappola della collaborazione col partito Baa’th, in quel momento in cerca di una legittimazione popolare. A seguito degli stretti rapporti economici che si stringono tra Baghdad e Mosca, nel 1973 il PCI entra in un Fronte Nazionale Progressista e l’anno successivo scioglie tutte le sue strutture indipendenti nei luoghi di lavoro.

Ma, col rafforzamento del regime, la collaborazione del Baa’th con il PCI gli diventa inutile e dannosa: nel 1978 una nuova ondata repressiva colpirà il partito; dal 1978 al 1981 si stima che dai 20 ai 30 mila comunisti e simpatizzanti siano stati arrestati e tra loro, centinaia sono gli "scomparsi".

Su questa scia di sangue proletario, e contando sui proventi della vendita del petrolio, si installa al potere la cricca di Saddam Hussein.
 

LA BORGHESIA ITALICA NELLO SPECCHIO DEFORMANTE DELLA SUA IDEOLOGIA

I fautori della via nazionale al socialismo si sono esercitati dal 1945 a dare la loro versione della storia, dall’avvento del fascismo alla sua sconfitta da parte degli “antifascisti”.

Oggi si lamenta ancora che il processo revisionistico, mentre aveva visto la socialdemocrazia classica celebrare la sua “Bad Godesberg”, si dimostrava ambiguo ed insufficiente per i seguaci del partito staliniano. In realtà nei suoi atti si leggera la scelta opportunistica e democratica: dalla svolta di Salerno in poi il partito di Togliatti aveva dimostrato la sua lealtà allo Stato. Ma la borghesia vi aveva anche letto la possibilità di vivere di rendita per lungo tempo.

Revisionismo politico e storiografico vanno sempre di pari passo: l’abbandono del programma comporta la sua giustificazione. Si assiste alla manipolazione della memoria, che viene adattata al cambiamento di prospettiva. Il problema investe, come sempre, il nesso tra essere e divenire: i fautori del cambiamento dovrebbero essere ostili ad ogni punto fermo, altrimenti come potrebbero giustificarlo? Ma il revisionismo tocca i principi, cioè gli assunti base che caratterizzano qualsiasi formazione storica. Una cosa è conoscere meglio e più a fondo eventi già accaduti, altra è manipolarli in modo tale da accomodarli agli interessi contingenti.

Noi sappiamo bene che la storia la scrivono i vincitori e non crediamo ad una “scienza della storiografia” super partes. La milizia politica è consapevolezza della parzialità, della scelta netta d’una parte, che per noi è quella del proletariato.

In nome dell’egemonia culturale l’opportunismo di marca staliniana si è dato un gran da fare per scrivere la storia dei vincitori: l’antifascismo unito contro il nazi-fascismo da cui nacque la costituzione repubblicana.

Oggi la guerra per bande rivendica ognuna la sua versione particolare, più congrua alle realizzazioni di nuovi orizzonti di collaborazione democratica tra forze che venivano date per antagoniche. Oggi si deve trovare il modo di accettare che i patrioti, neri o rossi, sono pur sempre patrioti: che siano stati con la resistenza o con la repubblica di Salò. Il tiro alla fune si è fatto grottesco, tutti giurano d’essere buoni italiani, dediti allo sviluppo dell’economia nel quadro della patria italiana e della cornice europea, nello ambito del libero commercio mondiale.

Ma ogni volta che si pretende di operare uno strappo col passato secondo libertà e interesse contingente, la storia si vendica. La riscoperta delle tre versioni della resistenza richiama alla memoria il fatto che milioni di proletari furono trascinati a combattere nelle patrie trincee, anche se molti di loro non avevano dimenticato il motivo reale del contendere, cioè la lotta imperialista mascherata da primato tra nazioni.

Per 50 anni si è sostenuto che la storia dell’antifascismo è stata scritta ed intesa come storia della lotta di popolo contro le barbarie nazi-fascista perché era necessario convincere il proletariato che, battuto il mostro, era possibile rimboccarsi ancora una volta le maniche per contribuire alla democrazia, aperta al futuro socialista, da perseguire con cautela, pacificamente, senza minacce reazionarie e ipoteche autoritarie.

Sdoganato il vecchio Movimento Sociale dal suo isolamento, fuori dall’arco costituzionale, è necessario trovare nella resistenza un punto di appoggio anche per in nuovi arrivati nell’area di governo. Ognuno a modo suo fu “patriota”, preoccupato dei destini della nazione e dello Stato. Ed hanno ragione: le presunte insanabili divergenze erano solo diversificazioni tattiche in rapporto alla necessità di condurre il proletariato con le mani legate sul terreno della guerra.

La storiografia, come scienza del vero, viene smentita e dà ragione al nostro metodo e modo di intendere il rapporto con gli eventi storici. Avere il coraggio di predicare dai tetti il programma non è un’ingenuità, ma l’unica possibilità che sta davanti sia al partito sia al movimento proletario a livello generale. Se il revisionismo storiografico si dimostra un’arma per continuare una guerra d’antica data, non rimane che opporre alla memoria dei revisionisti quella del partito, che in quanto organo della classe non fa distinzione eccessiva tra passato e presente e futuro, uniti in una sola prospettiva.

La memoria del partito è affidata sì a militanti che dispongono, come tutti, della facoltà di ricordare, ma di ricordare secondo una memoria collettiva, che lega gli eventi secondo quel “filo rosso” che rivendichiamo, e che non può dimenticare le sofferenze dei proletari, diciamo pure, da Spartaco ad oggi.
 

ANTIMILITARISMO E MOVIMENTO OPERAIO

Il rapporto sull’antimilitarismo si soffermava ancora sull’anno cruciale che separò lo scoppio della prima guerra mondiale dall’intervento italiano.

È stata messa in evidenza la tradizionale attitudine opportunistica dell’imperialismo straccione italiano che, determinato ad entrare nel conflitto per non perdere l’occasione della spartizione del bottino di guerra, fino a pochi giorni prima del fatidico 24 maggio, tergiversava incerto in quale delle due parti collocarsi, e trattava separatamente con entrambi gli schieramenti bellici per poter, secondo la ingloriosa consuetudine risorgimentale, vincere con le armi degli alleati.

D’altra parte i gruppi interventisti, nazionalisti, mussoliniani, d’annunziani, etc., non avrebbero tolto la loro adesione alla guerra anche nel caso che l’Italia avesse onorato l’impegno trentennale che la legava agli Imperi centrali attraverso i trattati della Triplice alleanza.

Un altro aspetto ben tratteggiato è stato quello della ipocrisia democratica. È stato infatti ricordato come il Parlamento, che a larghissima maggioranza si professava "neutralista", avesse dapprima espresso la sua piena fiducia al governo Salandra e, poi, con voto quasi unanime avesse conferito al governo i poteri straordinari per l’entrata dell’Italia in guerra.

Mentre il fronte borghese si trovava concorde nel suo intento guerresco, altrettanto non era il fronte proletario rappresentato dal partito socialista italiano.

È vero che il partito socialista mantenne la sua posizione di avversione alla guerra. Ma a scongiurare i fatti materiali non sono sufficienti i buoni propositi: alla forza del potere statale il proletariato avrebbe dovuto contrapporre la sua forza di classe. Al contrario il gruppo parlamentare ed i dirigenti confederali, senza esclusione di una parte della stessa Direzione del partito, ebbero paura a mettere in movimento la classe lavoratrice e vollero limitare la loro opposizione all’ambito parlamentare democratico.

D’altra parte la loro tradizionale politica era stata quella della conservazione della pace sociale e del rifiuto dello scontro violento nelle competizioni sociali. Il loro intento era quello di costringere lo Stato borghese alla neutralità "mettendo la guerra in minoranza alla Camera".

L’infelicissima formula "né aderire, né sabotare", enunciata da Lazzari, esprimeva a meraviglia la mentalità dei dirigenti politici e sindacali imbevuti di cretinismo parlamentare e democratico: se da una parte veniva espressa la loro disapprovazione nei confronti della guerra imperialista, dall’altra non riuscivano nemmeno a concepire il sabotaggio dello Stato.

Quindi, quando democraticamente il parlamento concederà i pieni poteri a Salandra, il gruppo parlamentare socialista si limitò a dare il suo voto contrario. Il loro non era un peccato di viltà, non li tratteneva il timore delle conseguenze della repressione. La loro era una colpa ben più grave: temevano di macchiarsi di tradimento della patria. Erano imbevuti di pregiudizi borghesi fino al punto di ritenere che dovere dei socialisti fosse quello di non danneggiare le operazioni militari della patria.

Del tutto opposta era la posizione di intransigente antimilitarismo espressa dalla compagine rivoluzionaria del partito. L’antimilitarismo di classe, attivo ed operante, che, dai transfughi del socialismo, si tentava di presentare come l’espressione di un quietismo pavido e meschino, tipico della concezione e della tattica riformista, in realtà era intimamente collegato alla natura rivoluzionaria della migliore tradizione socialista.

L’estrema sinistra del PSI non si poneva contro la guerra imperialista per amore della pace, altrettanto borghese ed imperialista. I nostri compagni erano coscienti del fatto che la "pace", così come la guerra, fa le sue vittime e le sue stragi di proletari. Non era con la predicazione della rassegnazione cristiana che i rivoluzionari si proponevano di superarla, tutt’altro! L’avversione alla guerra rappresentava il punto più alto dello scontro di classe perché in loro esisteva la convinzione che qualunque guerra, comunque presentata o paludata, non rappresenta altro che il trionfo della politica borghese, non rappresenta altro che la vittoria della oppressione e dello sfruttamento capitalistico contro il proletariato, non rappresenta altro che un attentato al socialismo ed alle formazioni rivoluzionarie.

Nello svolgimento del rapporto, così come nei precedenti, ci siamo più volte imbattuti nelle affermazioni dei presunti rivoluzionari sulla "guerra rivoluzionaria", concetto questo che, nelle intenzioni di lor signori, avrebbe avuto lo scopo di sollevare l’entusiasmo eroico nelle masse.

Facile era contrapporre a codeste affermazioni la tesi classista che la guerra non solo non significa negazione delle vigenti istituzioni borghesi, non solo non ha come fine la demolizione dell’attuale ordine sociale, ma, al contrario, rappresenta la sua strenua conservazione. La guerra arma sì il proletariato, ma mette l’azione del proletario militarizzato, la sua violenza, sotto la direzione ed il controllo degli organismi militari e delle autorità costituite, e lo spargimento di sangue non rappresenta la ribellione dell’uomo che insorge contro l’oppressione, ma rappresenta il suo estremo asservimento: la guerra è conservazione, non è rivoluzione!

Certo, esisteva anche un’altra possibilità, la possibilità della trasformazione della guerra in rivoluzione. Ma l’evento avrebbe potuto verificarsi, e realmente si verificò, soltanto alla condizione che il proletariato ed il suo partito non avessero fatto nessuna concessione allo Stato borghese avversando e combattendo alla stessa maniera la sua guerra e la sua pace. Tutto il resto sarebbe stato ripiegamento verso la borghesia e travisamento del programma rivoluzionario.

Malgrado la feroce avversione da parte del proletariato, malgrado le posizioni nette della sinistra rivoluzionaria, la guerra non poté essere evitata. Il proletariato italiano, sebbene con un anno di ritardo, rispetto a quello degli altri paresi europei, dovette andare al macello e versare il suo contributo di sangue sull’altare del capitalismo.

Ma il fermo atteggiamento dei rivoluzionari italiani, così come quello dei compagni russi e di altre minoranze nei vari paesi, costituirono le basi per la riscossa proletaria del dopoguerra, la fondazione dei partiti comunisti e della III Internazionale.

Il 23 maggio 1915 i nostri compagni scrivevano: «Oggi che la guerra è un “fatto compiuto”: contro la guerra, per il socialismo antimilitarista ed internazionale».
 

LA QUESTIONE EBRAICA (2) Dietro le generalizzazioni la lotta delle classi

Se è vero che ogni sovrastruttura culturale d’ogni organizzazione sociale è il prodotto di condizioni base di tipo economico in senso lato, allora si dovrà spiegare perché gli Ebrei si attengono all’alleanza col loro Dio unico, mentri i Greci pensano che i loro Dei sono sovrastati da Destino. Per via dialettica dovremmo essere in grado, o almeno fare lo sforzo di ricostruire la questione.

Nel VII secolo avanti Cristo si profila in terra d’Israele il movimento "per Javè soltanto". Prima del "Dio geloso e unico", si combattevano una serie di Baal. Tra lotte sanguinose e complesse contraddizioni si fa strada il Dio della Bibbia. A livello sociale si intrecciano interessi conflittuali tra una miriade di clan, popoli che abitano una regione tra le più fertile e contese. Il movimento "per Javè soltanto" significa tendenza all’unificazione degli Ebrei del tempo sotto un unico programma politico ed ideologico. Certo non siamo di fronte a lotte di classe come le intendiamo oggi, ma l’unico Dio si apre la via in questo contesto.

I Greci conoscono una storia di singole poleis, ciascuna con propri problemi e sviluppi separati, soltanto ad un certo grado di sviluppo di esse si assiste al tentativo egemonico di varie città, come Sparta, Tebe, Atene. E la sovrastruttura culturale è il politeismo, e poi lo sviluppo della filosofia come disciplina razionale.

Nella storia qualsiasi classe in conflitto con le altre non si è limitata a opporre i suoi eserciti ed i suoi interessi, ma tutta la sua visione del mondo, rivendicando così la superiorità dei propri valori culturali e religiosi. Se oggi si tende ad escludere, anzi a scoraggiare, lo scontro di civiltà per motivi sia tattici sia ideologici, nel mondo antico nell’ora della guerra si mobilitato tutte le energie. Del resto, alla resa dei conti, circola anche nel mondo di oggi la formula "Gott mit uns!".

Gli Ebrei, complessivamente deboli in rapporto a forze quali Babilonia, Persia, Roma, opposero la potenza del loro Dio. Questo Dio viene presentato con caratteristiche molto diverse, in confronto ad altre culture. È un dio trascendente e nascosto, dal nome "impronunciabile", cioè non dominabile, alludendo con ciò ad una potenza che neppure i suoi eletti possono pienamente conoscere ed "utilizzare". Dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad una questione molta elevata, come tutte quelle che storicamente hanno segnato l’evoluzione umana. Questo tipo di divinità ha quel fascino che provocò, anche nei suoi nemici babilonesi, egizi, persiani, romani, uno sconcerto evidente. La tradizione dice che i Romani, in particolare, pragmatici e abili nel trattare le religioni dei popoli soggiogati, non intesero entrare nel vivo delle polemiche tra il Sinedrio ed i soteroi, evitando così di impegolarsi nel loro gioco. Il loro Dio era la LEX. Ma l’evento della condanna di Cristo scosse profondamente le basi del potere di Roma.

La nostra tradizione non irride miti e grandi sistemi del passato, in quanto è capace di vedere in essi la giustificazione ideologica dei modi di vita sociale, l’involucro lavico dei vulcani rivoluzionari di tempi diversi. La produzione anche culturale di essi spiega il fenomeno che fa del cristianesimo il culmine e l’inizio della crisi dell’Impero romano, che si regge sullo schiavismo.

I soteroi facevano appello in vario modo alla lotta contro i potenti, sia di Roma sia territoriali, quali, nel caso che trattiamo, il Sinedrio di Gerusalemme. Il complesso e articolato raccontare dei Vangeli oscilla dalla volontà di lotta contro i "mercanti del tempio" al rapporto da tenere con l’Impero, alla elaborazione più generale che indica il fine della lotta, compresa la natura del "Regno" futuro Che non è di questo mondo, secondo la ricostruzione interessata. Pullulano forme di resistenza ai potenti del tempo, che si difendono con il terrore delle crocifissioni, il martirio inflitto agli schiavi ribelli. Sul monte Calvario sono stati ritrovati duemila crani di crocefissi.

Ribadiamo la nostra visione della lotta tra le classi sociali, escludendo che ne siano le diatribe culturali e religiose la chiave di volta. Ma nello stesso tempo non rinunciamo a vedere in che modo si legano le questioni religiose-dottrinarie, culturali in genere, con la base economica e sociale che tiene in piedi un apparato di potere e di relazioni sociali sempre più micidiali per le sorti dell’intera specie umana, che professi una o una miriade di fedi religiose. Quando la sovrastruttura religiosa-teologica raggiunge il suo compimento, la sua sistemazione in un corpo dottrinario ben definito, e difficilmente modificabile, significa che il modo di vita sociale ed economica da cui ha tratto origine ha raggiunto non solo il suo culmine, ma si è perfino già disgregato.

La stratificazione culturale, nel corso del tempo, è complessa; gli strati di questo tipo di terreno si amalgamano in profondità, ma non al punto di sfuggire allo studio d’esperti geologi marxisti.
 
 
 
 
 
 
 

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Il mito borghese della «divisione dei poteri»

(Continua dal numero scorso)
 

Viene da domandarsi da cosa derivi la richiesta e necessità di indipendenza e di autonomia all’interno del potere trinitario dello Stato borghese: legislativo, esecutivo, giudiziario. La risposta che viene data è che i tre poteri, essendo pienamente autonomi, si controllano a vicenda e, impedendo che uno dei tre prenda il sopravvento sugli altri due, garantiscono l’ordinamento democratico da pericoli degenerativi o dittatoriali.

La nostra concezione è alquanto diversa. Innanzi tutto diciamo che parlare di coesistenza di più poteri, autonomi l’uno dall’altro, è una contraddizione in termini perché il potere o è unitario oppure non è. Inoltre la barzelletta dei tre poteri uguali e distinti (proprio come le Persone della SS. Trinità) risulta falsa dal fatto stesso che questa autonomia venga di continuo rivendicata; infatti, qualora questa organica collaborazione si realizzasse, scomparso il contrasto tra i vari poteri scomparirebbe anche la loro stessa divisione e, quindi, si tornerebbe al concetto che il potere non può che essere unitario. In altre parole, allorquando non esistessero tentativi di sopraffazione di un organo dello Stato sull’altro, si avrebbe soltanto divisione delle funzioni, non divisione del potere.

Nei confronti del proletariato il potere statale è unico e totalitario. È la borghesia che al suo interno, e solo al suo interno, rivendica libertà ed autonomia perché diversi e contrastanti sono gli interessi economici, tra i vari suoi settori, nel seno della stessa classe. Questa pluralità di interessi, talora inconciliabili, come determina la pluralità dei partiti borghesi allo stesso modo determina la pluralità ed il continuo conflitto tra i vari centri di potere. Conflitto che per lunghi periodi può essere solo latente mentre in altri esplode in tutta la sua virulenza, ma che è determinato dallo stesso sistema anarchico di produzione capitalista e che mai, quindi, potrà essere eliminato.

Quindi la “suddivisione” dei poteri dello Stato lungi dall’essere garanzia di equilibrio e di stabilità è sintomo del male incurabile che attanaglia la società capitalista.

Tornando alla Magistratura dobbiamo dire che l’autonomia ed il potere di cui questa ha goduto negli ultimi decenni del secolo scorso non gli erano stati semplicemente “ottriati” dalle leggi ma se li era guadagnati sul campo, e l’esecutivo aveva dovuto subirlo.

Le esperienze compiute da molti magistrati inquirenti nell’ambito della lotta alla mafia e sul fronte del terrorismo interno, avevano consentito una più dinamica organizzazione delle Procure della Repubblica e degli organi di polizia che collaborano con esse. Tutto ciò aveva determinato una serie di situazioni favorevoli alla Magistratura, anche ad opera del suo Consiglio Superiore che assumeva sempre di più un carattere di forza rispetto agli altri poteri dello Stato. Una indipendenza ed una forza tale da determinare, in brevissimo tempo, il crollo di una impalcatura politica consolidata che aveva dominato la scena per quasi mezzo secolo.

Nel corso di codesto mezzo secolo la Giustizia altre volte aveva ficcato il naso all’interno della Politica, si pensi alla vicenda, risalente agli anni ‘50, dell’Istituto Nazionale per la Gestione delle Imposte di Consumo; a quella detta dello “scandalo dei petroli”, che come unico effetto ebbe l’istituzione del finanziamento pubblico dei partiti nel 1974; l’affare Lockheed ed altri ancora. Ma si trattava di interventi sporadici e che, se facevano saltare qualche rappresentante politico di mezza tacca, dato in pasto all’opinione pubblica come capro espiatorio, non mettevano certamente in crisi l’ordinamento politico nel suo complesso. Anzi a volte le inchieste della Magistratura rappresentavano per il mondo politico il proverbiale cacio sui maccheroni, come fu appunto l’istituzione del finanziamento pubblico ai partiti che si basa su questo semplice ragionamento: se lo Stato vuole che io smetta di rubare legalizzi il mio furto e me lo versi sotto forma di contributo!

Ma il vero attacco, quello frontale, che può quasi essere paragonato ad un colpo di Stato e che cancellò dalla scena politica partiti storici e di potere come la DC il PSI il PRI, mentre tutti gli altri se ne uscirono con le ossa rotte, il vero attacco fu quello sferrato nel 1992 sotto il nome di “operazione mani pulite”. La guerra scatenatasi in tutta la sua virulenza tra “Giustizia” e “Politica” vide, in un primo tempo, trionfare la prima mentre il mondo politico sembrava definitivamente sconfitto e disperso. La “Politica”, dopo avere riorganizzato le proprie forze, non ha tuttavia sferrato un attacco diretto contro la “Giustizia” per compiere la sua rivincita, non si è impegnata in prima persona, ma con un termine alla moda potremmo dire che la ha “esternalizzata”, appaltandola alla Ditta Berlusconi s.p.a.

Chi meglio di Berlusconi infatti avrebbe potuto “scendere in campo”? Incriminato per una lunga serie di reati comuni, riguardanti molti episodi di corruzione di funzionari pubblici (fra cui alcuni magistrati che occupavano posizioni di grande rilievo), reati societari ed altre violazioni di legge di vario tipo, Berlusconi, oltre al fatto di poter investire nella propria difesa somme di denaro praticamente illimitate, l’organizzò in un modo del tutto originale: non si limitò ad assumere squadre di avvocati che gli assicurassero la difesa tecnica nell’ambito delle varie inchieste e dei numerosi procedimenti penali che ne seguirono, ma procedette anche ad una imponente serie di attività extragiudiziali, che finirono per esercitare un ruolo decisivo al fine di assicurargli assoluzioni, dichiarazioni di improcedibilità per prescrizione o per altri motivi, oppure, quanto meno, con uno jus singulare, la sospensione dei procedimenti sine die. Queste attività consistettero principalmente nell’impiego sistematico dei mass media di sua proprietà per accusare di parzialità e di “politicizzazione” tutti i magistrati che, avendo dovuto occuparsi di lui per ragione del proprio ufficio, avevano adottato decisioni non conformi alle richieste della difesa e comunque per orientare l’opinione pubblica in senso favorevole a lui e sfavorevole ai magistrati ed all’intero potere giudiziario.

Nel 1993, inoltre, si procedette alla costituzione di un partito politico, gestito con le modalità di una azienda, che fu capace di raccogliere sotto le sue bandiere parecchi personaggi “atipici”, i quali in precedenza erano rimasti emarginati. Ciò consentì al Cavaliere di conquistare la maggioranza parlamentare e di assumere la guida del Governo italiano, potere di cui si avvalse pesantemente per influire in senso a lui favorevole sui processi in corso mediante provvedimenti legislativi e amministrativi, oltre che mediante una costante pressione propagandistica tendente a presentare sé stesso come perseguitato politico, vittima di una congiura organizzata contro di lui dai “comunisti”, cioè i suoi avversari, i quali si avvalevano di una magistratura già da tempo caduta nelle loro mani. A questa congiura non solo avrebbe partecipato un folto numero di magistrati italiani, ma anche giudici stranieri ed in genere tutti coloro che in un modo o in un altro non lo favorivano nei suoi interessi processuali, finanziari o politici. Oltre ad accusare la Magistratura sia italiana sia straniera di produrre prove false contro di lui, innumerevoli sono le “esternazioni” di Berlusconi in tema di giudici definiti “toghe rosse”, “golpisti”, “magistratura giacobina di sinistra”, “cancro da estirpare”, etc. È rimasta famosa l’intervista in cui sembra abbia detto: «I giudici sono matti, anzi doppiamente matti. Per prima cosa perché lo sono politicamente e, secondo, sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dalla razza umana».

Utilizzando in modo massiccio questi sistemi Berlusconi, anche se molto raramente ha ottenuto pronunce le quali escludessero l’esistenza del fatto illecito, è riuscito fino ad ora ad evitare ogni condanna definitiva. In molti casi è stato prosciolto per essere il reato estinto per prescrizione, oppure perché è stato escluso che egli avesse personalmente partecipato alla commissione del reato, del quale si sono dichiarati autori suoi collaboratori, che avrebbero quindi agito a suo vantaggio ma a sua insaputa o contro la sua volontà, oppure perché il processo è stato sospeso grazie ad una legge ad hoc fino a quando egli rivesta la carica di presidente del consiglio.

Tutto questo ha costituito una fonte quasi inesauribile di prezioso materiale polemico che i partiti di opposizione hanno utilizzato a volontà. Ma non per tirare giù Berlusconi dalla sua carica di capo del governo, carica che non avrebbe ottenuto se alle ultime elezioni politiche i partiti del centro-sinistra non avessero fatto finta di litigare provocando l’altrettanta finta secessione di Rifondazione Comunista. L’utilizzo che da parte del centro sinistra viene fatto della vicenda Berlusconi è esclusivamente di controllo sociale, serve ad ingabbiare ancor di più il proletariato nel caravanserraglio democratico paventando quotidianamente il pericolo di una dittatura personale dell’imperatore mediatico.

Ma noi, che abbiamo definito come “povere marionette che si illudono di fare la storia” personaggi ben al di sopra di un Berlusconi Silvio qualsiasi, non misuriamo la politica con il metro personale e dello starnazzare nel pollaio borghese, facilmente comprendiamo i reali fini di classe.

Il secondo governo Berlusconi, potendo disporre di una compatta maggioranza parlamentare, si è dato come scopo irrinunciabile quello di riformare la Costituzione e l’Ordinamento giudiziario.

Una prima modifica in questo senso fu adottata con la legge di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, approvata nel 2002, che determinò il numero dei consiglieri eletti dal Parlamento la cui presenza è necessaria per la validità delle sedute del Consiglio: è ora sufficiente che quattro di essi si assentino perché si determini l’invalidità della seduta e quindi venga bloccato il funzionamento del Consiglio. Ma, dato che per convenzione parlamentare alla maggioranza vengono assegnati cinque degli otto posti destinati ai “laici”, il Consiglio superiore della magistratura si trova nella situazione di ostaggio permanente del governo. Questa modifica, approvata con legge ordinaria, in pratica determina un ridimensionamento di non poco conto della normativa costituzionale e subordina le funzioni del Consiglio Superiore ad una sorta di tacito nullaosta del capo del governo in quanto leader della maggioranza parlamentare.

Ma questo non è stato che un primo assaggio di quale dovrà essere la portata della riforma che, una volta attuata, determinerà di fatto un diverso sistema costituzionale ed una altrettanto diversa Magistratura. Ciò si può agevolmente dedurre dall’analisi di alcuni punti che caratterizzano i progetti di riforma.

Innanzi tutto dobbiamo riconoscere che la giustificazione teorica delle riforme in questione per lo meno è chiara. Si dice, infatti, che è necessario assicurare “modernità” ed “efficienza” all’assetto costituzionale e al sistema giustizia. Il primo, attualmente, sarebbe caratterizzato da un groviglio inestricabile di vincoli imposti all’azione dell’esecutivo al punto da compromettere la realizzazione del suo programma (così come si aspettano gli elettori) e la stessa governabilità del paese. Il secondo, invece, essendo afflitto dal problema di un’endemica lunghezza dei tempi dei processi, penali e civili, imporrebbe interventi sull’assetto della carriera dei giudici che ne sarebbero i principali, se non unici, responsabili.

Quale la soluzione prospettata? Ovvio, l’aumento del potere dell’esecutivo. Infatti nel futuro ordinamento costituzionale il “premier” – cioè l’esecutivo – diventerebbe l’arbitro assoluto della politica, soprattutto del Parlamento, potendo chiedere ed ottenere lo scioglimento della Camera dei Deputati. Alla stessa maniera la Magistratura verrebbe gerarchizzata, limitando le libertà civili dei magistrati e la stessa funzione di interpretazione della legge loro demandata. Verrebbero notevolmente ampliati i poteri del Ministro nel settore disciplinare, nei campi della nomina dei dirigenti, della formazione professionale, della progressione in carriera, nell’amministrazione quotidiana degli uffici giudiziari.

Ma per attuare i poteri dell’Esecutivo vi è un’altra necessità, quella di svuotare dei loro poteri e delle loro competenze gli Istituti di controllo e garanzia: il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale, il Parlamento, da un lato, e dall’altro il Consiglio Superiore della Magistratura. Il ruolo del Presidente della Repubblica sarebbe ridotto ad esser ancor più decorativo di quanto non lo sia oggi: potrebbe esercitare solo alcuni marginalissimi poteri e la sua firma su tutti gli atti di governo sarebbe “dovuta”, senza possibilità di rifiuti, né rinvii. La Corte Costituzionale diverrebbe anch’essa di proprietà dell’esecutivo attraverso un sistema di designazione dei suoi componenti che assicuri la preminenza del nuovo Senato Federale, mentre il Parlamento sarebbe costantemente sottoposto al ricatto dello scioglimento qualora pensasse di votare la sfiducia al Capo del governo.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, se passasse la riforma ordinamentale, verrebbe relegato a svolgere un semplice ruolo notarile, che ne svuoterebbe alcune delle principali competenze attribuitegli dalla Costituzione ed il suo intervento si ridurrebbe alla mera ratifica di decisioni prese da commissioni esterne.

Al di là, quindi, delle strumentalizzazioni politiche, che da destra e da sinistra si sprecano, l’attuale evoluzione delle forme di potere si inquadrano in quella linea di tendenza che da sempre ha determinato la preminenza e l’accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo a scapito degli altri due poteri formali. Questa tendenza il post-fascismo la ha ereditata dal fascismo, che a sua volta l’aveva mutuata dal liberalismo post-unitario. Questa tendenza, o evoluzione, del regime borghese in senso dittatoriale noi l’abbiamo sempre avvertita e riconosciuta come una necessità per il sistema, non ci siamo mai scandalizzati di ciò, non abbiamo denunciato la minaccia per la legalità e non chiameremo il proletariato a scendere in campo per la difesa della democrazia. Quando questi ne avrà la forza non interverrà per ripristinare i valori della Costituzione, ma per sbarazzarsi una volta per tutte dello Stato capitalista e di tutti i suoi istituti.

Nemmeno i partiti dell’opposizione si scandalizzano del fatto in sé stesso e se fossero loro al governo farebbero, sostanzialmente, le stesse cose. Il loro strepitare dipende solo dal fatto che al momento dell’attuazione delle riforme non sono loro a trovarsi al potere, altri si assicurano delle buone possibilità di mantenerlo e coloro che sono all’opposizione avr anno molte più difficoltà per conquistarlo.

Riteniamo che sia del tutto naturale che associazioni come quella dei Costituzionalisti italiani, i giudici della Corte costituzionale, i magistrati del Consiglio superiore vivano nella massima apprensione queste giornate: prossimamente il Parlamento italiano dovrebbe licenziare la tanto discussa riforma della Magistratura che, se da un lato è fortemente voluta dal governo e dal Ministero della Giustizia, dall’altro è altrettanto fortemente avversata dall’Associazione Nazionale Magistrati.

Ma se è del tutto logico e naturale che l’Associazione Nazionale Magistrati contrasti con tutte le sue forze la riforma, non è altrettanto logico che il proletariato si commuova per la libertà conculcata della Magistratura e la perdita di indipendenza dei giudici quando tutto ciò rientra nel quadro di un naturale accentramento del potere all’interno dello Stato capitalista.
 

Piccola appendice su di un caso esemplare

Forse il proletariato ha qualche cosa da guadagnare da una Magistratura democratica, autonoma e libera da condizionamenti nello svolgimento della propria attività?

Tra le centinaia di casi che potremmo citare a dimostrazione di quale sia la funzione classista, di conservazione e repressione svolta dalla Magistratura ai danni della classe lavoratrice vogliamo citarne soltanto uno: il Petrolchimico di Porto Marghera, meglio conosciuto come la fabbrica della morte.

Nel novembre del 2001 a Venezia si chiuse il processo di primo grado contro 28 imputati eccellenti della chimica italiana. Erano accusati di omicidio colposo plurimo, omesse cautele, inquinamento e violazione delle leggi ambientali ed altre bazzecole del genere. L’esposizione continua al cloruro di vinile monomero, utilizzato per produrre la plastica Pvc, aveva prodotto almeno 157 morti di tumore accertati ed altri 103 casi di malattie correlate.

Prima di arrivare al verdetto ci vollero sette anni. Sette anni tra inchieste, udienze preliminari e dibattimento in aula. La lettura della sentenza, invece, durò soltanto quattro minuti scarsi: il tempo di leggere: “Assolve”, “Assolve”, “Assolve”, “Assolve”, “Assolve”, “Assolve”, “Assolve”. Per sette volte il giudice Ivano Nelson Salvarani ripeté la parola. Per blocchi di imputati, per blocchi di reati, per blocchi di motivazioni: “Il fatto non sussiste”, “Il fatto non costituisce reato”, “Prescrizione”.

Gli operai affetti da male irreversibile ed i parenti dei morti, che nell’aula del tribunale di Venezia si aspettavano giustizia dalla Legge dello Stato democratico, non riuscivano a credere alle loro orecchie. Dopo che il giudice per sette volte ha ripetuto “assolve” dirà una volta, una sola volta, “condanna”? Ma la vana attesa di quel pubblico proletario durò solo attimi perché il magistrato, riordinati i suoi fogli, si ritirava.

Ciò non deve destare meraviglia, ma semplice presa d’atto che nel regime della democrazia parlamentare uccidere proletari NON È REATO!

Chi fu il giudice che emise un tale verdetto? Un fascista, un leghista, un berlusconiano? Niente affatto! A pronunciare quella sentenza fu uno dei padri fondatori di Magistratura Democratica, un protagonista dei processi della Mani Pulite veneziana, un magistrato di sinistra.

Il processo di appello, iniziato il 21 gennaio 2004, è avvolto dal massimo silenzio stampa, non solo da parte di quella padronale ma anche di quella democratica e di sinistra. Tanto come andrà a finire tutti lo sanno, anche i parenti delle vittime costituitisi parte civile sono diminuiti, molti sembra si siano ritirati in cambio di risarcimenti. Intanto, dalla sentenza di primo grado ad oggi altre decine di operai sono morti di cancro.

La tesi sostenuta dalla difesa nel corso del processo di primo grado e fatta propria dal tribunale fu che la Montedison prima e l’Enichem poi non appena vennero a conoscenza della pericolosità del materiale trattato (e cioè dal 1973), realizzarono tempestivamente gli interventi sugli impianti necessari a ridurre l’esposizione dei lavoratori a livelli compatibili con quelle norme di protezione che il legislatore solo allora emanò. Questa tesi è stata dimostrata completamente falsa dagli appellanti: innanzi tutto è stato dimostrato che già dal 1949 il Cvm era notoriamente conosciuto come materiale tossico, mentre dal 1969 l’azienda era a conoscenza della correlazione tra i tumori degli operai e l’esposizione al Cvm. Studi in tal senso erano stati commissionati dalla stessa azienda ed i risultati erano stati mantenuti segreti. Non solo, sono stati rinvenuti verbali in cui i dirigenti delle aziende chimiche italiane e straniere si erano vincolati ad un “patto di segretezza” sugli effetti nocivi della lavorazione, sia sugli operai sia sull’ambiente.

La Giustizia democratica si è però garantita la conclusione del processo già prima che iniziasse ed il collegio giudicante si è rifiutato di ammettere i nuovi elementi di prova. Vedove ed orfani rimarranno ancora una volta delusi, mentre i furfanti e gli ipocriti ancora una volta grideranno alla lesa democrazia ed ancora una volta inviteranno i proletari a fare quadrato per difenderne i valori minacciati.

In questo regime il Capitale non ha bisogno di essere assolto perché non è condannabile ed il proletariato non potrà mai avere giustizia perché non è altro che – giusta la definizione latina dello schiavo – uno strumento di lavoro: uno dei vari strumenti di lavoro a disposizione della produzione capitalista: l’instrumentum mutum (la macchina), l’instrumentum semivocale (l’animale), e l’instrumentum vocale (il proletario).

Questi sono la Magistratura, la Democrazia, lo Stato ai quali i proletari dovrebbero esprimere la loro solidarietà e dare il loro appoggio!

* * *

Questa disamina era stata preparata prima del dicembre dell’anno scorso e della sentenza per il processo di appello del Petrolchimico. È del 15 dicembre 2004, infatti, il verdetto di condanna.

La sentenza ha soddisfatto i sindacati («Finalmente – ha affermato la CGIL veneta – una verità lampante, sotto gli occhi di tutti, viene riconosciuta anche nelle aule di giustizia»), ha soddisfatto l’Unità («Condannati 5 dirigenti Montedison»), e il Manifesto («Questa sentenza apre la via a ulteriori significative evoluzioni del diritto e della prassi processuale»), e ha soddisfatto Liberazione («Giustizia in appello - La corte di appello restituisce la dignità ai morti del petrolchimico»). Lo stesso pubblico ministero Felice Casson l’ha definita «equilibrata».

Gli operai morti erano già 157 prima che cominciasse il processo, «erano stati 33 gli operai aggiunti alla lista dei morti durante lo svolgimento del processo di primo grado. Sono oltre una trentina quelli morti dopo l’inizio del processo d’appello» (Corriere della Sera, 16 dicembre)

L’inchiesta era partita nel lontano 1994, non per opera delle forze dell’ordine, nemmeno dei sindacati, e neanche dei partiti di sinistra. Era stato un semplice operaio del petrolchimico ad iniziare, in proprio, le indagini, a stabilire le relazioni tra attività lavorative e morti di cancro, a raccogliere materiale probante e a presentare alla procura di Venezia un esposto sulla situazione all’interno della fabbrica. Ma nemmeno allora aveva ricevuto appoggio dai sindacati, dai quali, anzi, era stato accusato di voler far perdere il posto di lavoro agli operai.

Solo ora, dopo la sentenza di appello, tutti sono concordi nel farne un eroe, ora «che è stata restituita la dignità ai morti del Petrolchimico».

E veniamo alla Giustizia. Dopo ben 40 ore di camera di consiglio i giudici hanno ritenuto colpevoli solo cinque dei 25 imputati.

Tutti e cinque i "colpevoli", riconosciute le attenuanti generiche, sono stati condannati, nientemeno, ad un anno e mezzo di reclusione virtuale.

I cinque, dei venticinque imputati, sono stati condannati ed assolti allo stesso tempo perché la sentenza ha dichiarato il "non doversi procedere" nei confronti di tutte le accuse formulate nel processo di primo grado, cadute ormai in prescrizione. La condanna virtuale è giunta solo perché qualche operaio è morto troppo tardi ed al momento della sentenza la sua morte non rientrava ancora nella prescrizione.

Un anno e mezzo di reclusione virtuale per la morte di oltre cento proletari! Questa è la giustizia borghese, alla quale plaudono sindacati di regime e giornalacci di “sinistra”.

La Legge 20 luglio 2004, n.189 sul divieto di maltrattamento degli animali, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 178 del 31 luglio 2004, stabilisce pene detentive fino ad un massimo di due anni per chi senza necessità cagiona la morte di un animale; e la pena può essere aumentata, da un terzo alla metà, se i fatti sono commessi al "fine di trarne profitto" per se od altri. Volete, cari democratici, una più lampante dimostrazione di come, anche per il codice penale, la vita di un proletario valga meno di quella di un cane randagio?

A proposito, il giudice del processo di primo grado, per intenderci, quello delle assoluzioni in massa, ha avuto la sua brava promozione ottenendo l’incarico di procuratore generale a Vicenza.
 
 
 
 
 

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Metalmeccanici
Il futuro della classe operaia è nel rinato sindacato di classe fuori e contro Cgil Cisl e Uil
 

105 euro la richiesta sulla paga base, 25 uguale per tutti a saldo o anticipo della contrattazione aziendale dal ‘93 ad oggi e per i prossimi quattro anni: a legittimare, agli occhi dei più ingenui, questa misera rivendicazione è intervenuto il solito teatrino, da un lato fra FIOM, FIM e UILM, dall’altro fra i tre sindacati di regime e Federmeccanica, che ha ribattuto con l’offerta di 65 euro.

I prezzi dei generi di prima necessità sono aumentati almeno del 20 % nel corso degli ultimi due anni; i salari di conseguenza si sono svalutati della stessa percentuale. All’introduzione dell’euro i capitalisti hanno potuto accomodare prezzi e tariffe. I proletari invece, il prezzo della loro merce, la forza lavoro, lo devono contendere al padrone, pubblico o privato che sia. Nella situazione d’estrema debolezza in cui si trova oggi la classe operaia l’euro è stato un ottimo affare per il resto della società sulle spalle dei lavoratori salariati. La divisione in classi esiste come sempre, eccome!

Di fronte ad un simile attacco, un sindacato di classe avrebbe mobilitato i lavoratori nello sciopero generale a oltranza per drastici aumenti salariali. Invece le lotte sono state tenute isolate e condotte separatamente alla sconfitta.

Nel 1800 è esistita una Internazionale dei Lavoratori in grado di far scendere in sciopero lo stesso giorno i proletari d’America e d’Europa per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore. Oggi, nella tanto sbandierata era della globalizzazione e delle telecomunicazioni, una lotta internazionale sembra addirittura un’utopia e la CGIL divide gli scioperi per categoria, fabbrica, reparto. Era naturale unire per lo meno la lotta dei lavoratori pubblici con quella dei metalmeccanici. Sconfitti i primi, ora il padronato può occuparsi con più calma dei secondi.

Se per i proletari l’euro è stata una batosta, si annunciano a breve mazzate ancora più pesanti. Il capitalismo mette in concorrenza i lavoratori cinesi, polacchi, ecc. con quelli italiani, tedeschi, francesi e via dicendo. L’alternativa che i padroni pongono in Europa è molto semplice: o la disoccupazione o salari da fame.

Questa alternativa però è falsa oltre che inaccettabile: i lavoratori devono sapere che esiste un’altra strada. Nell’est europeo gli operai lottano vigorosamente per migliorare la loro condizione. 12.000 lavoratori della Skoda, nella Repubblica Ceca, sono scesi in sciopero chiedendo di adeguare i loro salari a quelli dei lavoratori tedeschi. La stessa classe operaia cinese è un vero gigante che farà versare lacrime amare ai padroni di tutto il mondo.

La strada dei lavoratori non è quella della Lega Nord, fatta di protezionismo e caccia agli immigrati, o della Confindustria, fatta di salari cinesi, ricette che si completano a vicenda nel fine comune di sottomettere gli operai.

Ciò di cui hanno bisogno i proletari è di una nuova internazionale operaia che spezzi la concorrenza fra sfruttati e, come nell’800, li unisca al di sopra dei confini nazionali e continentali.

Di fronte ad un compito tanto ambizioso quanto necessario, il primo passo da muovere è abbandonare CGIL, CISL e UIL e ricostruire, fuori e contro questi sindacati di regime, il Sindacato di classe, basato su una struttura territoriale e non aziendale che unisca i lavoratori, tanto per cominciare, al di sopra dei confini d’azienda e categoria. Solo così la classe disporrà della necessaria organizzazione per combattere le battaglie di sempre: riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, aumenti salariali inversamente proporzionali al livello contrattuale, salario di disoccupazione.

Ma un simile sindacato non può che nascere dal lavoro volontario e dal sacrificio dei lavoratori stessi. Sta agli operai compiere il dovere verso la propria classe e riempire le file dei sindacati di base, che del futuro Sindacato di classe possono essere l’embrione.

Infine il Partito comunista rivoluzionario, oltre il Sindacato, è la condizione necessaria affinché la classe lavoratrice possa riprendere la marcia verso il suo obiettivo politico: la società senza classi, in strenua opposizione alla miseria presente e futura di questa società.