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PAGINA 1
Il pacifismo va alla
guerra
Il Governo Prodi, come sappiamo, è caduto in febbraio in occasione di una votazione a favore del rifinanziamento delle missioni militari, ivi compresa quella in Afghanistan. Ma, più che per i “comunisti”, a far inciampare la risicata maggioranza è stato il drappello di senatori a vita: chi assente per malattia, chi per congressi scientifici a Dubai, chi si è astenuto, chi ha votato contro.
Ma, poiché per la borghesia la guerra è una questione troppo importante per farla dipendere dai trivialità del reality parlamentare, rapidamente le consultazioni avviate dal Quirinale hanno riportato all’incarico il Professore, cui si è sbrigativamente mosso a rinforzo un Follini con la sua Italia di Mezzo e l’italo-argentino Pallaro, garantendogli i necessari 158 voti di senatori. Per la guerra una maggioranza parlamentare, in un modo o nell’altro, si è sempre avuta e si avrà sempre.
Successivamente, al voto esplicito per la continuazione della lurida guerra “umanitaria” in Afghanistan, tutta la “sinistra estrema” ha votato a favore, con il pretesto che “altrimenti sarebbe tornato Berlusconi”... Difficile davvero oggi arrivare ad immaginare cos’altro di peggio, in politica interna ed estera, potrebbe imporre alla classe operaia un nuovo governo “delle destre”.
Prodi per il suo “bis” può quindi riconfermare le sue linee programmatiche, che non sono né di destra né di sinistra ma semplicemente borghesi e coerenti alla necessità di accompagnare con adeguate politiche l’imperialismo italiano. Fissa in 12 Punti i compiti di governo, tutti di netta smentita delle lamentele demagogiche della “sinistra radicale”. Il punto n.1 impone «il rispetto degli impegni internazionali e di pace a sostegno costante alle iniziative Onu, Ue e Nato» e il punto n.8 «il riordino del sistema previdenziale».
L’ultimo, n.12 tronca ogni “dialettica politica” all’interno della maggioranza: «In caso di contrasti all’interno dell’esecutivo, al premier è riconosciuta l’autorità di esprimere in maniera unitaria la posizione del governo». In pratica, il “debole” Prodi raccoglie le carte cadute del fu “forte” Berlusca per portare avanti quelle Riforme istituzionali che la borghesia italiana richiede ed attende. Come prevedevamo, per dialettica determinazione storica il “sinistro” sorpassa, a destra, il “destro”.
E ancora una volta si conferma come non la propaganda dichiaratamente militarista ma l’inganno democratico e social-democratico sia il metodo migliore per condurre la classe operaia alla guerra. Il massimo del militarismo sanguinario lo possono imporre solo i governi “pacifisti”.
La scadenza semestrale che attendeva il Governo con il rifinanziamento delle missioni militari, questa volta coincide con il disgelo primaverile sugli altopiani afghani. Il fenomeno meteorologico implica la ripresa dei combattimenti.
È stato annunciato da mesi che la Nato vuol recuperare il terreno riconquistato dai Talebani. Questi, che dicevano annichiliti, si sono riorganizzati, anche grazie all’assistenza del Pakistan, e hanno sferrato un contrattacco che li ha portati al controllo di tre province meridionali. Adesso impiegano anche kamikaze, che sembrano essere molto efficaci come deterrente. A Helmand prospera la coltivazione del papavero da oppio, autentica risorsa per l’export e polmone finanziario degli Studenti Islamici, dove comandano loro, degli occidentalisti altrove.
Agli italiani era stata assegnata una provincia occidentale, Herat, per svolgere soprattutto compiti di polizia e di Genio (“sicurezza” e “ricostruzione”). Ma c’è stata l’”irrituale” ingerenza dei sei ambasciatori degli Stati impegnati laggiù ad “incoraggiare” la borghesia italiana a “partecipare maggiormente” alle operazioni. La stampa borghese incalza: tirarsi fuori significherebbe abbandonare la Nato e farsi spernacchiare da tutto il mondo, cioè dagli altri predoni imperialistici, che contendono mercati dove espandersi a danno del “made in Italy”.
Questo ha imposto a Roma l’interesse ad una scelta, certo impopolare, per un maggior coinvolgimento nelle operazioni di guerra. Ma a facilitare l’operazione ha soccorso l’ala sinistra e “pacifista” del governo, che “dissente”, ma infine vota, in blocco, a favore.
Si è inserito, forse non casualmente, nella vicenda il rapimento dell’inviato di “Repubblica”. Non è il primo ad essere rapito, ma la presenza di “giornalisti” e “volontari” di ogni tipo di “organizzazioni” in queste calde parti del mondo è inquadrabile nei tanti ruoli dell’intervento imperialista anche della metropoli italiana: esportare capitali, soldati, tecnici e maestranze, missionari, mercanti e contrabbandieri, pacifisti, giornalisti ed avventurieri vari. L’occidentale rapito dai “predoni del deserto” è un classico della memorialistica coloniale e post.
Sebbene nella seduta dell’Onu l’Italietta abbia rivendicato il suo ruolo di “peace-keeper” e annunciato che non modificherà le “regole di ingaggio” e non aumenterà il numero di suoi militari, il finanziamento semestrale viene approvato in Parlamento, con la motivazione addotta di voler solo “armare meglio i nostri soldati per difendersi”. Viene quindi impegnato un diluvio di quattrini: 310 milioni di euro è la spesa per il 2007 per la missione afghana, altri 30 per “interventi di cooperazione” (forse il compenso a Karzai per il rilascio dei talebani?), 7,1 milioni per sopperire ad esigenze di prima necessità “per la popolazione”, 127.800 euro per organizzare una conferenza di pace (che non si terrà mai). Poi sono stati stanziati 31 milioni per il Libano, 5,5 per il Sudan e altro per Bosnia e Kossovo.
Prodi e D’Alema, nonostante la presa di posizione sul non mutare le regole d’ingaggio, sanno che è inevitabile un maggior coinvolgimento delle truppe. Lo stesso andamento della guerra, con l’operazione “Achille”, condotta da americani, canadesi, britannici, australiani e neozelandesi, spingerà i talebani a premere anche sulle zone assegnate a Roma e quindi le truppe italiane saranno costrette a dover sparare.
Ma lo stesso Prodi ammette che laggiù tutti hanno perso: gli inglesi due volte e i sovietici più recentemente, forti di 120.000 uomini su quelle montagne. Oggi le forze in campo arrivano a 35.000. Che gli scenari nel tetro di guerra afghano siano difficili è risaputo e la borghesia è costretta a prefigurare delle “soluzioni” che sanno di sconfitta. La invincibile armata, allestita dagli americani all’indomani dell’11 Settembre 2001 per distruggere il regime islamico, che avrebbe protetto i terroristi di Al-Qaeda, ha fallito il suo compito.
L’Afghanistan per sua morfologia si trova nel ruolo di uno Stato cuscinetto posto tra gli altopiani dell’Asia Centrale e l’Oceano Indiano, una roccaforte naturale sì inespugnabile ma contesa dai diversi imperialismi, che non riescono a controllarne stabilmente il territorio e che, ieri quello russo e inglese, oggi quello americano, russo o cinese, vi manovrano direttamente o per l’interposta persona dell’Iran o del Pakistan.
Ma, anche se torneranno vittoriosi i Talebani al governo del paese – questa volta finanziati da altri, dopo che contro l’Urss provvedeva la Cia – questa guerra “infinita contro il terrorismo” scatenata da Bush non sarà stata combattuta inutilmente per gli interessi degli imperialismi di occidente e di oriente. Il capitalismo di ogni paese ha bisogno della guerra, anche al prezzo di doverla perdere. È il capitale mondiale come regime che esce sempre vittorioso e la classe operaia più debole, disorientata e sottomessa.
Il significativo, nella sua trivialità, spettacolo parlamentare
italico di queste ultime settimane può tornare utile solo se contribuirà
a convincere la classe operaia che non v’è altra strada che la denuncia
e l’abbandono di quei relitti e simulacri di partiti che ancora abusano
del nome di comunisti e che l’unica strada per difendere la condizione
proletaria è quella della lotta e dell’orientarsi verso il comunismo
autentico e rivoluzionario.
È nelle sale cinematografiche un nuovo film dal titolo Blood Diamonds, Diamanti Insanguinati, ambientato in Sierra Leone durante la “guerra civile” del 1999 e annoverato dai “critivendoli” come il classico “film denuncia”.
Questa tipologia di spettacolo, come tante trasmissioni televisive (ad esempio Report o Le Iene), ha due effetti, entrambi utili per il capitale e i suoi gestori: quello di soddisfare una consistente “nicchia di mercato” che richiede una tale merce, e quello di far abboccare il pesce-proletario all’amo della democrazia. Vedete bene come è possibile all’interno del regime borghese denunciare gli eccessi del capitalismo, e perfino sulle sue televisioni, di Stato e private, e con quale imparzialità e parole sagge e accenti infiammati! È quindi certo così possibile mobilitare le coscienze di ogni individuo per arrivare, passo dopo passo, ad “un altro mondo possibile”, dopo aver corrette dall’interno della società borghese le storture che la stessa sua parte migliore ammette e denuncia, lottando insieme a questa. La borghesia con la democrazia addormenta il proletariato; un proletariato dormiente fa sì che la borghesia possa permettersi la finzione democratica.
La Sierra Leone ha la sfortuna d’essere uno dei paesi più ricchi di materie prime quali diamanti, legnami pregiati, bauxite, titanio e ferro. Non solo resta uno dei paesi più poveri al mondo, ma per la contesa sull’estrazione dei suoi diamanti è stata scatenata dai vari pretendenti imperialisti una guerra che è durata un decennio.
Il distretto di Kono, che si trova nella zona orientale del paese, è il più rinomato per l’estrazione di diamanti. L’estrazione di diamanti si svolge nei distretti di Bo e Pujehun nel sud e nel distretto di Kailahun a est, ma alcune estrazioni vengono fatte anche nel Nord. Prima della guerra l’estrazione di diamanti occupava una proporzione piuttosto grande della popolazione, includendo giovani e bambini. Quando la situazione economica è peggiorata su scala nazionale, ancora più proletari, compresi i bambini, sono stati attratti nelle miniere di diamanti.
Secondo i dati forniti dal World Diamond Council nel 2000 al mondo venivano prodotti 114 milioni di carati, del valore di 7 miliardi di dollari; ogni anno vengono venduti 67 milioni di diamanti trasformati in gioielli. Circa il 65% dei diamanti vengono estratti nel continente africano, generando guadagni per 8,4 miliardi di dollari. Il maggior produttore è il Botswana. Altri paesi produttori non africani sono Russia, Australia e Canada. I diamanti compongono il 40% delle esportazioni della Namibia e il 25% della forza lavoro del Botswana lavora nelle miniere. A livello mondiale circa 2 milioni di persone lavorano a vario titolo nell’industria diamantifera.
Nel corso degli anni ‘90 si è combattuta in Sierra Leone una guerra per procura per il controllo di questi sassolini tanto redditizi per il capitale. I dieci anni di guerra sono balzati agli onori della cronaca a causa delle atrocità compiute: si è calcolato che più di 50.000 persone sono state uccise e che metà della popolazione femminile abbia subito violenze, molte sono state costrette a seguire i ribelli durante i combattimenti e durante gli interminabili spostamenti sotto la costante minaccia di essere uccise. È con la guerra in Sierra Leone che a livello internazionale si è cominciato a parlare dei bambini soldato: bambini che vedevano sterminata la famiglia e costretti a diventare guerriglieri a loro volta. È stato inoltre stimato che la guerra abbia prodotto mezzo milione di profughi che hanno trovato rifugio nei paesi confinati. I guerriglieri hanno mutilato migliaia di persone, soprattutto giovani, rendendole invalide permanentemente, mentre altri sono stati obbligati a lavorare ridotti in schiavitù per estrarre i diamanti nelle miniere.
È stato così che il saggio e buono consesso internazionale dei borghesi ha vietato di commerciare i diamanti provenienti dalla Sierra Leone. La preoccupazione era che qualche potenziale consumatore, saputo di queste atrocità, per scrupolo morale, si trattenesse dal comprare quei gioiellini sporchi di tanto sangue.
Il capitale ha necessità di smaltire le merci prodotte e si serve di varie “etichette” per fare questo. Come succede in altri campi il mercato cerca di soddisfare ogni richiesta dello strafesso cliente, che “ha sempre ragione”. Allora vediamo contrapporre al mercato Ogm quello biologico, i prodotti “equo e solidale”, la finanza etica, ecc. A Radio24 qualche tempo fa é stato intervistato il Siur. Belloni titolare di una gioielleria: «A Milano, diceva, é nata la linea di diamanti etici, estratti, lavorati e commercializzati nel pieno rispetto dei diritti umani...»
Noi marxisti sappiamo bene che non esiste un plusvalore etico e un plusvalore maligno. Il Capitale mondiale, che è sempre lo stesso, si appropria pro rata di tutto il plusvalore, che non olet, tratto dal sopralavoro e dal sangue della classe operaia, oppressa nei campi, nelle officine e nelle miniere di tutto il mondo. Solo la classe operai potrà metter fine al capitalismo.
Allora i diamanti più grandi e limpidi faranno bella mostra di
sé solo nelle vetrine dei musei di Mineralogia, e le scolaresche
in visita se li passeranno, ammirate, di mano in mano...
A seguito dell’Ordinanza di custodia cautelare emanata dal Tribunale di Milano l’8 febbraio scorso furono immediatamente arrestati una quindicina di appartenenti al cosiddetto “Partito Comunista Politico-Militare”, cui si contestavano i reati di associazione per delinquere finalizzata al terrorismo, all’eversione e alla banda armata.
Lo spiegamento di forze e il vasto impiego di mezzi avrebbe dovuto affrontare una organizzazione prossima a lanciarsi all’assalto rivoluzionario, o almeno a compiere azioni terroristico-militari di grande rilevanza. Nella maxi-operazione di polizia, coordinata dalla Direzione Centrale e con il coinvolgimento delle questure di Milano Padova Torino Trieste, sono stati impiegati 500 agenti, unità cinofile antisabotaggio, elicotteri, nuclei artificieri e tutta la sofisticata attrezzatura di cui la polizia può disporre: telecamere, microspie, apparati GPS, riprese satellitari, controlli internet, etc. A tutto questo armamentario i brigatisti potevano opporre un furgone con delle fessure per nascosti effettuare osservazioni e, soprattutto, una bicicletta con telecamera incorporata nel fanale ed alimentata da batterie collocate all’interno della canna della bicicletta stessa.
Gli arrestati avevano dato vita ad una organizzazione eversiva, con il vertice che operava in totale clandestinità e strutturata in maniera compartimentata, di modo che la scoperta di un settore non compromettesse il resto della rete; mantenevano rapporti con gruppi eversivi operanti all’estero (in particolare in Svizzera); con una pubblicazione teorica, sempre clandestina, denominata “L’Aurora” ed un nutrito arsenale di armi.
La “compagine eversiva”, la cui data di nascita è stata fatta risalire all’agosto 2002, in concomitanza con la diffusione del primo numero di “Aurora”, da due anni e mezzo era sottoposta ad uno stretto controllo da parte degli organi di repressione statale. Malgrado tutte le precauzioni, quasi maniacali, adottate per neutralizzare eventuali pedinamenti e l’intercettazione da parte delle forze dell’ordine, le abitudini, i movimenti, gli incontri, i colloqui dei terroristi venivano regolarmente e minuziosamente registrati. Tanto è vero che nella voluminosa Ordinanza più di una volta si leggono espressioni di questo tipo: «Alle riunioni strategiche del vertice dell’associazione “partecipava” in diretta anche la Digos, tramite le microspie, ed in molte occasione gli indagati sono stati video-ripresi»; oppure: «Per comprendere le dinamiche interne dell’associazione l’unica possibilità investigativa era “partecipare” alle loro riunioni e conoscere date, orari, luoghi e codici di comunicazione anticipatamente: quel giorno a quel tavolo, oltre ai tre indagati, vi era un convitato speciale, non previsto, che ascoltava (e registrava) i loro discorsi: la Digos». In altra occasione si legge: «La sera delle prove di tiro il personale della Digos di Padova era “presente” sul posto al punto di documentare l’esplosione dei colpi singoli e di brevi raffiche». La Digos sovrintendeva, non vista, all’ “imbosco” dell’arsenale nel Parco dei Fontanili di Rho; era presente la notte dell’assalto al Bancomat. Anche il rientro clandestino in Italia del latitante Davanzo era avvenuto sotto lo sguardo vigile (potremmo dire, la “protezione”) della polizia.
Il P.C.P-M., ideologicamente, era attestato sulle posizioni dell’ala movimentista delle vecchie B.R. (la cosiddetta “II posizione”). Questa tendenza si richiama alla teoria maoista della “guerra popolare di lunga durata”. Compito del “partito” nell’attuale congiuntura sarebbe quello della “propaganda armata”, ossia una attività combattente di natura soprattutto dimostrativa allo scopo di ottenere i massimi risultati organizzativi con la minima esposizione in termini di rischio.
A differenza dell’ala “militarista” (Galesi, Lioce, per intenderci), gli aderenti alla “II posizione” ipotizzano un doppio livello di attività (legale ed illegale) con l’intento di inserirsi in tutti gli “scenari” del conflitto sociale, dai centri sociali ai sindacati. La loro partecipazione al sindacato non è però quella di una frazione di partito che abbia lo scopo di far prevalere all’interno della organizzazione di classe una propria strategia di lotta e di prenderne la direzione, ma è solo strumentale, disinteressata alle lotte operaie e volta solo ad individuare nell’ambiente elementi disposti a fare il “salto di qualità rivoluzionario”. Forse è questo l’aspetto più interessante che ci permette di capire come mai tra gli arrestati vi siano degli iscritti alla Cgil ed il motivo per cui la diffusione del loro materiale ideologico si sia indirizzata anche nell’ambito del sindacalismo di base.
I giornali hanno riportato ricchi elenchi di azioni che i terroristi avrebbero avuto in agenda: attentato ai danni di una delle ville di Berlusconi, alle sedi dell’Eni, di Mediaset, di Sky, al quotidiano Libero, aggressioni al giuslavorista Pietro Ichino, a Giuliano Ferrara, assalti alle banche, alle USL, ai supermercati... Dalle intercettazioni effettuate dalla polizia risulta però chiaramente come tutti questi “progetti” altro non fossero che smargiassate, e rimaste tali, allo scopo vagheggiato di «mettere in cantiere qualcosa» per far conoscere l’organizzazione. L’unica operazione che questa terribile banda di eversori è stata in grado di attuare si è ridotta a «danneggiare i locali della sede di Forza Nuova, a Padova, appiccando il fuoco alla porta di ingresso».
Non insistiamo qui a denunciare il ridicolo di coloro che, fra il tragico e il folle, si illudono di “fare” la rivoluzione come il classico Don Chisciotte si illudeva d’essere quel gran cavaliere, e quindi non riportiamo tutta la serie di loro balordaggini elencate nell’Ordinanza. Basti un fatto per tutti: uno degli obiettivi che si sarebbe dovuto colpire era Vito Schirone, ex amministratore delegato della Breda ed uno dei maggiori imputati nei procedimenti per la morte di operai a causa dell’amianto. Per individuare la vittima i “terroristi” si erano avvalsi dell’elenco telefonico scambiando così il dirigente della Breda con un suo omonimo, benzinaio, gestore di un distributore della Shell.
Della “elaborazione teorica” del P.C.P-M. non possediamo documenti se non i brevi stralci di articoli della rivista “Aurora” riportati nell’Ordinanza. Ma sono sufficienti a dimostrare l’assoluta estraneità anche di questa nuova banda dal filone del comunismo marxista, mentre ripropone, in modo peggiorativo se fosse possibile, i vecchi schemi del volontarismo attivistico e riformista. Che riformismo rimane anche quando, seppure tanto maldestramente, espresso con le armi.
«Possiamo aprire un dibattito sul tipo di partito che dobbiamo costruire (...) discutere e valutare le azioni di Avanguardia, le azioni di attacco e le iniziative di propaganda armata che si compiono per procedere alla sua costruzione». Il loro “partito” quindi non poggia su una teoria compiuta e su di un programma storicamente cristallizzatosi, ma si andrebbero a “costruire”, partito e programma, in un continuo “divenire”, da “nuove esperienze” e da “confronti”. I loro fratelli siamesi, legalitari, infatti, l’hanno chiamato Rifondazione.
E quale dovrebbe essere il compito di questo partito? I moderni Robin Hood rispondono: «Il partito, facendo uso delle armi, si pone l’obiettivo di ingenerare coscienza ed organizzazione rivoluzionaria nella massa, intervenendo sulle questioni politiche con le armi». Innanzi tutto si nota l’assenza del termine “proletariato”, mentre si parla di “massa”. Questa “massa” sarebbe illuminata, dall’alto e metafisicamente, dagli “interventi del partito”, sulle “questioni politiche”, “con le armi”.
Se confrontiamo questa concezione con gli schemi esposti nel nostro testo di dottrina “Partito e Classe”, ci accorgiamo che si tratta di una visione ancor più retrograda dello schema Volontaristico-Immediatista, detto anche operaista o spontaneista, e che si riallaccia quasi a quello Trascendentale-Autoritario. È un nuovo rigurgito – non a caso in Italia – di romanticismo mazziniano, già a suo tempo espressione della piccola borghesia, impotente quanto parolaia, negatore e politicamente avverso al movimento della classe operaia e alla sua sicura scienza sociale.
Nella concezione marxista non è la testimonianza, l’esempio dato con “l’uso delle armi” che “ingenera coscienza” ed “organizzazione”. La necessaria sequenza, che esprimerà la storia e non la volontà o l’azione di alcuno, è opposta: Classe – Organizzazione e movimento economico-difensivo di classe – Intervento in esso, dall’esterno, di un preesistente Partito coscienza della classe – Rivoluzione, finalmente anche armata, della Classe diretta dal Partito.
Non basta dire: «Il punto di arrivo è l’insurrezione armata della massa proletaria contro lo Stato borghese, dove l’azione politica e militare del partito si incontra con la disponibilità cosciente delle masse alla rivolta». La concezione resta volontaristico-immediatista perché, astraendo dal fondamento della lotta sociale reale della classe operaia, che è quella difensiva, e della “cinghia di trasmissione” dei sindacati, la “insurrezione armata” può esser generata solo da una “coscienza delle masse” che il marxismo esclude. Non a caso non si parla di “classe” ma di “masse proletarie”.
Vengono dai “terroristi” del tutto misconosciute le spinte economiche che sole possono determinare l’azione. Il partito comunista marxista, che si è da sempre posto “a contatto” con la classe operaia, interviene nelle lotte immediate per dirigerle e consentire, quando la situazione matura, il loro necessario sviluppo rivoluzionario. Per i “terroristi”, invece, a “tracciare la via” alla rivoluzione e a dargli “soggettivo impulso” sarebbe il partito... che non c’è, ma che è in eterno divenire.
Le rivoluzioni mai nella storia sono state compiute per effetto di attività cospirativa, sono sempre scaturite da tremendi scontri di classe, che si determinano in particolari congiunture storiche e sociali e a seguito dell’intervento del partito rivoluzionario di classe. A maggior ragione oggi solo menti deliranti, o manovrate, possono pensare di innescare processi rivoluzionari partendo da azioni di “propaganda armata”; anche se queste azioni fossero qualche cosa di più che delle mere buffonate.
Sugli altri aspetti, tanto di politica interna quanto internazionale, le valutazioni di questi nuovi “terroristi” sono identiche a quelle tipiche del comune sentimento dell’opportunismo radicale. Nella Ordinanza si legge che «Plaudono alle azioni di guerriglia irachena ed afgana (...) Hanno plaudito alla decisione del presidente boliviano Evo Morales di nazionalizzare le risorse energetiche». Ma la migliore perla è rappresentata dalla loro preoccupazione per i problemi di politica interna: i brigatisti «rappresentano il timore che il malcontento generato dalla coalizione al governo possa far prendere piede a reazionari e fascisti».
Infine, appurato come la polizia sia in grado di estendere il suo controllo su tutto e su tutti, inevitabilmente non possiamo fare a meno dal porci una domanda: ma allora, quando gli attentati terroristici vengono portati a compimento è perché le forze repressive dello Stato non sanno o perché allo Stato giova non sapere?
E questo ci fa porre un’altra domanda: perché gli arresti? Gli aderenti al “gruppo eversivo” già da due anni e mezzo vivevano, senza saperlo, in regime di custodia cautelare. Non erano in grado di comperare un biglietto del treno senza che la polizia non ne fosse informata, figuriamoci se avrebbero potuto preparare o portare a termine azioni terroristiche. Altre volte la polizia, anche in flagranza di reato, ne aveva omesso l’arresto. Perché quindi solo oggi la “brillante operazione”, quando l’organizzazione era di fatto tenuta in pugno ed era esclusa l’imminente pericolosità del gruppo eversivo?
Rimangono solo due ipotesi. La prima può essere ravvisata nella
volontà di dare un po’ di lustro al governo di centro-sinistra;
la seconda invece rientra in un progetto, più ambizioso, di attacco
preventivo ai danni della classe operaia. Una parte degli arrestati era
di iscritti alla Cgil. Su questo fatto c’è stato un po’ di polverone
e degli attacchi (blandi, per la verità) sono stati rivolti al sindacato
da parte dei giornali della destra. Ma la Cgil ha delle credenziali più
che solide che valgono a fugare ogni illazione su atteggiamenti e comportamenti
anti-regime. Ma questo poco di polverone alzato è stato provvidenziale
per il sindacato tricolore. Al suo interno la linea ufficiale ne esce rafforzata
ed ogni minimo oppositore potrà essere additato come sospetto “fiancheggiatore”
delle Brigate Rosse.
PAGINA 2
Democrazia e Socialismo
Rileggiamo da Il Socialista numeri 7 e 8 del 1914 l’articolo “Democrazia e Socialismo”. In essi è detto che, in battaglia elettorale, su di una piattaforma non socialista ma comune ad alcuni partiti borghesi, ossessionati dalla mania del successo, i socialisti che fan parte del blocco finiscono col ridurre la propaganda ad una accozzaglia di motivi popolareschi in cui vanno smarriti e dispersi i principi del socialismo. Si crea nelle masse uno stato d’animo che confonde in esse ogni elementare capacità a distinguere le finalità dei diversi partiti, una permanente confusione nella quale il partito socialista ha tutto da perdere, che vede così annientati in pochi giorni di carnevale elettorale i risultati di anni di faticosa preparazione della coscienza proletaria.
Il ritenere concetti affini le idee democratiche ed il socialismo, il gabellarli come rami usciti dallo stesso tronco e che tendono a ricongiungersi, o a crescere paralleli, è il più deplorevole sabotaggio della propaganda socialista. Un democratico, buono o cattivo, non è un socialista.
Quando il socialismo cominciò a sorgere con gli utopisti, poi con la poderosa concezione scientifica dei socialisti tedeschi, molta parte dell’Europa era ancora sotto le strette del regime politico assolutista e feudale. Il solco della rivoluzione francese non aveva ancora definitivamente instaurato il dominio delle democrazie politiche ed affermatone il programma sotto la bandiera dell’eguaglianza, libertà, fratellanza come storiche affermazioni dei diritti dell’uomo.
Eppure il socialismo non derivò da uno sviluppo della democrazia, ma si affermò con una solenne denuncia del fallimento storico della formula democratica, e degli inganni che questa conteneva, confermata, oggi, da altri secoli di storia. Man mano che la formazione economica e politica della borghesia procedeva, si rafforzava di fronte ad essa la nuova classe sociale costituita dai lavoratori, che si prepara a ben altre conquiste economiche e concepisce un suo programma rivoluzionario, che non può accontentarsi della pretesa eguaglianza politica della democrazia borghese e consiste nella espropriazione dei mezzi di produzione e di scambio. Con la formazione di tale programma, le idee e le finalità della democrazia sono superate definitivamente. All’armonia delle classi voluta da questa noi contrapponiamo la lotta di classe sul terreno economico e politico.
La democrazia, in particolare dal Novecento in poi, per la necessità di resistere alla crisi economica del capitalismo, è in cerca di nuovi mercati, quindi è intimamente imperialista e militarista.
Pochi giorni dopo la pubblicazione di quell’articolo la Grande Guerra venne a tragicamente confermare la previsione. L’evoluzione della formazione economica e politica borghese, svoltasi idealmente nel solco della Rivoluzione Francese, nel 1914 sarebbe stata tale da permettere al proletariato un’azione di classe tendente a distruggere il capitalismo per sostituirvi un nuovo ordinamento, come dimostrava Lenin, nel 1916, con lo scritto “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”.
Engels e la Seconda Internazionale
La classe operaia, embrionale nel 1848 della Lega dei Comunisti che visso solo due anni, passava nel 1864 alla Prima Internazionale. Marx ed Engels vi parteciparono e la consideravano il partito di classe e il loro partito, benché formata dalle diverse correnti del movimento operaio, confidando in quello sviluppo intellettuale che sarebbe necessariamente scaturito dalla riflessione, all’interno dell’avanguardia della classe organizzata in partito, sull’esperienza della lotta comune per l’abolizione delle classi e della proprietà privata. E così fu.
Contemporaneamente al dissolversi della Prima Internazionale, nel 1874, si vennero formando i partiti nazionali. Engels osservava che la Prima Internazionale aveva fatto il suo tempo, e che occorreva dar vita a una nuova Internazionale, che si configurò come un’alleanza dei partiti proletari, fondati sul marxismo, di tutti i paesi.
Nel 1878 Marx scrisse: «In tal modo l’Internazionale, invece di scomparire, è passata da una prima fase ad una fase superiore, in cui le sue tendenze originarie si sono in parte realizzate. Nel corso di questo progressivo sviluppo essa avrà da sottostare ancora a parecchie trasformazioni, finché potrà essere scritto l’ultimo capitolo della sua storia». Neppure da essa, quindi, si attendeva un assetto definitivo. Di fatto dalle sue rovine sarebbe sorta una Terza Internazionale, più salda, “Comunista”.
In merito all’uso della democrazia parlamentare da parte del partito comunista, Engels poteva affermare: «Il suffragio esisteva in Francia già da molto tempo, ma era caduto in discredito per l’abuso fattone dal governo bonapartista. Dopo la Comune non era più esistito un partito operaio che potesse utilizzarlo. Anche nella Spagna esso esisteva dal tempo della Repubblica, ma nella Spagna l’astensione era sempre stata la regola di tutti i partiti di opposizione. Anche le esperienze svizzere di suffragio universale erano tutto fuorché un incoraggiamento per un partito operaio. Gli operai rivoluzionari dei paesi latini si erano abituati a considerare il diritto di voto come una trappola, come uno strumento di mistificazione governativa. In Germania fu tutt’altro».
Il Manifesto Comunista aveva proclamato la conquista del suffragio universale. Ma, in Gran Bretagna, la Reform League nel 1866 sbanderà completamente accettando il compromesso con il governo e Marx dovrà scrivere ad Engels il 6 aprile: «In Inghilterra il movimento per la riforma, che era stato chiamato in vita da noi, ci ha quasi ammazzato», rimpiangendo lo spirito ardente dei vecchi cartisti.
Engels, nella Prefazione del 1895, redatta poco prima della sua morte, alle Lotte di classe in Francia di Marx, riconosce l’utilità dell’uso della tribuna parlamentare al fine della propaganda socialista. Ma conclude prevedendo che la classe dominante, di fronte alla minaccia della crescente forza proletaria, uscirà dai parlamenti e passerà a difendersi con la violenza del suo Stato. La storia fino ad allora e dopo di allora ha immancabilmente confermato la previsione e la lotta sociale è ovunque stata condotta non nelle Aule costituzionali ma versando il sangue proletario nelle strade e nelle prigioni, con l’uso extra-legale delle armi, degli attentati e di tutto l’armamentario, legale e illegale, a disposizione degli Stati borghesi.
Del resto nel testo di Marx che Engels prefata è affermato: «Il suffragio universale aveva compiuta la sua missione: la maggioranza del popolo ne aveva tratto gli insegnamenti, il che è tutto ciò a cui il suffragio universale possa servire in un’epoca rivoluzionaria. Da una rivoluzione o dalla reazione esso doveva venire eliminato».
Già nel 1879, in una corrispondenza con La Plebe, Engels aveva scritto: «Quest’agitazione legale faceva sì che alcuni credevano che non ci fosse bisogno d’altro per conseguire la vittoria finale del proletariato. Questa cosa, in un paese così povero di tradizioni rivoluzionarie com’è la Germania, poteva diventare pericolosa. Fortunatamente l’azione brutale di Bismarck e la vigliaccheria della borghesia tedesca che lo sostiene, hanno mutato le cose». Più tardi, nella prefazione rivolta agli inglesi della Evoluzione del socialismo, del 1892, è scritto: «Non vi è miglior scuola del parlamentarismo per insegnare il rispetto della tradizione (...) La tradizione è un gran freno, è la forza d’inerzia della storia».
Il metodo parlamentare già dai nostri maestri è ritenuto quindi inadatto per il giorno decisivo, rivendicando il diritto alla rivoluzione, il solo vero diritto storico, delle classe operaia. Come scrisse Marx nella La concezione materialistica della storia «è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione. Quindi la rivoluzione non è necessaria solo perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società». Abbattendo quindi anche il sudiciume dell’organo rappresentativo istituzionale della società borghese.
Dopo la Grande Guerra
Dopo la Grande Guerra i concetti di Democrazia e Socialismo si fanno sempre più nemici.
Nel 1913 era stata la Sinistra a difendere la non-inammissibilità per principio della partecipazione dei socialisti alle elezioni, da inquadrarsi nella difesa del marxismo dall’apoliticismo anarchico. Sostenere allora quel principio astratto avrebbe incoraggiato il proletariato ad imboccare le scorciatoie del ribellismo e a sottovalutare la necessaria preparazione ai suoi compiti politici, o abbandonarlo alla sua attività puramente corporativa e minimalista.
La Grande Guerra, crisi terribile del regime borghese, venne a mettere crudamente il proletariato innanzi alla formidabile antitesi storica: o democrazia borghese, ossia imperialismo e militarismo, o dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Pochi anni più tardi la sfida storica si allarga: o la dittatura proletaria diventa internazionale, o anche la Russia tornerà sotto il potere di uno Stato capitalista.
La Sinistra comunista individuò allora nella tattica dell’astensionismo elettorale non soltanto una importanza in sé, come migliore indirizzo pratico, quanto il più efficace test di separazione e selezione dei partiti comunisti dal vecchio tronco della socialdemocrazia prebellica. Non bastava né era l’astensionismo a definire la Sinistra, ma la totale convergenza nei principi col bolscevismo e con le basi costitutive della Terza Internazionale.
Per la prima volta la storia del genere umano veniva annunciata non da un profeta, ma dalla dottrina completa e luminosa di un movimento storico. A questo inquadramento programmatico tendeva la nostra battaglia, insieme di teoria e di metodo.
Il partito bolscevico, nato 30 anni dopo l’apparizione dei primi partiti nazionali socialisti occidentali, aveva potuto far tesoro di tutta la loro esperienza. Basta considerare il Che fare? per riconoscere quante lezioni fosse possibile trasfondere dal partito tedesco nel nascente partito socialdemocratico russo. Proprio per questo il partito russo fu capace di denunciare il piegare a destra dei partiti europei. Lenin in Un passo avanti e due indietro non sottace che se il partito tedesco era meno opportunista di quello francese e di quello italiano, nondimeno era più opportunista di quello russo, tanto che fu quest’ultimo a chiedere l’espulsione di Bernstein. Nel 1917 cambiarono nome al partito da bolscevico a comunista, per superare ogni localismo russo.
Lungo sarà tutto il rifare
La tattica del parlamentarismo rivoluzionario, proposta da Lenin per la Terza Internazionale, non condivisa dalla Sinistra italiana ma applicata per disciplina di partito, successivamente viene imposta dallo stalinismo, ma col contenuto di parlamentarismo contro-rivoluzionario, trascinando i proletari di tutto il mondo a battersi per il restauro o la difesa della democrazia borghese e delle sue forme e riti. Insomma si riconosce la diagnosi di Engels essere i parlamenti «la migliore scuola per insegnare il rispetto delle tradizioni, grande forza di inerzia e freno della storia».
Come dicemmo anche a Lenin, la tattica parlamentare, ammissibile nella situazione della Germania nel 1849 o della formazione del partito tedesco, e che lo sarebbe stata in Russia fino al 1917, non lo era più dal primo dopoguerra in Occidente. Tantomeno le tattiche di offerta di unità e di accordo politico in Fronti comuni ai partiti opportunisti.
La classe operaia è stata confermata nelle sue illusioni, appagata nell’attesa di divenire un giorno maggioranza nei parlamenti borghesi, in funzione di accordi con partiti borghesi. In questo percorso è andata totalmente distrutta la coscienza programmatica e l’organizzazione del suo partito. La tragedia giunse al culmine nell’opporre gruppi di Stati borghesi “democratici” ai “non democratici”, coinvolgendo alternativamente la Russia in ambedue i fronti della Seconda Guerra e nella guerra fredda.
Il mito del parlamentarismo veniva inoltre esportato ed imposto a modello alle classi diseredate dei paesi che si stavano liberando dal colonialismo, impegnate in guerre civili e lotte deviate verso l’affermarsi dei poteri costituzionali borghesi.
Con l’acuirsi della crisi economica e la completa sottomissione del mondo intero al regime del Capitale, non mancherà il sorgere di un nuovo Partito Internazionale, sulle sue vecchie tesi, perché il proletariato possa scrivere l’ultimo capitolo della sua storia. Questo movimento non ripercorrerà le tattiche erronee che, in nome della libertà e della democrazia hanno imposto ai popoli d’occidente e d’oriente oppressione, massacri e rapina per secoli.
La Rivoluzione, che divamperà su due e più continenti,
come premio del ritardo, è certo che ignorerà addirittura
l’esistenza di quei parlamenti che, in tutti i paesi, servono solo a malamente
coprire il volto mostruoso del potere borghese.
Giuseppe Statunato, colpito da uno di quei mali che non perdonano, è morto, proprio all’inizio di quest’anno. Solo dopo pochi giorni avrebbe compiuto 51 anni.
Già da diverso tempo conviveva con la sua malattia, ma, a parte i periodi dei ciclici ricoveri in ospedale, continuava a il suo lavoro di operaio e a frequentare le riunioni del partito.
Di origine pugliese, con la famiglia era giunto a Prato ancora adolescente, trascinati da quel flusso migratorio di lavoratori che, spopolando interi paesi del Sud Italia, convergeva nelle fabbriche della città toscana.
Beppe era un proletario puro e un buon operaio, ma soprattutto un compagno affezionato e generoso.
Istintivamente ribelle e comunista, nella sua appassionata ricerca del partito di classe in gioventù aveva frequentato più di un gruppo della sinistra extraparlamentare, in un percorso politico necessariamente accidentato. Entusiastica fu infine la sua adesione al nostro partito.
Anche se privo di cultura scolastica, la sua sete di conoscenza lo portava, come è tipico dei proletari autodidatti, a continue letture di ogni genere. In particolare si dava allo studio dei testi marxisti.
Beppe era un compagno silenzioso e aspettava che lo interrogassi per esprimere il suo non superficiale pensiero. Era uno di quei compagni che parlano poco perché ascoltano, perché hanno soprattutto voglia di imparare. Chiedeva spiegazioni, chiarimenti puntuali, per sapere e capire del partito o per approfondire le proprie conoscenze e la propria fede comunista.
Nemmeno della sua terribile malattia parlava mai, che pure gli si leggeva in volto: la viveva con materialistica accettazione, dimostrando la sua naturale forza e dignità.
Beppe era un compagno silenzioso ed in silenzio ci ha lasciati; ma
il suo silenzio ci mancherà.
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La
storia italica nello specchio deformante
della sua ideologia
Capitolo VII
Esposto a Torino nel maggio 2005
Revisionismo politico e revisionismo storiografico
Nella strategia, d’ascendenza gramsciana, di conquista della “egemonia” attraverso il consenso, l’influenza all’interno di quelle che egli chiamava ancora le “case matte” borghesi, la ricerca del dominio nella ricostruzione della memoria storica, ha avuto in Italia l’effetto di conquistare una buona parte delle “cattedre” da dove esercitare tale funzione.
Nella più recente polemica, negli ambienti della borghesia “conservatrice”, si è perfino lamentato una sorta di “dittatura delle sinistre” nel manipolare, condizionare, la ricerca in questo campo. Non ci avventuriamo in questo terreno melmoso, perché se dovessimo rivendicare qualcosa, dovremmo dire che si è giunti, nella fegatosità contro la Sinistra comunista alla damnatio memoriae, che ha significato ad esempio coniare la formula “il partito di Gramsci e di Togliatti”, dando ad intendere che la scissione del 1921 sarebbe stata operata da costoro, invece che dalla Sinistra.
A noi interessa, invece, in questo terreno, mettere in rilievo che la politica dell’egemonia culturale, da esercitare in modo massiccio, e da privilegiare per ottenere consenso preventivo della “società civile”, non ci ha mai convinto, e ciò fin dal 1912, allorché nel PSI indicavamo ai giovani socialisti che la vera cultura non era quella dei libri, ma della lotta coerente nei rapporti di classe. Ciò non significa che vedevamo e non vediamo la necessità di combattere anche sul terreno ideologico: semplicemente escludiamo ancora oggi che si debba e si possa mirare a dominare nel campo delle idee, se non si conquista l’economia e non si abolisce il capitale come rapporto sociale.
Allora, poiché si dice che chi domina il passato dominerà anche il futuro, la politica culturale dei fautori della via nazionale al socialismo si è esercitata dal 1945 a dare la sua versione della storia, specie di quella che porta dall’avvento del fascismo alla sua sconfitta da parte degli antifascisti.
In quest’opera si è così bene specializzata che certi suoi concorrenti e avversari si sono lamentati d’un vero e proprio regime. Naturalmente esagerano; noi non intendiamo metterci in questa diatriba. Ciò che al contrario ci interessa osservare è che la “teoria del consenso intellettuale” porta inevitabilmente a queste conseguenze. Lo sforzo di convinzione sulla utilità della “lunga marcia attraverso le istituzioni” ha reso la teoria del blocco sociale proposta da Gramsci a sua volta un terreno di revisione, di adattamento interminabile, tanto è vero che i suoi sostenitori vi si sono impigliati al punto da passare armi e bagagli dalla presunta altra parte, riconoscendo l’impraticabilità del socialismo.
Dovremmo esserne soddisfatti, se in questo processo non fosse rimasto ampiamente impigliato e trascinato anche il proletariato, che dopo un macello mondiale e privo del suo partito non era certo in grado di navigare contro corrente, nonostante che le sue condizioni economiche e sociali fossero proibitive.
Si lamenta ancora oggi che il processo revisionistico, in sede di principi e di tattica politica, mentre aveva visto la socialdemocrazia classica celebrare la sua Bad Godesberg, si dimostrava ambiguo ed insufficiente per i seguaci del partito staliniano. In realtà i suoi atti dovevano essere sufficienti a tutti per leggervi la scelta opportunistica e democratica: dalla svolta di Salerno in poi il partito di Togliatti aveva sempre più dimostrato la sua lealtà allo Stato. Ma la borghesia, insieme alle paure, vi aveva anche letto la possibilità di vivere per lungo tempo sulla rendita di quelle difficoltà.
Anche quando il capo del PCI fu colpito dalla mano dell’attentatore, di fronte ai sussulti della classe operaia ci fu il buon senso del ferito il quale raccomandò di “non perdere la testa”. E che altro poteva e doveva fare, dopo i gesti e le decisioni precedentemente prese? Un esempio del fatto che la strategia a zig-zag non è perseguibile!
In realtà revisionismo politico e storiografico vanno sempre di pari passo: poiché infatti l’abbandono del programma comporta la sua giustificazione. In sede di storiografica si assiste inevitabilmente alla manipolazione della memoria, che viene adattata al cambiamento di prospettiva.
È facile sentire l’obiezione corrente, secondo la quale una storiografia che si rispetti non può che essere per definizione “revisionista”, cioè disposta a rivedere i giudizi sul passato in forza della scoperta di nuovi documenti e del sopraggiungere di nuove sensibilità... Se ci avventuriamo nella natura della “memoria” come struttura della mente che richiama gli eventi del passato, si dovrà ammettere che ogni rivisitazione è uno spostamento del punto di vista. Queste sono scoperte... del cucco. Il problema investe, come sempre, il nesso tra essere e divenire: i fautori del cambiamento dovrebbero essere ostili ad ogni punto fermo, altrimenti come potrebbero giustificarlo? Ma il revisionismo tocca i principi, cioè gli assunti base che caratterizzano qualsiasi formazione storica. Una cosa è conoscere meglio e più a fondo eventi già accaduti, altra è manipolarli, scientemente o meno, in modo tale da accomodarli agli interessi contingenti! Non è il caso qui di scomodare nessuna morale. Sì tratta di valutare in che modo questi adattamenti vengono fatti, con quanta credibilità, con quanto vantaggio...
In generale la scienza storica corrente si accoda retoricamente alla morale bolsa d’una storiografia “onesta”, come se ad un tratto le forze storiche del tempo attuale fossero capaci di purgarsi della tendenza naturale a considerare il dominio del passato come proprietà, secondo lo stile classico dei “vincitori”! Noi sappiamo bene che la storia la scrivono prevalentemente i vincitori, e non crediamo ad una “scienza della storiografia” super partes!
Non ci fa dunque effetto che in nome della “egemonia culturale” l’opportunismo, di marca staliniana in particolare, si sia dato un gran da fare per scrivere la storia dei vincitori, nella sua versione l’antifascismo unito contro il nazi-fascismo da cui nacque la Costituzione repubblicana. Per quasi mezzo secolo questa è stata la litania ripetuta in ogni rito ed in ogni cerimonia.
Quando, dopo il risveglio, cioè dopo la caduta del muro e la fine del mito Russia, i presunti sacrificati da questa versione del passato hanno creduto di “rivedere” la storia più recente, lamentando la pressione esasperata della cultura “marxista”, si è scatenata un polemica ancora in atto a proposito d’una sistemazione storiografica piena di limiti, di omissioni, di manipolazioni e di difetti.
Che cosa abbiamo da dire in proposito? Dovremmo per caso partecipare alla canea in nome della verità unica, lamentando noi pure d’essere stati passati sotto silenzio, o peggio massacrati con le menzogne, quando non con le revolverate o picconate?
Neanche ci passa per la testa, tenuto conto che nel frattempo abbiamo scritto due volumi di “Storia della Sinistra”, e continuamente attinto ai nostri archivi per approntare testi che ne meritano un terzo.
Si dirà: avete scritto la vostra storia con le vostre mani, dunque chissà come l’avete agghindata! Si provi a leggerla, e ci si renderà conto che senza nessun inutile riferimento alla morale ed alla “onestà intellettuale”, fa parte del nostro interesse non passare sotto silenzio proprio nulla.
Non è anche questo un segno della differenza? Che cosa dovremmo nascondere, quello che abbiamo dichiarato? E cioè la nostra sconfitta nel 1926, ammessa non per umiltà, ma per indicare al proletariato ciò che era avvenuto, senza edulcorare niente e senza lisciare le spalle a nessuno. Il tribunale della storia non è un sinedrio che può assegnare il verdetto di verità in nome di una giustizia storica assegnata con imparzialità. La milizia politica è consapevolezza della parzialità, della scelta netta di una parte, che per noi è quella del proletariato.
Ci rendiamo conto che condividere su questo punto la nostra visione delle cose non è tanto facile. Se infatti si fa fatica sempre più a parlare di scienza, figuriamoci di scienza storiografica, che la borghesia decadente si affanna ad ascrivere ad un ambito, quello delle “discipline umanistiche”, per loro natura diverse e dunque non descrivibili secondo leggi, regole condivise e via di seguito.
Si dovrebbe però avere quel minimo di buona creanza che almeno permetta di considerare questioni fin troppo visibili: in particolare, nella storia scritta dai vincitori, quella di nascondere eventi, non contenti di poterli interpretare secondo il proprio interesse e punto di vista! Quando si fa riferimento alla damnatio memoriae lo si fa per fare sfoggio di cultura umanistica, oppure per riconoscere che è stata la specialità degli staliniani, oltreché, s’intende, della comune scienza borghese? Perché andare a cercare il pelo nell’uovo se si crede di far fuori l’avversario con metodi dalle gambe corte come questi?
Il nostro modo di fare storiografia si spinge fino a far uso delle statistiche, dei dati e dei documenti dell’avversario, pur sapendo che sono spesso manipolati da ragioni di potere e di forza. Ciò non ci impedisce di rintracciare ciò che per loro è impossibile, e cioè un “filo rosso”, come lo abbiamo chiamato, che permette di individuare una tradizione, dei cardini di strategia e di tattica che nessuna furbizia è capace di snaturare.
Ciò che invece costituisce il contrario della revisione storiografica dei furbi e dei dimentichi per ragioni di bottega, che una volta manipolata la notizia e l’evento, sono condannati a farlo ogni volta che se ne riscontra la necessità. Se ad esempio si sceglie di nascondere che il Partito Comunista d’Italia, Sezione della Internazionale Comunista, è stato fondato dalla Sinistra, come si potranno conciliare i contenuti programmatici di esso, che prevedono appunto il rispetto rigoroso dei capisaldi teorici e tattici, una volta che si fa professione della possibilità di adattarsi ogni volta alle condizioni reali come vengono interpretate dai “capi” oppure dai “sovrani congressi” in cui si può dire tutto e il contrario di tutto?
Di fatto revisionismo politico e revisionismo storiografico si tengono l’uno con l’altro, in quanto rappresentano la cultura dell’opportunismo storico, ormai passato armi e bagagli dall’altra parte della barricata.
La cosa però diventa drammatica quando la sistemazione del passato sembra scricchiolare sotto la spinta dell’ex fascismo passato alle leve del governo, sdoganato, come si ama dire nel linguaggio da porto franco instaurato di recente.
Regge ancora l’impianto storiografico dell’antifascismo allorché la guerra per bande rivendica ognuna la sua versione particolare, più congrua alle realizzazioni di nuovi orizzonti di collaborazione democratica tra forze che venivano date per antagoniche? Basta guardarsi intorno per rispondere di no. Già la letteratura, prima ancora della storiografia, aveva distinto una Resistenza da intendere come guerra patriottica, da un’altra versione che la considerava guerra civile, da un’altra ancora che la considerava “di classe”: si pensi al romanzo “Il partigiano Johnny” di Fenoglio.
Se la questione si è riaccesa è perché, come abbiamo sottolineato, una storiografia indipendente dalla lotta politica è semplicemente un sogno per i politicanti del giorno per giorno. Oggi riesce sempre più difficile non accettare che i patrioti, vestiti di nero o vestiti di rosso, sono pur sempre patrioti, che siano stati con la Resistenza o con la Repubblica di Salò.
Il tiro alla fune era già stato duro, oggi si è fatto grottesco. Tutti giurano d’essere e d’essere stati buoni italiani, dediti allo sviluppo dell’economia borghese nel quadro della patria italiana, nella cornice europea e sul terreno del libero commercio mondiale. Ma poiché effettivamente la storia passata macina ancora, ogni volta che si pretende di operare uno strappo col passato secondo libertà e interesse contingente, la storia si vendica. E la riscoperta delle tre versioni menzionate della Resistenza, richiama alla memoria il fatto che milioni di proletari furono trascinati a combattere nelle patrie trincee, anche se molti di loro non avevano dimenticato il motivo reale del contendere, e cioè la lotta di classe borghese e imperiale mascherata da primato tra popoli.
Se dunque si può parlare di continua revisione del proprio punto di vista sulla storia passata, si deve anche osservare che quando determinati eventi significativi rovesciano modi di intendere e di sentire, inevitabilmente il bilancio col passato va “in rosso”, e così si tende a rimetterlo in ordine facendo collimare il suo conto con le esigenze del presente.
Perché per circa 50 anni si sostiene che la storia dell’antifascismo è stata prevalentemente scritta ed intesa come storia della lotta di popolo contro la barbarie nazi-fascista? Perché era necessario convincere il proletariato che battuto il mostro, ora era possibile rimboccarsi ancora una volta le maniche per un fine buono, per contribuire alla Democrazia, aperta al futuro socialista, da perseguire con cautela, pacificamente, senza minacce reazionarie e ipoteche autoritarie.
Ci sarebbe anche da domandarsi perché le “forze moderate” avrebbero subìto a livello di consenso l’egemonia “di sinistra”. Non si può certo dire che qualcuno abbia imbavagliato gli studiosi liberal-conservatori. Allora vuol dire che c’è stato un tacito consenso intorno alla natura della Costituzione nata e cementata dalla lotta popolare contro il fascismo: non ci si verrà a parlare di ingenuità della borghesia, dei suoi fautori, delle forze le più disparate che hanno avuto nelle proprie mani le leve del potere, sia pure gestito da una sorta di mezzadria con l’opposizione!
Se questo è vero, allora risalta ancor meglio come una presunta storiografia da scrivere a tavolino, pianificata e manipolata, è semplicemente una bubbola. La ricostruzione del cinquantennio secondo le esigenze del post-fascismo doveva essere funzionale ai suoi fini politici di fondo.
Tutti oggi si danno le arie di imparzialità, e storcono il muso davanti ad una disinvoltura così evidente di fare storiografia. I nuovi “imparziali”, convinti che la storiografia sia una scienza, giurano di voler rimontare i pezzi del mosaico, che sarebbe poi il passato, secondo un incastro ottimale, se non perfetto: la condizione sarebbe quella di non nascondere documenti, di non distorcerne l’interpretazione, di non aderire a nessuna “ideologia preconcetta” in nome dell’onestà intellettuale ed altre pie intenzioni di questo genere. Dovrebbero allora spiegare perché fu tanto facile fare il contrario in precedenza, e soprattutto chi avrebbe il potere e l’autorità di rilasciare la patente per un’operazione così nobile. È facile la risposta: nessuno, né allora né oggi.
Sappiamo bene che nell’ottica crociana la medicina contro le tentazioni di distorcere la storia è quella di far passare il tempo necessario perché le “passioni” si stemperino, e finalmente sia possibile avvicinarsi agli eventi come fossero “reperti” di fronte ai quali non ci sia altro da fare che allinearli, classificarli, interpretarli, animati dallo “spirito” che sempre alita sulla vita umana e sulla storia, specie quando ci si avvicina ad essa per chiederle lumi!
Ma se gli eventi come la Resistenza, nonostante che siano passati i canonici 50 anni, provocano ancora tensione (se non altro per il fatto che i suoi attori sono ancora viventi, per quanto resi saggi dall’età). La revisione proposta, che circola nei nostri tempi, indica che le raccomandazioni crociane non sono sufficienti.
Allora, la Resistenza fu tutte e tre le cose citate, oppure nessuna di esse?
Taluno, anche fra i nostri, vide nella sconfitta nazionale un’ultima possibilità di prendere le armi contro il capitalismo in quanto sistema. È noto che il partito non credeva in questa possibilità, benché molti eventi, ancorché non tali da giustificare come “rivoluzionaria” la situazione, sono stati letti dalla nostra corrente come esplicitamente “proletari”, come lo sciopero generale del 1943.
Il revisionismo storiografico, mosso dai suoi interessi contingenti, si trova di fronte alla necessità di far quadrare il circolo di una Resistenza intesa come guerra di popolo, e di un popolo ancora diviso, scarsamente pacificato, quello che si schierò col fascismo di Salò e quello che intese fare un vero nuovo “Risorgimento”. L’idea, come si vede, presenta risvolti molto riconoscibili.
Sdoganato il vecchio Movimento Sociale dal suo isolamento, fuori dall’arco costituzionale, è necessario trovare nella Resistenza un punto di appoggio anche per i nuovi arrivati nell’area di governo. Niente di meglio che forzare le sistemazioni pregresse e giungere a dire che, ognuno a modo suo, fu “patriota”, preoccupato dei destini della Nazione e dello Stato. Ed hanno ragione: un modo come un altro per ammettere che le presunte insanabili divergenze erano solo esteriori diversificazioni tattiche in rapporto alla comune preoccupazione di mantenere il proletariato con le mani legate sul terreno della guerra.
Allora si abbia il coraggio della verità: si ammetta che la difesa esclusiva degli interessi di classe è oggi da tutti esclusa e respinta come antidiluviana, impossibile, controproducente.
Non abbiamo mai avuto la pretesa che la nostra interpretazione fosse “universale”, imparziale, al di sopra delle classi. Né di questo è capace la scienza storica borghese, non tanto perché mancante di mezzi di ricerca o altro, ma in quanto se c’è un’ideologia, quella sì bolsa, è quella della verità in assoluto, senza considerazione per le esigenze e gli interessi, oltre che le idealità delle classi tra di loro diverse ed irriducibili l’una all’altra. La storiografia come scienza del vero, come realtà etica, viene smentita, e dà ragione al nostro metodo e modo di intendere il rapporto con gli eventi storici. Avere il coraggio di predicare dai tetti il programma non è una ingenuità, ma l’unica possibilità che sta davanti al partito a livello generale.
Risulta così che l’ultima spiaggia del revisionismo politico, quello storiografico, è dello stesso tipo del primo, una guerra combattuta con altre armi, quelle della memoria.
Che la memoria di chi ha dimenticato l’Abc del programma fosse malata e perduta era per noi scontata e le sue ultime recenti conferme possono sorprendere e scandalizzare solo chi non aveva prestato la necessaria attenzione agli zig-zag, alle astuzie, che più che della ragione, si rivelano della volontà esplicita di tradire.
Se allora il revisionismo storiografico si dimostra un’arma per continuare una guerra d’antica data, non rimane che opporre alla loro, dei revisionisti, la memoria del partito, che in quanto organo della classe unisce passato presente e futuro in una sola e dinamica prospettiva. La memoria del partito è infatti affidata sì a militanti che dispongono come tutti della facoltà di ricordare, ma di ricordare secondo una memoria collettiva, che lega gli eventi secondo quel “filo rosso” che rivendichiamo, e che non può dimenticare le sofferenze dei proletari, diciamo pure da Spartaco ad oggi.
Tutti stiamo assistendo ai contorsionismi del revisionismo, a cominciare dalla Chiesa, che del “perdono” sta facendo una precisa politica, ai partiti che in nome della flessibilità e della capacità di “andare avanti”, si illudono di neutralizzare l’inerzia del passato, che pure è una forza.
Noi non abbiamo mai negato che l’inerzia sia parte determinante nel parallelogramma delle forze storiche, e sappiamo come solo in determinati svolti il passato può essere interrotto da un presente: quello rivoluzionario, che apre e non chiude, che sa vedere nel futuro poiché gli appartiene in quanto prodotto dal parto doloroso che si chiama Rivoluzione.
Ad ognuno allora la sua scienza della storia e della memoria: chi ha
deciso d’averla corta, pagherà il suo inevitabile prezzo.
PAGINA 4
Libera concorrenza
o libera coercizione ?
Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro e il grado raggiunto dalla sua divisione sociale determina la nascita dell’economia mercantile e il suo progressivo estendersi. La divisione del lavoro sfocia nella divisione sociale nelle classi opposte. Passa poi dallo scambio mercantile dei prodotti a quello della forza lavoro. Soltanto quando quest’ultima si è trasformata in merce il capitalismo può abbracciare tutta la produzione del paese, compresa la produzione dei mezzi di produzione e la società si divide nella classe dei capitalisti e in quella dei salariati.
Le merci non possono andare al mercato da sole e non possono scambiarsi da sole. Sono veicolate dai possessori di merci, la cui volontà risiede in quelle cose (come non era nelle comunità primitive, in questo meno feticistiche della società moderna, quando il mercato non è ancora pienamente sviluppato).
Il capitalista tende di necessità, come membro della classe capitalista e rappresentante vivente del capitale anonimo e del suo sgretolato istinto, a valorizzare sé stesso, abbreviando la vita degli operai. Tutto ciò non dipende dalla buona o cattiva volontà del capitalista singolo: la libera concorrenza fa valere, nei confronti del capitalista singolo, la legge immanente della produzione capitalista come se fosse una coercizione esterna, del mercato. Ad ognuno di essi si impone la necessità di ridurre la merce più a buon mercato, accrescendo la produttività.
Questa si incrementa innanzi tutto migliorando costantemente i mezzi di produzione, la cui produzione occupa la più importante sezione del capitalismo. Da tempo, con lo sviluppo delle macchine, non è più l’operaio che adopera i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che adoperano l’operaio. Invece di venire da lui consumati come elementi materiali della sua attività produttiva, sono essi che consumano lui come fermento del loro processo vitale.
Da tempo la libera concorrenza ha generato questo stadio. Liberare i mercati dalle varie restrizioni imposte nel tempo dalle istituzioni statali o dai monopoli capitalistici, non può significare che rafforzare la coercizione del mercato tanto sui capitalisti quanto sui venditori di forza lavoro e dare nuovo ossigeno all’attuale rapporto sociale, che domina l’uomo.
Per converso, la coercizione della concorrenza, che impera a scala moltiplicata fra colossi imperiali e monopolisti, comporta nuove grandi fusioni finanziarie e industriali.
L’ipocrita libera concorrenza che il capitale richiede è per la riduzione di costi delle merci di consumo degli operai, riduzione che, se venissero generalizza, sarebbero seguita da una corrispondente diminuzione dei salari. Non appena una forma di risparmio è divenuta generale, l’operaio riceve un salario ridotto nello stesso rapporto della corrispondente diminuzione del costo della vita. Più può risparmiare, minore sarà il salario che riceve.
Con la diminuzione del salario dovuta al minor valore della forza-lavoro, varia anche la divisione della giornata lavorativa, diminuendo la sua parte necessaria per produrre il valore dei mezzi di sussistenza e aumentando la parte non retribuita, il plusvalore assoluto. Ciò frena il calo tendenziale del profitto ed accresce la competitività internazionale del capitale.
Si accresce la miseria relativa della classe proletaria internazionale, preludio dello sviluppo della lotta di classe.
LA CRISI IN ATTO
Dagli anni 1970 in Occidente il capitale addizionale trova sempre più difficoltà ad investirsi.
Approfittando della grave crisi del capitalismo di Stato in Russia, da parte borghese si tornò a sostenere che solo le forme di più libero mercato e di capitale privato avrebbero potuto far ancora crescere il rendimento del lavoro salariato. Ma con ciò si intendeva solo l’aumento del plusvalore assoluto estorto alla classe operaia. Si partì quindi, in Italia e altrove, da “sterilizzare” la scala mobile e a smantellare tutte le cosiddette garanzie sociali e le varie forme di salario differito. Solo queste riduzioni salariali, e non le propagandate più che realizzate liberalizzazioni dei mercati, hanno consentito di arginare la caduta del profitto.
Ad esso, inoltre, sono state aperte aree economiche che gli erano finora precluse. Si sono così “privatizzate” alcune attività finora gestite in regime di contabilità non capitalistica da parte di enti periferici o centrali dello Stato, dando così la possibilità di investimento al nuovo capitale addizionale. Si vengono a formare nuove società per azioni che distribuiscono profitti. Le azioni sono spesso divise fra lo Stato, le banche e i privati ma quel che conta è che la gestione è capitalistica. Le attività privatizzate di comuni, province e regioni non sono più vincolate al criterio del pareggio di bilancio fra stanziamenti e spese, dalle leggi del capitale nel cui girone finiscono, insieme ai profitti, balzelli, tasse consulenze e tangenti.
Il Capitale viene ad esercire anche il suo Stato in forme capitalistiche, cosa che, del resto, non è affatto una novità. In America anche le prigioni sono affidate al capitale, che ne trae un profitto, e della guerra in Iraq sempre più se ne occupano direttamente le Corporations, sul piano militare con i risultati che vediamo.
Ma con ciò l’impresa capitalista supera i limiti della comunità, del mercato locale, della regione, l’isolamento e il particolarismo degli Stati, già distrutti dalla circolazione delle merci che unisce tutti i paesi del mondo in un unico insieme economico, opera storicamente progressiva. Il capitale finanziario si appropria di ogni isola economica locale perché tutti questi enti ed aziende hanno vincoli indissolubili con le banche, unico centro direzionale.
L’indipendenza economica di ogni nazione è sempre più cancellata. Ove i profitti in un’aera sono maggiori di quelli medi, il capitale preme per entrarvi. Così pure i salari più elevati attirano altra popolazione operaia, finché non si raggiunge un nuovo equilibrio. Non si tratta più di piccole oscillazioni locali dei mercati, come dimostrano i grandi investimenti in Cina e India e le grandi migrazioni di proletari.
La globalizzazione è il capovolgimento dialettico dell’imperialismo: è l’imperialismo dei giovani capitalismi sui vecchi.
L’occidente capitalista pretenderebbe di invertire l’attuale suo declino vendendo ai nuovi giovani concorrenti le sue “tecnologie”, ma il lavoro oggettivato in esse è sempre più piccolo e solo una continua innovazione e a ritmi esasperati consente di ricavare per breve lasso di tempo dei profitti.
Il mercato, tanto più se libero, ammesso che sia razionale, vive solo nel presente, nell’atto della compra-vendita, ed è del tutto incapace di previsione. Le macchine hanno bisogno di sostanze minerarie, sia per la loro costruzione sia per funzionare, come ferro, carbone, petrolio, gas, ecc. A queste materie si applica la legge della rendita differenziale: essendo in natura limitate e esauribili, in avvenire, rarefacendosi, costeranno sempre di più e daranno sempre più rendita, questo nonostante il miglioramento delle tecniche di coltivazione. Anche in questo campo il gioco del mercato porta a nuove costrizioni per il capitalismo. Torna d’attualità la citazione riportata da Lenin nel suo scritto l’Imperialismo: “Scrive Schilder che in un tempo più o meno vicino l’aumento della popolazione urbana e industriale sarà ostacolato piuttosto dalla scarsità delle materie prime disponibili per l’industria che non dalla mancanza di mezzi di sussistenza”.
Sempre più il rapporto sociale capitalista, ormai in tutti i continenti, è stretto in una morsa che esso stesso si è costruito. Sempre più le guerre sono imperialiste per la ri-suddivisione del mondo fra coalizioni di gruppi borghesi, guerre necessarie per la sopravvivenza di entrambe. Libero mercato e guerra si danno la mano sui campi insanguinati. Le guerre sono quindi forme di controrivoluzione preventiva, per superare con la guerra la crisi.
L’ipocrita cortina fumogena democratica, espressione del liberismo mercantile sul piano della politica, nasconde la dittatura del capitale.
Nel programma del comunismo rivoluzionario non è scritta né la parola della libertà mercantile né del suo controllo centrale, ma quella della sua definitiva distruzione, a compimento di questo millenario primo ciclo della storia umana.