Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 318 - giugno-lug. 2006 - [.pdf]
PAGINA 1 – La guerra fra imperialismi che si combatte in Palestina
Per chi si scannano i proletari ebrei ed arabi ? (da Battaglia Comunista del 3 giugno 1948)
– Lo sciopero contro la riforma delle pensioni in Inghilterra
– Convergenti diverse forme del Sindacalismo Nazionale
PAGINA 2 Proficua riunione del partito a Viareggio il 3 e 4 giugno [RG95]: LA CRISI DEL CAPITALE - IL RIARMO DEGLI STATI - IL MOVIMENTO OPERAIO AMERICANO (2) - BILANCIO DELLA "RIVOLUZIONE ISLAMICA" - L’ITALIA, BIGOTTA E MACHIAVELLICA - ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA - L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO - LA QUESTIONE EBRAICA
PAGINA 3 Notiziario
PAGINA 4 Lotte operaie in oriente: In Vietnam - In Corea del Sud

 
 
 
 

PAGINA 1
La guerra fra imperialismi che si combatte in Palestina

In Palestina non ha fine la tragedia che da sessant’anni ormai accomuna nell’angoscia della guerra la vita quotidiana dei proletari palestinesi ed israeliani.

Mentre scriviamo i carri armati israeliani sono rientrati nella striscia di Gaza; con i missili hanno distrutto diversi ponti, una centrale elettrica, l’aeroporto, mentre è stato tagliato persino l’approvvigionamento dell’acqua. Decine di parlamentari e mezzo governo palestinese sono stati arrestati mentre la popolazione di Gaza è nell’incertezza delle forniture di acqua e generi alimentari.

Ai problemi propri della loro classe, della sopravvivenza, della disoccupazione, dei bassi salari, del sopralavoro, si sommano per i proletari palestinesi quelli dell’occupazione militare, della paura dei bombardamenti, dei rastrellamenti, degli arresti, l’angoscia dei posti di blocco.

Il proletariato israeliano vive una situazione certo meno difficile ma con caratteristiche dello stesso segno. Le condizioni di vita e di lavoro sono drasticamente peggiorate negli ultimi anni mentre continua costante il loro coinvolgimento nel bellicismo borghese. I soldati rischiano la vita e anche i civili vivono costantemente in una psicosi di terrore, abilmente alimentata dalla minaccia degli attentati o dei missili.

Il proletariato palestinese è ingannato da decenni, sia dal partito nazionalista "laico" sia da quello "islamico", col mito di una "patria" da riconquistare. Ma questa "patria", nella misura in cui è storicamente possibile, si rivela ogni giorno di più per quello che realmente è e non può non essere: una prigione, materiale e morale, dove i borghesi possono prelevare manodopera a basso costo o addestrare "volontari" kamikaze per i loro intrighi internazionali.

Con lo stesso mito della "patria" da difendere dalla minaccia araba è immobilizzato il proletariato d’Israele e assoggettato al militarismo della propria borghesia, chiuso "volontariamente" in una prigione peggiore dei ghetti europei del medioevo.

Su entrambi, il mini-Stato israelino e il proto-Stato palestinese, preme potente l’azione economica, diplomatica e militare dei maggiori paesi imperialisti, che sino dalla fine della Prima Guerra mondiale, quasi un secolo fa, si sono succeduti nel controllo e nella contesa della terra di Palestina, strategico crocevia del petrolio e delle rotte.

Il partito della guerra e del terrore è il partito della borghesia e dell’imperialismo. Al proletariato, palestinese e israeliano, è aperta, oggettivamente, una sola strada: avversarne l’azione preparando la sua guerra, la guerra di classe contro i suoi sfruttatori.

Per questo è necessario che le avanguardie proletarie lavorino per rafforzare la solidarietà all’interno della propria classe, per rafforzare le organizzazioni di difesa economica; è necessario che ritrovino la propria indipendenza politica, il proprio partito, l’indirizzo del comunismo internazionalista e rivoluzionario.

Questa prospettiva, che viene fatta apparire oggi così lontana da sembrare un’inattuabile utopia, è l’unica prospettiva reale di emancipazione proletaria.

Dove hanno condotto le altre prospettive, quelle apparentemente più "realiste"? È per l’odierno Stato d’Israele, oppressore dentro e fuori, servo dei capitalisti d’America, che i proletari ebrei si sono fatti scannare nelle guerre continue che si sono succedute dalla creazione dello Stato nel 1948 e hanno accettato i sacrifici imposti dalle enormi spese militari? È per ritrovarsi nel campo di concentramento di Gaza o nei Bantustan della Cisgiordania, con salari da fame e nessuna prospettiva di vita, che migliaia di giovani proletari palestinesi hanno sacrificato le loro vite o scontato anni di galera?

La nostra prospettiva non è nuova. Quello che sarebbe successo era già stato scritto e previsto dal nostro partito fin dal 1948, quando la Palestina non era ancora divisa, gli arabi palestinesi non erano ancora stati trasformati dalla pulizia etnica dell’esercito d’Israele in un popolo di profughi e la proclamazione dello Stato d’Israele avesse provocato la reazione armata degli Stati arabi.

Vogliamo qui riportare per intero la breve nota pubblicata allora sull’organo del Partito, "Battaglia comunista". Vi è delineata con chiarezza la politica imperialista in Medio Oriente, senza farsi distogliere dalle emozioni recenti della "questione ebraica", dell’indipendentismo nazionale, dell’antimperialismo borghese. In Palestina la grande partita che si stava giocando era quella della sostituzione dell’imperialismo statunitense e russo a quello anglo-francese. In questo scontro le popolazioni ebraiche ed arabe rappresentavano solo utili pedine e carne da cannone. Nel quadro regionale di guerra fra Stati, e in mancanza della prospettiva rivoluzionaria del comunismo, il loro destino era segnato.
 
 
 
 

Per chi si scannano i proletari ebrei ed arabi ?

da "Battaglia comunista" del 3-10 giugno 1948
 

Accesosi un focolare di guerra in Palestina tutti gli sciacalli dell’imperialismo ci si sono lanciati sopra, e chi proclama santa la guerra degli ebrei e chi quella degli arabi: dai nazionalcomunisti alle destre, dai saragattiani agli anarchici, è tutto un coro di glorificazione dell’eroica lotta di questo o quel popolo "libero" per la sua "indipendenza nazionale".

Nessuna voce si è levata – ed era in verità impossibile che si levasse – per ricordare ai proletari che la guerra di Palestina si inquadra nella tragica catena delle guerre di Spagna e di Grecia. Nessuno ha detto che, dietro le parvenze di una guerra di "liberazione nazionale" o di "emancipazione dall’imperialismo", c’è la realtà cinica e brutale dei conflitti imperialistici: nessuno ha rammentato come "focolare ebraico" e "focolare arabo" siano nati alla fine dell’altra guerra solo perché l’Inghilterra aveva bisogno di due frecce al suo arco nel Medio oriente e non esitava per questo a promettere agli uni quello stesso che prometteva agli altri e ad opporre arabi ed ebrei per meglio dominare su di loro; nessuno ha detto che la stessa politica – ora che l’Inghilterra si è ritirata dalla finestra del mandato per rientrare dalla porta della Transgiordania – ha un identico interesse di fare l’America, la quale dà una mano scoperta agli ebrei nell’atto stesso in cui ne dà un’altra nascosta agli arabi; né che il gioco è complicato dal fatto che lo stesso trucco sta combinando l’URSS, fino a poco tempo fa filoaraba e antisionista, pronta oggi a diventare l’opposto in pubblico per rimanere quello che era in privato.

Niente "Stati liberi", niente "indipendenza": i due Stati, se ci saranno, saranno quello che i grandi padroni del mondo vorranno che siano. E niente "lotta contro un imperialismo", se non per fare il gioco di un altro. La borghesia araba e ebraica, le classi dominanti che levano oggi lo stendardo della patria e della libertà in Palestina sanno molto bene di poter vivere e prosperare solo aggrappandosi agli aiuti economici e politici delle borghesie maggiori; sanno che la "patria" si conquista solo vendendola al miglior offerente; e, se il miglior offerente sarà lo stesso per tutti e due, cesseranno il fuoco, paghe di aver fatto ammazzare un altro po’ di proletari ingannati. La tragedia dei proletari coloniali è tutta qui: due volte schiavi, degli imperialismi maggiori da una parte, delle proprie borghesie ad essi legate dall’altra. Schiavi soprattutto quando fanno la guerra per la libertà e per la patria, per queste che sono le più colossali menzogne della società di oggi.

In Palestina non si difende nessuna libertà, nessuna indipendenza, nessun eterno principio: si difende il regime internazionale dello sfruttamento, dell’imperialismo e della guerra. È solo dalla rottura rivoluzionaria di questo regime che proletari arabi ed ebrei avranno la libertà e la pace: ora non li attendono che la schiavitù e la morte.
 
 
 
 


Lo sciopero contro la riforma delle pensioni in Inghilterra

Il 28 marzo un milione e mezzo degli impiegati coi livelli salariali più bassi degli uffici ministeriali locali hanno aderito ad uno sciopero indetto dai sindacati in risposta ad un ventilato attacco alle pensioni.

Vantato essere "il più grande sciopero in Gran Bretagna dallo Sciopero Generale", è stato proclamato da un Comitato Collettivo di Sciopero costituito dagli 11 sindacati del settore. Tra quelli chiamati a votare per lo sciopero la maggioranza è stata schiacciante.

Negli ultimi anni altre centinaia di migliaia di lavoratori nel settore privato hanno visto rapinate le loro pensioni. Conosciamo bene ormai sia i pension holiday, periodi durante il quale sono sospesi i contributi per la pensione, sia il chiaro ladrocinio dei fondi pensione che si danno alla "finanza creativa", metodi che favoriscono solo quelle società. Un esempio caratteristico è la United Engineering Forgings di Ayr, che andò in amministrazione controllata nel giugno 2001 per un ammanco di 12 milioni di sterline. Quando la società fu infine dichiarata fallita, dopo che gli amministratori avevano ben separato le loro quote dalle passività aziendali, andando in pensione i lavoratori si sono trovati con un taglio massiccio alle liquidazioni e una drastica riduzione degli assegni settimanali.

Negli ultimi anni, data l’insistenza che il governo ha mostrato perché "la gente" si assuma "più responsabilità" per il proprio pensionamento, non è stato sorprendente che i lavoratori coinvolti dal fallimento di questi vari fondi pensione protestassero col Governo. Quindi, il Difensore Civico, un ufficio governativo che investiga sulle accuse contro la pubblica amministrazione, fu incaricato di appurare le responsabilità del fallimento. Il rapporto ufficiale ha rinviato in giudizio il Dipartimento del Lavoro e della Previdenza, trovandolo colpevole di cattiva amministrazione e dichiarando che la conduzione ufficiale della società dei piani pensionistici fu "inaccurata, incompleta, oscura e inconsistente", e condannando il Governo a risarcire gli 85.000 lavoratori che avevano perso tutta o parte della loro pensione.

Il Governo ha mostrato l’arroganza di non sottomettersi alla condanna (è successo solo due volte che un Governo andasse contro la decisione del Difensore, entrambe le volte governi del "New Labour"). E tutto questo a dispetto del fatto che il Governo avesse per due volte ridotto la quota minima che le aziende devono pagare nei fondi pensione, facendo risparmiando ai padroni milioni di sterline e spingendo i fondi alla crisi. Tutto in nome della "compatibilità" e della "sostenibilità", naturalmente.

Anche il padronato ha lanciato un attacco molto esteso alle pensioni dei lavoratori. Alla Commissione Turner del Governo, che ha richiesto che l’età della pensione sia innalzata a 67, poi 68 ed successivamente a 70 anni, l’associazione dei padroni, la CBI, la Confindustria britannica, ha risposto che l’età pensionabile sarebbe da elevare a 75 anni, e altri hanno anche suggerito 80!

Al momento vige la "regola 85" secondo la quale i lavoratori meno pagati possono andare in pensione al loro 60° anno se sono stati iscritti alla cassa pensioni degli uffici ministeriali locali per almeno 25 anni. Si vorrebbe ora portare il limite di 60 anni d’età a 67 per chi ha ora meno di 53 anni. Questo significa che 67 anni diventerebbe l’età minima alla quale potrebbe ritirarsi con la pensione piena per un lavoratore di questo settore.

Sebbene questa carognata fosse particolarmente sentita dagli anziani, che già contavano di avere "solo un paio di anni per andarsene", il 28 marzo molti erano giovani lavoratori davanti ai picchetti. C’è un acuto senso di discriminazione, di perpetrata ingiustizia dovuta al fatto che ai loro colleghi più alti in grado era stato detto che avrebbero potuto ancora ritirarsi a 60 anni. Quindi certi insegnanti avrebbero avuto un trattamento pensionistico diverso da quello di altri insegnati, alcuni paramedici da altri, degli assistenti sociali da altri assistenti. Solo essi avrebbero patito un attacco alle loro condizioni di vita, equivalente ad un massiccio taglio salariale.

Peraltro le attuali pensioni non sono davvero da far cantare di gioia: i destinatari di questa cassa sono già i peggio trattati del settore pubblico. Le donne iscritte, che sono i tre-quarti dei destinatari di pensione, percepiscono in media un assegno di 31 sterline per settimana.

Per questo i lavoratori erano ben pronti a scendere in sciopero. E lo sciopero è riuscito. Il Tyneside, la regione che include Newcastle, era praticamente bloccata. La metropolitana e il tunnel sotto il fiume Tyne furono chiusi. Nel Merseyside, la zona di Liverpool, i lavoratori dei trasporti pubblici chiusero entrambe le gallerie sotto il Mersey e fermarono i traghetti. Centinaia di scuole, centri sportivi e biblioteche furono chiuse e numerosi lettori delle università, ancora dolenti per un accordo salariale derisorio, rifiutarono di oltrepassare i picchetti a dispetto della molta insistenza dalle direzioni. Il corso principale di Manchester era pieno di picchetti, 440 scioperanti si radunarono in sciopero davanti al palazzo comunale di Brighton, e così in tutto il Paese.

I resoconti dai picchetti tuttavia mostrano molto malumore per il modo con cui lo sciopero è stato pianificato e condotto. Si è frequentemente chiesto perché l’originale piano di due giorni di sciopero sia stato accantonato e ridotto a uno. Ci furono numerose richieste per uno sciopero generale, visto come più efficace che uno di un giorno o di due, verso il quale le autorità si sarebbero potute meglio preparare e mettere in atto adeguate contromisure. Al picchetto del personale degli amministrativi della Università Metropolitana di Manchester, per esempio, i lavoratori furono espliciti su quale sarebbe dovuto essere il passo successivo, la "sciopero generale"! e scioperare il 4 maggio, giorno di elezioni, fu visto da molti come una misura necessaria per forzare il governo a capitolare.

Un’altra domanda ripetutamente posta fu perché i sindacati stiano ancora versando enormi quantità di denaro (nel caso dell’Unison 500.000 sterline all’anno) proprio a quel partito al governo che così evidentemente ignora i loro bisogni. Fatto che ha indotto uno scioperante a paragonare queste donazioni a "comprare al Partito Laburista un paio di Doc Martens per poter dare un bel calcio ai lavoratori!". (Di fatto Unison ha deciso infine di sospendere i contributi al Labour Party, in attesa di un risoluzione della questione). La nostra risposta è che i sindacalisti, pagando il Labour Party si comprano prima incarichi dal governo sotto forma di direzioni e consulenze, per venire infine a parcheggiare il loro corpulento deretano alla Camera dei Lord come ultimo "avanzamento di carriera". Solo questo è il risultato reale del vantatissimo "legame storico" tra il Labour Party e i Sindacati, ben altro dello scopo ufficialmente atteso, di arrivare, tramite i Laburisti in Parlamento, al controllo "operaio" della produzione!

Questa evidente corruzione dei sindacati ancora una volta ha prodotto la richiesta di una riforma dei sindacati, ad una iniezione di una dose salutare di partecipazione dal basso. Queste rivendicazioni certamente hanno una base storica in quelle organizzazioni di base che, riuscite a raggiungere un certo grado di autonomia riguardo della direzione del Sindacato, hanno spesso lanciato azioni clamorose. Queste organizzazioni sono riuscite ad avere successo nel condurre azioni "non ufficiali", ma generalmente non hanno avuto potuto mantenere dimensione ed organizzazione permanente quando sia venuto meno lo slancio dello sciopero. Questo ha significato che quelle lotte sono rimaste troppo spesso isolate finché non hanno esaurito la loro carica. Spesso l’organizzazione è stata recuperata nei sindacati, e i capi "non ufficiali" incanalati nel lavoro di sindacalista "ufficiale", e sollevati dal posto di lavoro; oppure licenziati. Una organizzazione di classe, non limitata alla singola fabbrica, o località, ma con collegamenti estesi ad altri settori della classe operaia è ciò di cui c’è veramente di bisogno per una reale ampia azione, comprendente diverse categorie della classe operaia. Ci sarà bisogno di strutture che siano realmente opposte alla presente direzione, ormai totalmente integrata nel Governo e che, in modo "quasi autonomo", agisce come un informale Ministero del Lavoro.

Una organizzazione dall’alto, come nel presente sciopero, non è la stessa cosa di una dalla base, necessaria ai lavoratori per vincere. La direzione dall’alto userà solo metodi cauti e legali di lotta, il che probabilmente significa che li userà solo come una valvola di sfogo per far calare la rabbia repressa. Il sindacato dicono di voler mantenere la "pressione morale", ma non uscirà certo dalle leggi anti-sciopero e non rischierà il sequestrato dei suoi quattrini. Così nel volantino distribuito alle manifestazioni l’appello per la solidarietà rivolto al resto della classe è a dir poco insulso: "lavoratori pubblici e di altri settori dimostrate il vostro appoggio con donazioni al fondo di sciopero e aderendo ad iniziative legali".

La cosa ovvia da fare da un punto di vista di classe, naturalmente, sarebbe stata chiamare alla lotta comune, in solidarietà tra settore privato e impiegati statali, ai quali entrambi, come tutti sanno, sono minacciate le pensioni.

Si è tenuto un incontro fra sindacati, con il TUC come intermediario, e si è annunciato un roboante programma di scioperi per il 25, 26 e 27 aprile. Sebbene questo desse la sensazione che l’azione fosse intensificata, in effetti è stata ridotta: in ciascuno dei tre giorni sciopererà una diversa regione, così non avrà luogo l’effetto cumulativo di tre continui giorni di azione di sciopero sullo stesso territorio, il che avrebbe potuto avere realmente un certo effetto sul Governo. Scioperare un solo giorno significa solo lavorare per due l’indomani!

Comunque gli scioperi di aprile non sono stati fatti: i sindacati hanno deciso di sospendere ogni ulteriore azione in attesa di colloqui con i rappresentanti degli uffici ministeriali locali! Il governo infine ha fatto qualche minima concessione. Ovviamente si annunciano ancora incontri ed incontri e se ne dovrebbe parlare anche nel prossimo congresso sindacale...

Questo attacco alle pensioni dei lavoratori non è che un altro episodio nella lotta di classe, un altro esempio di come la classe dominante cerchi di tagliare i costi scaricandoli sui lavoratori. La lotta di classe si consuma attorno a noi continuamente, in tante piccole scaramucce tra lavoratori e capitale, in ogni azienda e in ogni paese in tutto il mondo. Attualmente la classe è un gigante addormentato, cullato nel falso senso di torpore che le deriva dal periodo di ricchezza capitalistica.

Ma essa tornerà a sollevarsi. Saremmo avvicinati a quel punto quando la classe si sarà equipaggiata con organizzazioni che veramente esprimono i suoi interessi economici, abbandonando quelle organizzazioni che si rifanno ai meglio pagati e alle elite privilegiate e che governano le attuali federazioni sindacali negli interessi del capitalismo.
 
 
 
 
 


Convergenti diverse forme del Sindacalismo Nazionale

Dalle pagine di Rinascita, "quotidiano di liberazione nazionale", come sta scritto sulla testata, il 5 marzo è apparso un articolo dal titolo "Lavoro a dignità d’uomo e di nazione".

Dal "Chi siamo" del suo sito stralciamo: «L’obiettivo di Rinascita è costruire un immediato punto di riferimento quotidiano per ogni cittadino geloso della propria libertà, della liberà del nostro popolo, della dignità nazionale, dell’equità e della giustizia sociale (...) interprete di esigenze sociali, garante dei diritti della comunità, tutore della volontà di rinascita del nostro popolo, della nostra nazione, della nostra Europa». Parole dal sapore nostalgico di una "destra sociale", parte integrante della tradizione della borghesia nostrana.

L’articolo prende spunto da un "incontro internazionale", organizzato dalla Treccani in collaborazione con l’assessorato alle politiche culturali e la Casa delle Letterature del Comune di Roma, dal tema "Il fascismo in Italia, un totalitarismo in Europa". Il giornalista lamenta che durante il simposio sarebbe stato concesso "poco spazio" alle tematiche del mondo del lavoro e, quindi, si sente in dovere di farlo lui, cominciando con i principi dello Stato corporativo fascista, con il contratto collettivo ad efficacia erga omnes e con lo Statuto dei lavoratori che ebbe come nome Carta del Lavoro, promulgata in occasione del Natale di Roma del 21 aprile del 1927.

«In quel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi del datore di lavoro e del lavoratore e la loro subordinazione agli interessi superiori dell’economia. Conciliazione che è collaborazione e, perciò, disciplina. I due sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori sono stati investiti della stessa sovranità, donde il contratto collettivo s’intende efficace per tutta la categoria rappresentata. Solo nel caso che non fosse stato possibile raggiungere l’accordo per le normali vie conciliative, lo Stato sarebbe intervenuto per mezzo della Magistratura del Lavoro (...) Dalla collaborazione delle forze produttive deriva fra esse reciprocità di diritti e di doveri. Il prestatore d’opera, tecnico, impiegato o operaio, è un collaboratore attivo dell’impresa economica, la direzione della quale spetta al datore di lavoro che ne ha la responsabilità. Il paragrafo XXIV sancisce che le associazioni professionali dei lavoratori hanno l’obbligo di esercitare una azione selettiva fra i lavoratori diretta ad elevarne sempre più la capacità tecnica e il valore morale».

Sulle pagine della nostra stampa è ampiamente sviluppata l’analisi critica dei sindacati confederali rinati nel secondo dopoguerra, tra i quali la CGIL, che già denunciavamo non essere una organizzazione "rossa", ma anche essa una organizzazione "tricolore", "cucita sul modello Mussolini". Se il Fascismo aveva realizzato l’inserimento delle organizzazioni sindacali nella struttura dello Stato borghese, frantumando violentemente i sindacati operai e incendiando le gloriose Camere del Lavoro, il "sindacalismo tricolore" ha potuto nel secondo dopoguerra mantenere "pacificamente" quella sottomissione. Citiamo dello Statuto della CGIL del 1965: «La CGIL pone a base del suo programma e della sua azione la Costituzione della Repubblica italiana e ne persegue l’integrale applicazione particolarmente in ordine ai diritti che vi sono proclamati e alle riforme economiche e sociali che vi sono dettate».

Passano altri trent’anni ed arriviamo, ancora in totale coerenza "post-fascista", alla vigente "concertazione", dove alla classe operaia viene ancora una volta chiesto di "collaborare", che significa essere maggiormente sfruttata dal proprio nemico sociale in nome della malconcia economia di impresa e di nazione. Coincidono le posizioni tra il modello corporativo dichiarato, tanto a cuore al giornalista "destroso", e dell’odierno sindacalismo concertativo, "sinistroso". In entrambi la forza lavoro non è un elemento antagonista al capitale e al suo ciclo produttivo, ma una sua componente necessaria, naturale, alla stessa stregua dei capitali fissi anticipati dal padrone: interesse degli operai è che crescano i profitti dei capitalisti.

L’alternativa di Rinascita al male della "deriva liberista" o della fallimentare "economia socialista": partecipazione del lavoratore alla gestione e agli utili della impresa e riqualificazione del lavoro come possibili risposte alle diseguaglianze insite nel sistema capitalista e punto di partenza di una economia sociale all’insegna del lavoro per tutti. Ovviamente, per il bene dell’azienda, vi sarebbe una perdita in termini di busta-paga, ma potrebbe essere compensata con "varie forme" di partecipazione agli utili dell’impresa. Insomma, una distribuzione sulla base di criteri di "giustizia sociale" del Pil. Infatti, sotto la spinta dell’economia globalizzata, sarebbe indispensabile un nuovo orientamento dei criteri di ridistribuzione del reddito nazionale fra datori di lavoro, lavoratori (operai e impiegati) e Stato. Il fine è non compromettere l’integrità del consenso sociale. Per evitare "incontrollabili" processi di impoverimento di gruppi della popolazione attiva e la riduzione di investimenti per le infrastrutture, sarebbe quanto mai urgente definire nuovi criteri di distribuzione del reddito nazionale tra i gruppi detentori del capitale, i manager, gli operai, gli impiegati e lo Stato.

È la stessa utopia, del resto, di tutti i Movimenti no-global in tutte le salse, sperare in un capitalismo più giusto, più "equo e solidale", cosa inconciliabile con questo sistema di produzione. La merce è tale perché contiene plusvalore, una parte di lavoro non pagato. Nulla cambia che il plusvalore transiti dai conti di un padrone o venga ridistribuito tra gli stessi lavoratori: questi, se vorranno "stare sul mercato", dovranno adeguarsi in tutto alle sue regole, cioè diventare sfruttatori di se stessi, e restituire al Capitale ciò che è del Capitale. L’unico senso in cui i lavoratori possono "partecipare" ai risultati dell’impresa è riducendosi la busta paga, o, per ottenere il salario pieno, devono sostenere lo sforzo produttivo massimo. Più salari meno profitti, cresce una parte se l’altra si contrae. Qui sta l’imbroglio.

Per concludere ribadiamo che il capitalismo si veste, alternativamente, di Democrazia, Opportunismo pseudo-operaio, Fascismo, sempre in funzione controrivoluzionaria, perché nessuno di essi contraddice il mantenimento del suo regime. Tutti i partiti che indossano questi tre costumi di scena della borghesia si rifanno agli stessi Dei borghesi, che prendono il nome di Popolo, Nazione, Stato di tutti, Economia nazionale.
 
 
 
 
 
 
 

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Proficua riunione del partito a Viareggio

3 e 4 giugno 2006

[RG95]


  • La crisi del Capitale
  • Il riarmo degli Stati
  • Il Movimento operaio americano (2) [Resoconto esteso]
  • Bilancio della "Rivoluzione islamica"
  • L’Italia, bigotta e machiavellica [Resoconto esteso]
  • Origine dei sindacati in Italia [Resoconto esteso]
  • L’Antimilitarimo nel movimento operaio [Resoconto esteso]
  • La questione ebraica (5) [Resoconto esteso]
  • The Crisis of Capital
  • The Rearming of the States
  • The American Workers’ Movement (2) [diffuse report]
  • Balance Sheet of the Islamic ‘Revolution’
  • Italy: Bigotted and Machiavellian
  • The origin of the trade unions in Italy
  • Anti-militarism in the Workers’ movement
  • The Jewish Question
  • Per la prima volta negli annali del nostro piccolo partito abbiamo potuto tenere la riunione generale a Viareggio, cittadina di robusta presenza e tradizioni proletarie, nell’agricoltura, nella cantieristica e marinare, che lo svilimento a centro "balneare" avutosi nel secolo scorso ha scalfito solo in superficie. Ci ha ospitato la sala, ampia e tranquilla, di una circoscrizione di quartiere.

    Molto densi, come sempre, gli incontri sia del sabato sia alla domenica, con numerose relazioni, alcune di argomento non facile e di svolgimento tutt’altro che ovvio o rituale. Subito qui ne riferiamo i titoli ed il senso generale; poi, con il tempo che occorre, ne stenderemo le relazioni complete e ne daremo pubblicazione in "Comunismo".

    Le diverse ricerche si avvalgono della collaborazione di più compagni, su di un arco temporale che non si riduce all’immediato, anzi che utilizza, senza contraddizioni, né contraddittorio, il lavoro sia di tutti i presenti sia di chi non abbiamo più fra di noi.

    Il metodo di partito, infatti, non si svilisce in una pettegola "caccia all’errore", tipico "sport" al quale si danno l’intelligenza e il politicantume borghesi, ai quali, non avendo più niente di bello e di vero da affermare, resta solo il gridar più forte e il ripiego acido di dir male dei compari nell’imbroglio e nell’insipienza.

    Non intendiamo affermare che nel partito "è impossibile l’errore" o che "non ha mai sbagliato", né che "non sbaglierà mai", tutt’altro. Affermiamo però che il metodo di lavoro del partito comunista si deve sicuramente porre al di sopra di ogni personalismo, e anche settarismo d’organizzazione, per guardare al fine lontano. In un partito che abbia il respiro per elevarsi a questo senso storico comunista, anche un eventuale "errore" può divenire utile occasione per l’esercizio della nostra collettiva muscolatura dialettica, per approfondire un argomento e portarne sempre nuovi meno indagati risvolti sotto il controllo della dottrina.
     

    LA CRISI DEL CAPITALE

    Risultato di un difficile lavoro di integrazione di dati e di eleborazione, come di consueto è stato possibile esporre all’uditorio la "cartella clinica" del Grande Morente, qui riprodotta solo nei suoi dati più sintetici.

    Abbraccia il lungo periodo 1937-2005, per i sei maggiori imperialismi. È in corso il lavoro di raccolta delle informazioni per integrarvi anche la Cina e l’India. Di ogni paese il primo rigo, in chiaro, indica il numero degli anni del periodo, il secondo, in neretto, il tasso medio annuo di crescita della Produzione Industriale.
     

     
    Saggio medio annuo di incremento della Produzione Industriale nei periodi fra massimi successivi crescenti
     
    19-
      37
    19-
      43
    19-
      48
    19-
      49
    19-
      50
    19-
      51
    19-
      52
    19-
      53
    19-
      56
    19-
      57
    19-
      60
    19-
      61
    19-
      66
    19-
      69
    19-
      70
    19-
      73
    19-
      74
    19-
      79
    19-
      80
    19-
      85
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      86
    19-
      89
    19-
      90
    19-
      91
    19-
      95
    20-
      00
    20-
      01
    20-
      05
    USA
    6
    13,3
    10
    0,3
    3
    2,3
    4
    2,7
    9
    5,2
    4
    3,4
    6
    3,0
    10
    2,0
    11
    3,6
    5
    1,0
    D
    13
    0,9
    13
    7,6
    7
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    7
    1,0
    5
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    0,6
    J
    14
    0,0
    6
    14,5
    16
    13,2
    12
    3,4
    6
    4,1
    14
    0,1
    I
    12
    0,4
    2
    21,1
    19
    7,5
    4
    4,7
    6
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    9
    1,5
    6
    1,1
    5
    1,5
    5
    -0,8
    F
    11
    0,2
    4
    7,0
    9
    6,6
    13
    5,3
    5
    1,6
    6
    0,2
    5
    2,5
    5
    0,7
    6
    2,5
    4
    0,1
    UK
    11
    0,8
    2
    7,9
    10
    0,9
    13
    2,9
    6
    1,1
    10
    1,0
    11
    1,0
    5
    -0,9

    Gran numero di considerazioni si possono trarre da tale suggestivo vasto panorama del capitalismo mondiale, sottosuolo delle determinazioni sociali, grandissime e piccolissime, nel volgersi di questi nostri secoli di controrivoluzione evidente e trionfante sul piano politico e, all’opposto, di inesorabile declino su quello economico del nostro storico nemico.

    I periodi più recenti, ed in corso, terminanti al 2005, sono indicati in corsivo in quanto sia i dati sono provvisori, sia non trattasi di cicli conclusi con un anno di massimo crescente. Alcuni ritmi infatti sono addirittura negativi.

    Evidente il grande ciclo di invecchiamento capitalistico, che riduce persino gli strapotenti a crescita quasi nulla. Così passa la gloria del Capitale: si osservino i tassi medi di accumulazione, di Italia e Giappone, per esempio, nel dopoguerra, che diremmo senz’altro "cinesi", a quanto si sono oggi ridotti.
     

    IL RIARMO DEGLI STATI

    Periodicamente sui mezzi d’informazione appaiono scarni dati su quanto spendono gli Stati per armarsi. Nell’ultimo anno le brute cifre (che pur vedono l’Italietta collocarsi tra i prodighi a livello mondiale nella spesa per marina, aviazione, esercito, carabinieri, ecc.) sono spesso accompagnate da lagnanze da parte delle alte gerarchie dell’esercito per i tagli al bilancio della "difesa", ovvero da richieste di diminuzione di tali spese avanzate dalla cosiddetta "sinistra radicale".

    Se questa affermazione di un marxista del calibro di Trotski è vera, come lo è certamente, c’è da stare allarmati: «Gli Stati non combattono perché sono armati. Al contrario, forgiano armi quando hanno necessità di combattere».

    Dal 1998, dopo alcuni anni di riduzione della spesa militare mondiale dovuta al collasso dell’immenso Impero russo, e alla drastica diminuzione della spesa militare soprattutto di quella regione, ma anche degli Stati Uniti, la spesa ha ricominciato ad aumentare in modo massiccio. Tra il 1998 e il 2004 l’aumento è stato pari al 27%, raggiungendo l’enorme cifra di 1.035 miliardi di dollari, aumentata ancora nel 2005 a più di 1.100 miliardi di dollari.

    Come è ripartita tra i vari Stati questa spesa?

    In genere i dati forniti dal SIPRI, quelli che circolano sulla stampa, sono calcolati in Dollari basandosi sui tassi di cambio ufficiali. Su quella base la ripartizione della spesa militare tra i 15 Stati che spendono di più, vede, per l’anno 2005, al primo posto gli Stati Uniti con una spesa di 455,3 miliardi di dollari (46,7% del totale mondiale), al secondo posto, ma ben lontana, la Gran Bretagna con 47,4 miliardi e il 4,9%; al terzo la Francia con 46,2 (4,7%); al quarto il Giappone con 42,4 (4,3%); al quinto la Cina con 35,4 (3,6); al sesto la Germania riunificata con 33,9 (3,5%). Al settimo posto è l’Italietta che, almeno dal punto di vista della spesa militare, si colloca indubbiamente tra i "grandi" con 27,8 miliardi di dollari e un non disprezzabile 2,9% mondiale. Dietro troviamo la Russia "di Putin" con 19,4 miliardi (2,0%), seguono poi Arabia Saudita 19,3 (2,0%); Corea del Sud 15,5 (1,6%); India 15,1 (1,5%); Israele 10,7 (1,5%); Canada 10,6 (1,1%); Turchia e Australia con gli stessi 10,1 (1,0%), per un totale mondiale di 975 miliardi di dollari ai prezzi del 2003.

    Ma se si analizza la spesa militare "a parità di potere d’acquisto", cioè tenendo conto non del cambio ufficiale delle monete ma della dimensione fisica degli armamenti, la situazione cambia completamente e dà un quadro più vicino ai reali rapporti di forza tra le potenze imperialiste (sempre basandoci su dati SIPRI).

    Al primo posto restano, ovviamente, gli Stati Uniti, con la loro parte nella spesa mondiale un po’ si riduce, dal 46,7% al 41,4%. Ma al secondo posto non c’è più la Gran Bretagna, bensì la Cina, che con un 14,6% della spesa mondiale si conferma come il prossimo superimperialismo. Al terzo posto si colloca l’India, altra potenza asiatica in piena ascesa. Segue al quarto posto la Russia, che sta risalendo velocemente dopo la crisi seguita alla disgregazione della vecchia URSS.

    La Russia inoltre in pochi anni è tornata ad occupare uno tra i primi posti nel mondo per la vendita di armi. I suoi due maggiori acquirenti sono, non è un caso, proprio Cina ed India.

    Con questo criterio "reale", solo dopo la Russia spunta il primo paese europeo, la Francia, e seguono poi Gran Bretagna e Germania.

    Si inserisce all’ottavo posto il Giappone, che nella tabella precedente era al quarto, ma, se si considera che il paese del sol levante non avrebbe dovuto avere neppure un esercito per affidarsi all’alleato occupante statunitense, il risultato non è disprezzabile.

    Dopo il Giappone si colloca l’Italia, un nono posto più ragionevole del settimo nella precedente tabella.

    Questa la Seconda Tabella, come esposta alla riunione, relativa ai quindici Stati che hanno speso di più per il settore militare nel 2005, calcolando il tasso di cambio a parità di potere d’acquisto:
     

                  
                  STATO             SPESA     %
               1  USA               455,3    41,4
               2  Rep. Pop. Cinese  161,1    14,6
               3  India              81,8     7,4
               4  Russia             66,1     6,0
               5  Francia            51,2     4,7
               6  Gran Bretagna      46,2     4,2
               7  Germania           36,9     3,4
               8  Giappone           35,2     3,2
               9  Italia             34,5     3,1
              10  Arabia Saudita     29,1     2,6
              11  Turchia            24,3     2,2
              12  Corea del Sud      23,1     2,1
              13  Brasile            20,7     1,9
              14  Iran               18,5     1,7
              15  Pakistan           16,1     1,5
                  MONDO            1100,1   100,0
    

    Dopo aver considerato i dati della tabella abbiamo ripreso con l’intervento di Trotski: «Le richieste di "disarmo" non hanno nulla a che vedere con la prevenzione della guerra. I programmi di "disarmo" rappresentano solo un tentativo fatto sulla carta di ridurre le spese di questo o quel tipo di armamento. È soprattutto una questione di tecnica militare e di forzieri imperialisti. Gli arsenali, le fabbriche di munizioni, i laboratori, e, prima di tutto, l’industria capitalista in quanto tale preserverà le proprie forze durante qualsiasi "programma di disarmo". Gli Stati non combattono perché sono armati. Al contrario, forgiano armi quando hanno necessità di combattere. In caso di guerra tutti i limiti dei tempi di pace cadranno come foglie in autunno. Già nel 1914-1918 gli Stati non combatterono più con gli armamenti di cui si erano muniti in tempo di pace, ma con quelli forgiati durante la guerra. Non sono gli arsenali ma la capacità produttiva di un paese a essere decisivi (...)

    La questione del disarmo è una delle leve dell’imperialismo attraverso cui le guerre vengono preparate. Solo dei ciarlatani possono tentare di distinguere tra macchine belliche, aeroplani, carri armati offensivi e difensivi (...)

    La guerra non è un gioco che è condotto secondo le norme convenzionali. La guerra richiede che si producano armi che possano annichilire con successo il nemico. I pacifisti piccolo-borghesi che vedono in un 10, 33 o 50% di proposte di disarmo il "primo passo" verso la prevenzione della guerra, sono più pericolosi di tutti gli esplosivi e gas asfissianti. Melinite e iprite possono svolgere la loro funzione solo perché la massa della popolazione in tempi di pace è avvelenata dai fumi del pacifismo».

    La questione dunque è chiara: non possiamo illudere nessuno che sia possibile un capitalismo disarmato o meno armato. L’accesso ai mercati e alle fonti di materie prime gli imperialismi se li conquistano e li difendono a colpi di dollari ma anche a colpi di cannone, come dimostrano le attuali guerre per il petrolio.

    Un altro aspetto da non sottovalutare è che la produzione di armi in sé costituisce un importantissimo settore di industria. Sempre secondo il SIPRI (dati riportati dal "Manifesto" del 14 giugno): «Grazie ai conflitti in Afghanistan e in Iraq, a partire dal 2004, le maggiori case produttrici di armi a livello mondiale hanno visto aumentare i propri introiti del 34% per un totale di 10,12 miliardi di Dollari. Non stupisce, poi, che il 63% dei profitti finisca dritto fra gli utili delle 40 principali compagnie americane che di armi si occupano». Nell’attuale clima di quasi-stagnazione per l’economia dei maggiori paesi occidentali non sono risultati da poco.

    Le principali industrie di armamenti sono statunitensi, ma il loro principale committente è l’esercito degli stessi Stati Uniti: i loro utili quindi derivano dallo spolpamento del contribuente americano che vede investito in armi un dollaro su quattro della spesa federale. Per questo si fa sì che il "libero" cittadino stellestrisciato si senta costantemente minacciato, ieri dal "comunismo sovietico", oggi dagli "Stati canaglia", dal terrorismo internazionale e da incubi consimili, per convincerlo alla disciplina sociale e il proletariato a sgobbare!

    Abbiamo letto infine, a questo proposito, un passo dell’Antidühring: «Il militarismo reca in sé anche il germe della sua propria rovina. La concorrenza reciproca dei singoli Stati li costringe a impiegare ogni anno più denaro per l’esercito, e quindi ad affrettare sempre più la rovina finanziaria. Dovunque e sempre sono le condizioni economiche che portano la "forza" alla vittoria, senza le quali non si raccoglierebbero altro che bastonate».
     

    IL MOVIMENTO OPERAIO AMERICANO - La guerra d’indipendenza

    Il lavoro di partito sul movimento operaio americano si è soffermato sul periodo della Guerra d’Indipendenza, che la borghesia americana ama chiamare "Rivoluzione", ma che per l’analisi marxista altro non fu che una guerra fra Stati, in quanto non determinò un passaggio del potere politico da una classe ad un’altra, né un rivolgimento del modo di produzione.

    Pur se con qualche residuo pre-borghese, nelle grandi proprietà dei latifondisti, diretti assegnatari di enormi proprietà da parte della Corona, il sistema di produzione era ormai analogo a quello dominante in Inghilterra da oltre un secolo, da quando la Rivoluzione Inglese (quella sì fu tale) aveva spodestato la monarchia assoluta, riducendola a quello che è ancor oggi, un vuoto simulacro di un potere tramontato.

    Fu guerra di una parte della popolazione contro un’altra, quasi equivalente numericamente, e contro la madrepatria; quindi può dirsi anche una guerra civile.

    Il rapporto, dopo aver descritto la crescente pressione fiscale dell’Inghilterra sulle Colonie, ed i limiti posti alla loro espansione economica e territoriale, ha mostrato come fu proprio il proletariato delle grandi città, insieme ad artigiani e altri strati della piccola borghesia, ad organizzare una resistenza alla potenza coloniale, che i magnati inizialmente esitavano ad appoggiare.

    Anche in seguito, quando si passò al vero e proprio scontro tra l’esercito delle colonie e l’esercito inglese, la grande borghesia mercantile e finanziaria, e soprattutto i grandi proprietari terrieri, mantennero una posizione incerta e attendista, temendo sempre più le classi subalterne in armi che non l’oppressore d’oltre Atlantico.

    La vittoria non venne quindi semplicemente da un esercito, che subiva le vicissitudini dei rapporti non sempre cordiali tra le colonie; fu anche il risultato di una congiuntura storica che vedeva la Spagna, e soprattutto la Francia di Luigi XVI, sostenere con aiuti economici, esercito e flotta le milizie e l’esercito delle colonie.

    La guerra riuscì a soffocare i conflitti di classe solo per poco. Ben presto si verificò un inevitabile e generale aumento dei prezzi. Vi furono petizioni, assembramenti di masse minacciose, disordini. Nel 1781 si ammutinò addirittura un grosso reparto militare. Altri disordini si ebbero negli anni che seguirono la vittoria.

    Comunque la Rivoluzione non fu priva di conseguenze all’immediato migliorative per il proletario, tra cui una ripresa dell’economia. L’enunciazione dei principi di libertà individuale e di eguaglianza, anche se con limiti oggettivi, aveva chiare implicazioni per la futura condizione di servi e schiavi. Il servaggio dei bianchi era già in declino, a causa della difficoltà di mantenerne il flusso costante, difficoltà che crescevano tutte le volte che in Europa vi erano guerre.

    La schiavitù fu abolita nel New England negli anni successivi alla guerra, e proibita nei territori a nord del fiume Ohio; nelle colonie centrali scomparve più gradualmente, ma agli inizi del secolo XIX vi erano ormai rimasti ben pochi schiavi. Naturalmente la "peculiare istituzione" rimase ben salda nel Sud, dove d’altronde era la massa di milioni di schiavi; ma vi era la sensazione che si trattasse di un’anomalia che sarebbe presto stata sanata.

    Si aveva quindi l’impressione che il popolo americano fosse ormai ben avviato sulla via dell’eguaglianza sociale. La grande formula rivoluzionaria – vita, libertà e ricerca della felicità – pur se ipocrita nella sostanza, e intesa più per i ricchi che per le classi subalterne, era per i proletari come un’autorizzazione a sperare in un futuro di salari adeguati, di orari sopportabili, di condizioni di vita umane. D’altronde la grande invenzione della guerra d’Indipendenza Americana fu proprio la geniale retorica della "Libertà". Ogni classe, ogni strato sociale, dai fittavoli della valle dell’Hudson ai bottai di Filadelfia, dai marinai di Boston ai commercianti indebitati con l’Inghilterra, dai servi a contratto assetati di terre da dissodare agli operai specializzati di New York, tutti vedevano nel suo raggiungimento la soluzione dei rispettivi problemi, lo schiudersi di un mondo nuovo di ricchezza e benessere.

    Il secolo successivo avrebbe mostrato però che la borghesia americana non aveva nessuna intenzione di condividere con i proletari le enormi ricchezze che erano a portata di mano.
     

    BILANCIO DELLA "RIVOLUZIONE ISLAMICA"

    Concluso con la vittoria del partito dei preti il sollevamento popolare e proletario contro lo Stato dei Phahalavi, per consolidare il proprio potere, il blocco politico-religioso, in opposizione anche agli strati borghesi che l’avevano sostenuto, dovette ingaggiare un lungo e sanguinoso scontro con tutte le altre fazioni. L’Iran, come sancito anche in un referendum, divenne una "Repubblica Islamica" e da quel momento non ci fu più spazio per le forze democratiche, anche di ispirazione popolare, che tanto avevano contribuito al successo della insurrezione.

    La "rivoluzione" era morta prima d’aver visto la luce. Anche se, in seguito, quella fase storica fu detta "Rivoluzione komeinista": falso il nome, usurpato l’aggettivo.

    All’interno della stessa compagine sciita le divergenze tra le diverse "anime" del pretume condusse a scontri feroci, molto spesso mediati dalla Guida Suprema, talvolta sfociati in attentati cruenti che eliminavano l’oppositore. E sempre presi ad occasione per scatenare feroci repressioni, accusati di volta in volta i gruppi e partiti della sinistra laica o quelli della cosiddetta "sinistra islamica" (BaniSadr).

    Dal 1980 al 1983, anno dell’invasione da parte delle forze armate irachene, l’opposizione fu completamente eliminata, in tutte le sue componenti, con la condanna a morte di circa seimila persone, l’esilio per i più fortunati (compreso il secondo presidente laico del dopo rivoluzione, Bani Sadr) e la "morte politica" per quelle frazioni del clero che non volevano piegarsi alla forma della dittatura "komeinista".

    Il nuovo assetto costituzionale del paese si organizzava in una particolare struttura diarchiaca nella quale, ad una forma "democratica" di tipo tradizionale, rappresentata dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento, si accompagnava un parallelo potere di ispirazione religiosa presieduto da una Guida Suprema e coadiuvato da un Consiglio.

    A tali ultime cariche era – e tuttora è – demandato l’effettivo esercizio dei principali poteri della Repubblica Islamica, con un ruolo poco più che d’esercizio e di gestione per le cariche istituzionali della Presidenza e del Parlamento.

    La natura confessionale dello Stato fu sancita nella Costituzione della Repubblica Islamica che indicò chiaramente nell’Islam, e non nello Stato stesso, il vertice del potere in Iran, definendo la netta distinzione tra le funzioni del Presidente e quelle della Guida Suprema; con l’effettivo potere di governo demandato a quest’ultima e ai suoi organi specifici.

    La lotta per la strutturazione del nuovo assetto statale, e la dinamica dello scontro per gli interessi imperialistici nell’area del Golfo, determinano, in quel triennio di feroci repressioni un andamento confuso e contraddittorio nella politica estera della Repubblica, con fasi traumatiche come quella della cattura dei diplomatici all’ambasciata statunitense di Teheran e, successivamente, quella dell’attacco militare dell’Iraq contro l’Iran. Mentre la sinistra islamica, che fino alla sua eliminazione nel primo anno di guerra con l’Iraq, insisteva sull’inserimento organico dell’Iran nel movimento dei Non-allineati, c’è un’altra parte del governo che cercava una coesistenza non conflittuale con l’Occidente e una politica bilanciata verso l’Est, ed infine il gruppo politico della Guida Suprema ed il Consiglio della Rivoluzione spingono verso la rottura con gli Stati Uniti.

    Il proseguire sempre più aspro e sanguinoso della guerra con l’Iraq spazza via tutte queste contraddizioni.

    Il fallito tentativo di liberare manu militari i sequestrati dell’Ambasciata americana, e la sua debolezza politica, nel 1981 costano al presidente americano Carter la rielezione. Il suo successore Reagan ne compra la liberazione con armi e dollari fatti segretamente arrivare in Iran tramite i servizi israeliani ed un giro finanziario internazionale che coinvolge anche la filiale americana della Banca Nazionale del Lavoro: lo scandalo "Iran-Contras" che sarà rivelato nel 1987.

    Nella guerra in corso gli Stati Uniti lasciano che i due contendenti alla supremazia del Golfo si dissanguino tra loro, appoggiando il dittatore iracheno, che hanno contribuito a mettere e mantenere al potere per contrastare l’espansionismo della neonata Repubblica d’Iran

    Dopo gli assassini di Behesti, capo del Consiglio della Rivoluzione, e di Rajai, capo della Repubblica seguito a Bani Sadr, l’ayatollah Kamenei lo sostituisce. Il cerchio si chiude, ed i mullah controllano interamente tutti i gangli dello Stato e della società civile. La debole borghesia d’Iran si consegna in toto alla dura disciplina dei preti, che spadroneggiano anche nel settore finanziario, oltre che fondiario ed estrattivo, e prendono in mano il commercio del petrolio.

    Dopo otto anni di guerra, dopo che un missile lanciato da una nave americana abbatte un aereo civile iraniano con 280 persone a bordo – un "tragico errore", si scuserà la diplomazia americana – la guerra finisce senza una formale dichiarazione di pace tra i due contendenti.

    La morte dell’ayatollah Khomeini nel febbraio 1989, subito dopo la fine delle ostilità e l’ascesa di Rafsanjiani al vertice del regime, chiudono la fase turbolenta del potere dei preti e consentono una stabilizzazione politica e un nuovo clima che permette anche una politica estera pragmatica, volta al negoziato, per affrontare con diversa attitudine il nodo cruciale: la supremazia regionale nell’area del Golfo.

    Alla presidenza della Repubblica viene eletto Akbar Hashemi Rafsanjani, che rimarrà in carica fino al 1997, mettendo in pratica una politica di liberalizzazione economica volta ad attirare investimenti stranieri per la ricostruzione del paese devastato dalla guerra.
     

    L’ITALIA, BIGOTTA E MACHIAVELLICA

    Se abbiamo tanto insistito nel rilevare che la storia della borghesia italica è segnata dal suo modo di procedere politicantesco, secondo i criteri della doppiezza che non furono solo di Togliatti ma già degli uomini del Risorgimento, Cavour in testa, non lo abbiamo fatto per moralismo bigotto.

    Il bigottismo è tipico semmai della classe dirigente borghese, e non solo italica, poiché si trova oggettivamente divisa tra le belle intenzioni e le dure prove con la realtà materiale, che delle velleità non sa che farsene.

    Dunque lo specchio deformante dell’ideologia nazionale comporta che alle promesse non corrisponda mai la risposta adeguata, per la ragione che è portata a vedere nelle divisioni di classe "un’invenzione del marxismo", e non invece un dato di fatto talmente evidente che non c’è bisogno di nessuna lente per vederlo.

    Ecco allora che gli Italici, che pure si vantano di essere seguaci o almeno debitori di Machiavelli, non sapendo che lui stesso, accusato a suo tempo di essere un "mannerino", cioè un portaborse dei Medici, lui repubblicano!, aveva predicato la necessità di mettere da parte le prediche per andare a lezione della "realtà effettuale". Proprio lui, che almeno ebbe il pregio di non sfuggire alle lezioni della storia, sapendo muoversi nella politica, e schifando il politicantismo, diventato modo di procedere vomitevole dei nostri tempi.

    Il patetico del’ideologia italica è la retorica con cui tenta di coprire le falle, senza riuscire a nascondere il vuoto profondo d’una tradizione oscillante continuamente tra velleità e realtà. Gli eventi degli ultimi quindici anni non fanno eccezione, anche dopo il crollo delle "ideologie" che avrebbero costretto tutti alla dissimulazione...

    Ora che le ragioni della doppiezza non ci sarebbero più, ecco che si grida al paese spaccato a metà, ed invece mai così unito per premere sul proletariato, escluso dalla grande abbuffata e che pure si trova ormai in una crisi irreversibile.

    Se il tasso di profitto tende inesorabilmente a cadere, di chi la colpa? Rispondano lor signori, e vedranno che non sarà tanto facile dire che è colpa del marxismo in quanto ideologia... menzognera e antiscientifica.
     

    ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA

    La relazione esposta a Viareggio si è dedicata a ritracciare la storia della Confederazione Generale del Lavoro che si ricostituì nell’immediato dopoguerra con sede centrale a Napoli. Il compagno incaricato della ricerca riusciva a reperire copia di molti dei numeri dell’organo ufficiale della Confederazione, "Battaglie Sindacali", la cui lettura dimostra la gran forza che avevano in questo sindacato le posizioni di classe.

    Accanto a queste, al suo interno erano presenti indirizzi non comunisti provenienti da aderenti al Partito d’Azione, al PCI e al PSIUP.

    Ma il giudizio di oggi deve confermare trattarsi di un sindacato "di classe" perché tale era la sua azione, tale era considerato dai suoi iscritti e perché anche i dirigenti non comunisti dovevano lasciarsi trascinare dalla marea. Questi erano costretti, di fatto, a nascondere le loro opinioni altrimenti avrebbero perso il contatto con il proletariato.

    Esplicite le rivendicazioni salariali significative per braccianti, operai ed impiegati, senza tener conto delle compatibilità con l’economia nazioanle.

    Dando lettura di ampi stralci dalle pagine di "Battaglie" si riferiva della difesa di diverse posizioni classiste, come la rivendicazione di una unica organizzazine sindacale per tutte le categorie e le regioni d’Italia.

    L’organizzazione si deve battere contro il sabotaggio del PCI, che invita gli operai a non aderire e a pagare le quote. Sull’"Unità" escono addirittura accuse di "anticomunismo", alle quali giustamente si risponde che la CGL ritiene potersi avere vero sollievo alla condizione proletaria solo con la solidarietà internazionale di classe e con l’abolizione del sistema capitalistico.

    Essendo altri compagni riusciti a quasi completare la collezione di quel giornale sindacale, abbiamo deciso di riprodurlo per metterlo a disposizione di studi futuri.
     

    L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO

    La trattazione è iniziata osservando come la guerra non rappresenta che la necessaria conseguenza della società capitalistica e del suo modo di produzione. Ma allo stesso tempo rappresenta anche la sua massima contraddizione: infatti per la conservazione del suo potere, del suo dominio di classe, lo Stato capitalista è costretto ad armare il proletariato, il suo storico becchino. Come scriveva Marx nel Manifesto: «La borghesia non ha solo forgiato le armi che la uccideranno; ha anche prodotto gli uomini che imbracceranno queste armi: i lavoratori moderni, i proletari».

    Veniva quindi data ampia lettura di citazioni dai nostri testi classici (Marx, Lenin, la Sinistra italiana) per dimostrare come la posizione rivoluzionaria che il partito del proletariato deve assumere nei confronti della guerra imperialista non può minimamente transigere e venire meno a questi basilari postulati:
        1 - Mai e per nessun motivo il partito dichiarerà una tregua della lotta di classe in caso di guerra e men che meno chiamerà la classe proletaria a solidarizzare con il proprio Stato borghese; e ciò anche nel caso in cui il territorio nazionale fosse seriamente minacciato da una aggressione militare di Stati nemici;
        2 - Il partito dovrà proclamare il rifiuto unilaterale della difesa della patria;
        3 - Allo stesso tempo dovrà fare opera di fraternizzazione fra i proletari in divisa degli opposti eserciti borghesi;
        4 – Imposterà tutta la sua propaganda ed azione tattica finalizzandole alla trasformazione della guerra fra gli Stati in guerra civile tra le classi.

    Queste nette, ma chiare, enunciazioni ci autorizzano a concludere che l’opera svolta dai partiti della Seconda Internazionale, sia allo scoppio del conflitto sia durante tutto il suo svolgimento, rappresentò il totale abbandono della dottrina e della tradizione socialista (anche riformista) ed un repentino passaggio nel campo della difesa degli interessi nazionali borghesi consumando un cosciente e deliberato tradimento della classe operaia e della sua causa storica.

    Mentre i partiti della Seconda Internazionale, tranne rarissime eccezioni, facevano fronte comune ciascuno con il proprio Stato nazionale, e quindi, per quanto possa a prima vista sembrare assurdo, con l’imperialismo internazionale; mentre i partiti tradivano, ovunque il proletariato, al contrario, dava prova di autentico internazionalismo di classe.

    In tutti i fronti di guerra, indistintamente, fino dal natale del 1914 si verificarono innumerevoli episodi di tregua militare e di fraternizzazione, nei confronti dei quali gli alti comandi militari adottarono, a seconda dei casi, il criterio della tolleranza o della repressione brutale perché la fraternizzazione non si tramutasse in sciopero militare e questo non divampasse in aperta guerra civile.

    Il succedersi degli anni di guerra non fiaccò lo spirito di rivolta del proletariato al fronte e, nel fatidico 1917, non vi fu un solo fronte militare, un solo esercito che non fosse attraversato dal fenomeno dello sciopero militare, dell’ammutinamento, della rivolta.

    Riportare, anche soltanto per sommi capi, tutta la serie di questi assalti proletari sarebbe impossibile. Nel corso del rapporto, tra i tanti, sono stati quindi presi in considerazione tre fenomeni: La tregua del Natale 1914 che praticamente interessò tutto il fronte occidentale; la rivolta dell’esercito francese nel 1917 e la Caporetto italiana. Veniva messo in evidenza che queste manifestazioni, per quanto significative, rappresentavano uno spirito generalizzato di ribellione, di volontà di farla finita con la guerra, con il regime che l’aveva generata, con la classe che l’aveva voluta. In Russia, in Italia, in Francia, in Austria, in Germania, tutti gli eserciti, nel 1917, si ribellarono e autonomamente dichiararono, come poterono, la loro volontà di guerra alla guerra. Tutte le condizioni sarebbero state mature per sferrare l’attacco rivoluzionario contro il potere borghese capitalista. Ciò che mancò, fatta eccezione della Russia, fu il partito. La Seconda Internazionale in blocco, ad onta delle dichiarazioni del congresso di Basilea e di decine di altri precedenti, era passata nel campo degli interessi dei capitalismi nazionali e legò il suo destino al destino del capitalismo in generale.

    La Socialdemocrazia nel 1914 consegnò allo Stato capitalista un proletariato inerme, destinato al macello per l’esclusivo beneficio degli interessi delle patrie borghesi. Negli anni successivi nulla fece per fermare "l’inutile strage". Quando nel 1917 il proletariato in divisa espresse la sua ferma volontà di imporre la pace, la Socialdemocrazia rimase impassibile di fronte alla più feroce e sanguinaria repressione esercitata dai governi e dagli Stati Maggiori degli eserciti per spingere ancora una volta i proletari in divisa al massacro: di se stessi e dei fratelli della trincea opposta. Quando, inoltre, nel 1919, la borghesia rischiò di soccombere sotto l’urto violento della marea rivoluzionaria, ancora una volta fu la Socialdemocrazia che le venne in aiuto e si assunse, in prima persona, l’onere di salvaguardare l’ordine capitalista e di annegare nel sangue ogni conato rivoluzionario.
     

    LA QUESTIONE EBRAICA: (5) Il Focolare nazionale

    La fondazione delle Stato d’Israele è stata vista come l’epressione del ritorno del popolo ebraico alla Terra promessa, e dunque un’esperienza più religiosa che politica. È evidente che non siamo d’accordo.

    Quando si parla di antisemitismo, oggi si carica la questione d’una miriade di significati e di simboli, in qualche modo inevitabile, ma evitabile se si segue un percorso non soggetto all’amplificazione retorica.

    È casuale che lo Stato d’Israele si formi dopo il Secondo Conflitto mondiale, che ha visto nazismo e stalinismo interpretare il culmine dello schiacciamento proletario? È casuale che uno Stato così particolare si sia formato quasi a risarcimento dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti?

    Oggi i documenti storici dimostrano che erano al corrente dello sterminio non solo quegli Stati che avevano chiuso più d’un occhio, come la Perfida Albione, ma anche Vaticano e Croce Rossa, che uno Stato non era e non è...

    Se dunque leggiamo questo evento alla luce della lotta di classe, dobbiamo dire che tutta la storia dell’antisemitismo, dai falsi Protocolli di Sion fino alla campagna nazista, non sono che una perversa manifestazione di cattiva coscienza della borghesia mondiale, per intorbidire le acque e poter sostenere che la democrazia vincente finalmente si può permettere di dare una patria ai perseguitati. Una tempesta di sabbia sulla verità complessiva e sulle vere ragioni della lotta a livello di potere.

    Noi sosteniamo che la formazione della miriade di Stati dopo la "fine del colonialismo" non ha fatto che ritagliare sistemi di oppressione molti articolati a livello planetario. Israele, come nuovo Stato, non fa eccezione, come non fa eccezione il nuovo mezzo-Stato palestinese, suo fiero avversario

    Anche se così si presentano, in un’area delicata e decisiva, dove in gran parte si scontrano le contraddizioni tra le potenze imperialistiche, almeno in questa fase.

    Dunque, se si conserva una lettura della formazione degli Stati vecchi e nuovi, non si cade vittime dell’ideologismo borghese, che utilizza ogni forma di fumo e di simboli per confondere l’orientamento del proletariato a livello generale.
     
     
     
     
     
     

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    Notiziario

    ONORI A DENIKIN

    L’ex spia Putin ha reso i dovuti onori al generale Denikin "eroe" della guerra civile in Russia dalla parte dei bianchi, ossia della controrivoluzione. Non sarà male ricordare che i meriti di questo personaggio, rappresentante dei fondiari russi, non furono altro che l’assassinio di quanti rivoluzionari cadevano nelle sue mani, la restituzione ai proprietari e a i contadini ricchi delle terre e dei beni confiscati dai consigli operai e contadini, così come la pratica di far "terra bruciata", distruggendo villaggi e massacrando i contadini, nelle zone controllate dai rossi.

    Non c’è niente di strano che un ex stalinista, riconvertito oggi in democratico, si dedichi a commemorare questi biechi rappresentanti della reazione. La continuità controrivoluzionaria è pienamente rispettata.

    SCIOPERO TRADIMENTO E REPRESSIONE ALL’IBERIA

    La trattativa per il 16° contratto collettivo dell’impresa aeronautica ha seguito lo stile abituale della cosiddetta contrattazione collettiva del regime democratico borghese. Di nuovo sono entrati in gioco i sindacati firmando un accordo sulle spalle dei lavoratori. Questi hanno visto le loro proteste brutalmente represse dalla polizia democratica, secondo le direttive politiche del PSOE.

    I PUBBLICI DIPENDENTI SI MOBILITANO IN GERMANIA

    Nella provincia del Baden-Wurttemberg i dipendenti pubblici si sono mobilitati nello scorso febbraio per protestare contro il tentativo di aumentare la giornata lavorativa. I sindacati del regime avranno da adoperarsi per far digerire questa pillola.

    LICENZIAMENTI ALLE AEROLINEE ARGENTINE

    La compagnia ha licenziato 168 lavoratori, fra piloti e tecnici, per aver scioperato in richiesta di aumenti salariali. In questo ha potuto contare sul pieno appoggio del governo del demagogo Kirtchner che ha sabotato lo sciopero fin dal primo giorno ordinando dei servizi "massimi" che lo hanno reso del tutto impotente.

    IL DISEGNO INTELLIGENTE

    Sembra essere questa la panacea capace di soppiantare l’evoluzinismo come teoria scientifica. Una volta ancora l’iniziativa viene dagli Stati Uniti, dove le teorie evoluzioniste iniziano ad essere seriamente messe in discussione nell’ambiente delle scuole. La borghesia, vittima implacabile della dialettica storica, rinnega i suoi principi fondativi con l’unico obiettivo di allontanare la classe operaia dal suo programma storico.

    BOLIVIA: SEMPRE IL SOLITO

    L’elezione presidenziale in Bolivia non sembra implicare alcun cambiamento apprezzabile della situazione della classe lavoratrice. Nonostante i proclami demagogici del nuovo governo populista, il giogo capitalista continua a pesare sui lavoratori, come anche succede in Venezuela e a Cuba, i governi borghesi dei quali paesi trovano una valvola di sfogo alle tensioni sociali interne con lo spauracchio dell’imperialismo Yanqui.
     
     
     
     
     
     

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    Lotte operaie in oriente

    In Vietnam

    Forse i capitalisti occidentali che si dicono pronti a spostare le loro fabbriche il Vietnam, dove i salari sono più bassi, potrebbero andare incontro ad un’amara sorpresa. Non solo l’aviaria minaccia di oltrepassare i confini nazionali per diffondersi in tutta l’Asia e nel Mondo, ma anche la malattia della lotta di classe, ben più "antieconomica" ed odiata dai governi borghesi.

    Nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio oltre 40.000 operai vietnamiti in varie parti del paese sono scesi in lotta chiedendo aumenti salariali. L’ondata di scioperi ha bloccato l’attività di 60 fabbriche straniere concentrate nelle cosiddette "zone di trasformazione per l’esportazione". La produzione in Vietnam è divisa tra le grandi ditte estere e una miriade di piccole e medie imprese locali, specializzate nel coprire le nicchie trascurate dalle grosse compagnie, cui sono, quindi, funzionali. Il codice del lavoro vietnamita riconosce il diritto di sciopero a patto che sia esercitato sotto la guida e per volontà dei sindacati ufficiali, sicuramente ben asserviti al regime. Questi scioperi spontanei, organizzati dai lavoratori, erano quindi "illegali".

    Durante la crisi delle "tigri asiatiche" del 1997-98 molte multinazionali avevano lasciato il paese. Il regime vietnamita allora, per dare nuove credenziali sul sicuro sfruttamento della classe operaia locale agli investitori stranieri, gonfi di capitale estorto al proletariato di qualche altro paese, portò nel 1999 la paga minima dagli allora 45/50 dollari ai 35/45 mensili (29,40/37,80 euro). Da allora fino ad oggi essa è rimasta invariata.

    Va considerato che in Vietnam il 76% della popolazione vive e lavora ancora nelle campagne, costituendo un enorme bacino di manodopera di riserva che ricatta il proletariato attivo mantenendo bassi i salari.

    Naturalmente per avere un’idea corretta dei rapporti fra città e campagna bisogna conoscere l’esatta situazione dei rapporti di produzione nel mondo contadino, quanto cioè i rapporti capitalistici siano penetrati nella campagna, quanto radicale o incompleta sia stata la riforma agraria borghese, compito che per questo paese dobbiamo rimandare a studi futuri.

    La rabbia dei lavoratori è cresciuta in questi anni mano a mano che l’inflazione, per altro sotto controllo, erodeva il potere d’acquisto di questi già bassissimi salari, rendendo sempre più difficile la semplice sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie.

    Questi bassi salari hanno permesso al Vietnam di attrarre una gran massa di capitale assetato di plusvalore. Nel 2005 il Prodotto interno lordo è cresciuto dell’8,4%. Le esportazioni sono aumentate in valore del 21,6% e gli investimenti diretti esteri almeno del 40%. Nel gennaio 2006, nonostante gli scioperi, la produzione industriale è aumentata del 21%. Il governo ha anche ridotto le tasse all’importazione di componenti elettronici (da 9,57% a 6,31%) rendendo la produzione ancor meno costosa che in occidente. Ciò ha favorito la presenza delle maggiori ditte elettroniche mondiali. Il 28 febbraio, ad esempio, la Intel, che produce computer, ha annunciato l’impiego di 300 milioni di dollari per costruire una fabbrica con 1.200 dipendenti vicino a Ho Chi Minh City. Gli investimenti esteri provengono principalmente da Stati Uniti, Europa, Giappone, Taiwan e Corea del Sud. Molte aziende giapponesi, ma sicuramente non solo, si sono trasferite in Vietnam nientemeno che dalla Cina, dove il salario medio è attualmente di 63 dollari il mese (53 euro).

    Gli scioperi hanno condotto a dicembre alla decisione governativa di aumentare di circa il 40% il salario minimo, portandolo sui 49/63 dollari (41,20/53 euro), vicino quindi a quello cinese. Ciò evidentemente è stato il risultato di una prova di forza e va apertamente contro a quanto affermato dal premier vietnamita Phan Van Khai, al South China Morning Post: «La nostra politica consiste (...) nel cercare di creare una situazione sempre più favorevole per questi investimenti (esteri)».

    In alcune province però il provvedimento è stato posticipato ad aprile. Ciò ha determinato ulteriori scioperi a gennaio e febbraio. Anche questi sono risultati alla fine vittoriosi ottenendo l’aumento fin dal secondo mese dell’anno. Le manifestazioni hanno assunto in alcuni casi carattere violento ed hanno riguardato le imprese sudcoreane, taiwanesi e giapponesi. Secondo l’Organizzazione Giapponese per il Commercio Estero gli scioperi degli operai vietnamiti sono stati i primi a colpire le grandi compagnie del Sol Levante in tutto il sud-est asiatico. Fra le compagnie giapponesi coinvolte dalle azioni degli operai figurano ad esempio la Mabuchi Motor Co., il più grande produttore mondiale di piccoli motori, e la Fujitsu Ltd.

    Circa 2.000 operai sono entrati in sciopero il 23 febbraio presso la Motor Vietnam Ltd, che impiega 7.000 lavoratori nella provincia di meridionale Dong Nai, bloccando la maggior parte della produzione. Alla Fujitsu Computer Products of Vietnam Inc., nella stessa provincia, la maggior parte dei 2.900 operai è scesa in sciopero il 24 febbraio e per i tre giorni successivi.

    L’Associazione Imprenditoriale Giapponese ha affermato di considerare gli scioperi illegali in quanto non erano state seguite le procedure per la loro indizione, quali ad esempio la trattativa obbligatoria. Sempre secondo l’organizzazione padronale una serie di scioperi "di piccola scala" sono iniziati nelle aziende giapponesi fin da fine gennaio, coinvolgendo un totale di 10.000 lavoratori.

    Per concludere in bellezza, secondo quanto riporta l’International Herald Tribune del 1° marzo, Alain Cany, il capo locale dei borghesi europei (i più civili al mondo si sa!), presidente della Camera del Commercio Europea in Vietnam, ha scritto una bella lettera al primo ministro Phan Van Khai dicendosi fortemente preoccupato per il fatto che, teme, gli scioperi possano finire in futuro per estendersi ed interessare anche le compagnie europee. Cany ha richiesto più controlli sugli scioperi da parte dell’autorità statale (che, a dir dei borghesi, sarebbe vetero-comunista!) ed ha espresso il disappunto delle compagnie europee presenti in Vietnam per non esser state previamente consultate in merito all’aumento dei salari. Uno degli elementi attrattivi del Vietnam per gli investimenti esteri, ha proseguito, era il fatto che «la forza lavoro non era incline agli scioperi». Scrivendo in rappresentanza delle compagnie britanniche, belghe, olandesi, tedesche e francesi, Cany ha concluso avvertendo che, «se simili incidenti dovessero accadere nuovamente, questo potrebbe andare a detrimento del clima economico generale del Vietnam, conducendo ad una flessione degli investimenti esteri e dell’economia».

    Come non pensare ai belati delle mille associazioni filantropiche borghesi europee sui diritti negati nei paesi senza democrazia, come il Vietnam o la Cina! O ancora meglio alle accuse di concorrenza sleale, dumping, mosse contro quei regimi! È evidente la truffa: sono i borghesi europei, occidentali e di tutto il Mondo ad essere interessati alla "concorrenza sleale" ed alla stabilità di quei regimi tanto criticati a parole, ma che nei fatti garantiscono la sottomissione di milioni di operai, il loro forsennato sfruttamento e profitti enormi per l’imprese.

    Come farebbe il capitalismo mondiale senza il Partito Comunista Cinese!
     

    In Corea del Sud

    Il 28 febbraio la Confederazione Coreana dei Sindacati, KCTU, ha chiamato i lavoratori allo sciopero generale, dispiegando il pomeriggio stesso manifestazioni di massa contro un nuovo tentativo da parte del governo di estendere la flessibilità del lavoro. I due progetti di legge, chiamati "Leggi per la protezione del lavoratore irregolare", sono state partorite dal Comitato per lo sviluppo ed il lavoro dell’Assemblea Nazionale la sera del 27 febbraio. La KCTU ha minacciato il ricorso allo sciopero generale ad oltranza nel caso in cui il governo sottoponesse le leggi all’approvazione del parlamento. Il governo sta cercando di far passare il provvedimento fin dal novembre del 2004, ma ha finora incontrato la fiera resistenza dei lavoratori sotto la guida delle due confederazioni nazionali. Anche in Corea del Sud l’uso del lavoro flessibile, precario, irregolare è divenuto sempre più esteso ed oggi si stima riguardi 8,4 milioni di lavoratori su un totale di 15 milioni.

    Sempre il 28 febbraio 16.000 lavoratori delle ferrovie aderenti al sindacato KFTPSU sono scesi in sciopero dopo la rottura delle trattative per ottenere la riassunzione dei capi sindacali sospesi nello sciopero precedente e vari miglioramenti alle condizioni di lavoro di 500 lavoratrici, "hostess" sui treni ad alta velocità KTX. Il governo ha dichiarato lo sciopero illegale in quanto non ha rispettato il periodo di 15 giorni di preavviso. Al 4 marzo, dopo quattro giorni di blocco, 2.244 nuove sospensioni, 26 mandati di cattura a vari attivisti sindacali e 397 lavoratori arrestati e poi rilasciati, il fronte dello sciopero sembra notevolmente provato. Nel frattempo il 2 marzo sono entrati in sciopero contro le Leggi sulla protezione del lavoro irregolare 180.00 lavoratori della KCTU. La produzione è stata fermata negli impianti automobilistici Hyundai, Kia Motors, GM-Daewoo e Sangyong Motors. Ad essi si sono uniti anche 5.700 lavoratori aderenti alla Federazione Coreana dei Sindacati dei Lavoratori dei Servizi Privati che organizza i lavoratori del settore turistico, tradizionalmente di difficile sindacalizzazione.