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"Instabilità costruttiva" l’ha definita uno dei soliti "consiglieri" dell’Amministrazione statunitense, constatando come "la stabilità in quanto tale rappresenta un ostacolo per gli interessi americani in Medio Oriente". Hanno iniziato dall’Afghanistan, proseguito in Iraq, perseverano con la Palestina e il Libano. Il confronto naturalmente non è "con" questi Paesi ma è "per" questi paesi. Non si tratta cioè di una guerra tra gli Stati Uniti & Co. da una parte e i talebani, Saddam Hussein o Nasrallah dall’altra, ma dello scontro tra gli Stati Uniti & Co e l’altro schieramento imperialista, che si sta costituendo per scalzare l’egemonia statunitense sulla regione e sulle sue risorse.
Il governo del Libano era "amico" di Israele, eppure in pochi giorni le infrastrutture del piccolo paese, di 3 milioni e mezzo di abitanti, delle dimensioni della nostra Umbria, sono state sistematicamente distrutte dall’aviazione israeliana che ha costretto alla fuga centinaia di migliaia di persone, spezzando la fragile struttura economica del paese.
I bombardamenti, di tipo terroristico, tesi a colpire soprattutto obbiettivi civili, hanno distrutto i villaggi nel Sud e interi isolati dei quartieri proletari di Beirut dove si raccoglie la popolazione sciita. Tra questa parte della popolazione si contano i maggiori "danni collaterali", con più di mille morti e migliaia di feriti alla fine di questo primo round.
Non è la prima invasione del piccolo paese da parte dell’esercito israeliano. Due altri interventi maggiori si sono avuti nel 1978, quando le truppe di Tel Aviv arrivarono al fiume Litani, per allontanare dal confine le unità della guerriglia palestinese, poi nel 1982 quando i carri israeliani arrivarono in una settimana fino a Beirut, sempre, ufficialmente, con lo scopo di colpire la guerriglia palestinese. Due mesi dopo, però, Arafat e i suoi miliziani poterono lasciare la città indisturbati sotto l’egida della Forza Multinazionale d’Interposizione, la quale subito anche se ne andò. I campi dei profughi palestinesi, abitati da decine di migliaia di proletari, furono così abbandonati alla rappresaglia delle milizie falangiste cristiane, ben decise a ripristinare l’ordine per la borghesia libanese e mondiale. Il culmine dell’orrore fu raggiunto a Sabra e Chatila dove, con il consenso delle truppe israeliane comandate da Ariel Sharon, furono massacrati migliaia di civili inermi.
Come a Srebrenica, a questo servono le "missioni di pace": uno strumento armato della guerra e della diplomazia degli Stati borghesi.
Anche l’invasione in corso è stata motivata come risposta all’azione della milizia Hezbollah, che ha attaccato una pattuglia dell’esercito in territorio israeliano uccidendo nove soldati e sequestrandone due. Per contro gli Hezbollah avevano affermato che il loro intervento era volto ad alleggerire la pressione sulla striscia di Gaza, sottoposta da settimane all’occupazione dell’esercito di Israele col suo seguito di distruzioni e di morti, soprattutto tra i civili.
Ma i veri motivi dell’attacco Hezbollah e della "sproporzionata" risposta israeliana sono altri. L’operazione militare di Hezbollah, come ha dichiarato lo stesso Nasrallah, era stata preparata da tempo e concertata con gli alleati. Ma anche l’offensiva militare israeliana, rivela la stampa ebraica, era stata pianificata molto tempo prima, e certamente concordata col "padrone" americano. Nelle dichiarazioni avrebbe dovuto tendere a far applicare con la forza la risoluzione 1559 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata nel 2004: ritiro delle truppe siriane dal Libano, disarmo dei gruppi armati nel paese, cioè di Hezbollah e dei palestinesi rifugiati nei campi profughi. Ma, di fatto, questo obbiettivo non è stato raggiunto e si è piuttosto tirato a distruggere le infrastrutture del Libano e i mezzi di sussistenza della popolazione sciita, ottenendo esattamente l’effetto opposto, il rafforzamento, nella società e nello Stato della influenza di Hezbollah.
È impossibile che il borghese Stato israeliano non prevedesse questo risultato. Perché dunque "polverizzare" il Libano, perché massacrare centinaia di civili, perché questa risposta così "sproporzionata" rispetto all’offesa se è chiaro che non si otterrà il risultato di eliminare il "pericolo" Hezbollah?
Perché il pericolo non è Hezbollah e perché lo Stato di Israele è solo un piccolo strumento in un gioco e contesa troppo più grandi. Così come il non-Stato inter-tribale libanese, Israele non è determinato dai suoi interessi "nazionali", ma da quelli della finanza mondiale, e il suo vero scopo non è "difendere gli ebrei" ma difendere rendite e profitti. La spiegazione dell’azione israeliana può essere trovata quindi solo se si inquadra anche questa guerra nel più generale scontro tra imperialismi che vede Israele vassallo fedele di Washington, da cui ha ricevuto anche nel 2005, ben 2,2 miliardi di dollari di aiuti in armamenti.
Le operazioni in Libano sono servite come prova generale di un futuro possibile intervento americano in Iran con l’uso massiccio dell’aviazione e con appoggio navale. Si è voluto saggiare le reazioni di un paese a dosi "sproporzionate" di bombardamenti dal cielo, seppure "mirate", con l’impiego di ogni tipo di armamentario moderno, ma cercando di ridurre ad un minimo il dispiegamento di forze terrestri, che l’esperienza irachena conferma di difficilissima manovra in un terreno urbano ostile. Lo serie del "liberatori" potrebbe voler essere del tipo: Dresda-Hiroscima-Teheran.
Da parte Iran-Hezbollah, ugualmente, si sono messe alla prova le modalità di risposta sia militari sia di mobilitazione popolare all’invasione.
La prova, evidentemente, per gli Usa-Israele ha dato risultato negativo. E questo forse spiega lo spazio che si è aperto per l’intervento degli altri militarismi sotto "ombrello" dell’Onu, intervento ora, paradossalmente, ben accolto da tutte le parti in conflitto.
D’altronde per Israele, come per tutti gli Stati borghesi, la guerra è un affare, e del Libano si è fatto la show-room di quanto di meglio, più moderno efficiente e progredito le classi dominanti riescano ad offrire alle dominate. Si parla di sperimentazioni di nuove munizioni e addirittura di nuovi tipi di arma, il tutto funzionale e necessario agli interessi dell’industria internazionale degli armamenti.
Dopo un mese di bombardamenti e il fallimento dell’offensiva terrestre, gli Stati Uniti quindi lasciano che l’ONU partorisca l’ennesima Risoluzione e organizzi una Forza di Interposizione, da cui però si chiamano fuori. È l’occasione per l’Europa che, sotto iniziativa dell’Italia, si propone di dar l’esempio. Mette insieme 8.000 dei 15.000 uomini previsti, quasi tutti italiani e francesi, con l’apporto di Spagna e altri. Incrocia al largo del Libano una flotta, anch’essa "sproporzionata", di navi da guerra.
Ma nessuno ha dato una spiegazione ufficiale circa le finalità dell’intervento Onu. Non si afferma trattarsi di "dividere i contendenti", né del resto sarebbe possibile ad un contingente così limitato. Certo che v’è l’interesse a ristabilire le condizioni per continuare gli ottimi affari con la ricca borghesia libanese. Trattasi anche di tenere aperto un canale con l’Iran, con cui Italia e Francia hanno ottimi rapporti commerciali. E, per uno Stato borghese di mezza tacca con l’italiano e di tre quarti come il francese, fa sempre bene entrare nei giochi dei più grossi mastini, vuoi quello di Washington vuoi dei rivali.
Israele, che finora ha sempre rifiutato l’internazionalizzazione del suo conflitto con i Paesi arabi e non ha mai accettato la presenza di truppe ONU ai confini, addirittura oggi è a richiedere questo intervento. Sottomettendosi anche in questo alla politica degli Stati Uniti, lo Stato di Israele viene a rinnegare lo stesso suo proclamato scopo costitutivo, la propria autodifesa armata.
Proprio l’assassinio di Hariri, considerato un oppositore della presenza delle truppe siriane nel paese, ha dato inizio a quel movimento di piazza, manovrato dal partito filo-occidentale, che ha portato alla richiesta ufficiale dell’allontanamento delle truppe di Damasco, che hanno abbandonato il paese nel 2005, aprendo la strada all’attacco israeliano.
A questi problemi bisogna aggiungere quelli derivanti dal gran numero di profughi palestinesi ancora residenti nel paese, che non hanno documenti, sono sottoposti a forti limitazioni, persino per uscire dai campi e per svolgere gran parte dei mestieri meglio retribuiti. Questo costringe la maggior parte dei palestinesi a lavorare nell’edilizia o come braccianti agricoli. Anche se lo scorso anno è stato tolto il divieto per i palestinesi nati in Libano a lavorare in qualche decina di attività, resta però l’interdizione ad esercitare le professioni liberali e ad acquisire la proprietà di terra e di immobili. Insomma dal 1983 i rifugiati palestinesi in Libano sono i veri "ebrei" della regione. "Proletari per legge", tant’è che pare che a causa della forte emigrazione si siano ridotti da circa 400.000 a 250.000, chiusi nei ghetti di 12 campi profughi.
Vi è poi la ingombrante presenza delle milizie armate degli Hezbollah, il "Partito di Dio". Stazionate soprattutto nel Sud del paese, nella valle della Bekaa, al confine con la Siria, e nei quartieri proletari della periferia meridionale di Beirut, rappresentano una importante componente del complesso equilibrio di forze interne al non-Stato non-nazionale libanese.
Ormai da decenni è stata delegato all’efficiente organizzazione Hezbollah il controllo del proletariato sciita, che rappresenta circa il 40% della popolazione del Libano. Hezbollah, grazie ai generosi finanziamenti, milioni di dollari, provenienti dall’Iran e, in minor misura, dalla Siria, dispone di un vero e proprio esercito, ma anche provvede a distribuire la corruzione, con sostegni economici le famiglie più povere e costruendo non solo moschee, ma scuole ed ospedali, arrivando insomma dove lo Stato libanese non vuole né potrebbe arrivare. Hezbollah è anche un partito politico legale, con due deputati al parlamento libanese.
Non si tratta per Hezbollah, ma anche per il parallelo movimento Hamas che è al governo a Gaza, di partiti nazional-rivoluzionari, avversi all’ordine esistente. Sul piano interno accettano tutta l’ipocrisia delle regole "democratiche", che naturalmente non escludono l’utilizzo di forze armate, per una spartizione "più equa" del sottogoverno. Sul piano internazionale sono solo pedine di forze più grandi che non intendono, né potrebbero, tendere a distruggere ma dalle quali dipendono materialmente e politicamente.
Militarmente reclutano anche dei "volontari", ma il loro nucleo consiste in soldati regolari, di mestiere, ben addestrati e ben armati, in grado, come si è visto, di condurre una efficace azione di contrasto anche contro forze corazzate. Il lancio di migliaia di missili in territorio israeliano ha dimostrato la disponibilità di mezzi e alleati potenti.
La relativa forza del movimento Hezbollah era stata dimostrata d’altronde già nel maggio del 2000 quando lo Stato d’Israele si era visto costretto, sotto i colpi di un esercito sempre più robusto, a ritirare unilateralmente le truppe dalla fascia meridionale del Libano che occupava da più di vent’anni.
L’iniziativa di Hezbollah, determinata probabilmente dalla volontà di riprendere l’iniziativa dopo l’indebolimento della sua posizione causato dal ritiro delle truppe siriane da cui era appoggiato, ha avuto successo. E non è da escludere ora la possibilità di un ritorno nel paese dei siriani.
È stata invece una sconfitta per Israele, in una guerra "vera", cioè nel confronto con forze organizzate e ben armate. Inoltre l’apparato dirigente israeliano, gli Stati Maggiori sia militari sia politici, hanno mostrato quella tipica, in Europa dal 1871, orribile mistura di cinismo sanguinario, codardia, insipienza e corruzione che immancabilmente rigurgita dalla classe dominante nella conduzione delle sue imprese belliche.
E certamente, per l’evidente mancanza di un suo inquadramento in un qualsivoglia disegno strategico-politico da parte delle classi dominanti, sull’esito della guerra ha pesato la stanchezza dei coscritti israeliani a battersi, sul terreno, in una guerra della quale, anche più delle altre volte, è apparsa la crudeltà assurda e gratuita.
Noi affermiamo invece, e questo distingue la nostra valutazione da quella degli antimperialisti di matrice socialdemocratica o stalinista, che i movimenti politici che si rifanno all’islam, anche quando combattessero armi alla mano contro l’imperialismo statunitense e i suoi alleati, anche quando riuscissero a mobilitare le masse proletarie, non sono da considerare nemmeno un movimento nazional-rivoluzionario ma restano partiti reazionari, ben incardinato nell’ordine borghese-imperialista, da esso emananti e foraggiati. Il loro fine principale è avversare con ogni mezzo, anche violento, l’organizzazione di tipo autonomo del proletariato e il suo indirizzamento al comunismo.
Questo informe arcipelago, fondato sulla religione e sull’organizzazione ma privo di programma politico, si batte nel campo imperialista antiamericano, uno schieramento che ancora non scende in campo aperto ma che, non meno fetente del primo, lavora a scardinare la posizione degli attuali padroni del mondo. Ancora in anni recenti non è stato così, quanto l’islamismo radicale era finanziato dai servizi segreti degli Stati Uniti per utilizzarne le forze contro i loro avversari del momento: i Talebani contro l’esercito russo in Afghanistan, il FIS contro il governo filofrancese in Algeria, Hamas contro il movimento nazionale palestinese nei territori occupati da Israele. Altro esempio il movimento sciita, che se in Libano è "anti-occidentale", in Iraq mercanteggia il suo appoggio alle forze d’occupazione, mentre combatte una guerra spietata contro il rinascente movimento politico e sociale del proletariato iracheno.
Sentiamo in questi mesi e anni militari e politici usare sempre più
spesso termini come "annichilire", "polverizzare" il nemico. Ma qual è
il nemico? Quasi sempre si tratta di popolazioni disarmate. L’imperialismo,
in profonda crisi economica, non può più comprare e corrompere
consistenti settori proletari. Ha cambiato "strategia", o meglio, è
tornato al suo proprio metodo: il terrore permanente contro la classe lavoratrice,
sia del Sud sia del Nord del Mondo. Deve far questo perché sa che
la classe operaia ha in mano la possibilità storica per distruggere,
con metodi rivoluzionari, il suo potere fatto solo di miseria, di guerra
e di morte.
1. La guerra israelo-libanese, come tutte le guerre in cui le società di entrambi i contendenti hanno raggiunto lo stadio di sviluppo capitalistico, non è una guerra per la razza, la religione, la pace o la democrazia, ma per il dominio economico e politico: è una guerra imperialista. Razza, religione, pace e democrazia non sono la causa di queste guerre ma il fumo ideologico con cui le borghesie di ogni paese accecano i proletari per condurli al massacro fratricida, per interessi non loro.
2. La guerra israelo-libanese è imperialista su entrambi i fronti, non solo su quello israeliano: se alle spalle di Israele vi sono gli Stati Uniti, dietro a Hezbollah stanno Iran, Cina, Russia e tutti quegli imperialismi interessati alla fine dell’egemonia mondiale di Washington. Se il primo di questi schieramenti imperialisti è palese mentre il secondo, Iran a parte, ben nascosto, ciò è dovuto all’ancora troppo grande disparità di forze in favore di Washington e al conseguente timore del fronte anti-americano ad uscire troppo presto allo scoperto. Inoltre fra Stati borghesi, così come fra ladri, non esistono alleanze "per sempre", ma solo "di convenienza": tutti sono contro tutti e il doppio gioco così come il "salto della quaglia", di cui è maestra la lurida borghesia italiana, è la regola.
3. Per Hezbollah i proletari, che vanta di difendere e di cui invece si fa scudo, sono solo una massa di manovra da utilizzare per raggiungere i propri interessi borghesi e quelli dei suoi spalleggiatori. Col suo militarismo, necessaria conseguenza delle sue finalità politiche borghesi, è carnefice dei lavoratori libanesi e israeliani al pari dello Stato d’Israele e di tutti gli imperialismi mondiali che concentrano le loro mire su questa disastrata regione, disgraziatamente, per i suoi abitanti, di grande valore strategico politico, militare ed economico.
4. Le disquisizioni sulla natura più o meno "militare" o "pacifica"
della missione italiana in Libano servono solo a nascondere i suoi reali
obiettivi:
- la conquista, sempre perseguita dalla borghesia italiana in tutte
le fasi del suo dominio (liberale, fascista, repubblicano) del tanto agognato
"posto al sole" accanto alle grandi potenze;
- la difesa degli interessi economici locali già esistenti (l’Italia
è il primo paese esportatore del Libano; la Francia il secondo…)
e l’accaparramento delle ricche commesse per la ricostruzione post-bellica.
Che questi obiettivi siano raggiungibili con la
pace o con la guerra è, per lo Stato italiano come per qualsiasi
Stato borghese, semplicemente una questione di opportunità.
5. Con la missione libanese il governo Prodi dimostra anche in politica estera la perfetta continuità con quello Berlusconi: per i lavoratori non esistono mali minori da scegliere il giorno del voto. La sola strada realmente alternativa non passa né per il voto né per il Parlamento ed è quella della lotta di classe in difesa delle condizioni di vita e di lavoro. Ciò è possibile solo mediante la ricostruzione del Sindacato di Classe, fuori e contro CGIL, CISL e UIL, sindacati, questi, di regime, sempre pronti a portare i lavoratori al sacrificio in nome dell’interesse nazionale, ossia della borghesia.
6. Il movimento pacifista, con Rifondazione in testa, ha confermato ciò che ha sempre sostenuto il vero movimento comunista internazionale, quello che in Italia fondò nel 1921 il Partito Comunista d’Italia e, nel secondo dopoguerra, il Partito Comunista Internazionale, ieri contro il nazional-comunismo del partito di Togliatti, oggi contro i suoi eredi di Rifondazione: il pacifismo è una forza ausiliaria del militarismo. Al momento decisivo tutti i partiti pacifisti saranno sempre pronti a giustificare la guerra in quanto "unica via per la pace". Il patetico spettacolo di questi giorni, con la marcia delle "colombe" dietro lo stendardo "forza ONU", ne è una dimostrazione.
La sola strada per fermare la guerra non è rivendicare una pace,
impossibile
nel capitalismo, ma il superamento di questo modo di produzione attraverso
la rivoluzione comunista. Solo eliminando i rapporti economici capitalistici,
vera causa di ogni guerra, cioè capitale, lavoro salariato, azienda,
merce e denaro, i lavoratori saranno finalmente in grado di ereditare
gli enormi progressi tecnici che il capitalismo ha permesso e per metterli
al servizio di una società fraterna, senza classi, libera dalla
dittatura del capitale e dunque dalla guerra.
Dal punto di vista “istituzionale”, pur sostenuto da un cartello di organizzazioni che predicano da sessanta anni Democrazia e Parlamentarismo, il governo ha imposto per ben sette volte il voto di fiducia in meno di 80 giorni nel portare in aula suoi decreti legge: dal rifinanziamento alla spedizione in Afghanistan all’indulto, alla liberalizzazione dei servizi, all’immigrazione. Questo per evitare, assai poco “democraticamente”, “perdite di tempo”. Ugualmente per la missione in Libano, con le navi che salpano senza che in Montecitorio nemmeno se ne sia parlato. Come da noi antidemocratici rilevato, e non lamentato, questi fenomeni confermano la totale vacuità del Parlamento, anche con esecutivo a maggioranza di “centro-sinistra”, conducendo una politica legata solo e rigidamente alle necessità storiche di funzionamento dello Stato nell’età dell’imperialismo.
Una pattuglia di senatori “dissidente” sul rifinanziamento della spedizione in Afghanistan è utile solo per dare “riflessi rosso antico” alla coalizione di governo e tranquillizzare i proletari più disorientati nelle acque torbide del politicantismo sinistrorso: l’obbligo del voto di fiducia mette facilmente in riga simili “obbiettori”.
Nella politica verso la classe operaia, alla prova della Finanziaria, il governo ha già anticipato che il tasso programmato di inflazione sarà solo al 2%, mentre, in nome dell’Europa, ha iniziato a colpire strati di lavoratori autonomi.
Rifondazione comunista, abbandonando i “movimenti”, dei quali sperava i voti, si mostra “istituzionale” senza una grinza, e si copre a sinistra con le intemperanze da operetta di suoi parlamentari tardo-trotskisti e tardo-stalinisti. Anche i Comunisti Italiani, pur dichiarando congenita lealtà verso il governo, entrano in concorrenza nel mercato elettorale manifestando rancidi “estremismi” di marca nazional-comunista: contro gli Usa, contro Israele, a favore di Cuba... Rizzo dice che Bertinotti “è ormai è fuori dal marxismo”, quando marxisti entrambi non sono stati mai.
Che l’alternanza nel personale governativo, oltre a confondere la classe operaia, sia volta a favorire qualche schifosa manovra della italica borghesia lo dice lo stesso presidente della Camera Bertinotti, a proposito di una “discontinuità” nei confronti del governo Berlusconi in politica estera: “Vedo un cambiamento della collocazione geo-politica dell’Italia, un riposizionamento strategico. Siamo passati da una sostanziale subalternità agli Usa a un rinnovato protagonismo in chiave europeista, rivolta al Mediterraneo, dentro una politica di pace. Occorre investire in un’ambizione più grande per l’Italia e per l’Europa”. Quindi, la direttrice medio-orientale, che è storica dell’imperialismo italiano, viene ammantata di “europeismo”.
In Libano, che aveva nell’Italia il suo primo partner commerciale, sono impegnati i grandi gruppi del capitalismo italiano, come Eni, Snam, Tosi, Finmeccanica, Impregilio, che già “ricostruiscono” l’Iraq. Questa la base reale perché il governo Prodi avalli “senza se e senza ma”, e senza alcuna opposizione “sinistra” una bella spedizione “pacifista” nella terra dei cedri.
Il ruolo assegnato ai partiti “comunisti”, anche quando sono al governo,
è uno solo: confondere il proletariato, assoggettarlo allo sfruttamento
capitalista, tenerlo ben lontano dal Programma e dal vero Partito Comunista.
* * *
Ci ritroviamo dolorosamente qui a restituire alla sua dolce terra il nostro carissimo Fortunato, a distanza di quasi trent’anni da quando venimmo a seppellire il fratello maggiore Angelo, anche lui morto tragicamente, e a quasi venti dalla morte, anch’essa troppo prematura, del compagno Silvio.
Fortunato, oltre ad essere padre di famiglia e un lavoratore, era anche comunista, e quindi oggi siamo noi, compagni di partito da una vita intera, a parlare di lui, di lui che se ne è andato e di noi che restiamo qui a piangerlo.
Per ricordarlo non abbiamo bisogno di ricorrere alla parola di sacerdoti o in vesti strane. Il comunismo, per gioire insieme quando c’è da gioire e per piangere quando è da piangere, non ne ha bisogno perché dovrà avere, deve avere, ha le sue Parole, che spieghino all’uomo sé stesso e la sua collocazione nel Mondo. Parole che tutti comprenderanno per belle e per vere e, in un certo senso, definitive. Il comunismo ha la sua risposta a questa antica domanda, che non è solo astratta ed ideale, perché converge infine nella domanda pratica: cosa dunque ora dobbiamo fare? E qui, cosa dobbiamo pensare e cosa dobbiamo noi fare ora che Fortunato non è più con noi?
È invece la società attuale del capitale e del mercato che non ha più Parole, se non vane scemenze e ipocrisie ripetute all’infinito, ma che nulla dicono sull’uomo, sul suo passato e sul suo futuro, perché è una società che non ha futuro e in realtà non ha più niente da dire.
Tutta la vita di Fortunato è una risposta a questa richiesta, la dimostrazione di quanto e quanto bene un uomo della nostra classe sociale possa, e quindi dovrebbe, fare. Fortunato, quasi sempre, ti sapeva dire cosa era meglio e giusto fare, attingendo, con la sua intelligenza e attenzione per tutti, alla lunga esperienza di lavoratore e alla secolare tradizione del comunismo.
Di origini contadine, poiché Angelo, con grande sacrificio della famiglia, aveva potuto proseguire gli studi a Pisa, a Fortunato toccò giovanissimo di andare a lavorare: una specie di consensuale divisione del lavoro che non prevedeva nessun complesso o priorità, né in un senso né nell’altro.
Entrò a lavorare ai cantieri navali e divenne in breve tempo un operaio provetto. Lavorava con passione e presto delle attività del cantiere sapeva tutto. Ad un certo punto volle che anche noi compagni di partito ci rendessimo conto e apprezzassimo il suo lavoro e pretese che assistessimo al varo di una delle sue navi, che vedessimo quanto era grande e bella, così con la prora in aria, e come diritta poi scendesse in acqua. Poi, saliti sullo scheletro di un’altra ancora sullo scalmo, ci mostrò le varie fasi costruttive, senza mancare di far notare i pericoli per le carenze negli impianti di sicurezza del cantiere, in particolare per l’allontanamento dei vapori della saldatura.
Quei vapori entro pochi anni gli avrebbero causato una malattia molto grave alla gola, malattia che affrontò, discretamente, con grande determinazione e coraggio. Ci ricordiamo che, per non passare avanti nella lista a nessuno, si era limitato a prenotarsi per l’operazione all’ospedale di qui e solo per il nostro insistere venne a farsi curare a Firenze.
Ma Fortunato non sapeva solo saldare e, anche professionalmente, la sua vita non si rinchiudeva nel cantiere, sapeva fare e ha fatto di tutto, dalla floricultura alla pesca. Poi, quando il cantiere è entrato in crisi, si è dedicato ad organizzare la cooperativa mostrando sempre grandi doti organizzative, saggezza e capacità di comprendere le necessità di chi aveva vicino. Se è vero che una cooperativa non è, da sola e immersa in questa società mercantile, certo il comunismo, l’impegno di Fortunato ci fa intravvedere con quale generoso disinteresse sarà possibile svolgere il lavoro in una società comunista, nella quale, semplicemente, ogni uomo darà secondo le sue possibilità e riceverà secondo i suoi bisogni.
In politica il giovane Fortunato si trovò ad avere due maestri: da un lato il cantiere e la necessità quotidiana della lotta sindacale, dall’altro gli insegnamenti del fratello maggiore che, studente a Pisa, era potuto entrare in contatto con il partito, al quale aveva subito entusiasticamente aderito.
Erano anni di grandi lotte operaie, che spingevano a travolgere ogni intimidazione dei padroni, ogni eccidio di operai e braccianti della loro polizia e anche il cordone sanitario dei sindacati, i cui dirigenti allora erano già passati dall’altra parte. Le rivendicazioni che sorgevano spontanee dagli operai erano forti aumenti e uguali per tutte le qualifiche, rifiuto generalizzato degli straordinari, obbiettivi per ottenere i quali si chiedeva insistentemente lo sciopero generale di tutte le categorie.
Fortunato si gettò nella lotta operaia come per una reazione istintiva, cosa, del resto, che allora faceva con naturalezza la maggioranza dei giovani operai che aveva intorno. Ascoltava, parlava con i compagni di lavoro, interveniva nelle assemblee e ne riferiva ad Angelo, che riportava la cosa a Firenze, dove si stendeva un testo di commento della vertenza e di indirizzo del partito, che veniva ciclostilato, il pacco spedito subito con la Lazzi, volantino che Fortunato avrebbe distribuito l’indomani, ancora a notte, all’ingresso del primo turno. E gli operai allora vinsero, per quanto si può vincere in questa società, sui padroni, sullo Stato e trascinandosi dietro i sindacati.
Questi ricordi sono come un filo che lega vicende lontane alle difficoltà e alle necessità della lotta operaia e comunista di oggi.
Erano assemblee infuocate, al cantiere e alla Camera del Lavoro di Viareggio, nelle quali Fortunato interveniva, anche quando non gli passavano il microfono, con la sua energica voce. Era rispettato da tutti, anche dagli avversari, benché non si riguardasse dal dare del bugiardo ai bugiardi e anche del traditore ai traditori. Tali erano, e sono, quelli che si nascondono dietro alle bandiere rosse solo per ingannare i lavoratori e portare loro e le loro organizzazioni alla sconfitta e alla dispersione. Sono quelli che chiedevano e ancora chiedono sacrifici da far fare ai lavoratori, per il bene dei lavoratori, come continuano a fare guerre criminali ed assassine, per portare la pace nel Mondo.
Quando le lotta operaia, in parte, rifluì, Fortunato, con le sue piane e sensate parole, riuscì anche a trattenere qualche giovane compagno di lavoro dall’imboccare, per disperazione e impazienza piccolo borghese, la via senza sbocco del terrorismo.
Fortunato non è mai andato dietro alla massa degli operai quando questi sbagliavano, perché non è metodo comunista quello di far politica di bassa lega guadagnandosi il consenso contingente della maggioranza. Fraternamente indicava ai compagni di lavoro la trappola nella quale si stavano cacciando e denunciava chi quella trappola stava montando.
La più recente, e forse la peggiore, di queste è quando i sindacati proposero e fecero approvare alle assemblee la differenza di trattamento fra operai interni e delle ditte esterne e fra vecchi e nuovi assunti. Fortunato affermò nelle assemblee e scrisse sulla stampa del partito, nel suo linguaggio soave forte e preciso, che accettare quelle proposte sarebbe stato un colpo durissimo su tutta la classe operaia, una divisione che ne avrebbe compromessa la capacità di mobilitazione per lunghi anni. Oggi ne vediamo i risultati, che la classe operaia è divisa nelle lotte e nei sentimenti non solo fra categorie ma anche all’interno di esse e all’interno degli stessi luoghi di lavoro. Col ricatto del licenziamento, e per la mancata solidarietà degli anziani, i giovani sono sottoposti ad ogni sorta di prevaricazione.
Fortunato molto si angustiava per questo e anticipava allora giustamente che nessuno si sarebbe potuto poi difendere efficacemente, nemmeno gli anziani, ai quali oggi si continua a ridurre i diritti pensionistici nell’indifferenza dei giovani, una volta che fosse passata la divisione fra generazioni proletarie, mentre i giovani lavoratori sono e si sentono come degli orfani di classe, privi di tutto, e la cui organizzazione sindacale deve oggi esser ricostruita ripartendo da zero.
Ma Fortunato non è stato solo un organizzatore nella lotta sindacale, ha rivolto generosamente i suoi sentimenti, pensieri ed energie nella milizia comunista di partito. In un comunista le due sfere, il politico e il sindacale, vengono a coincidere. Sempre presente a tutte le riunioni, sempre attentissimo a tutti gli aspetti del lavoro di partito e a tutte le questioni che vi si studiavano, anche le più difficili.
Nel nostro partito non ci sono intellettuali e non ci sono operai. Gli operai sono un prodotto solo della società capitalistica, come gli schiavi lo erano nel mondo antico. Come oggi non ci sono più gli schiavi, così nel comunismo non ci saranno più gli operai. Chiunque potrà fare la mattina saldatore e il pomeriggio, per esempio, l’insegnante di filosofia, e il giorno dopo altre cose ancora. Fortunato era una anticipazione di questo tipo di uomo, nei limiti che il vivere in questa società gli ha consentito, come il partito deve essere l’anticipazione di rapporti umani non più fondati sulla concorrenza e sulla mercificazione del lavoro.
Fortunato sapeva esporre in modo piano, e comprensibile per qualunque ascoltatore, questioni storiche controverse e intricate, come per esempio lo smentire il mito del cosiddetto socialismo reale di Mosca e di Pechino, che dimostrava non essere stato altro che banale capitalismo di Stato, o svelare i meccanismi moderni della cosiddetta globalizzazione.
Oggi quest’uomo, che tutti quelli che siamo qui ha amato e che nessuno che l’ha conosciuto non ha potuto non amare, non è più con noi, non c’è più per la sua famiglia, per i suoi compagni di lavoro e di partito. Ci manca, fisicamente ci manca, come se avessimo perduto una mano o un piede.
Non è stato il caso, una fatalità o il destino a portarcelo via. Ancora una volta la responsabilità è da imputare a questa società capitalistica che per far posto al traffico delle sue merci toglie inesorabilmente spazio alla vita degli uomini. Noi sappiamo vedere al di là delle coincidenze e delle responsabilità dei singoli: è il capitale che ce l’ha ucciso, è il capitale, nella sua folle corsa ad accumulare profitti, che l’ha travolto, dopo che si è arricchito usando i suoi muscoli e la sua intelligenza per una vita. È lo stesso capitale contro il quale tutti i proletari sono costretti quotidianamente a resistere anche solo per strappargli la possibilità di sopravvivere.
Ma Fortunato sopravvive. Non nei mondi fantastici inventati dai preti
per consolare e illudere gli oppressi. Sopravvive qui, fra di noi. Siamo
noi, con la nostra volontà, che possiamo tenerlo in vita. Non sopravvive
solo nelle sue ben connesse navi che solcano i mari. Sopravvive nel ricordo
della sua dolce compagna Marisa e negli insegnamenti ai suoi figli Amadeo
e Federico, che amava sopra ad ogni altra cosa, della sorella Emiliana.
Sopravvive nella volontà, nella determinazione di noi, compagni
del suo partito, che siamo orgogliosi d’averlo avuto fra i nostri, di proseguire
la sua battaglia per la liberazione della classe operaia, per il Comunismo.
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La
storia italica nello specchio deformante
della sua ideologia
Capitolo IV
Oggi, gli stessi che hanno sempre preteso di fare la storia con imparzialità, si accusano reciprocamente d’aver falsificato e perfino cancellato “con un colpo di spugna” uomini e cose che non gli erano graditi. Nella nostra esperienza ciò non è mai successo, perché mai abbiamo avuto, non tanto la preoccupazione, quanto l’interesse di ricorrere ad espedienti per aver ragione. Chi cancellò dalle fotografie e dai documenti gli avversari scomodi, avrebbe fatto poca cosa: il vero reato storico fu quello di rimuovere i fini e le cause per le quali dichiaravano di lottare.
Ne risulta che, non solo nell’Italietta ma a livello generale, ad essere rimossa fu la rivoluzione ed il socialismo. I modi ed i tempi, nonché il linguaggio utile furono dosati con furbizia e col contagocce. Prima si prese a sostenere che il socialismo sarebbe stato possibile solo perseguendo una via nazionale, graduale, per mezzo di “grandi riforme di struttura”, poi, quando il cappio della storia li prese per il collo, dichiarando bancarotta, negando di aver mai veramente creduto a quanto avevano dichiarato nei Congressi e nei documenti ufficiali.
Ci si domanda perché lo abbiano fatto con tanta “doppiezza”, dote o difetto attribuita notoriamente a Togliatti, che in questo caso non faceva che dimostrarsi un “vero italiano”. Se fu scelta questa tattica, vuol dire che più d’una ragione doveva esserci.
Siamo i primi ad ammetterlo: non si poteva, di punto in bianco, raccontare alla classe operaia che la Russia socialista era solo un mito. Questo lo dicevamo noi, abituati a non indorare la pillola. I fautori della via nazionale dovevano andarci piano, continuando a proporre la leggenda, svuotando di contenuto la realtà a piccole dosi. Ciò può aiutare a spiegare come nel tempo si è cominciato ad ammettere che i dirigenti sapevano tutto, ma non potevano dirlo, per non deludere e probabilmente essere cacciati in anticipo. L’elaborazione e la manipolazione di teoria e prassi dunque doveva seguire i tempi e determinati fatti, non precederli.
Una volta che si siano invertite le parti, è inevitabile che la teoria non debba più servire a prevedere, ma a sanzionare. Ad esempio: dopo i fatti d’Ungheria cominciarono anche ufficialmente ad essere ammesse crepe e falle, non per dire che erano state manomesse le basi teoriche originarie, ma per crearsi alibi anche peggiori dei falsi sostenuti. Si cominciava cioè a reclamare “una vera democrazia socialista”, aderendo sempre più esplicitamente alla considerazione che lo Stato di diritto non era una forma di Stato borghese, ma un’acquisizione universale. Naturalmente queste non furono ammissioni ufficiali, ma argomenti su cui discutere, aperti, come sempre, al “dibattito interno”.
Naturalmente nelle polemiche ufficiali il grande opportunismo targato PCI verrà accusato di aderire alla democrazia parlamentare in via strumentale, pronto a tradire la libertà formale per quella “materiale” ben più sostanziosa. Ma questo è imputabile a tutti i partiti borghesi. Di fatto però bastava che “il partito di Gramsci e di Togliatti” reclamasse la “centralità del Parlamento”, suo cavallo di battaglia da sempre contro le mene democristiane inclini a privilegiare l’esecutivo, per farsi riconoscere il suo spirito democratico in qualche modo aperto al socialismo...
In realtà la difesa continua del Parlamento è sempre stata un’ostentata dimostrazione della difesa del “popolo” contro le forze della conservazione e della reazione, che avrebbero trovato nella difesa e nel privilegio dell’esecutivo il loro motivo di fondo. Mentre la posizione classica, a cui noi ci richiamiamo, vedeva e vede nel parlamentarismo la veste più abile e sottile per nascondere alla classe i suoi compiti ed i suoi interessi, per l’opportunismo post Seconda Guerra mondiale era e doveva essere la prova del definitivo inserimento del popolo nel gioco politico. Non solo: il Parlamento veniva esaltato come un organismo che richiamava altresì la vocazione consiliare, eletta dal basso, e dunque modello per ogni passaggio ulteriore nella direzione della democrazia diretta. È evidente in questo come all’interno del cosiddetto “Stato di diritto” gli antifascisti resistenziali si ricavassero la parte che meglio si attagliava al loro compito e desiderio: quello di dimostrare alla classe lavoratrice che si aprivano nella democrazia e nel sistema parlamentare gli spiragli per far penetrare semi di socialismo e di governo delle masse.
Se questi furono gli atteggiamenti essenziali a livello politico, ancora ambigui furono i modi con i quali si prese fin dal 1945 ad elaborare una serie di temi che avrebbero dovuto aggiornare la teoria, facendo del marxismo sempre più un metodo aperto agli apporti alle scuole, in generale universitarie, che si esercitavano a mettere alla prova l’egemonia, tanto cara a Gramsci. In quest’agone i vari ideologi si attivarono a formare una trama di lavorio intellettuale che avrebbe dovuto piegare la tradizione idealistica, nel senso d’uno storicismo più capace di aderire e interpretare tutte “le pieghe della società”, per dirla con le parole di Togliatti. Il materialismo storico si volle innestare sul pensiero razionale europeo ed occidentale, inteso come progressista, più avanzato, meno dogmatico di quello che si proponeva dal mondo burocratizzato dell’Est: intendiamo riferirci al razionalismo critico, al neopositivismo, all’analisi del linguaggio, nonché alla psicanalisi ed all’antropologia.
In realtà niente di veramente nuovo, ma in grado, secondo queste scuole, di sprovincializzare la cultura italica, attardata su modelli teorici troppo umanistici e retorici. Che poi l’egemonia potesse mano a mano avanzare in potere diffuso, era la convinzione di quelle forze politiche che avevano ormai messo in soffitta la presa del potere, il suo esercizio per ed in nome del proletariato.
In modi diversi queste correnti culturali stavano realizzando la rimozione del socialismo.
La cultura “italiana” ritenne di dover rifarsi a e fare i conti con Croce. Noi stessi abbiamo fatto, da par nostro, i conti con Croce, per riconoscere come il pensiero della borghesia si fosse espresso attraverso le considerazioni ed anche i comportamenti d’un personaggio emblematico della classe dominante italica, e soprattutto per sottolineare come l’idealismo aggiornato ed arrotondato dal Croce, attraverso la dialettica dei distinti, contro la hegeliana dialettica degli opposti, costituiva l’anima dell’aspirazione borghese italiana: quella di rientrare in gioco, mostrando di procedere nello svolgimento dello spirito liberale, nonostante la “parentesi” del Fascismo.
Il contrario stesso della nostra valutazione che considerava il Fascismo come la forma di governo borghese più moderna, efficace e coerente, della quale la borghesia italiana, per bruciare le tappe dei suoi ritardi storici, aveva bisogno per dimostrarsi, a livello europeo, pronta a svolgere la sua funzione contro il dilagante bolscevismo e cordone sanitario contro l’infezione comunista. Le potenze democratiche d’Occidente riconobbero in più occasioni la funzione svolta dal Fascismo, fino alle esplicite lodi ed apprezzamenti che vennero da un maestro di democrazia come Churchill. Ad un certo momento lo stesso Presidente Roosevelt inviò emissari americani a studiare lo Stato corporativo fascista come un esempio capace di affrontare le crisi economica.
Croce era il personaggio più vicino all’intelligenza europea di formazione liberale, e con essa esplicitamente collegato ed apprezzato. E non è casuale che nella prima fase dell’avvento del fascismo egli condividesse con Giolitti l’idea di far buon uso dell’apporto fascista contro il sovversivismo rosso, per poi far valere le ragioni della legalità ed il ripristino della normalità. La sua illusione certamente fu quella di pensare che il debito di sangue prestato dalle bande extralegali allo Stato di formazione liberale potesse essere azzerato senza lasciare eccessive tracce. In realtà le guerre mondiali e i dopoguerra avrebbero dimostrato che dimensioni e forma degli Stati borghesi non potevano, automaticamente, tornare quelli di prima: la nostra posizione fu ed è che il modello sociale fascista aveva vinto, anche quando l’immagine ufficiale tendeva a presentarlo come cancellato insieme con la sconfitta politica e militare.
Dunque i conti con Croce, almeno per gli intellettuali italiani, dovevano essere fatti. Il metodo dimostrò l’ampia dipendenza del post-fascismo dall’idealismo crociano, non tanto facilmente riformabile. Ciò per ragioni non tanto culturali o sovrastrutturali, ma perché il blocco storico delle forze che lo aveva espresso non era tanto diverso.
Togliatti almeno nella forma calcò la mano, arrivando a sostenere che Croce aveva istituito col Fascismo “un’aperta collaborazione” in cambio “di qualche timida frecciolina contro il regime”. Intanto però faceva pubblicare su Rinascita una testimonianza del matematico Lombardo Radice che ricordava la preziosa funzione svolta dalla “Critica” durante il ventennio, definita «ultima cittadella del pensiero libero, che difendeva l’indipendenza e la dignità della cultura». Insomma un colpo a dritta ed uno a manca che non faceva che rimarcare il debito del post-fascismo nei confronti della tradizione liberale, segni evidenti che non era tanto semplice trovare una giustificazione teorica dello Stato di diritto al di fuori dei canoni tradizionali.
La spinta a sinistra di segno democratico doveva essere capace di sottolineare la scelta per la "sostanza" più che per la forma, come la preferenza per la Costituzione materiale doveva essere in seguito il leit motiv in polemica con i sostenitori del rispetto innanzi tutto della Costituzione formale.
L’opportunismo post-fascista si trovò a dover elaborare la sua politica di via nazionale al socialismo nelle forme che stiamo dicendo, né, nella nostra ottica, avrebbe potuto seguire altra strada: solo in virtù di quella politica le lotte del proletariato, forte e ancora combattivo, condizionate a quel modello, erano orientate verso l’esclusione d’ogni sua radicalità in nome della necessità di mantenere unito un blocco storico considerato progressista, che avrebbe dovuto infine appropriarsi della direzione dello Stato, rispettando i passaggi tipici del sistema democratico.
La battaglia assumeva così sempre più le caratteristiche di lotta culturale, in nome della realizzazione d’una mentalità laica, in un panorama italico che si dipingeva segnato dal conservatorismo se non dalla reazione “di stampo medievale”... La “sinistra” veniva a farsi erede della tradizione crociana, che, a suo dire, aveva tenuto il monopolio della laicità.
Noi non vogliamo dire che certi problemi siano o fossero inesistenti. Nessuno sta a dire che la sovrastruttura culturale sia ininfluente nella lotta tra le classi, alla condizione che non se ne faccia un motivo ed un schermo per deviare le lotte proletarie nella direzione della cultura o della necessità di conquistare prima l’egemonia culturale ed ideologica.
Ancora oggi non si è capito se l’egemonia culturale si sia realizzata o meno, poiché tale influenza resta quanto mai problematica e soggetta a considerazioni non misurabili.
Che le forze dell’opportunismo fossero infeudate ad un intellettualismo aduso, all’italiana, alla cortigianeria, per ragioni di greppia e di riproduzione, è già stato detto da ambienti insospettabili: vuol dire semmai che senza l’apporto dei loro servigi si credeva impossibile la conquista delle “case matte”, intesa come condizione per la conquista del potere per via culturale.
Insistiamo su questi giudizi contraddittori per dire che quando s’imbocca la via dell’egemonia culturale preventiva si sa da dove si comincia e non si sa dove di va a parare. Presto infatti vedremo che certe correnti insistevano invece sulle responsabilità dell’idealismo, compreso quello crociano, nel fungere da freno nei confronti d’un sapere tecnologico e scientifico necessario a che la cultura moderna relegasse definitivamente ai margini la tradizione umanistica, conservatrice e anche ottusa.
I conti con la questione cultura noi li avevamo già regolati con la presa di posizione nei suoi confronti nel 1912, allorché avevamo detto che per noi cultura significava lotta coerente, e non orto concluso nel quale ricavarsi qualche alibi e qualche prebenda. Dunque ad ognuno il suo: quello che il “culturame” sta combinando non ci riguarda se non per sottolineare che ormai la piega del post-fascismo è quella.
Il “marxismo” post Seconda Guerra si proponeva insomma di farsi erede della tradizione “laica”, come gradino da conquistare per proporsi come blocco storico progressista in grado di portare l’Italia nel novero delle forze moderne a livello europeo. Ormai il marxismo era così inteso; una corrente di pensiero, un’organizzazione in cui gli intellettuali svolgono una funzione di guida, mentre le forze reali e materiali faranno da contorno, da “base” produttiva centrale nello schema di potere diffuso e preventivo. Per marxismo s’intendeva oramai uno storicismo dai diversi risvolti, la cui sostanza non era certo l’analisi dell’economia, della struttura economica e della sua dialettica, quanto una sofisticata ricerca dei padri nobili d’una tradizione italiana in grado di sostenere culturalmente il Nuovo Risorgimento.
In realtà subito dopo la batosta elettorale del ’48 è noto che il partito "di Gramsci e di Togliatti" (così ormai si nominava il partitaccio, enominando senza complimenti la Sinistra, che in realtà aveva fondato il Partito Comunista d’Italia) era percorso da tensioni e correnti, una delle quali faceva capo a Secchia, sostenitore della linea “insurrezionalista”, e l’altra che invece riconosceva in Togliatti “il migliore”, intendendo con ciò la guida più abile nel tenere insieme la fedeltà alla Russia e il perseguimento d’una via specifica alla realtà italiana.
Cosa c’entrasse tutto questo con il Comunismo si è incaricato di chiarirlo la storia, ovverosia gli eventi con il crollo del socialismo in un solo paese hanno non tanto “dimostrato” quanto esplicitamente “mostrato” che già nel dopoguerra tattica e strategia erano state gettate alle ortiche in nome dei “tempi nuovi”.
Il civettamento infinito con Croce, sia da parte dei liquidatori sia da parte dei suoi più o meno nascosti seguaci, avveniva comunque all’interno del modo di pensare idealistico. Gramsci aveva in mente di restaurare un tipo di dialettica che sorreggesse teoricamente una lotta politica in grado di spostare i paletti dallo Stato liberale allo Stato democratico aperto al socialismo...
Non abbiamo mai negato la buona fede del compagno Antonio, ma sapevamo da sempre che di buone intenzioni è lastricato l’Inferno. Di fatto il processo di rimozione del socialismo era in atto, non soltanto nella dimensione ideologica, quanto nel processo sociale della realtà post Seconda Guerra, che vedeva il capitalismo riaversi dopo la distruzione di immense forze produttive, senza che fosse incrinata la forma della produzione, i rapporti sociali di produzione. Anzi, nella nostra valutazione la forma corporativa, e dunque il modello fascista, aveva vinto, nonostante la sconfitta politico-militare.
Niente, come si vede, di più opposto del modulo materialistico dialettico. Se il modello fascista aveva vinto, non si trattava di ricercare un puntello in Hegel, ma di valutare a che punto si trovasse quello di Marx. L’arretramento della riflessione all’interno del retroterra nazionale, non faceva che impedire di vedere quanto il fenomeno fascismo non fosse un’espressione semplicemente, anche se più visibilmente, italica, ma riguardante il panorama e l’assetto del capitale a livello di potenze e frazioni mondiali.
Oggi, in linea generale nessuno nega questa nostra affermazione, ma senza riconoscerne gli esiti e i rapporti che ha determinato tra le forze in campo.
Ci si obietta: per quale motivo, se noi col rinato Partito, esiguo ma netto nelle sue impostazioni fondamentali, avevamo tanta ragione, non avevamo udienza (non parliamo di influenza) nella classe? Si dimentica che ciò costituiva l’effetto nefasto che la guerra combattuta sul fronte democratico aveva avuto su di essa. È questo il vero modo di valutare la ragione della guerra. Altro che attenzione prevalente per l’egemonia "culturale"!
Il cruccio vero di Gramsci e dei suoi seguaci era che Croce aveva dato una interpretazione del Risorgimento in sintonia che la "tradizione moderata del Risorgimento e con il pensiero reazionario della Restaurazione", cioè con quelle correnti che avevano sempre avuto “un timor panico dei movimenti giacobini ed avevano il terrore per ogni intervento attivo delle grandi masse popolari come fattore di progresso storico”. È evidente che doveva essergli contrapposta una interpretazione popolare, democratica e giacobina che avesse avuto il coraggio di portare sulla scena nazionale le masse popolari sotto la guida egemonica d’un partito di massa. Quello che poi sarà chiamato di “lotta e di governo”, che dominerà la scena del panorama opportunistico fino alla dichiarazione esplicita di bancarotta.
È chiaro che in questa teorica le grandi masse popolari devono essere portate sulla scena in virtù d’una riscossa del blocco operaio-contadino. Nel frattempo, in virtù proprio della guerra che aveva visto operai e contadini in azione sul fronte democratico, si assisteva di fatto alla prova di questa alleanza con gli spostamenti epocali dei contadini del Sud nella Torino della Fiat, in posizione subalterna non solo, come è ovvio, del capitale protetto, ma altresì dell’aristocrazia operaia, che aveva una grande tradizione, e che certo, al di là delle facili prediche, considerava i contadini del Sud come dei nuovi arrivati che avrebbero dovuto fare la gavetta in attesa di essere a tutti gli effetti integrati nel potere sindacale operaio.
Mentre oggi tutti sembrano diventati fautori d’un Stato federalistico, il modello del centralismo giacobino faceva un grande effetto sul partito degenerato, che si faceva assomigliare allo Stato socialista proletario, e più che altro alla sua degenerazione "reale" staliniana, dando l’illusione che ci si stesse abilitando alla sua gestione, sia pure a mezzadria con i partiti borghesi.
Se Lenin non aveva mai negato la necessità di fare compromessi dettati dalla necessità politica, aveva sempre ricordato di non fare commercio di principi, intendendo con ciò dire che se si dichiara un certo fine strategico, non si può fare della tattica un gioco di bussolotti. Al contrario, in nome di quella "unità", o si glissa sulla natura del Fascismo dandone una versione demonizzante (la "barbarie nazifascista") che non sa individuare le forze motrici che lo mossero, e tanto meno quelle che continuavano a muovere il modello sociale vincente, oppure una versione sociologica, che non poteva coagularsi in una vera politica che portasse al superamento di tale modello.
Noi della Sinistra, accusati di aver sottovalutato il fascismo con la famosa nozione di "semplice cambio di governo e di personale politico", in realtà avevamo voluto indicare la continuità dello Stato borghese, tra le sue premesse liberali e i suoi esiti totalitari, non senza aver negato che la borghesia fosse in grado, ieri ed oggi, di esprimere un suo partito unico. Proprio l’opposto di quello che invece piaceva pensare al grande opportunismo, il quale invece si stava attestando sulla tesi secondo la quale il totalitarismo fascista aveva sfigurato il modulo liberale, in qualche misura aperto alla sua trasformazione, sulla base della spinta delle "masse", nella direzione del socialismo.
È necessario precisare queste cose, in quanto il dibattito ideologico-culturale che si proponeva di preparare il terreno per l’egemonia culturale del proletariato operaio e contadino, oggi, davanti al suo disastroso esito, cioè la dichiarazione di bancarotta, dà ampiamente ragione alla nostra valutazione. Naturalmente non vogliamo dirlo con i nostri esclusivi argomenti, ma attingendo alle polemiche che sono state e vengono continuamente sollevate dal "revisionismo storiografico".
Se noi avevamo sostenuto che il Fascismo non era un’esperienza esclusivamente italica, ma che rappresentava la tendenza naturale del capitalismo a darsi esecutivi e macchine statali sempre più efficienti ed agguerrite in funzione antiproletaria, era evidente che l’adattamento della macchina statale nei singoli paesi o anche aree capitalistiche non poteva che essere adeguata alle necessità concrete. Questo si riconosce a distanza di tempo da parte di studiosi, che tutto hanno in mente meno che dare ragione a noi.
Lo studio inteso come “comparazione tra fascismi” pone, infatti, la domanda su quali siano i movimenti e i regimi che, comparati, meritino la qualifica di "fascisti". Alcuni sostengono che si possa parlare in senso proprio di Fascismo solo a proposito d’Italia e Germania, ma poi riconoscono che in tutta Europa la necessità di far fronte alla marea rossa comportò un inquinamento autoritario anche delle democrazie classiche della Francia e del Regno unito. Secondo altri possono essere fatti rientrare nella categoria Fascismo i più diversi movimenti, dall’Action francaise di Maurras, all’attuale partito austriaco di Haider. Naturalmente non stiamo a fare questioni di lana caprina, ma una volta che si stabiliscano i criteri per riconoscere i totalitarismi, bisognerà non fermarsi alle sovrastrutture politiche, e vedere che cosa è successo dalla rivoluzione russa ad oggi nella realtà sociale, nei rapporti tra le classi.
Griffin, ad esempio, sostiene che sia possibile definire un "fascismo generico", facendo ricorso ad elementi ideologici. Tutti sappiamo delle distinzioni tra Fascismo e Nazismo, come fa Mosse, soprattutto a proposito dell’esplicito antisemitismo di questo ultimo, fin dalle origini. Ma allora non si dovrebbe parlare di totalitarismo a proposito del Fascismo che fu antisemita solo con la legislazione razziale del 1938. In realtà se ci si ferma all’impalcatura statale, avremo dei risultati, se invece si tiene conto della relazione di essa con la struttura economica e sociale, avremo altri esiti di interpretazione. Non dimentichiamo, in ogni modo, che sia in Italia sia in Germania, i fascisti andarono al potere per via legale, sia pure forzata dalle violenze, che però non impedirono ai partiti tradizionali di accettare la legittimità e la legalità fascista.
Dobbiamo rifarci a questi problemi per valutare la complessità dei contorcimenti dell’unità antifascista post Seconda Guerra mondiale, dal momento che, perché potesse essere utile ad imbrigliare qualsiasi velleità rivoluzionaria del proletariato, aveva bisogno di addivenire al riconoscimento della legittimità di partiti e movimenti che davano del fascismo opposte interpretazioni, non tanto di tipo storico/storiografico, quanto per aver avuto col fascismo storico rapporti differenziati, e non sempre chiari.
La discriminante "violenza" e il suo uso indiscriminato senza i palliativi dello Stato di diritto, sembrava la migliore delle formule per distinguere il Fascismo dal Nazismo, ed in particolare i fascismi dagli autoritarismi e parafascismi tra loro diversi, come il franchismo ed il salazarismo.
Tutti oggi riconoscono come nei paesi a tradizione democratica più consolidata come Usa, Regno unito e Francia, non ci fu bisogno di sostituire l’impianto democratico governativo, ma fu sufficiente indurire le leggi e la pressione sul proletariato secondo le necessità e le circostanze d’ordine sociale quali si venivano configurando in quei paesi. Segno questo che gli impianti statali di repressione del proletariato in quanto antagonista di classe, nei paesi di più antica esperienza, erano più forti. Basta che si pensi alla Francia di Napoleone il Grande e il Piccolo, o all’Inghilterra, che aveva, prima di tutte le moderne nazioni, fatto esperienza della repressione proletaria, marchiando a fuoco la schiena dei contadini vagabondi alla ricerca di lavoro nelle prime storiche concentrazioni urbane.
Dunque il Fascismo, o i fascismi riguardarono quelli Stati deboli, nati, come l’Italia e la Germania, dall’alto, nella contraddizione sempre incombente fra sommosse proletarie e necessità insistente di adeguamento della macchina statale, che aveva mediato tra le forze ex feudali e la moderna velleitaria borghesia.
Questo Gramsci lo sapeva e bene: ciò che invece considerava di diverso da noi era che il processo di modernizzazione non poteva realizzarsi che in virtù della linfa rinnovatrice della moderna classe operaia, la quale, dopo i conati falliti del 1920-21, avrebbe dovuto riprendere a tessere la tela della democrazia sempre più "avanzata"... fino al socialismo! L’interpretazione del fascismo, in questo modo, costituiva il terreno privilegiato e dirimente per indicare la tattica giusta alla classe operaia. Se la polemica è ancora aperta ed aspra, in questo campo, è perché la "biografia della nazione" non finisce di essere scritta, con le sue ombre e buchi neri... che non accennano a riempirsi di... socialismo.
Al contrario, la nostra tesi dialettica consiste nel prendere atto che si verificano a livello storico degli svolti traumatici che non consentono di riprendere il discorso dove era stato interrotto, come se niente fosse successo, cosicché l’idea di portare a compimento il disegno unitario nazionale, eliminando la parentesi fascista, o meglio dimenticandola, non è assolutamente proponibile.
Lo sosteniamo, tra l’altro, non solo in quanto lo deduciamo dai nostri principi di base, ma in quanto le mosse del nemico di classe ci confermano in questa valutazione: ci riferiamo alla questione dello Stato italiano che i resistenziali si preoccupano di rimettere in piedi dopo i duri colpi subiti nel 1943, dimenticando tutto e facendo leva su quei corpi inamovibili che nessuna epurazione democratica volle o poté eliminare. La lezione è ormai oggetto di culto, al punto che anche i più recenti studi, che non sono certo mai studi neutrali, ammettono che lo Stato nella sua essenza deve far riferimento e leva proprio su quegli organi che resistono, quelli sì, ad ogni intemperie. «I politici sono governanti temporanei, destinati a rientrare nei ranghi da un cenno della volontà popolare, laddove gli amministratori sono governanti stabili, inamovibili dalla sedia occupata finché mantengono una buona condotta» (Henry Parris, in "Una burocrazia costituzionale").
Si comprende allora come propria a causa della “politica al primo posto”, che sarà inevitabilmente politica politicienne, i poteri del vecchio apparato saranno presto gli unici in grado di garantire la continuità dello Stato italiano, intendendo con essi la burocrazia romana, le sue ramificazioni nel territorio, gli stati maggiori delle forze armate che, se furono vergognosi nella loro inefficienza e inadeguatezza, si manifestarono invece truculenti e stranamente efficienti contro civili e proletari, specie durante il governo Badoglio.
La mancata epurazione rispondeva proprio a quest’esigenza, non era tempo di mettere in crisi lo Stato come macchina, e ci si doveva fidare anche dei vecchi arnesi fascisti piazzati nei gangli vitali della burocrazia e dell’amministrazione in generale. Molti funzionari, anche d’alto grado, dello Stato e del Partito fascista furono rapidamente assunti ai piani alti di Botteghe Oscure.
A cosa valse allora “la politica al primo posto”, se non a garantire il controllo della classe subalterna per reprimerla col piombo appena dimostrò di essere ancora viva e combattiva nonostante i salassi della guerra? Nell’ottica della via italiana al socialismo bisognava fare di necessità virtù, poiché la macchina statale, che per la tradizione rivoluzionaria doveva essere distrutta, giocava invece il ruolo principale, coperta dal consenso dei partiti opportunisti.
La Magistratura, altro potere dello Stato, continuò nella sua opera di repressione, mentre la diplomazia rimaneva nelle mani dei vecchi ceti nobiliari e conservatori.
Quando si rimprovera al marxismo di non avere una vera teoria dello Stato e delle sue articolazioni, si dovrebbe chiedere agli antifascisti, che pretendono invece di averla, se avessero o no tenuto nel debito conto le risorse del vecchio apparato statale, indegno ed incapace contro i nemici esterni, ma così pronto contro quelli interni. Ma sappiamo bene come in realtà di questo equivoco sia vissuto dall’opportunismo: ci sarà sempre una parte dello Stato retriva ed ostile ai lavoratori, ed un’altra che promette di essere aperta e disponibile al nuovo.
Il quasi mezzo secolo che ha separato la fine della Seconda Guerra dalla fine del mito Russia si è svolto nel segno dell’alibi, cioè la lotta contro le cricche reazionarie sorrette da ambienti borghesi che si reggono sulla rendita parassitaria e sui sovrapprofitti, come se invece la rendita non parassitaria il profitto normale fossero buoni e da appoggiare per l’emancipazione proletaria.
In questo modo è stato, mano a mano, rimosso il problema
del socialismo, tradendolo, annacquandolo, affondandolo.
Con 25.534 dipendenti sparsi nei diversi siti industriali in Italia, Spagna, Grecia, Tunisia e Canada, e una produzione di 17,5 milioni di tonnellate (+5% rispetto al 2004), il Gruppo si concentra sulla produzione di acciaio, merce sempre richiesta dai mercati, anche quelli delle armi e, per via dei costi enormi di trasporto, con sbocchi commerciali meno colpiti dalla concorrenza asiatica.
L’exploit del Gruppo è dipeso molto dall’aver fagocitato – a prezzi da svendita – le industrie a partecipazione statale dell’Iri, e reinvestendo l’intero capitale liquido in ammodernamenti. È l’impianto di Taranto ad essere il centro più produttivo, uno stabilimento giudicato “modello” e in una posizione strategicamente felice al centro del Mediterraneo.
Ma tanta valorizzazione del capitale significa intensa estrazione di plusvalore e quindi intenso sfruttamento dei lavoratori delle aziende del gruppo e di quelle satelliti. Ben sappiamo quali sono le condizioni di lavoro nella grande fabbrica tarantina dove gli infortuni sono frequentissimi: due altri ancora a fine luglio.
Nella lotta difensiva, dalla parte dei lavoratori non parteggia certo il diritto. Lo sciopero improvviso, della durata di 32 ore, indetto il 18 aprile per protestare contro l’incidente mortale occorso ad un operaio, il povero Mingolla – di cui abbiamo riferito – aveva visto la direzione reagire utilizzando personale chiamato a mansioni inferiori in sostituzione degli scioperanti, e addetti esterni senza adeguata formazione e fu imposto lavoro straordinario e turni massacranti in violazione a quanto previsto dal contratto.
Le federazioni metallurgiche denunciarono l’Ilva, ma il Tribunale Civile della città ionica ha rigettato il ricorso ritenendo la condotta aziendale “non antisindacale”, poiché i lavoratori avevano tenuto un comportamento “illegittimo”: lo sciopero improvviso è una violazione alle norme stabilite negli accordi aziendali, che fissano un minimo di preavviso di 24 ore. Quindi il padrone sarebbe autorizzato a far quello che vuole, utilizzando a suo piacimento i crumiri, se i lavoratori scendono in sciopero senza preavviso, se si infortunano a grappoli, se muoiono.
Come “provvedimento per la sicurezza” la direzione intende “premiare” i lavoratori dei reparti dove ci si infortuna di meno con dei buoni spesa di 100 Euro da spendere nei negozi di elettronica. Se la cavano davvero con ben poco! Di fronte ai profitti extra mietuti sulle spalle degli operai, e alla tragica serie di morti, la fabbrica si concede il paternalistico lusso di regalare cellulari o altre scemenze. Calpestati i diritti, su una posizione di forza, non restano che le regalie.
Ma all’Ilva di Taranto anche agosto è stato un mese pesante in tema di sicurezza.
La proprietà aveva licenziato in tronco tre operai per aver accumulato in dieci anni di lavoro molti giorni di assenza per via di infortuni: veniva motivato il fatto sia per l’assenteismo sia per essere un pericolo per se stessi e per gli altri, non essendo capaci di adottare comportamenti sicuri. I sindacati metalmeccanici avvertono tutto ciò come un atto di sfida, in un contesto dove gli infortuni si susseguono in una sequenza drammatica e, in solidarietà dei licenziati e per rafforzare la vertenza in atto, indicono uno sciopero per il 14 agosto, giusto per non perdere l’antica abitudine di accostarsi ai ponti festivi. Intanto vengono adite le vie legali.
In fabbrica serpeggia la paura: gli operai temono ancor di più l’infortunio, che ora può trasformarsi in perdita del posto di lavoro, oltre che invalidità, mentre da fonti sindacali si apprende che sarebbero in 400 i potenziali lavoratori licenziabili per assenteismo.
Nello stesso periodo avvengono nuovi gravi infortuni, quasi a cadenza quotidiana: l’11 agosto ad un reparto portuale un addetto alle pulizie delle navi mentre era a bordo di un mercantile precipita dalle scale con fratture ossee e grave trauma cranico; il 17 al tubificio n.2 un operaio 33enne di Molfetta rimane stretto tra un tubo e un macchinario: per lo schiacciamento dell’addome morirà 5 giorni dopo; il 23 all’acciaieria n.1 un operatore alla guida del muletto ha un trauma cranico precipitando in una botola rimasta aperta; il 24 due incidenti: in carpenteria un operaio si getta da una scala per evitare l’urto con una trave, fratturandosi entrambe le caviglie; in cockeria un altro lavoratore si infortuna alla faccia e ai denti perché colpito da un martinetto saltato via da un impianto idraulico.
A seguito di questa drammatica serie di casi, mentre si attende il pronunciamento del pretore del lavoro sul ricorso contro i licenziamenti, Fim-Fiom-Uilm tarantine decidono di ritirare per protesta le loro delegazioni dai tavoli di concertazione istituiti per trovare un accordo con la proprietà in materia di sicurezza e ambiente, e con la partecipazione dell’ente regione e dell’ente provincia, oggi governate da coalizioni di centro-sinistra. Anzi, le sigle sindacali, dichiarandosi deluse dal Governo e dalle amministrazioni locali, che in teoria, per il loro “colore politico”, avrebbero dovuto essere più vicine ai lavoratori, indicono, ogni giorno per reparti diversi, prima una settimana di assemblee e poi degli scioperi di 4 ore con blocchi stradali.
Il 29, il giorno dopo le critiche ai politici, ecco che puntuale sulla Gazzetta del Mezzogiorno viene pubblicata una lettera aperta del Presidente della Regione, il rifondatore Vendola, a patron Riva, chiedendo di ritirare i licenziamenti per dare segno di buona volontà “verso il territorio” e riavviare il “dialogo”.
In effetti il Presidente della Regione, che è anche commissario straordinario per l’ambiente, ha del potere e in gioco ci sarebbe l’assenso per la costruzione all’interno del grande stabilimento siderurgico di una terza centrale termoelettrica, avversata dai sindacati.
Il primo settembre il pretore emana la sentenza a proposito del licenziamento dei tre operai che ritiene il provvedimento disciplinare del tutto legittimo! Ma, colpo di scena, nel pomeriggio, dopo un incontro tra emissari di Riva e Vendola, dall’Ilva fanno sapere che, come segno di “buona volontà”, venivamo ritirati i tre licenziamenti!
Cosa è successo? Non crediamo che un padrone del vapore del calibro di Emilio Riva abbia fatto un’opera di carità verso i tre operai, scientificamente selezionati dagli addetti alle “risorse umane” dei suoi uffici per gettarli sul lastrico. Probabilmente il padrone ha voluto ottenere qualcosa dalla Regione, tipo l’autorizzazione alla centrale elettrica, scavalcando i sindacati, buoni solo ad indicare la necessità (per il padrone e per lo Stato) dei tavoli di concertazione.
Intanto, dei provvedimenti per migliorare la sicurezza se ne deve ancora
parlare...
Quando contro Palmiro Togliatti, quel 14 luglio 1948 uscendo da
Montecitorio, furono esplosi colpi di pistola e si temette per la sua vita,
la classe operaia italiana, che era convinta, sbagliando gravemente, che
il Pci fosse un partito davvero comunista, rispose in modo deciso a quella
che ritenne una provocazione contro la propria classe: senza attendere
ordini dai dirigenti politici e sindacali, sospese il lavoro e scese in
piazza. Ci si illudeva che fosse possibile allora regolare i conti con
la borghesia una volta per sempre. In quelle ore convulse, si ebbero occupazioni
di fabbriche, gruppi armati andarono ad occupare edifici pubblici e punti
strategici, e in alcuni centri come Genova o Abbadia S. Salvatore si ebbero
combattimenti tipici della guerra civile.
Di fronte a questi moti spontanei, dirigenti del Pci e della Cgil, dopo l’iniziale smarrimento, cercarono di fermare i rivoltosi, fingendo di prendere la testa del movimento e indicendo uno sciopero, che fu revocato il giorno successivo. Esisteva una opposizione di intenti tra la massa operaia e il Pci: una parte del proletariato si era mosso spontaneamente nella illusione, del tutto ingiustificata, di poter arrivare, tramite quel partito, ad un rovesciamento dei rapporti politici e sociali, al socialismo. Partito che invece ricercava solo il mantenimento delle istituzioni democratico-borghesi, e solo, quando costretto, contrattava con il Capitale diritti e condizioni salariali, e quando la congiuntura economica lo permettesse. Infatti in quella circostanza lo Stato poté appellarsi sicuro, e ancora una volta, al senso di lealtà di Pci e Cgil.
Il carattere effimero di quel movimento è dimostrato dalla suo definitivo spengimento con strumenti prevalentemente “mediatici”: tornò utile perfino la vittoria del ciclista Gino Bartali al Tour de France, oltre che, naturalmente, l’appello dello stesso Togliatti alla pace sociale!
Evidente che sport popolari vengano usati come diversivo dagli Stati democratici e non solo dal Fascismo. Anzi, è lo stesso Stato a rendere popolare un qualcosa ad uso di distrazione sociale, battendo sulla grancassa dei giornali e delle televisioni. Il meccanismo è noto e collaudato dal tempo delle società schiaviste: i Romani lo chiamavano “panis et circensis”. Scoperto che ci sono degli spettacoli che piacciono e divertono in tanti (dalla lotta dei gladiatori e al pasto umano delle belve della Roma imperiale agli sport attuali), si investe su questi tesori per ricavarne, oltre che un profitto economico, anche propaganda politica. Non si è finito nel 1948 a preferire che gli operai parlino di sport piuttosto che ragionare di politica e dei loro interessi concreti.
Così, come polli in batteria, ingozzati di antibiotici, schiere di calciatori, ciclisti, ginnasti, nuotatori, accecati dal desiderio di enormi guadagni, vengono drogati a man bassa. È una società che delle droghe non può fare a meno e il cui consumo, specie di quelle legali, è sproporzionato. Figuriamoci se a drogare e a drogarsi ci si guadagna anche! Anzi, nell’ottica dei valori borghesi, ovviamente questi sono modelli da emulare.
Sotto la dittatura del Capitale, non c’è aspetto della vita sociale che possa sfuggire alle sue leggi e alla sua organica degenerazione. L’assopimento farmacologico è un prodotto di questa involuzione, ed a sua volta strumento per rendere schiava del Capitale l’umanità.
Il comunismo non avrà bisogno di droghe, se non in casi eccezionali.
Né farmacologiche né, le peggiori, ideologiche. Rileggiamo
un passo di Federico Engels, maestro del Comunismo: «Un nuovo ordine
sociale è possibile, nel quale spariranno le attuali differenze
di classe e nel quale - forse dopo un breve periodo di transizione - grazie
all’utilizzo secondo un piano e all’ulteriore sviluppo delle esistenti
immense forze produttive di tutti i membri della società, ad un
uguale obbligo al lavoro corrisponderà una situazione in cui anche
i mezzi per vivere, per godere la vita, per la educazione e lo sviluppo
di tutte le facoltà fisiche e spirituali saranno a disposizione
di tutti, in modo uguale e in misura sempre crescente» (Introduzione
a “Lavoro salariato e capitale”, 1891).